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Non si salva nessuno a Eni, Enel e Poste *E Tremonti ispira Matteo* Sono socio Avis... e del Pd.. * Silvio attento, che er gatto se lo magnano

Fino all’ultimo qualcuno ha consigliato prudenza, ma alla fine il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sembrano irremovibili. Quando prima di Pasqua il Tesoro comunicherà la lista per i consigli di amministrazione delle società controllate (Enel, Eni, Finmeccanica, Poste le più importanti, ma ci saranno anche Enav, Poligrafico dello Stato, Sogesid), si capirà bene “l’operazione Napalm” che ha in mente il premier: nessuna riconferma di peso nei consigli di amministrazione uscenti. L’opzione zero rinnovi è legata anche alla vicenda degli emolumenti: siccome il Tesoro non può che dare indicazioni, è più facile che siano rispettate alla lettera da nuovi entranti. Le nuove regole saranno: riduzione dei compensi per presidenti (che secondo le nuove regole di governance Eni ed Enel dovranno essere indipendenti) e amministratori delegati e non cumulabilità delle deleghe con eventuali incarichi dirigenziali interni. Questo significa che se un amministratore delegato sarà anche direttore generale della società, dovrà optare per una delle due retribuzioni. L’indicazione del Tesoro riguarderà anche i cosiddetti secondi livelli: ci si attende una riduzione complessiva del costo della dirigenza del 25% rispetto al mandato precedente. Obiettivo di carattere generale, la cui realizzazione è però lasciata all’autonomia del management, anche per limitare il rischio di un esodo dei migliori manager di quelle società. *************** E per il Def torna di moda Giulio Tremonti
Il varo è atteso dal consiglio dei ministri per il prossimo 9 o 10 aprile. Nel Def- documento di economia e Finanza- si leggeranno ancora una volta le slides dei progetti di Matteo Renzi. In modo un po’ più ufficiale (il testo sarà trasmesso per la parte del programma delle riforme anche alla commissione Ue che lo valuterà) e un po’ più dettagliato, ma ancora molto generico. Spunta però una regola che si definisce nuova e ha però sapore antico: in tutti i prossimi provvedimenti economici (da quello sull’Irpef fino alla prossima legge di stabilità per il 2015) cambieranno tutte le clausole di salvaguardia, che sono le alternative automatiche in grado di sostituire e garantire le coperture finanziarie previste. Mai più- dicono al Tesoro dove la nuova regola è stata pensata dal viceministro Enrico Morando- clausole di salvaguardia che aumentino le tasse o diminuiscano le detrazioni fiscali, che è poi la stessa cosa (era il meccanismo previsto nell’ultima legge di stabilità da Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni). D’ora in avanti ogni clausola di salvaguardia si baserà sui tagli di tutti i capitoli di spesa: del 5%, del 10% a seconda dei casi. Ecco il sapore antico: era quello che avveniva con vituperati “tagli lineari” di Giulio Tremonti… ******* Le associazioni non segrete di Matteo
Nella sua dichiarazione patrimoniale Matteo Renzi dà la sua parola di scout e garantisce: “Dichiaro di non appartenere ad alcuna società segreta”. Poi elenca le associazioni a cui invece aderisce: l’Avis (è un donatore di sangue), L’Aia- associazione italiana arbitri di cui è socio onorario per gentile omaggio del 2011 di Giancarlo Abete e Marcello Nicchi e… dài, che poi c’è anche una terza associazione a cui appartiene… Ah, eccola: il Pd… ************ Berlusconi animalista? Sì, ma attenti al gatto
Piccola discussione forzista colta in un angolo del Senato. Si sta commentando l’ultima idea di Silvio Berlusconi di fare adottare ai suoi cani e gatti per conquistare l’elettorato animalista. Porterà voti? Augusto Minzolini ricorda che quando dirigeva il Tg1 lo share saliva di almeno 2 punti ogni servizio sugli animali di compagnia. Lo interrompe un funzionario romano del gruppo: “Dotto’, ma nun c’era ‘a crisi. Di questi tempi, se fa adottà er gatto, ‘a sera ‘o trova ner forno: s’o magnano…”.

E se prima dessimo la caccia agli evasori del condono?

La bomba è stata gettata quasi in assoluto silenzio dal presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, durante l’audizione di martedì sulla manovra alle commissioni bilancio riunite di Camera e Senato. “a proposito del contributo al risanamento dei conti pubblici da darsi senza pregiudiziali esclusioni”- ha sussurrato Giampaolino-  “deve esseer consentito alla Corte di richiamare la doverosità, oltre che l’opportunità, che venga portato a compimento il troppo lungo processo di riscossione del residuo tuttora dovuto dai condonati del 2002-2003”. Non si tratta di una somma banale. La stesa Corte dei conti in una sua lunga indagine effettuata nel 2008 insieme al dipartimento politiche fiscali del ministero dell’Economia e alla Agenzia delle Entrate, aveva scoperto che dei 26 miliardi di euro di sanatoria dichiarata da chi aveva aderito al condono, ne mancavano all’appello ben 5,2 miliardi. Cosa era accaduto? Che una parte consistente dei contribuenti – persone fisiche e società- che aderirono ai due condoni tombali varati all’epoca da Giulio Tremonti, si limitarono a pagare la prima rata del dovuto non versando più nulla. Una doppia fregatura allo Stato, perché grazie a quel primo gesto il condono era valido e quindi non si poteva più perseguire chi aveva versato quella rata. Ma evidentemente evasori incalliti che da una vita evadevano in quel modo si erano protetti con uno scudo penale e fiscale garantito dallo Stato, ma hanno evaso un’altra volta. Un esercito di evasori della sanatoria con cui avrebbero scontato ogni peccato- veniale o mortale- commesso in passato.
Il buco di quei 5,2 miliardi di euro è stato segnalato per le vie brevi all’esecutivo e al Parlamento nel 2008. Non deve essere scattato però l’allarme rosso. Perché da allora alla data del 31 luglio 2011 sono stati recuperati coattivamente un miliardo e 10,5 milioni di euro. Resta quindi ancora la beffa di 4,2 miliardi di euro mai versati dai condonati dell’epoca.
Altra curiosità: se la Corte dei Conti è arrivata a quella scoperta con un certo ritardo, dai documenti della loro ricerca è chiaro che il governo nel 2006 a condono concluso aveva tutte le dimensioni del buco esistente. A palazzo Chigi c’era Romano Prodi, alla guida della macchina delle Finanze c’era il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco. Entrambi nemici giurati del condono varato da Tremonti e con una pistola fumante in mano a loro disposizione. Ci si sarebbe immaginati una caccia grossa senza pietà ai furbetti del condono. E invece la pistola è stata risposta nel cassetto e non un euro del dovuto recuperato. Strano. Per capirne le ragioni bisognerebbe avere l’elenco dei furbetti, persone fisiche e società. Perché anche nella pancia della sinistra (addirittura quasi tutte le società per azioni dei Democratici di sinistra) quel condono tanto avverso era stato preso al balzo manco fosse miele. E nei bilanci di molte di quelle società effettivamente la prima rata risulta versata. Negli anni successivi non c’è traccia di altri versamenti. Un mistero.
La caccia ai furbetti del condono non ha più appassionato nemmeno il governo attualmente in carica, che pure ha dato missioni difficilissime alla Agenzia delle Entrate per il recupero dell’area di evasione (10 miliardi di euro nel 2010 e ben 20 nel 2011). Eppure se su molte aree di evasione fiscale chi cerca non trova, perché è difficile, l’elenco di chi ha fatto il furbo con il vecchio condono è lì nei cassetti della amministrazione. C’è il nome di chi non ha pagato pensando di farla franca. E per recuperare i 4,2 miliardi di euro che mancano all’appello basta andare a bussare alla sua porta usando maniere spicce e più che giustificate. Forse ci proveranno adesso, perché la denuncia di Giampaolino ha scosso davvero il ministero dell’Economia. Una delle ipotesi è quella di rimodulare ad hoc solo per i furbetti del condono le ganasce fiscali che erano state allentate e di molto in questi ultimi mesi. Meglio andare a caccia lì che fare altri pasticci.

Ci mancava la Rai. Che vuole fare causa al governo per 1,6 miliardi


La Rai sta pensando di intentare una causa da 1,6 miliardi di euro al proprio azionista, con il rischio di creare una nuova voragine nei conti pubblici. Il documento è stato preparato dagli uffici legali e finanziari dell’azienda di viale Mazzini e dovrebbe approdare in consiglio di amministrazione entro poche settimane. La causa riguarda la mancata corresponsione del canone di abbonamento necessario a pagare dal 2005 ad oggi gli oneri da servizio pubblico previsti dal contratto di servizio con lo Stato. A ventilare la maxi-causa era stata il 12 luglio scorso lo stesso direttore generale della Rai, Lorenza Lei, di fronte alla commissione parlamentare di vigilanza presieduta da Sergio Zavoli. “Non c’è dubbio”, aveva spiegato la Lei, “che mi adopererò in tutti i modi per ottenere quanto necessario, visto che in relazione alla separazione contabile, la Rai nei diversi anni ha accumulato crediti nei confronti dello Stato, la cui somma potrebbe aggirarsi intorno a un miliardo di euro”. Sempre il direttore generale aveva anticipato “l’intenzione dei vertici aziendali di valutare in consiglio di amministrazione la possibilità di adire le vie giudiziarie ordinarie al fine del recupero dello sbilancio risultante dalla contabilità separata fra costi dell’offerta di servizio pubblico e ricavi da canone”.
Il direttore generale quantificando a memoria la cifra della possibile causa si era comunque sbagliata per difetto. Qualche conto più vicino alla realtà è indicato nella nota integrativa al bilancio consolidato della Rai per il 2010, approvato proprio alla vigilia dell’ultima estate. Fra i ricavi dalle vendite sono indicati un miliardo e 600 milioni di euro da canone ordinario e 60,9 milioni di euro da canoni speciali (quelli pagati da alberghi, ristoranti, bar e altri esercizi commerciali). In nota si aggiunge che “il meccanismo di determinazione del canone unitario previsto dal testo unico dei servizi dei media audiovisivi e radiofonici (cosiddetta “contabilità separata”) evidenzia una carenza delle risorse da canone per il periodo 2005-2009 per un importo superiore a 1,3 miliardi di euro, di cui oltre 300 milioni di euro riferiti al solo 2009”. A questa somma (1,3 miliardi) vanno aggiunti anche i crediti per mancato trasferimento del canone necessario a pagare il servizio pubblico relativi al 2010. Si stanno ultimando i conteggi, ma sembrano anche in questo caso vicini ai 300 milioni di euro. La somma totale per cui si valuterà l’opzione di recupero giudiziario dal ministero dell’Economia ammonta dunque a 1,6 miliardi di euro.
Ad assicurare la Rai quegli introiti è l’articolo 47 del testo unico sui media televisivi e radiofonici. Che obbliga la Rai alla separazione contabile fra servizio pubblico e commerciale e lo Stato a trasferire all’azienda le risorse pubbliche (ottenute dal canone) necessarie a pagare la spesa da servizio pubblico. Il canone infatti non è stabilito né riscosso dalla Rai. Finisce in cassa al ministero dell’Economia che poi paga il servizio pubblico alla Rai. E’ lo stesso governo a stabilire nel contratto di servizio, poi approvato dalla commissione parlamentare di vigilanza, quali attività inserire nella programmazione come servizio pubblico. La Rai prende atto di quel contratto e lo applica. E ogni anno fa bilanci separati delle attività pubbliche e commerciali. Sottrae la pubblicità incassata anche con spot in programmi di servizio pubblico, si fa certificare da un revisore dei conti esterno (fino all’ultimo anno è stato la Deloitte) la propria contabilità pubblica, e invia il conto al governo. Che dovrebbe semplicemente pagarlo usando i proventi del canone. Ma questo appunto non avviene, perché ogni anno è trasferita una cifra inferiore ai costi di 200-300 milioni di euro. Il canone infatti non basta, anche perché l’evasione è altissima. Proprio nell’audizione di luglio citata il direttore generale della Rai ha svelato come l’evasione del canone ordinario sia arrivata a 550-600 milioni di euro, mentre quella del canone speciale è addirittura il doppio del riscosso: circa 120 milioni di euro. Alla Rai basterebbe la metà di quella cifra per compensare lo sbilancio da servizio pubblico. Ma la caccia agli evasori non compete all’azienda. Che può solo avviare la causa per i crediti nei confronti dell’azionista. Certo, creare adesso a Tremonti una grana da 1,6 miliardi di euro sarebbe un vero colpo basso. Ma in Rai c’è anche un rappresentante della Corte dei Conti, che potrebbe causare qualche problema ai consiglieri se non difendono il patrimonio aziendale.

