Quel giudice ha buon cuore: fa uno sconto di 200 milioni a Berlusconi. Senza motivo

Ci sono almeno 26 pagine di troppo nelle 146 scritte dal giudice monocratico Raimondo Mesiano per condannare la Fininvest di Silvio Berlusconi a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 749 milioni di euro per avere perso la chance di nominare oltre a quello del L’Espresso anche il direttore di Panorama. Sono di troppo perché sono ripetute due volte. La prima quando si spiegano le richieste dell’Ingegnere. La seconda volta quando ascoltate le parti il giudice monocratico spiega che cosa ha deciso e perché lo ha fatto. La tesi di una parte è diventata sentenza. E’ qui il tallone di Achille principale di questo processo che ha portato fra mille polemiche al più grande risarcimento mai concesso da un tribunale italiano. E’ un po’ come se in un processo penale il tribunale facesse copia e incolla della requisitoria del pm trasformandola in sentenza. Certo, può accadere ed è accaduto, quando nelle aule di giustizia il diritto alla difesa, l’escussione di testi, le eccezioni, i fatti nuovi, i contesti, le controprove a nulla servono perché ci si è innamorati della tesi dell’accusa. In quei casi però se il pm chiede dieci anni di carcere, il tribunale dieci ne commina. Nel caso della sentenza per il risarcimento sul cosiddetto lodo Mondadori quel che non si capisce allora è proprio la pena finale. Il giudice Mesiano (che pure deve essere andato di fretta: in più pagine della sentenza sbaglia perfino il nome della casa editrice, chiamata “Mondatori”) non ne passa una agli avvocati della Fininvest. Spiega che la sentenza di corte d’appello che diede torto a De Benedetti costringendolo poi a trattare con Berlusconi la spartizione della grande Mondadori (aveva in pancia pure Espresso e Repubblica) fu solo effetto di corruzione del giudice che presiedeva un collegio, Vittorio Metta. Affermazione apodittica, che reinterpreta perfino il processo penale di cui manco si sono acquisite integralmente le carte. Corrotto il giudice, corrotta la sua sentenza che cassava il celebre lodo che avrebbe consegnato la Mondadori a De Benedetti. Ma se quel giudizio fu carta straccia- come sostiene il giudice Mesiano- perché mai concedere alla Cir solo il risarcimento per avere perso la chance di nominare insieme i direttori di Espresso, Repubblica, Panorama, Donna Moderna e tante altre testate di successo? Se la sentenza che ridiede la Mondadori a Berlusconi fu corrotta, bisognerebbe restituire tutto a De Benedetti senza tanti giri di parole. Invece Mesiano sceglie la strada della “chance” perduta dall’Ingegnere, che gli avvocati della Cir si erano immaginati solo nel caso le loro tesi principali fossero state rigettate (e non lo sono state). Detta in parole semplici: se quel giudice che diede ragione a Berlusconi non fosse stato corrotto da avvocati amici di Berlusconi, quante chance avrebbe avuto De Benedetti di vincere anche in appello e tenersi tutto? La risposta pratica ve la do io- ed è contenuta perfino nella sentenza-: nessuna. Eravamo ancora nella prima Repubblica. Comandavano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. E come riferisce lo stesso De Benedetti tutti e tre avevano fatto sapere ai due contendenti che Mondadori+Repubblica+Espresso a uno solo sarebbe stato impossibile. Avrebbero scritto una legge antitrust ad hoc per impedirlo. Ma il giudice Mesiano che anche questo ha letto nelle testimonianze processuali ha deciso del tutto a casaccio (non spiega perché) che De Benedetti avrebbe avuto l’80% delle chance di conquistare tutto. Così concede alla Fininvest uno sconto di circa 200 milioni di euro. Se De Benedetti avesse avuto il 100% delle chance il risarcimento sarebbe stato poco sotto il miliardo di euro, quel che secondo Mesiano vale la mancata conquista della Mondadori. Anche qui, valutazione del tutto a casaccio. Perché oggi l’intera Mondadori vale in borsa meno di quella cifra. E dentro ha cose che all’epoca non aveva: ad esempio la Silvio Berlusconi editore ( Chi, Sorrisi e Canzoni). Ci sono ipotesi giuridiche un po’ spinte nella sentenza. Come quella di giustificare il ritardo con cui De Benedetti si è accorto del danno subito chiedendone il risarcimento, paragonando il povero ingegnere a un malato di Aids che solo dopo anni si è accorto di essersi beccato il virus in seguito a trasfusione (pagina 57). O quando si spiega che l’assegnazione di quel caso non doveva essere al giudice Metta, perché questo aveva troppo potere come diceva un volantino dell’epoca di Magistratura democratica (fatto dato per certo ma non provato perché lo stesso giudice Mesiano ammette di non avere reperito più quel volantino). Voli grotteschi a parte la sentenza che accoglie in toto la tesi Cir pecca soprattutto di vuoto di memoria storica. Non si ricorda che azionisti della Amef e della Mondadori erano riuniti in un patto di sindacato comunicato al mercato e a tutti i piccoli azionisti. Che quel patto fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi ma anche i Merloni, i Rocca e Leonardo e Mimma Mondadori) e di tutti i piccoli azionisti Mondadori e Amef. Che presa la Mondadori violando il patto di sindacato Amef e gli accordi comunicati al mercato, De Benedetti la fuse con Repubblica ed Espresso, facendo pagare a tutti i soci – volenti o nolenti- della Mondadori- 410 miliardi di lire dell’epoca a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Anche quello potrebbe essere un danno patrimoniale subito dagli azionisti Mondadori dell’epoca. Si disse che i due – Scalfari e Carracciolo- avevano rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi vennero fuori carteggi segreti che regolavano assai diversamente la partita. Ed erano firmati da una parte dall’azionista del gruppo Espresso- Repubblica, Caracciolo, che vendeva. E dall’altra dall’acquirente: il nuovo presidente della Mondadori, Caracciolo. ( Da Libero- 7 ottobre 2009)

