Berlusconi lancia la bomba Minzolini sul Tg1

Dopo mesi di incertezza, da oggi la Rai avrà finalmente il suo nuovo vertice. Il consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Garimberti indicherà d’accordo con l’azionista che domani ratificherà tutto in un’assemblea totalitaria il nome del nuovo direttore generale. Sarà Mauro Masi, gran commis di lunga esperienza, già dirigente in Banca d’Italia, poi una carriera in parte da manager pubblico (è stato commissario straordinario alla Siae) e ai massimi livelli nella dirigenza di Stato, dove ha collaborato con Lamberto Dini, Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi fino a diventare segretario generale a palazzo Chigi. A Masi, ha spiegato ieri sera il premier ai suoi, verranno affidati pieni poteri anche sulle nomine. Proprio ieri sera infatti a palazzo Grazioli si è svolta una riunione di maggioranza che nel tam-tam subito corso per la capitale avrebbe dovuto disegnare l’intero organigramma della nuova tv di Stato. Così invece non è avvenuto, con qualche sorpresa dei convenuti, fra i quali c’erano i capigruppo di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (accompagnato dall’ormai inseparabile vicecapogruppo, Gaetano Quagliariello), alcuni neo consiglieri di amministrazione dell’azienda come Antonio Verro (già deputato di Forza Italia), ministri come Roberto Maroni (Interno) e Andrea Ronchi (politiche Ue) e viceministri come Paolo Romani (Comunicazioni), che ha proprio la delega sulla Rai. A tutti, desiderosi di entrare nel vivo della discussione, pronti a buttare sul piatto le candidature per la vicedirezione generale e per la guida di reti e di testate, Berlusconi ha spiegato che ogni dossier potrà essere affrontato istituzionalmente solo con Masi, che avrà ampia autonomia. Unico tema affrontato dal premier prima dell’arrivo di Gasparri e Ronchi è stato quello della direzione del Tg1, che si renderà vacante dopo la nomina di Gianni Riotta al Sole 24 Ore. L’interim sarà affidato al vicedirettore Andrea Giubilo. Per la direzione, a sorpresa, Berlusconi ha buttato lì una sorta di mini-sondaggio: “Che ne pensate di Augusto Minzolini?”, rendendo per la prima volta ufficiale la candidatura del notista politico de La Stampa. Poi il premier ha spiegato che “certo, ci sono altri nomi come quello di Mario Orfeo, che potrebbe andare bene o male sia per il Tg1 che per il Tg2”. Ma fra i suoi c’è stato qualche mugugno: “Orfeo? Ma viene dal partito di Repubblica, che già ha conquistato la presidenza Rai. E non era legato a Casini e D’Alema?”. Berlusconi ha tagliato corto: “io parto, ci si vedrà dopo Pasqua. A reti e tg ci pensa Masi”. Franco Bechis