Caccia agli evasori? Ottimo sulla carta. Ma quell'emendamento farà macelli



Lo slogan- che ha il marchio di Giulio Tremonti- non è male: “invece di un contributo di solidarietà avremo un contributo dall’evasione”. Certo: sostituire una nuova tassa messa su chi pagava già le tasse, con misure per fare pagare chi normalmente le evade è un’ottima idea. Non è di sinistra, di centro né di destra: è semplicemente giusto. Se il quadro è questo, i contenuti del pacchetto anti-evasione approdato ieri come emendamento governativo alla manovra, non strappano gli applausi. Alcune norme sono confuse, altre perfino pericolose per la libertà di tutti, altre irrealizzabili e molte vanno nella giusta direzione, speriamo con altrettanta efficacia.
Il primo difetto è sulle coperture: i conti non tornano. Tremonti ieri ha sostenuto che le norme anti-evasione compensano il mancato gettito del contributo di solidarietà, poi però il governo ha depositato la relazione tecnica e si è scoperto che nei tre anni la caccia agli evasori porterà 1,1 miliardo di euro contro i 3,8 del contributo di solidarietà. Resterebbero da trovare quindi 2,7 miliardi di euro, e non sono pochi.
Il secondo difetto è nel testo scritto sulla norma più semplice. Come previsto dalle anticipazioni della vigilia, saranno resi pubblici i redditi degli italiani a cura dei Comuni. Si può condividere o meno la scelta. Nell’aprile 2006 l’Agenzia delle Entrate mise on line i redditi di tutta Italia. Al ministero stava facendo le valigie Vincenzo Visco, e tutto il centro destra tuonò gridando allo scandalo. Vero che alcuni degli stessi che allora si indignarono oggi applaudono la misura (ad esempio l’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno), molti però storcono ancora il naso. Il testo presentato dovrebbe farlo storcere a tutti. Perché si annuncia un decreto del presidente del Consiglio dei ministri in cui saranno “stabiliti criteri e modalità per la pubblicazione, sul sito del Comune, dei dati relativi alle dichiarazioni anche con riferimento a determinate categorie di contribuenti ovvero di reddito”. Categorie di contribuenti? Categorie di reddito? Ma possibile che questa estate al governo non riesca una ciambella con il buco giusto? E’ lo stesso film che stiamo vedendo da settimane. Se si decide una cosa la si fa, senza tanti fronzoli, se o ma. E’ invece qui è come sulle pensioni: per fare finta di non toccarle, toccandole, ci si è inventati la via tortuosa sui riscatti di laurea e servizio militare, dandosela poi a gambe levate di fronte alla rabbia dei cittadini. Se il testo rimane questo, diventerebbe un abuso. Si scelga di mettere on line i redditi di tutti gli italiani, e lo faccia la Agenzia delle Entrate. Affidare questo compito ai comuni vuole dire discriminare contribuente da contribuente: non tutti hanno siti Internet, non tutti hanno uomini e risorse tecniche ed economiche per compiere quella operazione. La trasparenza o vale per tutti, o deve essere stabilita dalla legge e non a capocchia per alcune categorie di cittadini che debbono essere più trasparenti degli altri (i politici ad esempio). Ma è evidente cosa accadrebbe facendo scegliere a ciascun comune, a questa o quella maggioranza politica il mostro da sbattere on line. Stanno sull’anima gli avvocati? E allora mettiamo solo loro. E così via. Come anche è senza senso scegliere fra “categorie di redditi”. Tutti o nessuno. Tanto più che gli evasori o hanno redditi zero, e quindi non compaiono in lista. O hanno redditi bassi, che contrastano con il loro tenore di vita. Sul tema anche un’avvertenza: l’operazione richiederebbe una modifica della legge sulla privacy. Perché con quella attuale è vietata. Lo certificò nel 2008 il Garante, ma soprattutto le inchieste delle varie procure della Repubblica per violazione della legge sulla privacy. Costarono il posto al direttore dell’epoca dell’Agenzia delle Entrate, Massimo Romano. Ultima annotazione: nessun altro paese del mondo mette on line i redditi dei propri contribuenti. Lo fa solo con le liste degli evasori una volta scoperti. Ci sarà un perché.
Seconda misura che lascia perplessi: la caccia agli evasori è affidata ai Comuni, che possono tenersi d’ora in avanti il cento per cento di quello che scopriranno. Ottimo. Meno buona la condizione imposta: entro il 31 dicembre 2011 dovranno tutti dotarsi di consigli tributari, altrimenti non un euro scoperto potrà finire nelle loro casse. I consigli tributari furono inventati per decreto luogotenenziale nel 1945 nell’Italia che ancora non era stata liberata dai nazisti. Poi sono scomparsi. Li hanno rispolverati decenni dopo per la legge “manette agli evasori”. Dovrebbero essere elettivi. Con tanto di campagna elettorale in ciascun quartiere del comune. Un costo pazzesco. Quando Tremonti li ha rispolverati nel 2010, dando fra 90 e 120 giorni ai comuni per istituirli obbligatoriamente (senza però sanzioni in caso di niet), quelli lo hanno mandato a quel paese. La maggioranza dei Comuni non li ha istituiti. Perché farli con le regole sarebbe costato troppo. Nominarli direttamente si prestava a ricorsi e andava a finire come è finita: sono zeppi di politici trombati, e comunque hanno tutti poltrone divisi fra i partiti che amministrano i comuni. Ora che si imponga nel momento in cui si vorrebbero diminuire i costi della politica, un catafalco di questo tipo è un controsenso in sé. Affidare poi alle seconde fila della casta la grande caccia agli evasori è minimo minimo una pia illusione. Vogliamo scommettere che da lì non arriverà un euro?
Infine la norma sul carcere per chi evade 3 milioni di euro. Principio giusto, e tetto accettabile per le persone fisiche e per le piccole e medie imprese. Diverso il caso delle grandi imprese: rispetto al fatturato la cifra potrebbe essere relativamente bassa. E con  la legge sulla responsabilità penale delle imprese, tutti i rappresentanti in consiglio di amministrazione potrebbero finire in carcere per un contenzioso fiscale. Forse è esagerato.

Giulio crocefisso dalle tasse di Tremonti



Prima delle elezioni del 2008 fatturava 281 mila euro. Oggi, nonostante la crisi, il suo giro d’affari è raddoppiato: 572.226 euro. Tre anni fa aveva un patrimonio di 1,2 milioni di euro. Oggi è dieci volte superiore: 11,2 milioni. I debiti che allora erano di poco inferiori a mezzo milione, oggi sono scesi a 307 mila euro. C’era tutto, davvero tutto per fare dell’Immobiliare di via Crocefisso a Milano una gallina dalle uova d’oro, pronta finalmente a macinare utili. Ma la società non aveva fatto i conti con l’uomo del fisco, che come un avvoltoio è passato di lì, si è portato via tutti i guadagni e ha perfino lasciato un conto salato da pagare: 225.556 euro di perdite. Chi legge penserà: quell’imprenditore immobiliare dopo questa esperienza avrà mandato tanti di quegli accidenti a Giulio Tremonti. E sbaglia. Perché il proprietario di quella immobiliare tartassata dal fisco è proprio il signor fisco in persona: Tremonti Giulio, che ha l’86% delle azioni, mentre il restante 14%è saldamente in mano a Fausta Beltrametti, la moglie del ministro dell’Economia. E’ l’unico caso in Italia in cui gli improperi verso la rapacità del fisco possono essere pronunciati solo davanti a uno specchio.
A guardare i conti al 31 dicembre 2010 della Immobiliare di via Crocefisso (il bilancio è stato depositato solo venerdì al registro delle Camere di commercio),però il colpevole è proprio il tax rate. Anche per scelte tecniche o degli azionisti o degli amministratori della società (il bilancio è firmato dal presidente, Marco Paracchi). Perché il 31 dicembre del 2007 alla voce imposte c’era un tondissimo zero. A guidare le Finanze all’epoca c’era il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, acerrimo nemico di Tremonti. Pur di non versare a lui un solo euro, fu scelto di rimandare agli anni futuri il pagamento delle imposte. Così quest’anno in bilancio è stato registrato alla voce “oneri straordinari” il pagamento delle imposte pregresse pari a 225.494 euro, cifra quasi identica alla perdita finale in bilancio. In più c’erano anche 19.421 euro di imposte correnti di esercizio: 7.344 euro di Irap e 12.077 euro di Ires. E poco conta che si vanti un credito Iva verso l’erario di 85.489 euro: quello verrà saldato a tempo debito.
Il Tremonti che deve fare i conti con le sue supertasse è notizia che farà gongolare milioni di altri contribuenti, ma che non getta certo nel dramma il ministro dell’Economia. Anche perché l’eccesso di peso fiscale che la società ha dovuto sopportare è in gran parte legato ai benefici avuti da una delle prime leggi varate da Tremonti quando è tornato al governo in questa legislatura: quella sulla rivalutazione degli immobili. Al momento del varo della legge la Immobiliare Crocefisso ne possedeva due attraverso leasing. Il costo storico era di poco superiore al milione di euro. Gli immobili sono stati rivalutati di 2,9 milioni di euro e portati così a 3,9 milioni. Poi sono state accantonati 912.373 euro per le imposte differite sulla quota rivalutata (799 mila euro di Ires e 113 mila euro di Irap). Il valore lordo delle immobilizzazioni materiali, che incide sul patrimonio netto della società, però è cresciuto assai di più: da 1,1 a 11,6 milioni di euro. La differenza è tutta in un buon affare colto dal ministro dell’Economia sul mercato immobiliare e portato a termine l’11 giugno 2009. Dando un’occhiata alle occasioni che si coglievano fra le pieghe dei guai del gruppo Risanamento di Luigi Zunino (che un mese dopo si sarebbe dimesso da tutte le cariche per evitare il fallimento), la società di Tremonti aveva adocchiato una palazzina in via Clerici. Che poi è stata acquistata dalla Nuova Parva in liquidazione controllata da Zunino e dalle banche creditrici. Non è noto il valore della transazione, ma a bilancio risulta nel 2009 un versamento fatto da Tremonti e dalla consorte per 8,1 milioni di euro “a titolo di finanziamento infruttifero in conto futuro aumento di capitale, destinato all’acquisto di unità immobiliari”. Comprata la palazzina in via Clerici, le immobilizzazioni materiali sono cresciute di 7.450.878 euro, che dovrebbe essere il presumibile valore di acquisto.