Ma che sciocchezza l'appello "io non userò lo scudo" firmato da Bersani e Franceschini

Domani metterò la mia firma sotto un bel manifesto impegnandomi a rifiutare fino alla fine dei miei giorni un parto cesareo. Che diamine! I figli devono nascere naturalmente. E se si soffre un po’ con il parto naturale, che importa a me? Sono un maschietto, non partorirò mai. Ecco, nella migliore delle ipotesi vale come la mia firma al manifesto anti-cesareo quella messa di gran carriera da Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino all’appello di un collega senatore del Pd “Non ci faremo scudo- Noi non utilizzeremo mai lo scudo fiscale”. Perché se non hanno in tutti questi anni tenuto all’estero i propri risparmi dando una fregatura al fisco italiano naturalmente non possono usare lo scudo fiscale, come io non potrei fare un parto cesareo. Se invece tutti loro sono evasori e all’improvviso hanno avuto un rigurgito di buona coscienza e sono disposti a rimpatriare i loro capitali pagando tutte le tasse, le more e le sanzioni dovute, giù il cappello. Ma non serve la firma a un appello. Sottoscrivano pubblicamente (davanti alle telecamere Rai, Paolo Garimberti e Sergio Zavoli obblighino anche il Tg1 di Augusto Minzolini ad essere presente) una liberatoria da concedere al direttore delle Agenzia delle Entrate. Franceschini, Bersani, Marino e tutti gli appellanti rinuncino all’anonimato concesso dallo scudo fiscale. Così se loro ne faranno uso, tutti i cittadini italiani sapranno che avranno predicato in un modo e razzolato in un altro. Finchè esiste l’anonimato siamo tutti buoni a dire “che schifo quello scudo fiscale, io non lo utilizzerò mai”. Tanto nessuno mai saprà se l’avremo usato o no. La proposta era stata lanciata da una firma di punta del Corrierone della Sera, Salvatore Bragantini, che da quelle colonne si era rivolto a governo e parlamentari con un appello “a tutti gli uomini pubblici: impegnatevi a non usare lo scudo”. Siccome nel Pd c’è un po’ di confusione e la sindrome di Stoccolma è sempre in agguato, presa la prima copia in edicola del Corriere, sono corsi tutti ad aderire all’appello senza pensare nemmeno un secondo a cosa volesse dire. “E se lo fa Antonio Di Pietro prima di noi?”.E così il senatore Pd Francesco Sanna è stato il primo a sottoscrivere, inviandolo al leader della sua corrente, Pierluigi Bersani. Scudo fiscale? Quello per cui abbiamo fatto una figuraccia con tutte quelle assenze in parlamento? Azz, firmo subito. E se Bersani firma, può essere da meno Franceschini? Naturalmente no. Due candidati su tre alla segreteria han firmato. Che fa Ignazio Marino? Tris. Firma pure lui. E già che c’è firma pure Pierferdinando Casini, che non si dica che l’Udc non fa opposizione a questo governo. Malati di appellite acuta, senza nemmeno capire in che groviglio si ficcavano, hanno firmato Enrico Letta, Marco Follini, Bruno Tabacci, Arturo Parisi, Vannino Chiti, Marianna Madia, Giorgio Tonini, Enzo Carra e decine di altri. Perfino l’Udc Mauro Libè, che fu uno degli assenti al voto finale sullo scudo fiscale. Possibile che decine di politici navigati non si rendano conto dell’assoluto non senso di un appello che dice “io non riporterò i miei soldi in Italia pagando una mini tassa”, se quei soldi fuori Italia non si sono tenuti frodando il fisco? Sembra impossibile, ma a parte il terrore per Di Pietro e per l’indignazione esplosa negli elettori del Pd per i comportamenti parlamentari dei loro rappresentanti, c’è forse un pizzico di cattiva coscienza in quella corsa alla firma inutile e addirittura controproducente. Perché la vicenda dello scudo fiscale ricorda molto da vicino quella di qualche anno fa del condono tombale di Giulio Tremonti. Anche allora le opposizioni insorsero, Ds e Margherita (poi divenuti Pd) usarono toni forti: “un favore fatto agli evasori e ai mafiosi”. Poi si scoprì che quelli che urlavano di più fecero il condono tombale. Lo utilizzarono le società editrici del Popolo e de l’Unità, le librerie Rinascita, quattro società dei Ds, gli Editori Riuniti (quelli che pubblicavano i libri di Marco Travaglio), perfino i Caaf Cgil del Lazio e della Basilicata. Quel condono che scandalizzava Romano Prodi fu utilizzato dalla Aquitania srl, società della moglie Flavia e dalla Sircana & partners del portavoce dell’Ulivo, Silvio Sircana. Lo fecero e alcuni di loro non pagarono nemmeno il poco dovuto. Si fecero rateizzare il condono, pagarono la prima rata e per le altre buonanotte al secchio. Quando oggi emerge che mancano in cassa ancora 5 miliardi di euro di vecchi condoni fiscali, ci sono anche loro. Quelli che si fanno belli con gli appelli e prendono tutti un po’ in giro.