I Tg Rai pensano solo al palazzo

Nell’informazione Rai esiste solo il palazzo, tutto il resto d’Italia non trova che una pallida rappresentazione. Tre quarti delle interviste e delle dichiarazioni riportate nel Tg1, Tg2 e Tg3 sono riservate a membri del governo ed esponenti di partito di maggioranza e opposizione. Due terzi nelle trasmissioni giornalistiche di approfondimento, dagli speciali dei telegiornali ai vari contenitori di Bruno Vespa, Michele Santoro e Giovanni Floris. Sono clamorosi i dati sul pluralismo sociale censiti dall’autorità di garanzia per le comunicazioni guidata da Corrado Calabrò e indicano l’assenza quasi assoluta della maggioranza sociale del Paese nell’informazione della tv di Stato... Nel tg1 di Gianni Riotta (che da ieri è stato indicato come nuovo direttore del Sole 24 Ore) quasi l’80% dell’informazione del mese di gennaio è stata appaltata a dichiarazioni e interviste ad uomini politici italiani. Perfino il Vaticano (ma nel censimento c’è anche l’Angelus domenicale del Papa trasmesso in diretta per convenzione) si è dovuto accontentare del 4,19% riservato dal principale tg di informazione pubblica e del settimo posto (5,06%) nelle trasmissioni di rete. Se così accade a un soggetto ritenuto potere forte, addirittura secondo il neo presidente della tv di Stato, Paolo Garimberti, in grado di influenzare i palinsesti di viale Mazzini, figuratevi quale destino è riservato agli altri soggetti sociali. I sindacati contano solo sul Tg3 (ma hanno il 4,09%) e su Rete Tre (9,95%). Al mondo delle professioni solo il decimo posto in classifica sul Tg3 (1,78%) e sulla Rete due (2,42%). Nemmeno in classifica su tutte le altre reti e testate. Esponenti del mondo della cultura sostanzialmente assenti. Mondo dell’economia inesistente: si conta solo qualche rapida comparsa di imprenditori e banchieri al Tg1 (1,09%) e su Rai 3 (2,76%). Unica altra categoria vezzeggiata e cullata dall’informazione della tv di Stato è quella dei giornalisti, in genere esperti di politica, perché li si invita a fare domande al politico di turno. Più che una televisione di Stato i dati dell’Authority disegnano una tv aziendale di palazzo, dove tutto quel che capita al di fuori di quelle quattro mura non ha rilievo informativo. Perfino la politica estera è ridotta al lumicino, e la gran parte di Italia non può avere voce. E’ un quadro desolante che dovrebbe fare da riferimento per le decisioni che dovranno prendere Garimberti e il prossimo direttore generale della Rai, Mauro Masi... Franco Bechis

Nasce il Pdl con una fusione fredda

Novanta minuti, come una partita di calcio. Anzi, novantuno, perchè Silvio Berlusconi ha dovuto aggiungere anche un po’ di recupero per finire il discorso con cui ha dato i natali al Popolo della libertà, quel partito che aveva già un simbolo, un gruppo parlamentare, milioni di elettori, ma ufficialmente non esisteva. E’ nato ieri il Pdl, alla Fiera di Roma, con una fusione fra le più fredde della storia della politica. Show curato in ogni dettaglio dal suo principale protagonista che molto ore prima era passato a controllare di persona la sceneggiatura. Ma freddo. Senza lacrime, e senza particolari emozioni. Come tutto il discorso del fondatore, che ormai identifica il suo partito con palazzo Chigi come accadde ad Alcide De Gasperi. Non c’è stato lo sventolio di bandiere delle grandi occasioni di Forza Italia, non c’è stato l’entusiasmo classico dei grandi avvenimenti politici, non c’era alla Fiera di Roma granchè della base degli altri partiti che si sono uniti a Berlusconi anche perché non avevano molta altra scelta. La cerimonia ufficiale ha previsto alla fine la chiamata sul palco di tutti i segretari o fondatori di piccoli partiti o neonati movimentini pronti a sciogliersi (molti di loro erano nati più che altro sulla carta) per confluire nel Popolo della Libertà consegnando- come ha detto Berlusconi- le loro bandiere e i loro simboli. Nell’elenco il premier e da domenica anche presidente del Pdl ha incluso perfino i repubblicani che il loro partito non hanno sciolto e che non si sono nemmeno presentati sul palco una volta chiamati (il segretario Francesco Nucara ha disertato lo show). Nel discorso durato come una partita di calcio (ma assai meno spettacolare) il premier si è autocitato ripercorrendo tutti i passi della storia personale e riprendendo i suoi discorsi dalla discesa in campo del 1994 fino alla manifestazione anti-Romano Prodi del 2006 e al predellino di San Babila. Ma l’impressione di quell’ora e mezza un po’ spenta e perfino più lenta del trascorrere della clessidra, soprattutto se confrontata alla verve berlusconiana del giorno precedente ad Acerra, è che al suo fondatore quel superpartito stia già un po’ stretto e interessi assai poco. Non a caso l’unico obiettivo politico assegnato (quello che ha fatto titolo) è stato il raggiungimento del 51 per cento dei consensi. Un partito- trasporto sicuro verso palazzo Chigi, lo strumento certo per governare, il bis appunto di quel binomio Dc-paese coniugato fin dall’inizio da De Gasperi. Da domenica si archivia e si torna a palazzo...