con questa manovra mi autosospendo da elettore di centro destra



Da ieri sera l’Italia è arrivata al primo posto nel mondo. Nell’attimo di un decreto legge ha scalato tutti i posti della classifica ed è diventata prima al mondo per tasse sulle persone fisiche. Sette aliquote fiscali, dal 23% fino al massimo del 53% per almeno i due prossimi anni. Tredici punti più della Grecia, della Francia e della Gran Bretagna. Dieci punti più della Spagna, otto più della Danimarca e della Germania, perfino 5 più della Norvegia e sei più della Finlandia. Ma basta il raffronto con i tedeschi, che sulle tasse non scherzano affatto: aliquota del 42% fra 52.882 e 250 mila euro, del 45% sopra i 250 mila euro. Da ieri in Italia è tassato al 48% chi guadagna fra 90.001 e 150 mila euro e al 53% chi guadagna da 150.001 euro in su. È  il record del mondo.

Il centro destra di Silvio Berlusconi vinse le elezioni del 2001 al grido “meno tasse per tutti”. Promise due sole aliquote, una al 23% e l’altra al 33% spiegando che con tasse più alte è inevitabile evadere. Alle due aliquote non arrivò, ma almeno scese a 4 (23%, 33%, 39% e 43%). Nel 2006 vinse le elezioni Romano Prodi e ricambiò tutto grazie a Vincenzo Visco: cinque aliquote (23%, 27%, 38%, 41% e 43%). Gli italiani si ribellarono, il centrodestra li portò in piazza, costrinse il governo ad elezioni anticipate e assicurò: cambiamo subito il fisco di Visco. Nei primi tre anni non ha toccato una virgola.

COME LA SINISTRADa ieri ha aggiunto due nuove aliquote portando le tasse al record dei record. Le ha ribattezzate “contributi di solidarietà” e assicura che saranno temporanee. C’è chi dice della durata di due, chi spinge per almeno tre anni. Oltre al danno c'è dunque anche la beffa lessicale: quelle sono tasse, non contributi. E si aggiungono alle tasse locali record, anche quelle conseguenze delle manovre finanziarie. Se ora l’aliquota Irpef più alta a livello nazionale è del 53%, per un cittadino di Roma sarà oggi del 55,30% e probabilmente dal primo gennaio prossimo del 55,60% perché la Regione Lazio, che si vede tagliare ulteriori trasferimenti, sarà costretta a riportare l’addizionale regionale Irpef dall’1,40% attuale all’1,70% che già chiese ai suoi abitanti nel 2010.

Negli incubi ricorrenti degli italiani forse apparivano tasse simili in un governo di Giuliano Amato, l’uomo che nel lontano 1992 mise le mani sui conti bancari degli italiani portando via di notte il sei per mille. A fatica si potevano temere esiti così nefasti votando un governo di Vincenzo Visco, che ha l’immagine di un Dracula del fisco anche più di quel che effettivamente abbia combinato. Ma un governo Berlusconi nemmeno negli incubi sarebbe apparso così vorace. Il fisco era la sua bandiera esistenziale, e vederla così rovinosamente ammainata ieri era davvero inimmaginabile.

CRISI NERA
Dicono che non ci fosse via di uscita, che i morsi della speculazione e il pressing di Ue e Bce non offrivano alternative. Che la situazione sia difficile, è vero. Ma quando si vota un governo è anche perché  si sceglie una politica economica che soprattutto in casi simili si vuole vedere. Se Berlusconi e Tremonti al dunque utilizzano le stesse ricette di Prodi e Visco, che cambia votare uno schieramento o l’altro? È  grazie a scelte così che la politica diventa incomprensibile, sempre più lontana dai cittadini. Con un’aggravante: è falso che non esistessero altre strade percorribili. A che cosa serve aumentare le tasse in modo così esponenziale? A fare cassa subito. Le tasse hanno sempre questo vantaggio: oggi le decreti, domani le hai nei tuoi forzieri. C’era questo bisogno immediato? Allora il tema non era la speculazione, ma qualche errore di calcolo nei conti pubblici attuali. E allora andrebbe spiegato a fondo, magari chiedendo scusa come fanno i manager giapponesi. Un bell’inchino e il capo cosparso di cenere davanti agli italiani. Però non ci sono solo le tasse a dare sollievo di cassa immediato. Anche il blocco della spesa ha lo stesso effetto. Basterebbe bloccare le finestre di uscita delle pensioni di anzianità e accompagnare il provvedimento con una corsa verso quota 100 (35 anni di contributi e 65 anni di età) assai più rapida di quanto non preveda oggi la normativa. Questa sarebbe stata una riforma strutturale che da anni chiede l’Europa, e a cui comunque non potremo sfuggire.

ELETTORI TRADITI
Era addirittura prevista dalla rivoluzione liberale berlusconiana, non avrebbe tradito alcuna bandiera. Tanto valeva usare l’emergenza per attuarla con decisione. Non lo si è fatto per preservare un buon rapporto con i sindacati, che evidentemente Berlusconi preferisce agli elettori di centrodestra. Altri tagli di spesa hanno valore simbolico, e confusamente appaiono nella manovra. Ma in gran parte poggiano sulla terza robusta diminuzione dei trasferimenti verso gli enti locali. Così se la devono vedere loro, e pagarne pegno politico con i cittadini. Bella idea, e allora a che diavolo serve un governo nazionale se alla prima occasione sa solo scaricare tutto sugli altri?

Visto che la bandiere vengono ammainate al primo venticello, vorrei chiedere al governo che senso ha a questo punto sventolare ancora quella del no alla patrimoniale. Aumentando Irpef e tassazione delle rendite finanziarie di fatto mezza patrimoniale è già attuata. Con un difetto: colpisce e duramente, non i ricchi, ma i ricchi già noti al fisco, perché pagano tutte le tasse sull’unghia. Saranno costretti a farlo o magari sono pure scemi e ci tengono a contribuire al loro paese. Nell’una e nell’altra condizione non si intravede un buon motivo per prenderli a sonori ceffoni come si è fatto. Se si fosse decisa una patrimoniale straordinaria sugli immobili con esclusione delle prime case, forse molti di quei cittadini onesti sarebbero stati colpiti lo stesso, ma almeno sarebbero stati costretti a pagare anche gli evasori fiscali. Fra le due era perfino più equa la patrimoniale.

Può anche essere che dalla bozza arrivata in consiglio dei ministri ieri sera alla legge vera e propria che sarà pubblicata in Gazzetta ufficiale dopo voto parlamentare, qualche stortura venga pure raddrizzata. Non c’è da avere gran fiducia, ma si può attendere. Personalmente nel frattempo di fronte a questa manovra con una formula che va di moda adesso, mi autosospendo da elettore del centrodestra.

I guai tanto per cambiare vengono dagli Usa. La novità è la Merkel grande dittatrice d'Europa