C'è il regime, Eugenio e Pippo confinati alla prima di Baaria

Qualche sera fa due anziani signori, uno con la barba bianca- e per questo assai saggio- l’altro con un noto toupè che da lustri ferma l’inesorabile incedere del tempo si sono trovati in fondo a una sala cinematografica a Roma. Si sono guardati in faccia preoccupati e hanno sentenziato: “Siamo in un regime”. Uno dei due anziani signori era il fondatore di un giornale che è diventato ormai un partito: Eugenio Scalfari. L’altro era il volto del conduttore vivente più noto nella storia della tv pubblica italiana: Pippo Baudo. Il racconto di quella memorabile sera vissuta al confino di una prima cinematografica nell’anno secondo della terza presa del potere di Silvio Berlusconi, era la chicca – un po’ nascosta- dell’editoriale domenicale di Scalfari su Repubblica: “Sono stato all’anteprima di Baaria di Giuseppe Tornatore dedicata a Giorgio Napolitano. La sala era gremita e gli onori di casa li facevano i dirigenti di Medusa e di Mediaset com’era giusto che fosse perché il film l’hanno prodotto loro. E chi altri avrebbe potuto in Italia? Un film di sinistra senza ammiccamenti.Entrando ho visto al mio fianco Pippo Baudo. Mi ha detto: “C’è il regime al completo”. Era vero, ma quando il regime è costretto ad applaudire il talento culturale di chi gli si oppone, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo”. Il regime, già. E in effetti quella sera in sala oltre ai due anziani carbonari c’erano (secondo le cronache mondane) a parte il Capo dello Stato nelle prime fila: Massimo D’Alema con la moglie Linda Giuva, Fausto e Lella Bertinotti, Luca Cordero di Montenzemolo con la moglie Ludovica, Walter Veltroni, Nicola Zingaretti, Piero Marrazzo, Achille Occhetto, Bianca Berlinguer, Antonio Di Bella, Giuliano Ferrara, Clemente Mimun, Gianni Riotta, Ettore Bernabè… e poi sì, anche Gianni Letta e la sua signora Maddalena e Fedele Confalonieri. “C’è il regime al completo”. Detta così potrebbe sembrare una barzelletta. Ancora più divertente perché se la sono raccontata un signore come Scalfari che ha provato- spesso senza successo- per lustri a fare e disfare governi, vertici delle partecipazioni statali, accordi finanziari e industriali usando il gruppo editoriale che ha contribuito a fondare come un vero e improprio soggetto politico. E davanti a lui quel Baudo che per 47 anni ha occupato i teleschermi della tv di Stato (salvo qualche scorribanda- profumatamente pagata- sui teleschermi del Biscione), per 13 volte condotto il Festival di Sanremo, per anni ha dominato la domenica pomeriggio tv e ogni volta che gli dicevano “dai, Pippo, proviamo uno più giovane. Fai una pausa?”, la buttava in politica e urlava “sono arrivate le epurazioni, c’è la pulizia etnica”. Fa ridere vedere i due uomini che più hanno rappresentato il regime della stampa e della tv andare in ghingheri a una cerimonia di regime e dirsi appunto “ma qui c’è tutto il regime!”