Dopo Veltroni ci sono già due Pd

Rischia di saltare dopo l’abbandono del suo primo segretario e inventore, Walter Veltroni, il Partito democratico, principale forza politica di opposizione. Non sembra essere stata sufficiente la quasi unanimità che ha affidato la guida temporanea del partito a Dario Franceschini (operazione sembra non digeribilissima per i militanti) nel week end. E in Parlamento torna con forza sui principali temi la divisione originaria, da una parte gli esponenti della Margherita, dall’altra chi ha vissuto la storia comunista nei suoi vari travagli. C’è spaccatura banale sulle nomine Rai, più sostanziale in Senato a proposito del testamento biologico, dove si fa sentire su gran parte del Pd la pressione di Beppino Englaro. Già alla vigilia delle europee si era compreso quale fosse il tallone di Achille del nuovo partito voluto da Veltroni: in Europa non avrebbe avuto un gruppo politico di riferimento. Chi ha militato nei Ds avrebbe scelto il Pse, chi veniva dalla storia democristiana il Ppe, altri ancora avrebbero preferito l’adesione a gruppi liberaldemocratici o comunque si sarebbero sentiti senza patria e radici nel vecchio continente. Non era un tema banale, perché al di là degli slogan faceva emergere la costruzione più tecnica che politica della nuova forza politica, che al di là dei numeri e della omogeneità su alcuni punti programmatici non sembrava avere molto più in comune del vecchio Ulivo ideato da Romano Prodi (e oggi rilucidato all’occorrenza dal suo fondatore). Il testamento biologico è stata la prima prova affrontata dopo l’uscita di scena di Veltroni, e sta mettendo a nudo tutte le piaghe e le debolezze di quel partito. Cattolici da una parte, ex diessini dall’altra. La via di uscita sarebbe stata una sola, quella della libertà di coscienza. Ma un partito senza leadership e suonato da una serie impressionanti di sconfitte elettorali non ha avuto, non ha e forse non può avere la forza necessaria per procedere su questa strada, l’unica da cui potere uscire senza le ossa rotte. Si poteva dividersi con libertà fra Ignazio Marino e le decisioni della pattuglia cattolica di cui fa parte un leader come Francesco Rutelli. Così è avvenuto con la presentazione degli emendamenti. Ma un partito debole è prigioniero di qualsiasi suggestione. E la discesa in campo di Beppino Englaro ha spaventato quel che resta della leadership, che teme la popolarità nelle sue fila del padre di Eluana. Così si è percorsa la strada suicida di ordini di scuderia e di processi sommari ai dissenzienti (come Dorina Bianchi). Direzione che non fa che portare all’implosione... Franco Bechis