La crisi che sta terremotando i mercati di tutto il mondo in queste ore è al fondo una crisi di liquidità dei grandi fondi americani. Non hanno risorse per pagare le pensioni, e stanno vendendo tutto ciò che hanno in portafoglio. I titoli sono in vendita, e non c'è nessuno che li compra. Se i mercati finanziari scendono, il motivo di fondo è questo. L'ondata di vendite americane ha messo in moto il panico sui mercati. E in una situazione simile la speculazione ha buon gioco. Osserva dove c'è un punto debole del sistema, e lo attacca, perchè quello altre difese non ha che alzare i rendimenti. E' quel che sta accadendo nell'area dell'euro. I titoli di Stato sono le prede più facili da cacciare, perchè sono il punto debole dei vari paesi coinvolti. Messi sotto pressione quelli di Grecia, Spagna e Portogallo nei mesi e nelle settimane scorse, l'attacco ha messo nel mirino quelli italiani (non è un mistero che il debito pubblico sia il tallone di Achille di Roma), ma fra ieri e l'altro ieri anche quelli francesi. Fa un po' sorridere immaginare come molta della stampa italiana ieri sembrava fare, che questa tempesta potesse essere calmata, arginata o rinfocolata da attese o delusioni venute dal discorso di Silvio Berlusconi davanti alle Camere. L'origine di quel che accade non è nelle singole politiche economiche e tanto meno nell'assetto politico-istituzionale di questo o quel paese. Anche se l'Italia domattina raddoppiasse le tasse a tutti i suoi cittadini, inserisse una patrimoniale, aumentasse l'età pensionabile per uomini e donne subito, non fermerebbe i mercati. Berlusconi ha fatto bene ad incontrare le parti sociali e ad immaginare con loro un piano di riforma. Si possono sentire anche le piccole e grandi richieste delle varie Emma Marcegaglia, Susanna Camusso come di Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, coop, artigiani, commercianti e così via. Perchè il governo di un paese procede anche in condizioni difficili come queste e in fondo ne deve prescindere, altrimenti il governo non esisterebbe più. Si possono condividere o respingere le proposte delle parti sociali, ma bisogna avere una certezza: rispetto alla navigazione del Paese e di fronte alla tempesta sui mercati, quelle non sono e non possono essere la risposta. Banalmente sono inutili, come lo sarebbe gettare quale mollica di pane per calmare la fame dei pescecani.
La strada battuta in queste ore da Berlusconi e dal suo ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era l'unica percorribile. Il premier ha cercato insieme ai suoi colleghi europei alleati per dare una risposta alla crisi di liquidità: con i fondi americani che vendono a piene mani, bisogna trovare qualcuno che compri a questi prezzi. Ci si è rivolti alla Cina, che ha la potenza di fuoco necessaria, e Berlusconi ha lanciato l'sos al suo amico Vladimir Putin, perchè anche la Russia è fra i pochi paesi del mondo che può lanciare quel salvagente. Qualcosa del genere è accaduto nei mercati finanziari internazionali nelle ultime ore, ma c'è stata una amara sorpresa non prevista: è scesa in campo anche la Germania di Angela Merkel. Non per dare una mano ai generosi difensori, ma sul fronte opposto: all'attacco. I tedeschi si sono messi a vendere vanificando gran parte della manovra difensiva in corso. Qualcosa si era intuito già giovedì, quando all'interno della Bce il rappresentante tedesco è stato l'unico a votare contro la decisione di immettere liquidità nel sistema sostenendo i titoli di Stato dei paesi europei più deboli: al momento Irlanda e Spagna. Ma si pensava che questa ritrosia fosse nel solco della tradizionale prudenza della Germania, stufa di cavare le castagne dal fuoco del sistema come è accaduto in tutti questi anni. E invece sembra che la Merkel stia facendo di tutto per piegare l'area dell'euro, forse allo scopo di farla saltare, forse per soggiogarla definitivamente. Questo è il tema su cui è al lavoro Tremonti: cercare di ricostituire un'alleanza europea, trascinando o meno la Germania nella trincea in cui bisognerà resistere nei prossimi giorni. E' evidente a tutti che l'Unione monetaria europea non esiste: fosse reale, sarebbe impossibile a chiunque attaccare i singoli paesi dell'area, come è accaduto con Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e ora con l'Italia lambendo perfino la Francia. Fosse un' Unione avrebbe unito oltre le monete anche i pil e i debiti pubblici (in quella precentuale del 60% del Pil stabilita dal trattato di Maastricht) che oggi sarebbero garantiti da assai meno fragili titoli di Stato europei, quegli Eurobond che sono l'unica soluzione possibile.
Non ci sono molte ore per cercare di mettere una pezza a quel castello europeo che si sta sgretolando nelle fondamenta. I governi- anche quello italiano- sono allertati, perchè è attesa una massiccia ondata di vendite sui mercati e con essa un attacco micidiale della speculazione fra l'11 e il 12 agosto prossimi. Bisogna tirare su le difese, mettere argini nei punti più deboli del sistema, se è il caso isolare la Germania e metterla di fronte alle scelte di campo subito.
I conti pubblici italiani in questo campo di battaglia sono solo un piccolo argine da alzare alla bisogna. Se l'attacco dovesse concentrarsi più massiccio in quel punto, si potranno alzare. Come? O anticipando l'obiettivo del pareggio di bilancio e con esso parte della manovra già conosciuta, o utilizzando una leva dolorosa, ma efficacissima sui mercati finanziari internazionali (perchè comprensibile a tutti): quella della riduzione della spesa previdenziale bloccando le uscite pensionistiche ed elevando in modo più rapido e deciso l'età pensionabile. Per le donne, ma anche per gli uomini. Ieri è morta a Verona la nonna d'Italia. Si chiamava Venere Pizzinato, e aveva 114 anni: era la donna più anziana di Europa. Nata il 23 novembre 1896, passando attraverso mille guai, era diventata prima cassiera e poi amministratrice di un bar a Milano, in Galleria. Nel 1947 è andata in pensione, all'età di 50 anni. Ha ricevuto la pensione fino a questo mese di agosto: per 64 anni. La sua è una storia limite, certo. Ma dimostra che le attese di vita si sono innalzate, e di molto. E che l'età pensionabile delle donne può essere innalzata in un battibaleno, senza fare alcuna ingiustizia sociale.

La sfuriata di Giulio a Silvio: mi hai fatto spiare


Lo scontro è avvenuto in un faccia a faccia, lunedì all’ora di pranzo ad Arcore. In quel momento nella residenza del premier c’era anche Umberto Bossi, ma non era nella stanza in cui solo Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti per pochi minuti si sono guardati negli occhi. E’ stato il ministro dell’Economia ad avere uno scatto di nervi come mai è avvenuto in 17 anni di rapporto fra i due. E’ stato uno scatto violento, che ha scosso Berlusconi e che ancora 24 ore dopo faceva sentire i suoi effetti. Martedì il cavaliere lo ha raccontato ad almeno tre interlocutori incontrati in giornata. Da loro abbiamo raccolto la versione che collima in ogni particolare su quel che sarebbe accaduto in quella stanza. “Tu mi hai fatto spiare!”, ha sibilato il ministro dell’Economia davanti a un Berlusconi esterrefatto. “Hai messo i servizi segreti alle mie calcagna!”, ha proseguito Tremonti mentre l’interlocutore restava sbacalito, biascicando un “ma cosa stai dicendo?”. Minuti di gelo, terribile, cui sono seguite parole assai grosse, anche minacciose. Una sorpresa, perché se sono mille e poi mille i testimoni degli sfoghi del premier su Tremonti e del ministro dell’Economia su Berlusconi, i due non si sono mai affrontati a muso duro una volta messi di fronte. Anzi, è sempre stato un “Giulio sei un campione!”, seguito “ma Silvio, figurati!”. Riferiscono collaboratori e amici che Tremonti da qualche settimana fosse assai più nervoso del solito, ed è effettivamente è sbottato in sfuriate a cui non erano abituati interlocutori di lungo corso. Il nervosismo era giustificato dalla delicatezza del momento politico ed economico e anche dagli evidenti contrasti con il premier, accompagnati per la prima volta da una certa freddezza fra i vecchi amici della Lega Nord.
Lunedì, nell’istante topico dello scontro è entrato in stanza anche Bossi, che era arrivato ad Arcore insieme a Tremonti. Ha sentito qualcosa e provato subito a stemperare le tensioni. Poi per fortuna sono giunti in villa gli altri ospiti attesi e sia pure in un clima surreale è iniziata la riunione di cui abbiamo riferito ieri su Libero. Riunione assai affollata, e poi c’era la festa dei carabinieri ad attendere gran parte degli invitati a Roma, in piazza di Siena. Così si è reso necessario un secondo round, nella notte fra martedì e mercoledì. Il clima è stato quello immaginabile, eppure chi ha sentito ieri il cavaliere non lo ha più trovato sotto choc, anzi. Probabilmente come accade negli scatti d’ira, quel che si sono detti Berlusconi e Tremonti lunedì non ha più avuto seguito. Quando si sono nuovamente incontrati- non più a quattr’occhi- hanno fatto come nulla fosse avvenuto. Ma il contrasto non è venuto meno. Questa volta sui contenuti della manovra economica. Tremonti non si è mai spostato di un millimetro: bisogna varare subito i tagli da 40 miliardi in tre anni approvando la manovra prima dell’Ecofin dell’ultima settimana di giugno. La riforma del fisco? Solo per legge delega, meglio se a settembre. Berlusconi ha chiesto di non esagerare con la correzione sul 2011, e di spostare la manovra triennale 2012-2014 quasi tutta sul terzo anno. Si è ipotizzato di spalmare i 40 miliardi così: 5-5 e 30 finali. Il cavaliere ha aggiunto: “anche 60 sul terzo anno, se vuoi”. Ma Tremonti non ha mollato, pronto a mettere come spesso è accaduto sul piatto le sue dimissioni. Non lo ha fatto perché questa volta è intervenuto Bossi. Non a sostegno del vecchio amico ministro, ma della tesi del premier: “non possiamo permetterci di più ora”. La sensazione è stata che se in quel momento il ministro dell’Economia avesse messo sul piatto le sue dimissioni, sarebbero state accettate senza proteste da parte della Lega. Deve averlo capito bene anche Tremonti, che non ha replicato quando gli è stato detto: “se non te la senti di presentare tu le cose, possono arrivare per via parlamentare”.
Lo scontro resta, e la tensione fra presidente del Consiglio e ministro dell’Economia (che pubblicamente ancora viene negata come sempre è accaduto), questa volta è assai seria. Qualche preoccupazione ieri è venuta quando senza avere preannunciato l’iniziativa, Tremonti è salito al Quirinale per fare il punto con Giorgio Napolitano. Ufficialmente ha spiegato al Capo dello Stato l’impianto della manovra (il suo) e il clima internazionale che l’accompagna. Ma nessuno può escludere che sia stato riferito anche qualcosa del terribile scontro di lunedì.