. Ma non fa ridere affatto, perché la questione è assai seria. E’ identica a quella tassa “Michele Santoro” che la tv di Stato e tutti i cittadini debbono pagare da venti anni. Lui occupa i teleschermi ogni anno, fa quel che vuole in barba a regole, editti, aziende, governi e il regime siamo noi che non possiamo sfuggirgli e pure siamo costretti a finanziarlo. Nove giornali su dieci pubblicano da decenni gli stessi pensieri, le stesse idee, difendono lo stesso identico diritto di espressione e se provi altrove a dire una cosa contraria- magari alzando la voce perché è difficile farsi sentire lì in mezzo- il regime sei tu. Il prossimo tre ottobre il sindacato unico dei giornalisti porterà in piazza i nove decimi delle testate giornalistiche e televisive italiane. Una grande manifestazione di libertà. Contro quell’altro decimo che naturalmente è “il regime”. Sì, il regime. Quello che fa buttare un libro di testo che non sia in linea con il 99 per cento degli altri adottati e imposti in scuole e università. E se qualcuno si alza in piedi e prova a dire “ma se rivedessimo i criteri dei libri di testo?”, eccolo il fascista, l’uomo del regime. Quello che soffoca il libero pensiero, così libero che ha impedito in un’università italiana perfino il diritto di parola a un Papa. Sì, c’è davvero un regime in Italia. Ed è quello che non solo non permette ad alcun altro diritto di parola. Ma che punta il suo dito contro te se provi con coraggio a prendertelo

Ma sì, mandiamo un vaffa alla Rai

Ma sì, mandiamolo questo vaffa alla Rai e al suo canone. Paolo Garimberti si indignerà, ma il modo per smettere legalmente di pagare il canone è spiegato perfino da lui sul sito ufficiale dell'azienda di viale Mazzini (http://www.abbonamenti.rai.it/Ordinari/IlCanoneOrdinari.aspx#DisdAbb) ed è un diritto di tutti i cittadini farlo. E credo sia giunto il momento per un segnale da inviare da più di una parte. C'è un caso Michele Santoro- Marco Travaglio, ma anche un caso Bruno Vespa, e di casi ormai ce ne sono a decine. Qui non è più questione di banale lottizzazione: in fondo quella in malo modo e con una forma per cui bisognava turarsi il naso, garantiva diritti di molti, quasi tutti. Rappresentava idee diverse, ma largamente diffuse. Ma oggi i veri partiti che hanno occupato la Rai non sono quelli palesemente rappresentati in Parlamento. L'informazione della tv di Stato e la sua programmazione di punta sono in mano al Partito dei magistrati, al Partito di Repubblica, al Partito di Mediaset e al Partito di questo o quel conduttore. Che cosa ha più di interesse pubblico una televisione così? Sì, è giunto il momento di dare davvero un segnale sul canone. Che faccia capire la lezione. La disdetta legale è un'arma politica finora poco utilizzata (ci ha pensato solo Beppe Grillo in passato), e che a parte i 5, 16 euro da versare per chiedere di sigillare il proprio televisore, comporta pochi disagi al cittadino che la fa: il giorno che mai davvero qualcuno venisse a mettere quei sigilli, basta andare a ripagare il canone per farseli togliere e tornare a guardare la tv come si vuole. Ma e qualche brivido freddo sarà corso sulla schiena dei tanti e tanti militanti e dirigenti e beneficiari del partitone Rai, magari l'andazzo attuale finirà. E allora mandiamolo questo vaffa alla Rai!