Il Pd è nato già vecchio, per questo non funziona

Perfino un novantenne come Oscar Luigi Scalfaro esposto al freddo di Roma come unica bandiera a disposizione per difendere la Costituzione. E' l'ultimo atto della vita politica di quello che avrebbe voluto essere un nuovo partito, il Partito Democratico, e che ormai sta franando anche nelle attese e nelle speranze degli elettori di centro sinistra. Mai nella storia di questi anni il centrosinistra aveva raccolto così poco consenso nelle urne come è accaduto nella primavera del 2008. Mai un leader di schieramento è stato sconfitto con tanta distanza come è accaduto al segretario del Pd in quella situazione. Una debacle senza precedenti che non può essere solo addossata alla incapacità del leader, che pure non ha brillato. Se va così male l'errore è proprio nel suo dna costituzionale. Non che dall'altra parte tutto brilli, e che il Pdl mai pensato e creato un po' come Eva dalla costola di Adamo-Silvio Berlusconi sia un partito vero. Ma provate a pensare se nel centrodestra a qualcuno un giorno fosse venuto in mente "ma sì, facciamo un nuovo partito. E per la guida scegliamo fra Arnaldo Forlani e Claudio Martelli (visto che non c'è più Bettino Craxi)". Che successo avrebbe avuto un Pdl guidato così? Beh, questo sta accadendo sul fronte opposto. In qualsiasi professione con 35 anni di contributi si può accedere alla pensione di vecchiaia. Walter Veltroni ha iniziato la sua carriera politica 33 anni fa: nel 1976 era già consigliere comunale a Roma. Massimo D'Alema era segretario della Fgci 34 anni fa, nel 1975. Entrambi sono deputati da 22 anni, dal 1987. Pensare che un nuovo partito si fa con due ex pci che da più di 30 anni lavorano in politica e che hanno già occupato il potere in ogni modo, è come mettere davvero alla guida di una nuova esperienza Craxi (o Martelli) e Forlani. Perché litigano D'Alema e Veltroni? Per idee diverse sul futuro della politica? Macchè, per cose di 30 anni fa accadute fra loro. Guerre di delfinato ancora nel vecchio pci, scontro per la segreteria del pds, battaglie per poltrone di governo di esecutivi già consegnati alla storia. Si può fare un nuovo partito, chiedere il voto a italiani che quando quei due litigavano ancora dovevano nascere o avevano il grembiulino a scuola, mettendo in primo piano due esponenti che nel resto del mondo si avvierebbero alla pensione? Come fa ad essere credibile un nuovo partito con una leadership così intrisa di una storia da cui dovrebbe liberarsi (quella comunista) e così gonfia di vecchi rancori personali? Che sa esprimere un partito così? Un novantenne sul predellino di una piazzetta ad eccitare gli animi? C'è bisogno ancora di alternanza in Italia, e comunque anche ora di una opposizione intelligente e creativa. Ma non ci sarà mai finchè ci si affida ai Craxi e Forlani di casa...

I giudici entrano nel tempio della massoneria

Accuse, colpi bassi, querele, carta bollata, guerra di cifre e insinuazioni. Come mai era accaduto sta avvenendo così la campagna elettorale per eleggere il nuovo Gran Maestro alla guida del Grande Oriente di Italia, il cuore della massoneria ufficiale italiana, con sede a palazzo Giustiniani. In ballo c’è il possibile e contestatissimo terzo rinnovo per l’attuale gran maestro, Gustavo Raffi. Eletto nel 1999, rieletto grazie a una modifica statutaria e rieleggibile ancora grazie a un codicillo che secondo i contendenti lui stesso si sarebbe fatto approvare. Gli sfidanti vanno giù duro, con toni che non hanno precedenti: denunce, accuse di interesse privato, perfino l’ipotesi di avere appaltato il Grande Oriente a un’agenzia viaggi di famiglia. L’uomo che oggi guida palazzo Giustiniani ha annusato l’aria per tempo e provato ad evitare una campagna elettorale come quella in corso facendo approvare in fretta e furia lo scorso autunno un codice etico che obbligasse tutti ad evitare- pena l’espulsione- colpi bassi e attacchi personali. Ma è stata proprio questa la mossa che ha iniziato a fare volare gli stracci. I dissidenti sono usciti allo scoperto, hanno impugnato il codice e- anche questa una novità- hanno messo in piazza tutti i panni sporchi aprendo un sito internet, www.grandeoriente-libero.com, che hanno riempito di accuse e documenti sulla gestione della principale loggia ufficiale della massoneria italiana. Non si va per il sottile, e sembra perfino peggio della più accesa campagna elettorale della politica italiana. Accuse a Raffi di essersi raddoppiato di imperio lo stipendio, portandolo a 130 mila euro all’anno. Accuse ancora più gravi sull’utilizzo della Tamarindo viaggi, tour operator della famiglia Raffi per la gestione e organizzazione logistica della riunione annuale della Gran Loggia in quel di Rimini (terra di Raffi, mentre prima le riunioni si svolgevano a Roma). Rabbia che monta fra i fratelli quando viene diffuso un documento in cui si confrontano i prezzi delle camere alberghiere ottenuti grazie alla convenzione della Tamarindo con i listini ufficiali del periodo degli stessi alberghi: e in effetti sono più cari di 15-20 euro a notte. Mai vista una cosa così dalle parti di palazzo Giustiniani. E sembra che la politica anche in questo caso abbia avuto un non piccolo peso. A scatenare maldicenze, colpi bassi e tutto il resto sarebbe stato infatti l’infelice outing di Raffi alla vigilia delle elezioni politiche: “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Non ha portato fortuna a Walter Veltroni. Forse nemmeno a Raffi