Il titolo del Giornale contro Tremonti? L'ha fatto Berlusconi. Parola di Verdini



C’è una parola proibita giovedì mattina alla Camera dei deputati: Giulio Tremonti. E’ una parola magica per fare chiudere a doppia mandata tutte le porte. Eppure in aula si parla proprio di lui: stanno discutendo e votando il Documento di economia e finanza (Def) che porta la firma del ministro dell’Economia insieme a quella del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Nessuno dei due autori però appare a Montecitorio. E l’assenza, in un momento così, più che parlare grida. Ma quel nome ieri era vietato farlo. Proibitissimo nelle fila del pdl. Chi si avvicina a Marco Milanese, deputato campano e primo assistente del ministro dell’Economia sente sibilare una sola frase: “E’ nero, nerissimo”. Tutti capiscono, e vanno al titolo sulla prima pagina del Giornale di ieri, “Tremonti aizza la Lega”. Ma perfino lui il nome del ministro non lo pronuncia. Ammutolisce subito Osvaldo Napoli, vicepresidente del gruppo parlamentare, uno che di solito devi imbavagliare per farlo tacere un attimo: “E’ arrivato l’ordine”, spiega sottovoce, “e del caso Tremonti nessuno di noi deve parlare. Bisogna sopire, fare calmare le acque...”. Ha ragione lui. Ecco Daniela Santanchè, inconfettata in un alone fucsia, dall’abitino con vistoso spacco, alla borsetta alle calze a rete: “Tremonti? Ah, no, io di questo non parlo assolutamente. Nemmeno con la tortura mi strapperete una parola”. E alla tortura la poveretta si rassegna, perché sfuggire al giornalista le costa caro. Una sorta di polipo l’agguanta e se la prende sotto braccio non mollando la presa per dieci minuti. E’ l’uomo simbolo dei responsabili, Domenico Sicilpoti. E’ alto come una gamba della Santanchè, poveretto, e sta lì aggrappato  e gongolante come una luna piena a difenderla dalle domande indiscrete. Poco più in là c’è un ministro giovane e informale come Giorgia Meloni. Non si trincera dietro l’ordine di scuderia. Ma il risultato è lo stesso: “Lei fa il suo lavoro. E io il mio: non mi interessa dirle nulla sul caso Tremonti”. Sarà che “il caso non esiste”, come sostiene il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, ma l’assordante silenzio rimbomba dappertutto. C’è perfino un ex vice Tremonti come Nicola Cosentino. Lui quei dissidi li ha vissuti da vicino, qualcosa sa. E’ gentile, ma lapidario: “non me ne importa nulla. Ho altro a cui pensare”. E infatti si acquatta sui divani di un corridoio di Montecitorio, trascinandosi un assessore della Regione Campania e il fedelissimo presidente della provincia di Napoli, Luigi Casero. Fuori le agende, e via a organizzare la campagna elettorale da quelle parti: il 6 a Napoli, il 7 a Benevento, poi Pozzuoli. E Cicchitto? Dove parla Cicchitto? Ah, “in un hotel con al massimo 350 posti così siamo sicuri di riempire la sala”.
Per rompere la consegna del silenzio ci vuole uno che se ne frega. C’è, c’è, anche nella caserma Pdl. Basta sentire il vocione in mezzo al cortile di Montecitorio. Denis Verdini è lì a vaticinare ai fedelissimi il risultato delle prossime amministrative. Fulmina Lupi che gli chiede risorse per gli ultimi sondaggi: “mancano quindici giorni, sono soldi buttati via!”. Tira le orecchie a chi sembra scettico sul risultato di Milano. E sciorina sondaggi che non possiamo riportare per legge, ma che dicono che Pdl e Lega sono già maggioranza in consiglio e che Letizia Moratti è in grado di farcela al primo turno. Spiega a Vito Bonsignore le regole dei prossimi congressi Pdl: “tesseramento che peserà al 70 per cento. E che deve essere chiuso inderogabilmente entro il 31 luglio”. Assicura Gateano Pecorella che si è ricordato di quella commissione che aveva promesso di fare. E finalmente si concede al cronista sul caso Tremonti. Prima sentenza: “sì, il caso esiste. Ma è un po’ amplificato dai media e da chi ha qualche interesse in ballo”. Poi la domanda la fa Verdini: “Secondo te chi l’ha fatto quel titolo sulla prima pagina del Giornale?”. E chi l’avrà fatto? Il direttore? Il vicedirettore? “Ma noooo! L’ha fatto Berlusconi di suo pugno…”. Povero Verdini. Non sapeva che proprio in quell’attimo le agenzie battevano la dichiarazione ufficiale del premier con cui prendeva le distanze dal quotidiano. Ma lui è convinto, convintissimo: “è solo questione elettorale. Il Pdl sat recuperando sulla Lega e c’è un po’ di nervosismo in giro. Ma poi si appiana”. Sui giornali scrivono che Tremonti sia irritato per l’appoggio a Mario Draghi alla Bce… “Cazzate”, le liquida perentorio Verdini, “ma ti sembra? Soluzione ideale per Tremonti che si toglie Draghi dalle balle…”. Dopo tanto silenzio, una parola chiara. Gli altri tacciono. Raffaele Fitto preferisce buttarsi sorridendo in un capannello dove svetta un Pierferdinando Casini di ottimo umore: “dai, che anche tu sei dei nostri, vieni qui ad organizzare il dopo Berlusconi!”. Il povero Fitto finisce così dalla padella alla brace. E sbianca insieme al sopraggiunto Altero Matteoli quando Casini sale di tono in modo che tutti lo sentano: “così facciamo un po’ di pulizia di certi vecchi babbioni…”.
Ma ecco, in un angolo l’uomo-miccia del Pdl. Giorgio Straquadanio, l’incendiario più noto del Transatlantico. Lo penseresti lì intento a vuotare barili di benzina sulle fiamme che divampano, e invece anche lui pompierissimo. Di più: sembra il direttore della Pravda dei bei tempi. “Berlusconi contro Tremonti? Falso, falsissimo”. Per darsi un tono ancora più credibile sfodera il suo telefonino e mostra un sms di Alessandro Sallusti, che fa saltare un appuntamento con lui a Milano: “scusa, ma sono andato fuori, perché se mi prende Silvio…”. All’occhio del cronista non sfugge la data, un po’ passatella… Ma è chiara l’antifona. Fatta la domanda, bisogna ascoltare venti minuti di lodi sperticate al tremontismo che è la filosofia economica pura del berlusconismo. Al povero lettore la risparmiamo. Poco più in là c’è Milanese che spiega a un giornalista de La Stampa che anche questa volta l’incendio verrà domato, perfino sulla guerra in Libia: “La Lega preparerà la sua mozione imponendo al governo che mai e poi mai si invieranno là truppe di terra. Al massimo questi 7-8 aerei a sganciare qualche bombetta. Sarà un successo politico per Umberto Bossi…”. Amen. Il caso è chiuso.

Berlusconi trova 5 milioni e lì dà alle comunità ebraiche per tradurre il Talmud


Gianfranco Fini ci ha impiegato una vita per scrollarsi dalle spalle il passato e conquistarsi il favore di una delle comunità più piccole, ma potenti del paese: quella ebraica. Ci sono voluti anni di abiure e distacchi, pazienti lavori diplomatici degli amici Alessandro Ruben e Giancarlo Elia Valori che furono alla base del suo antico viaggio in Israele. A Silvio Berlusconi è bastato un secondo e quattro righe di testo per conquistare da quella piccola, ma potente comunità non solo simpatia, ma gratitudine e riconoscenza proprio un uno dei momenti più difficili e delicati della vita del governo. Lo scorso tre dicembre infatti il governo Berlusconi ha mandato in Senato a firma del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini (fedelissima berlusconiana) le scelte del ministero e dell’intero esecutivo per finanziare in ogni settore la ricerca: dalla scienza alle lettere, dalle arti alla tecnologia. La somma trovata, pur fra le pieghe dei tagli imposti da Giulio Tremonti, è rilevante: un miliardo e 754 milioni di euro. Ed è anche più alta di quella proposta l’anno precedente (era un miliardo e 628 milioni di euro), contrariamente a quel che si dice in convegni non solo delle forze di opposizione. E’ in quel fiume di fondi pubblici che spunta una decisione piccola ma importantissima per la comunità ebraica: il fondo governativo per la ricerca ha deciso di finanziare un progetto che il Cnr ha siglato con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane- Collegio rabbinico nazionale. Si mette a disposizione un milione di euro per il 2011 e se ne garantiscono già altri quattro milioni fino al 2015 (qualsiasi governo sarà tenuto a rispettare la decisione) per “la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica”. Il Talmud accanto alla Torah è il principale testo sacro della tradizione ebraica ed è un’opera monumentale. Letteralmente la parola Talmud significa “insegnamento” ed è in sostanza la “Torah orale” rivelata sul monte Sinai a Mosè e da lui trasmessa di generazione in generazione fino a quando non fu messa per iscritto da maestri e sapienti dopo la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme, nel timore che gli israeliti potessero scomparire. Scritto in aramaico è stato tradotto dal rabbino Adin Steinsaltz in ebraico moderno, un lavoro che ha visto schierati con lui i massimi esperti di testi sacri ebraici e che è durato 50 anni, con alcune traduzioni terminate proprio in questo 2010. Quella traduzione ha naturalmente contribuito a diffondere il Talmud fra gli ebrei di tutto il mondo in modo più comprensibile di quanto non fosse avvenuto finora. Grazie al rabbino Steinsaltz il testo sacro è stato tradotto più agevolmente anche in francese, russo, tedesco e inglese. In italiano esistono solo alcune parzialissime traduzioni, ma il lavoro sarà più semplice di quello di Steinsaltz perché basterà partire dall’ebraico moderno e dalle interpretazioni del testo già adottate in questi 50 anni (era la parte più difficile). Vista la complessità dell’opera, non deve stupire l’impegno finanziario per la traduzione in italiano (5 milioni di euro), visto che per cinque anni dovrà lavorare una squadra di trenta professionisti. La scelta del governo e del Cnr ha ovviamente scatenato l’entusiasmo sia del rabbino capo di Roma, rav Riccardo di Segni sia del direttore del collegio rabbinico, Gianfranco Di Segni (che è biologo molecolare proprio al Cnr) secondo cui “con la traduzione si potrebbe rendere accessibile ai più il talmud. Potrebbe essere un primo passo per spingere molte persone ad intraprendere il difficile cammino dello studio dei trattati indispensabili per comprendere la nostra realtà”.
Se il favore della comunità ebraica italiana non è cosa da poco conto per Berlusconi in un momento politicamente così delicato, nel decreto per la ricerca del 3 dicembre scorso non ci sono solo le assegnazioni straordinarie al Cnr per il progetto Talmud, ma anche altri piccoli e grandi finanziamenti molto significativi per la ricerca: come i primi fondi per il progetto “bandiera Epigenomica” (costo di 30 milioni in tre anni) per “lo sviluppo della scienza genetica, con particolare riferimento alla teoria del sequenziamento del Dna e del Rna”. A grandi capitoli sarà comunque il Cnr il maggiore beneficiario dei fondi per la ricerca (627 milioni di euro) seguito dall’Agenzia spaziale italiana (574 milioni), dall’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati (308 milioni di euro) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (103 milioni di euro). Sempre nell’ambito del finanziamento al Cnr sono stati trovati anche 300 mila euro a titolo di “contributo straordinario per attività di ricerche internazionali con Israele nell’ambito del programma di ricerche Lens”.

Tremonti, guerra santa ai carrozzoni. Però salva il suo...