E due. Altro giallo a Malpensa sui titoli di Stato americani

L’operazione è avvenuta in gran segreto la settimana dopo Ferragosto. All’aeroporto di Malpensa la guardia di Finanza ha fermato due cittadini filippini sequestrando il loro bagaglio. E’ bastato aprire una sola valigia per sgranare gli occhi: al suo interno c’erano buoni del Tesoro Usa di due tagli, da un miliardo e da 500 milioni di dollari. In tutto 180 miliardi di dollari di controvalore, pari a poco meno di 123 miliardi di euro. Una somma stratosferica, pari a più di 6 leggi finanziarie italiane. Se i titoli fossero autentici e il loro utilizzo spregiudicato sarebbero in grado di terremotare i mercati finanziari internazionali e di mettere in ginocchio gli Stati Uniti di Barack Obama. I due cittadini filippini sono stati immediatamente arrestati su ordine del pm della procura di Busto Arsizio, Valentina Margio. E in carcere sono tutt’ora in attesa della perizia ufficiale dei titoli chiesta attraverso i canali diplomatici al governo Usa che ha inviato esperti della Fed e del Fbi. La Margio si è messa subito in contatto con i colleghi di Como, che il 3 giugno scorso avevano fermato su un treno diretto a Chiasso due cittadini giapponesi e un terzo orientale (pare vietnamita) in possesso di passaporto diplomatico. I tre avevano con sé titoli del Tesoro Usa del 1939 per un controvalore di 134,5 miliardi di dollari (pari a 91,2 miliardi di euro al cambio di ieri). Dieci erano Treasury notes da un miliardo l’uno, gli altri 124,5 miliardi erano costituiti da 249 Federal reserve notes da 500 milioni di dollari ciascuno. Anche in quel caso la Guardia di Finanza si era posta subito il tema dell’autenticità dei titoli. Secondo fonti ufficiose si è poi saputo qualche settimana dopo che una perizia americana ne avrebbe accertato la contraffazione. Ma su disposizione della procura di Como sia i due giapponesi che il misterioso terzo asiatico, fermati e identificati sono stati denunciati a piede libero. Non si poteva fare altrimenti per chi era in possesso di un passaporto diplomatico, si è scelto di non arrestare nemmeno i due giapponesi, forse anche dopo avere verificato l’identità di uno di loro: Tuneo Yamauchi, cognato dell’ex vicepresidente della Banca centrale giapponese, Toshiro Muto. La procura di Busto Arsizio a un primo esame sommario ha potuto accertare che i titoli sequestrati ai due filippini sono identici a quelli in mano alla procura di Como e sequestrati ai giapponesi. Oltre alle somme stratosferiche detenute c’è un altro parallelo fra le due vicende: i corrieri di quei miliardi non sono persone qualsiasi. Se uno dei due giapponesi aveva legami di alto livello con la Banca centrale di Tokyo, uno dei due filippini ha legami altrettanto stretti con un vescovo della Chiesa di Manila e nella documentazione sequestrata insieme ai titoli Usa ci sarebbe anche un lasciapassare a firma dell’alto prelato. Se i titoli fossero stati autentici in entrambi i casi l’Italia avrebbe risolto in un sol colpo i contraccolpi della crisi e i suoi problemi di finanza pubblica. Ai portatori verrebbe contestata la mancata dichiarazione valutaria e comminata una ammenda amministrativa pari al 40 per cento delle somme detenute: nelle casse del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti finirebbero così circa 86 miliardi di euro. Sette volte la cifra impegnata per tamponare la crisi 2009 finanziando la cassa integrazione allargata a tutte le imprese italiane. Se invece i titoli fossero davvero tutti falsi, resterebbe un giallo internazionale tutto da sciogliere. Cosa andavano a fare prima i giapponesi e poi i filippini in Svizzera con una quantità immensa di titoli del Tesoro americani contraffatti? Con quale banca o istituzione finanziaria avevano appuntamento e chi mai oltre confine sarebbe stato complice di una truffa di proporzioni così vaste? Quali complicità ad alto livello c’erano sia nei paesi di provenienza (vista l’identità dei fermati/arrestati) sia assai probabilmente a livello internazionale? E’ a queste domande che sta tentando di dare risposta sia la guardia di Finanza che il caparbio pubblico ministero di Busto Arsizio. franco.bechis@libero-news.eu