C'è la crisi? E a Bankitalia si magna...

Crisi o non crisi, la tavola sarà bandita. La Banca d’Italia sta per assegnare un maxi-appalto per la ristorazione di Mario Draghi e dei membri del direttorio, e dei dirigenti comprensivo della mensa interna per il personale. Valore 24,5 milioni di euro per un triennio, con prezzi da alta ristorazione. Settantasei euro a pasto per colazioni di lavoro e buffet di alta rappresentanza, 52 euro a testa per le colazioni di lavoro ordinarie, 42 euro a testa per quelle un po’ più leggere. Al top la scelta dei menù e dei vini che Bankitalia pretende indicando nel bando ogni esigenza, comprese le etichette delle case vitivinicole. Sorprese anche per la mensa dei dipendenti, che in tavola potranno festeggiare perfino il carnevale. Non che siano previsti grandi trattamenti di favore. Per una colazione di lavoro di alta rappresentanza per i 76 euro verrà dato un primo, un secondo, un contorno e un dolce. Prima o l’aperitivo o se il tempo stringe un antipasto seduti. Nel primo caso prosecco, tartine e scaglie di grana. Nel secondo capesante con aragosta in vinaigrette. Di primo nidi di crespelle con polpa di granchio, poi lamelle di spigola e mazzancolle in bellavista. Contorno a scelta fra patate al vapore e asparagi all’agro (si resta leggeri) e dolce di scaglie di millefoglie con cioccolato. Tutto annaffiato da Chardonay bianco Lison di Primaggiore. Nei 76 euro anche il caffè finale. Per il menù di lavoro ordinario a 52 euro capesante, riso ai funghi, spigola bollita, contorni di stagione e torta di frutta. Vino rigorosamente bianco, Vintage Tunina dello Jerman. Ma in questo caso nel prezzo sono comprese sigari e sigarette per la chiaccherata finale dopo il caffè e perfino una scelta dal carrello dei superalcolici. Più popolari i buffet a soli 42 euro a persona: aperitivo con Bellini o Rossini, tartine, crocchettine, spiedini di formaggi e salumi, frittini vari, pennette alla vodka, crespelle, salmone alla russa o filettini di pollo al curry, verdure marinate, frutta, mousse e semifreddi. Scelta fra vino bianco (Regaleali conte Tasca di Almerita) e Rosso (Santa Cristina Antinori). Vini, spumanti, coca cola e aranciata nei brunch (l’appalto regola anche quelli). E una miriade di menù di stagione e giornalieri anche per la mensa dipendenti, che avrà sorprese ogni vigilia di feste importanti. Compreso il periodo di Carnevale, in cui crisi o non crisi a chi lavora a palazzo Koch non verranno negate le tradizionali frappe (così si dicono a Roma, ma altrove bugie, cenci, galani, chiacchere...). La tavola di Banca d’Italia: un bel segnale contro il pessimismo generale...