Venti enti pubblici sciolti per decreto. Duecentotrentadue associazioni, fondazioni, istituti e centri di varia cultura e umanità per cui d’ora in avanti sarà assai difficile ottenere un contributo pubblico. La finanziaria tutta tagli di Giulio Tremonti non ha fatto poco nella sua parte di eliminazione degli sprechi. Eppure la notizia vera non è in quei 20 che volano via e in quei 232 messi in parziale quarantena (il Tesoro comunque conserverà il 30% dei fondi erogati a loro da corrispondere a quelli più bisognosi e meritevoli). La vera notizia è quella degli enti che rimangono. Sono dieci volte quelli che si sciolgono. O le fondazioni, le associazioni e gli istituti che continueranno a vivere di contributo pubblico: un elenco anche qui dieci volte più lungo di quello che deve stringere la cinghia. Solo il ministro dell’Economia, dopo anni di privatizzazioni e liberalizzazioni, è ancora azionista diretto di una trentina di società pubbliche, che a loro volta ne controllano decine di altre. Tutte fondamentali e utilissime, naturalmente. E chissà se Tremonti conosce la fondamentale missione di Studiare Sviluppo srl, che lui controlla al 100%. Se gli è sfuggita, faccia un giretto sul sito Internet della società. Lo spiegano i manager sotto la pomposa voce “mission” (perché usare l’italiano nel tempio della finanza pubblica di Roma è ormai proibito). Eccola: “Studiare Sviluppo, soggetto strumentale di Amministrazioni centrali, realizza attività orientate principalmente verso settori tematici e progettuali coerenti con gli interessi prioritari e gli obiettivi strategici dei propri referenti istituzionali”. Avete capito qualcosa? Direi di no. Allora facciamoci spiegare meglio: “In particolare, la Società opera a valere su due linee di intervento: supporto ad Amministrazioni o Enti pubblici, sul territorio nazionale, nella programmazione e gestione di strumenti di sviluppo territoriale e locale; partecipazione a progetti internazionali, finanziati prevalentemente dall’Unione Europea, relativi a consulenza istituzionale, institutional building e assistenza  tecnica a Governi e Amministrazioni pubbliche di Paesi terzi”. Ancora nulla? Sembra l’ultimo inutile carrozzone dello Stato italiano? I manager di Studiare Sviluppo pensano di essere fondamentali: “la Società gestisce iniziative che si caratterizzano per il loro contenuto innovativo e sperimentale, e rispetto alle quali l’azione permette all’Amministrazione di ricavare utili indicazioni di policy sulla materia trattata”. Per carità di patria bisognerebbe non procedere oltre. E tacere uno dei progetti fondamentali che il Tesoro sta finanziando. Si chiama “Storie interrotte” e “consiste nella diffusione, con diversi mezzi di divulgazione e comunicazione (sperimentazione scolastica, produzione teatrale, trasmissioni radiofoniche tematiche, produzioni editoriali, audio-riviste, web), della conoscenza del ruolo, del pensiero e dell’azione di cinque figure-chiave originarie del Sud d’Italia, che hanno segnato la storia nazionale: Francesco Crispi, Francesco Saverio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio”. Davanti a un monumento simile all’inutilità di cui Tremonti è unico azionista e che sopravvive anche a una finanziaria come questa, allora si capisce meglio il piagnucolìo delle vittime dei tagli. Viene quasi voglia di solidarizzare con chi si è visto portare via il contributo pubblico o ridurre i gettoni di presenza. Perché a lui sì e a studiare sviluppo no? Domande che restano senza risposta. E che possono essere ripetute all’infinito. I carrozzoni sono centinaia e centinaia. Ma perché lo è il comitato nazionale per la nascita di Cesare Pavese cui Tremonti ha tolto i 33.600 euro del finanziamento dei Beni culturali e non lo è invece quello per le celebrazioni della nascita di Amintore Fanfani, rifinanziato senza battere ciglio con 60 mila euro? E per gli amanti del genere restano in vita con soldi pubblici anche il comitato per il centenario della nascita di Mario Pannunzio (222 mila euro), quello per i 400 anni della morte di padre Matteo Ricci (180 mila euro), quello per lo studio e la valorizzazione del Tesoro di San Gennaro (174 mila euro), quello per ricordare la nascita di Massimo Mila (90 mila euro), di Paolo Bonomi (60 mila euro), di Mario Tobino (90 mila euro) e decine di altri. Basta non essere stati proprio nessuno ed essere morti o nati da almeno un secolo, che anche in tempi di magra come questi continuano ad arrivare finanziamenti pubblici: 5 milioni nel 2010 a questo scopo. Brindano perché salvano il tesoretto gli altri duemila sfuggiti all’occhio di Tremonti. Il Centro di ecologia teorica, come la Fondazione Gramsci Romagna che beffa l’omonima fondazione nazionale, depennata dalla lista. L’associazione combattenti e reduci insieme ai partigiani salvi per un soffio. Niente fondi alla Fondazione Adriano Olivetti, ma arrivano 48 mila euro al Comitato per i 100 anni della nascita della Olivetti spa. Chiusi i rubinetti alla Pro civitate cristiana di Assisi, ma affluiscono fondi pubblici nelle casse del Forum per i problemi della pace e della guerra. L’elenco è infinito, e lo offriremo giorno dopo giorno ai lettori di Libero. Certo, se si vuole tagliare, non mancheranno altre occasioni.

Per chi abita a Roma fisco incubo: si pagano 113 tasse

Sarà la vicinanza con il palazzo, sarà la particolare fantasia degli amministratori in loco, ma se c’è una città dove il fisco è davvero campione, è Roma. Fra tributi regionali, provinciali e comunali chi abita nella capitale non ha davvero il problema di come occupare il tempo libero. In tutto ci sono 113 tasse, imposte, tributi, percentuali su concessioni che magari non daranno enormi incassi, ma certo rappresentano un record in Italia e una fortuna per i commercialisti che operano nella città eterna. Nella tabella qui in pagina si può trovare solo un rapido esempio, sacrificato alla necessità di comparazione con altre grandi città. Ma le frecce all’arco del fisco romano sono cinque o sei volte più numerose degli esempi riportati. Non che brilli la trasparenza: la provincia di Roma guidata dal modernissimo e supermediatico Nicola Zingaretti è fra le poche in Italia a non avere inserito nel proprio sito Internet un bilancio analitico consuntivo o di previsione della propria istituzione. Ma alle tasse, per quanto si voglia nasconderle, i cittadini alla fine non possono sfuggire. Così non è difficile trovare nemmeno in casa Zingaretti, dove si celebrano le grandi opere in calendario e ci si bea dell’invarianza delle aliquote fiscali, quali e quante tasse alla fine bisogna pagare. Grazie a lui, ai sindaci che si sono susseguiti a Roma e soprattutto ai presidenti della Regione Lazio (un vero e proprio tassificio), nella capitale la mannaia del fisco non risparmia quasi nessuno. Tutto è tassa. Le quote locali di quelle grandi e note, come Irpef, Irap e Iva regionale, che scattano contemporaneamente al centro e in periferia. Quelle più note sui rifiuti o sull’auto (il bollo regionale). Ma anche una raffica di tasse che colpiscono ogni tipo di attività produttiva e perfino di hobby. In Lazio sono tassate tutte le concessioni: quelle per l’apertura e l’esercizio delle farmacie, quelle per aprire e mantenere ambulatori, case di cura, presidi medico-chirurgici o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, e perfino l’abilitazione alla ricerca e alla raccolta dei tartufi. In altre regioni, come il Piemonte (che ad Alba ha una tradizione), esiste la tassa sui tartufi, ma riguarda solo quelli raccolti che per altro vengono messi sul mercato a prezzi proibitivi. Sempre in Lazio l’elenco continua con il tributo speciale per il conferimento in discarica dei rifiuti solidi, il tributo regionale per l’abilitazione all’esercizio professionale, la tassa sugli apparecchi radiografici che varia a seconda dei volt. E’ più severa di quella sul canone Rai: se si posseggono più apparecchi, scatta integrale sul primo e al 50% sugli altri. E come il canone Rai viene rinnovata ogni anno. Sempre in campo sanitario sono tassati tutti i posti letto privati. Poi c’è una addizionale tutta laziale sulle acque di derivazione pubblica, che segue le più comuni addizionali energetiche. Si riscuotono come in ogni regione le accise su benzina e gasolio, ma anche l’assai più rara imposta regionale sulle concessioni demaniali marittime. C’è una tassa per la partecipazione alle procedure concorsuali, e una singolare tassa fitosanitaria, che costringe a pagare quattro diverse tariffe per avere a) l’autorizzazione alla produzione e al commercio dei vegetali; b) l’autorizzazione all’uso del passaporto delle piante; c) per l’import-export dei vegetali; d) per l’esercizio annuale delle ditte operanti nel settore. Più leggera a Milano la pressione fiscale sulle persone fisiche e le famiglie, che intanto possono godere della rinuncia alla addizionale Irpef comunale e su una raffica di agevolazioni fiscali. In Lombardia per altro le Entrate fanno il pieno grazie al business: è la Regione dove si incassa più Irap (il doppio del Lazio) e dove è più alta- con distanze siderali dagli altri- la compartecipazione al gettito Iva.

C'è ancora Mussolini in 62 imposte del fisco italiano

Rifondazione comunista al governo c’è arrivata due volte con Romano Prodi e in compagnia di tutti gli eredi del vecchio partito comunista. Ma nemmeno a loro è venuto in mente di togliere almeno una delle 62 tasse fasciste che gli italiani pagheranno ancora nel prossimo 2010. Sono altrettante infatti le imposte che alla loro base hanno ancora (talvolta con modificazione successiva) il testo di un provvedimento legislativo con sotto la firma di Benito Mussolini capo del governo. Basta scorrere il nomenclatore degli atti che accompagna la tabella delle Entrate 2010 che si accompagna all’ultima finanziaria di Giulio Tremonti entrata in vigore il primo gennaio scorso per sgranare davvero gli occhi. Sono 129 le tasse, imposte e gabelle concepite più di 50 anni fa, varate quindi prima degli anni Sessanta. Un bel pacchetto, e di queste più della metà portano ancora l’indicazione “regio decreto” e in calce la firma di un Savoia. I due riferimenti legislativi più antichi sono del 1910, e quindi ben 13 tasse ancora in vigore sono di impronta giolittiana. Nove appartengono a quel primo scampolo di Repubblica alla fine degli anni ’40 e le restanti 45 imposte appartengono agli anni ’50 e all’inizio della cavalcata democristiana. Risalgono al periodo fascista gran parte delle imposte direttamente o indirettamente legate all’acqua. Ad esempio sono tutt’oggi in vigore (anche se poco pagate) quelle collegate ad opere di bonifica dei territori. Tasse fasciste, che però hanno avuto come unica coda recente quella varata da un governo di sinistra, l’ultimo a guida Prodi: la tassa sulle bottiglie di plastica dell’acqua minerale, fatta inserire dai verdi nel 2007 per ottenere risorse da girare ai paesi in via di sviluppo. A proposito, sono 27 fra livello centrale e periferico i sistemi di tassazione legati all’acqua. Molte regioni hanno prelievi fiscali sull’imbottigliamento delle acque minerali, la vera stangata era in Veneto che dal dicembre scorso però l’ha attenuata (mentre l’Abruzzo l’ha appena abolita per tutti i cittadini anche non residenti nell’area del cratere del terremoto). Esiste anche la tassa sulla pioggia: così è stata ribattezzata nel 2008 l’idea venuta al primo cittadino di Ravenna di inserire nella bolletta della municipalizzata anche una sorta di accisa sulla gestione delle acque meteroriche, appunto quelle piovane. Nella tabella di oggi proprio le prime voci illustrano un campione di tutto rispetto del diluvio fiscale a cui siamo sottoposti. Si inizia proprio con quella sovratassa di 0,5 centesimi per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola varata da Prodi: porterà nelle casse di Tremonti 5,5 milioni di euro anche quest’anno. Pochi spiccioli a livello centrale ormai per la quota erariale sulla addizionale per canoni di concessione delle acque pubbliche (800 mila euro all’anno) o per i servizi resi dal consiglio superiore delle acque (702 mila euro), ancora meno per la concessione delle acque pubbliche per i servizi di piscicultura (257 mila euro) o per il dazio erariale sui proventi del canale Cavour (111 mila euro). Piccole somme, nemmeno rivoli all’interno del bilancio dello Stato. Non tanto perché il cittadino non paghi, ma perché il grosso delle imposte ormai non è più diretto a livello nazionale, ma confluisce nelle casse di comuni, province e regioni per cui il federalismo fiscale da tempo è realtà anche senza le leggi ora fatte approvare dalla Lega Nord. La legge Mussolini sulle bonifiche in ogni caso garantisce ancora a Tremonti 2,6 milioni di euro di incassi all’anno, e non sono proprio da buttare via. Resiste ancora solo in parte quella nata sempre sotto il fascismo e che fu ribattezzata “tassa sul ghiaccio”. Bisogna pagarla per piste di pattinaggio e utilizzi vari a fine turistico-spettacolare, e solo da qualche anno non più per fare una granita o conservare prodotti al fresco. Per anni però la tassa sul ghiaccio è stata la disperazione degli albergatori, che si vedevano arrivare una vera e propria stangata per tutte le camere provviste di frigo-bar immediatamente sottoposti all’imposta.