Anche Obama nel mirino di pm "comunisti"

Fino alla vigilia di Natale si sono tentate tutte le carte per un rinvio dovuto a ragioni di Stato. Ma il procuratore distrettuale di New York, il giudice Victor Marrero, è stato irremovibile: si aprirà il 12 gennaio prossimo il processo che potrebbe creare più di un grattacapo alle più alte cariche del Partito democratico e gettare ombre anche sui finanziamenti elettorali del neopresidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Alla sbarra ci sarà infatti Norman Hsu, finanziere americano e industriale del ramo tessile di origine cinese, ma soprattutto raccoglitore di fondi illegali sia per Bill sia per Hillary Clinton e, la vicenda risale al 2005, perfino per lo staff di Obama. Hsu è stato arrestato un anno fa con accuse pesanti...Il finanziere di origine cinese è infatti stato una sorta di precursore di Bernard Madoff, anche se con lo stesso schema, il cosiddetto Ponzi, ha fatto sparire una somma dieci volte inferiore: 60 milioni di dollari contro i 50 miliardi che hanno mandato in tilt Wall Street e molte banche nel mondo. La truffa di Hsu è simile, ma le proporzioni non sono ancora chiare perché da nuove carte processuali che verranno esibite dal procuratore distrettuale potrebbero esserci altre somme coinvolte provenienti da fondi di investimento quotati. Con cifre diverse, se Madoff fra tremare la finanza, Norman Hsu può invece creare più di un grattacapo ai democratici. Perché quei soldi fatti sparire con abilità sono riapparsi in molti rendiconti elettorali di peso. La stessa Hilary Clinton ha dovuto restituire 850 mila dollari alle autorità americane, mettendole a disposizione dei creditori truffati da Hsu. E con quella cifra il finanziere era fra i primi singoli finanziatori delle primarie democratiche. Per questo dal processo si temono nuove rivelazioni e la possibilità che finanziamenti non restituiti avessero la stessa origine illegale, con più o meno coscienza di chi li ha ricevuti. Il dubbio nasce anche da una lettera inviata il 22 dicembre scorso dal difensore di Hsu, l'avocato Martin Cohen, al procuratore distrettuale di New York per chiedere il rinvio del processo per ragioni di opportunità politica e un esplicito riferimento agli imbarazzi che potrebbero nascere a soli otto giorni dall'insediamento ufficiale alla Casa Bianca di Obama. Il diniego del giudice in Italia verrebbe certamente interpretato come un atto di ostilità, l'ulteriore esempio di una giustizia ad orologeria. Non negli Stati Uniti, dove un processo non cambia le sorti della democrazia...

Berlusconi e la pay tv, una guerra lunga 18 anni che non finisce più

Rupert Murdoch e Sky Italia sono passati al contrattacco, inondando la tv a pagamento di spot interni contro l'aumento dal 10 al 20% dell'Iva sulla pay-tv. Anche in parlamento si stanno muovendo le prime lobbies per ribaltare la norma contenuta nel decreto legge del 28 novembre con le misure anti-crisi, e un partito intero, il Pd di Walter Veltroni, sta preparando gli emendamenti necessari. L'Iva di favore sulla tv a pagamento esiste in realtà dal 1991, quando fu ottenuta proprio da Berlusconi dall'allora ministro delle finanze Rino Formica. Nel 1995 fu innalzata dal 4 al 10% dal governo di Lamberto Dini (ministro delle finanze Augusto Fantozzi) e da allora è immutata... Il privilegio era stato chiesto da Berlusconi ben 17 anni fa perché serviva ad allargare il mercato degli abbonamenti per la sua Telepiù (successivamente venduta ai francesi di Vivendi-Canal plus). Quell'azione di lobbing per altro è costata all'attuale premier una delle tante vicissitudini giudiziarie, con l'accusa di corruzione di un funzionario delle Finanze per ottenere lo sconto. Processo che si è chiuso con l'assoluzione con formula dubitativa. Nel 1995 scoppiò una seconda guerra dell'Iva sulle televisioni a pagamento. Il governo decise di lasciare la tassa di favore solo per la tv pubblica, innalzando al dieci per cento quella per la tv commerciale. All'epoca protestò il centrodestra, mentre l'allora pds, antenato del pd, provò in ogni modo a fare salire l'Iva sulle pay tv al 19%, per colpire naturalmente Berlusconi. Su questa vicenda quindi sono scorsi negli anni fiumi di conflitto di interesse da una parte e dall'altra della barricata. Precedenti che avrebbero dovuto sconsigliare al governo attuale di riaprire un fronte così sensibile in un momento assai delicato. Da venerdì ad oggi il caso Sky è sembrato diventare più importante di quasi tutte le altre norme contenute nel decreto legge, che pure riguardano milioni di cittadini. L'Iva sulle pay tv in Francia è al 5,50%, in Gran Bretagna al 15%, in Spagna al 16%, in Germania al 19 per cento, in Austria al 10 per cento. Solo Islanda e Norvegia l'hanno sopra il 20 per cento. L'Europa va quindi in ordine sparso, e nessuna direttiva la regola (da anni si è fermi alla soglia minima del 5 per cento). Non era quindi un provvedimento particolarmente urgente, e le risorse che lo Stato recupera (270 milioni di euro a regime) non valevano la polemica di queste ore. Un passo indietro sarebbe atto di saggezza