E chi si ricorda più del programma Pdl? Berlusconi riscuote 360 milioni di tassa sul caro estinto che voleva abolire

Pagina 7 del programma elettorale 2008 del Popolo della libertà, primo obiettivo sulla famiglia: “Meno tasse”. Punto numero tre: “Abolizione delle tasse sulle successioni e sulle donazioni reintrodotte dal governo Prodi”. Anno 2010, quello in cui Silvio Berlusconi con il suo governo entra nel giro di boa della legislatura. Previsione di entrata del capitolo 1239 del ministero dell’Economia e delle Finanze, incasso stabilito in euro 360 milioni alla voce “imposta sulle successioni e le donazioni”. L’odiosa tassa sul caro estinto che il cavaliere stracciò nel 2001 e il centro sinistra rispolverò nel 2006 decidendo perfino di mettere le mani nelle tasche dei morti, è tutt’oggi al suo posto. Non l’ha toccata nessuno. Fa parte delle quasi duemila gabelle che il fisco-monstre italiano negli anni ha accumulato a livello centrale e locale e che occupano ogni istante di vita degli italiani. Sono così numerose che alla fine in questo paese nessuno può essere un evasore totale: non pagherà il dovuto di Ire o di Ires, magari. Ma non può sfuggire all’accisa o all’imposta sul valore aggiunto in agguato, a meno di vivere davvero da nullatenente: senza mangiare, bere, dormire, consumare, respirare. Perché su ogni cosa c’è la sua bella tassa in agguato. Tutte naturalmente fondamentali e non cancellabili. Prima bisogna ragionare su modelli e macrosistemi, poi magari si potrà trovare una soluzione alternativa a coprire i proventi governativi per il “diritto erariale dovuto per il rilascio urgente dei certificati del casellario giudiziale”. Giulio Tremonti prevede di incassare a quella voce ben 15.493 euro durante l’anno in corso: poco più di mille euro al mese in tutta Italia. E possiamo essere certi che il costo di riscossione sia almeno dieci volte tanto. Comunque a diritti e bolli sul certificato del casellario giudiziale il governo in carica sembra tenere assai. Tanto da avere sì infilato le mani in tasca a quello spartissimo gruppo di italiani che ne aveva bisogno. Fino al 7 gennaio 2009 per avere quel documento bisognava pagare una marca da bollo (a proposito, non si erano abolite tutte ?) da 3,10 euro. Con decreto ministeriale dell’8 gennaio 2009 andato in Gazzetta Ufficiale il 6 febbraio 2009 e da allora divenuto operativo, il costo di quella marca da bollo è salito del 14,2%, e ora è di 3,54 euro. Ne valeva proprio la pena? La giustizia ad esempio non riesce a riscuotere, e spesso perde somme milionarie sequestrate e depositate su conti destinati a divenire dormienti per assoluta incuria, eppure ogni tribunale è una specie di monumento alla micro tassa. Non c’è documento o diritto del cittadino che non abbia sopra la bella zampata dell’erario. Perché per avere giustizia bisogna comunque pagare. Carte e marche da bollo, diritti di concessione, tributi di ogni genere. La tabella del ministero dell’Economia alla voce entrata si vergogna pure di citare i riferimenti, ma elenca “tributi speciali e diritti di origine giudiziaria” che nel 2010 daranno il loro bell’incasso da 50 mila euro. Identica piccola somma che si ottiene con i tributi pagati per i concorsi per la nomina ad amministratore giudiziario. Comunque il doppio dei 30.471 euro riscossi come quota di tributo erariale per l’iscrizione all’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. Una delle centinaia di imposte che costano più allo Stato di quel che possa mai incassare. Ma questo è il fisco italiano, signori… (2- continua.

Berlusconi,mi consenta! Può levare almeno la tassa sull'aria. Su 1843 imposte, ce ne sarà una tagliabile in tempo di crisi?

Non è una battuta. In Italia anche l’aria è tassata. Perché fra le 1.843 tasse che ogni anno in piccoli rivoli affluiscono nei forzieri del ministero dell’Economia e nelle casse degli enti locali, ci sono anche le accise particolari sui “gas di petrolio liquefatto anche miscelato ad aria” e sul metano miscelato ad aria. La miscela serve così a rendere più facilmente combustibili petrolio e metano, ma il risultato finale è da guinness dei primati: ad essere tassata in Italia c’è pure l’aria. Piccola accisa, certo. Piccola goccia nel mare dei 1.269 tributi ancora riscossi a livello nazionale e delle 574 fra tasse, imposte e vari orpelli fiscali che si aggiungono a livello locale. In tutto poco meno di due mila prelievi annuali diretti o indiretti nelle tasche dei contribuenti, che hanno ormai creato una giungla di aliquote e norme destinata a fare impazzire qualsiasi ragioniere o commercialista. Non a caso proprio ieri il presidente dell’ordine ormai unificato, Claudio Siciliotti, dopo avere appeso alò chiodo la speranza di un abbassamento generale delle tasse, ha implorato Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi almeno di “semplificare un sistema fiscale” che ai commercialisti “fa mettere le mani nei capelli per la complessità. Proprio per questo ci auguriamo che dopo l’ennesimo rinvio sine die del taglio delle tasse, rimanga però alta l’attenzione sul tema, non più differibile, di una grande riforma fiscale nel nostro Paese. Noi ci scontriamo quotidianamente con un livello di complessità inutile e ridondante che determina mille rivoli di micro-adempimenti e autentiche perdite di tempo nemmeno valorizzabili in termini di parcella ai clienti”. Come dire, se proprio non si vuole imboccare la strada della riduzione dell’imposta sulle persone fisiche a due sole aliquote, almeno si levi di torno qualcuna delle quasi duemila tasse con cui bisogna fare i conti. A ruolo ci sono ancora tributi che risalgono a quasi un secolo fa o all’immediato dopoguerra, che di introiti danno sì e no qualche spicciolo e che spesso costringono l’Agenzia delle Entrate a spendere assai di più per recuperarli di quanto alla fine non si possa poi incassare. Tanto che la tabella compilata dalla ragioneria generale dello Stato per riclassificare il bilancio pubblico 2010 cita numerose imposte solo “per memoria” senza indicare la previsione di introito. Accade ad esempio anche nella prima parte della tabella sulle Entrate di cui oggi iniziamo a pubblicare le prime cento voci di incasso. Fra le voci citate ma qui non incluse perché non è possibile prevederne l’incasso grazie agli accertamenti, ci sono i dazi sulle merci destinate al territorio della Repubblica di San Marino o le accise e imposte erariali di consumo sulle armi da sparo, sulle munizioni e sugli esplosivi, così come l’imposta di consumo su prodotti di registrazione e riproduzione del suono e dell’immagine prevista da una legge approvata nei suoi primissimi mesi dal governo di quel Bettino Craxi di cui fra qualche giorno si celebrerà il decennale della scomparsa. Si accertano ancora gli incassi (riportati per memoria in tabella) della imposta sul consumo del caffè e di quella sul consumo del cacao naturale o comunque lavorato. Tassate anche le bucce e le pellicole di cacao e ovviamente il celebre burro di cacao. Ma hanno la loro bella accisa da versare allo stato i surrogati del caffè: non si usano come ricordano ancora i nonni in tempi di guerra, ma offrono i loro 13 milioni di euro alla causa del fisco. Si tassa ogni tipo di cibo e ogni suo contenitore, con differenza fra materia e materia. Si tassa naturalmente l’acqua minerale e la bottiglia che la contiene. Mangiare, bere, respirare, vestirsi, riscaldarsi e in qualche modo perfino amare: nessuno dei bisogni primari dell’uomo riesce a sfuggire alla voracità dell’erario italiano. Figurarsi se poteva mancare nell’armamentario incredibile delle leggi succedutesi nel tempo o nei vari commi del Tuir (il testo unico delle imposte sui redditi) anche ogni freccia all’arco di quel che viene chiamato fisco etico. Quando il legislatore ha trovato impopolare e talvolta controproducente l’adozione della linea proibizionista, altra soluzione non è riuscito a trovare che mettere una nuova imposta o aumentare un’accisa o un tributo già esistente. Accade così in ogni finanziaria sul fumo, che non è vietato, ma disincentivato con l’aumento ripetuto della accisa sui tabacchi. Accade così con i superalcolici, con la birra e un po’ meno con i semplici alcolici (il vino è risorsa importante per il sistema economico italiano). Pochi sapranno però che in questa campagna strisciante contro i danni da alcol condotta con le armi del fisco italiano si è sfoderata una accisa ad hoc per colpire anche tutti i “recipienti dei prodotti alcolici”. La classica bottiglia è quindi tassata di più se dentro ha vino, bourbon o whisky invece di coca-cola o aranciata. Ma a pieno titolo come freccia nell’arco del fisco etico c’è una raffica di super-imposte che si abbattono su altri tipi di consumi che qualcuno avrebbe più facilmente proibito. C’è una addizionale alle imposte sul reddito destinata alla “produzione, distribuzione e rappresentazione di materiale e programmi televisivi di contenuto pornografico”. C’è una addizionale sullo stesso materiale in caso di “incitamento alla violenza” che forse più che tassato andrebbe meglio vietato. E c’è una addizionale anche sulle “trasmissioni televisive volte a sollecitare la credulità popolare”. Una vera e propria giungla- altro che cedolari secche- è il sistema di tassazione dei redditi finanziari di varia natura che occupa gran parte della tabella pubblicata qui sopra con le prime cento tasse di un lungo elenco. Per ogni tipologia al di là delle aliquote c’è un sistema diverso di riscossione e una norma ad hoc a regolare ogni cosa. Piccolo esempio? Uno si fa l’assicurazione sulla vita pagando anche belle sommette ogni anno pensando di proteggere in caso di disgrazia i suoi famigliari. E’ un investimento, perfino triste. Ma in grado di rendere allegro, proprio ilare, il ministro dell’Economia pro tempore: sulle assicurazioni vita, considerate un prodotto finanziario come tanti altri, ci sono tre diverse imposizioni dirette o indirette che assicureranno allo Stato quasi un miliardo di euro di incassi nell’annoin corso. Ritenute alla fonte, inclusione nel reddito delle persone fisiche, tassazione separata, diversità fra residenti e non residenti in Italia (ed è comprensibile), ma anche fra residenti in una regione o in un’altra. Hanno regimi agevolati anche sui redditi finanziari regioni a statuto speciale come Sicilia, Sardegna o Valle D’Aosta. Ma la tassa cambia a seconda se colpisca gli investimenti di imprese residenti in attività fuori o dentro il territorio regionale. Regime fiscale differenziato anche per le imprese non residenti in quella regione che però i loro investimenti finanziari effettuano in Sardegna, Sicilia o nella Vallèe. Un guazzabuglio senza capo né coda che già oggi anticipa nei fatti e nel caos tutto quello che si sarebbe voluto evitare con il varo del federalismo fiscale.

Ci sono ancora 61 tasse di Bersani del 2006 che Berlusconi ha conservato e perfino aumentato

Una l’ha cancellata Silvio Berlusconi: l’Ici sulla prima casa. Cinque sono cadute per esaurimento naturale. Ma a 37 mesi dal loro varo sono ancora in vigore, qualcuna addirittura rinvigorita, 61 delle celebri 67 nuove tasse inventate nel 2006 dal governo di Romano Prodi, Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani. Le mise l’Ulivo, non le ha tolte più nessuno (perché introdurle è facilissimo, per il centro sinistra quasi una gioia, ma poi trovare le coperture per abolirle è sempre complicato e ci vuole coraggio). Anche se contro quelle 67 nuove tasse il 2 dicembre 2006 l’allora Casa delle Libertà portò in piazza a Roma due milioni di persone. Forse Bersani ha pensato di chiudere il problema facendo fuori dai vertici del suo partito e mettendo per un po’ in quarantena l’amico Visco (che lo ha comunque appoggiato nella corsa alla segreteria). Forse Berlusconi ha immaginato che fatta quella manifestazione e tornato al governo tutte sparissero di incanto. Forse i contribuenti italiani si sono perfino abituati e con i tempi che corrono pensano più a coprirsi le spalle dal rischio di nuove gabelle: non averne avute è già un piccolo successo. Ma le 61 tasse del 2006 sono tutte ancora lì a sfilare risorse preziose dal portafoglio degli italiani. Quel lontanissimo 2 dicembre non pochi dei simpatizzanti berlusconiani indossarono uno dei tanti gadget predisposti per l’occasione: una t-shirt con sopra scritto: “ 67 nuove tasse. Padoa… Schioppa. E io pure!”. Tremonti euforico pronosticò: “Ha ragione Berlusconi. Ci sarà molta gente. E' una Finanziaria che scontenta tanta, tanta, tanta gente, anche fra quelli che hanno votato a sinistra”. E davanti ai due milioni di persone anche il compassato futuro ministro dell’Economia sbottò euforico: “Solo un demente, come quello che sta adesso al governo, poteva pensare di fare più spesa pubblica con più tasse”. Poi si scusò: “Ho esagerato, ma siccome lui in passato mi ha dato del delinquente politico, me lo posso permettere”. Quello stessa euforia tre anni fa che sembrano più di una vita contagiava anche il leader numero due del centro destra, Gianfranco Fini, convinto che arringava la folla contro le supertasse pronosticando: “così la Cdl è destinata a vincere e a dimostrare che la sinistra sarà battuta, ne siamo certi”. Ma 37 mesi dopo le 61 tasse sono lì come un macigno, e nemmeno tutte come allora. Qualcuna è perfino peggiorata con il centro destra al governo, divenuta più pesante di quel che era grazie ad automatismi di cui tutti pèaiono essersi dimenticati, e non è certo bandiera da sventolare. L’Irpef più cara voluta da Vincenzo Visco è con le stesse aliquote introdotte nel 2006. Voleva aiutare i contribuenti con meno reddito, ma le menti del Nens (il centro studi di Visco e Bersani) e i tecnici dell’Ulivo sbagliarono tutti i calcoli. Così il fisco portò via una parte di stipendio perfino a chi guadagnava mille euro al mese e certo non poteva essere considerato un ricco da fare piangere. Le detrazioni che sostituirono il sistema di deduzioni introdotto da Tremonti non sono state più modificate. Il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte allora avversato è restato in vigore fino alla sua scadenza naturale, a fine 2009. La possibilità per i comuni di aumentare l’addizionale Irpef non è stata revocata. La criticatissima tassa di scopo (Iscop) concessa agli enti locali per piccole opere pubbliche non è stata mai abolita (e viene oggi usata, sia pure da piccoli comuni: il più grande è Rimini). Tuoni e fulmini accompagnarono la decisione di Prodi & c di introdurre una addizionale di 50 centesimi a passeggero sui diritti di imbarco sugli aeromobili. Con il Pdl al governo non solo non è stata abolita, ma è aumentata di un ulteriore euro a passeggero per pagare la crisi Alitalia. Nulla è cambiato in meglio su rendite catastali, tariffe per il rilascio del visto di soggiorno, tassazione sui tabacchi lavorati, tasse ipotecarie che Prodi introdusse e aggravò e che i tecnici di Berlusconi inserirono nella lista dei 67 misfatti fiscali contro cui manifestare. Sono restate immutate le norme introdotte sul Tfr, mentre l’aumento della pressione contributiva che fece gridare allo scandalo il centro destra non solo non è stato abrogato, ma è stato addirittura aggravato e in modo sensibile. Proprio grazie a una norma contenuta nella legge Visco-Bersani nel 2006 l’aliquota per le gestioni degli artigiani e dei commercianti era del 19%. Oggi è del 20 per cento. Fu fatta salire al 23% l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps per i lavoratori autonomi che esercitano attività professionale o di collaborazione e al 16% per gli altri iscritti. Nel 2009 la prima è schizzata al 25% (e al 26% dal primo gennaio 2010), la seconda al 17%. Un aumento secco della pressione contributiva, contro il popolo delle partite Iva, considerato da Bersani e Visco un nemico di classe, ma dimenticato anche dal centrodestra. Non l’unico caso. Perché l’elenco delle nuove tasse dimenticate da Berlusconi & c in questi primi 20 mesi di governo è lungo, e potrebbe simbolicamente culminare con quella nuova tassazione Visco sulle donazioni e le successioni che solo pochi anni prima il Cavaliere no tax (ormai un pallido ricordo) aveva inutilmente disintegrato: oggi però a comandare è il fisco- vampiro della sinistra, non quello liberal del centrodestra restato solo nell’inchiostro dei pamphlet e dei programmi elettorali. I 61 fantasmi di Prodi però ogni giorno continuano ad infilarsi nelle tasche degli italiani e a ricordare agli elettori di Berlusconi che di tempo non ne resta molto: il 2010 non può essere l’anno dei grandi disegni di riforma, ma finalmente l’anno delle forbici fiscali. Non inchiostro, ma meno tasse per tutti finalmente.

Colpo dei boiardini da 100 milioni contro Tremonti. Sventato in extremis

Ci hanno provato. In barba alla crisi economica, migliaia di professori e piccoli boiardi di Stato insieme ai loro sponsor politici hanno tentato un colpo da circa 100 milioni di euro ai danni di Giulio Tremonti e delle casse pubbliche. Zitti zitti infatti boiardini e consulenti nel 2009 hanno tentato di riprendersi quel 10 per cento di compenso che era stato loro tagliato fra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, proprio in mezzo alle prime polemiche sui costi della Casta. Il colpo dell’anno è stato probabilmente sventato – con grande ritardo e sicuri danni- dalla Ragioneria generale dello Stato che ha messo uno stop a quell’esercito di professori, manager politici e professionisti abituato ad arrotondare il proprio stipendio con una attività extra per la pubblica amministrazione, che aveva deciso di aumentarsi lo stipendio bis con un blitz dal primo gennaio 2009. Era stato il governo di Silvio Berlusconi con la legge finanziaria 2006 e poi quello di Romano Prodi a decidere ampliando via via la platea di tagliare del 10 per cento gli importi delle consulenze pubbliche: indennità, compensi, gettoni di presenza, retribuzioni o “altre utilità comunque denominate”. Quella stessa legge finanziaria che aveva costretto a tirare la cinghia l’esercito dei consulenti pubblici (censito da Renato Brunetta in 251.921 unità per un costo annuo di un miliardo e 323 milioni di euro), scriveva che i risparmi ottenuti per un triennio sarebbero dovuti confluire nel Fondo nazionale delle politiche sociali. I tre anni sono appunto finiti all’inizio del 2009, e il passa parola è subito partito all’interno della amministrazione pubblica: finite le ristrettezze, si torna a guadagnare come un tempo e chissenfrega dei guai dell’economia nazionale e internazionale. Qualche amministrazione ha interpretato da sé le norme e restituito quel 10 per cento ai propri consulenti, qualche altra si è fatta uno scrupolo di coscienza, provando almeno a chiedere conferma della novità al ministero dell’Economia prima di riallargare i cordoni della borsa. La burocrazia però ha i suoi tempi infiniti e le leggi sono così confuse che la Ragioneria generale dello Stato a cui era stata demandata la risposta ufficiale, ci ha messo i suoi bei mesi per fornirla. E solo alla vigilia di Natale, il 17 dicembre scorso, quando probabilmente molti buoi (in questo caso molti euro) erano già scappati dalla stalla, dall’Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, è partita la circolare 32 indirizzata con la massima urgenza a tutti i ministeri, le amministrazioni autonome, gli istituti pubblici, gli enti economici e non economici e gli enti locali per spiegare che no, quell’aumento del 10 per cento ai consulenti non poteva essere erogato. “Alcune amministrazioni”, scrive la Ragioneria, “ritengono che decorso, dal primo gennaio 2009, il termine triennale di vigenza delle sopraindicate disposizioni possa essere ripristinata, nella sua originaria entità, la misura dei compensi sopra indicati”. E invece si sbagliano e di grosso tutti quelli che avevano immaginato di ridare quel 10 per cento in più almeno a tutti i “componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali comunque denominati presenti nelle amministrazioni pubbliche”, per i quali la riduzione dei compensi era scattata già dal gennaio 2006. Un po’ in burocratese, e con 11 mesi di ritardo, la ragioneria ha spiegato che “nel contesto sistematico di una serie di misure dirette ad assicurare il contenimento strutturale della spesa per gli organismi collegiali, si ritiene che non sussistano i presupposti per rideterminare, in aumento, le misure dei compensi stabiliti al 30 settembre 2005 e ridotti del 10%”. L’esercito di professori, professorini e piccoli boiardi che affollano consigli di amministrazioni e comitati pubblici, dovrà accontentarsi quando bene di avere mantenuto l’incarico, e probabilmente anche restituire l’eventuale aumento indebitamente ricevuto nel 2009 prima della risposta ufficiale del ministero