De Gennaro imperatore dei servizi segreti

l prefetto Gianni De Gennaro ha chiesto al governo di Silvio Berlusconi poteri più stringenti per la guida dell'intelligence italiana in vista di una possibile recrudescenza dell'offensiva terroristica internazionale. Secondo il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza oggi è necessario un coordinamento centralizzato di tutte le attività di intelligence svolte non solo dai servizi segreti ma anche dai servizi interni alle forze che garantiscono l'ordine pubblico (polizia, carabinieri e guardia di finanza) per poter gestire a livello centralizzato la massa di informazioni in mano a ciascuno. Non ci sarebbe bisogno di modificare la riforma dei servizi appena entrata in vigore, ma di una interpretazione della norma... Sull'ipotesi avanzata dal prefetto che per lunghi anni ha guidato la polizia italiana si è già discusso nelle scorse settimane a palazzo Chigi durante una serie di incontri ufficiali fra De Gennaro e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Gianni Letta, che ha la delega sui servizi di sicurezza. In quei faccia a faccia sono per altro state concordate le prime nomine di vertice: Pasquale Piscitelli, che viene dal ministero dell'Interno, il generale della guardia di Finanza Cosimo Sasso (vice al Dis), un altro generale delle Fiamme Gialle, Paolo Poletti e il superpoliziotto Nicola Cavaliere (vicedirettori all'Aisi) e il carabiniere Michele Franz (vice all'Aise). Già con la scelta degli uomini, tutti provenienti dalle tre forze dell'ordine, sarà possibile un coordinamento di fatto delle attività segrete. Ma il direttore del Dis vorrebbe qualcosa in più che lo stesso Letta sembra disposto a concedere: un riferimento esplicito alla necessità di coordinamento all'interno di uno degli ultimi regolamenti attuativi della riforma dei servizi segreti che ancora mancano all'appello per dare piena operatività a una funzione ancora troppo burocratica. Se Letta sembra disposto, soprattutto dopo le ultime nomine cogestite in piena armonia a concedere a De Gennaro la guida sostanziale di tutta l'intelligence italiana, un po' più di maretta sembra esserci fra le forze politiche che sostengono il governo Berlusconi e anche all'interno dello stesso consiglio dei ministri dove qualche perplessità serpeggia fra le fila di An e della Lega. Ma la situazione internazionale, con i preoccupanti fatti di Mumbai, potrebbero aiutare le aspirazioni e le esigenze del direttore del Dis. Negli ultimi anni si sono ridotti gli stanziamenti per la sicurezza antiterrostica. Una struttura accentrata potrebbe risultare più efficace senza costi aggiuntivi...