La libertà di stampa si difende scrivendo e stampando

Che eroe, che senso della responsabilità, che statista! Erano passate da poco le 12 e 25 di ieri quando Roberto Natale, segretario della Federazione nazionale della stampa (Fnsi) è entrato con aria severa nello studio di “Cominciamo bene”, la trasmissione condotta da Michele Mirabella e Arianna Ciampoli su Rai Tre. Dopo avere abbandonato con il cuore sanguinante il fedele blackberry con cui aveva terminato la ventesima intervista telefonica e da poco dettato un comunicato stampa, Natale ha annunciato finalmente dai teleschermi che la manifestazione in difesa della libertà di stampa è stata rinviata dopo la carneficina di Kabul. “L’attenzione degli italiani è concentrata da questi tragici fatti”, ha sentenziato il segretario del sindacato unico dei giornalisti. Applausi dal pubblico e incenso da parte di entrambi i conduttori, “anche noi non ce la saremmo sentita di manifestare. Saggia decisione”. Ero stato invitato anche io a dibattere di questa libertà messa a rischio da un paio di querele del premier e da quell’attentato che è sembrato spostare una puntata di Ballarò di un paio di giorni (Giovanni Floris è andato in onda ieri sera). E visto che c’ero ho pensato bene di prendermi subito qualche fischio: “Scusate, vi sembra eroica questa decisione? A me sembra che evitare una scampagnata e tornare in redazione a dare notizie in un momento così sia l’unico modo per difendere la libertà di stampa e di espressione”. Giù fischi e rimbrotto di Mirabella: “scampagnata?!!!”. Ma sì, il corteo era previsto nel cuore di Roma: non scampagnata, una stracittadina. Chi vive nella capitale ci è abituato: ce ne è uno ogni giorno. E per motivi ben più seri e gravi. Proprio ieri mattina sotto la redazione di Libero sono sfilati due mila lavoratori di quel che un tempo si chiamava Olivetti, la creatura di Carlo De Benedetti. Passati di mano in mano e di disastro in disastro, da qualche mese sono senza stipendio e ora vivono la minaccia di chiudere baracca e burattini. Campeggiava fra loro uno striscione “Traditi da Monte dei Paschi”, e quasi non se ne capacitavano: messi sulla strada dalla “banca rossa”, che ha revocato gli ultimi fidi. Cose serie, non i quattro maldipancia ad orologeria di noi giornalisti. Bisognava vederla quella trasmissione di Mirabella ieri. Lui e la Ciampoli a declamare in apertura di dibattito i toni gravi della lettera scritta a Giorgio Napolitano dai futuri (forse) manifestanti, poi a condurre il dibattito premettendo la preoccupazione per quel che era accaduto a Ballarò e per il nuovo clima di epurazioni che sarebbe stato preannunciato dal premier in carica. Via al filmato sulla dichiarazione di Silvio Berlusconi che dà dei “farabutti” ai giornalisti. Mirabella che chiosa: “io non mi sento farabutto. E lei?”. Ecco a voi Rai Tre, l’ultima isola della libertà di stampa in Italia. Due conduttori che fanno anche gli ospiti e si allineano alle tesi di uno dei due ospiti. Tre con la stessa idea espressa durante tutto il dibattito. E poi l’utile idiota- il sottoscritto- chiamato per par condicio a dire qualcosa di diverso. E’ questa l’idea di libertà di espressione che dovremmo difendere? Su quattro persone tre la pensavano allo stesso modo, il quarto no. E sapete cosa dicevano? Che bisogna sfilare in piazza contro il pensiero unico. Quello del quarto. Sembra una commedia dell’arte questa piece sulla libertà di stampa messa a rischio. Comica ma anche grottesca. Quindici giorni fa Roberto Benigni fece due comunicati stampa. Uno per rivelare la sua adesione all’appello di Repubblica e offrire la sua solidarietà contro il tentativo di intimidazione alla libera stampa rappresentato dalle cause civili e penali intentate al quotidiano di Ezio Mauro da Berlusconi. L’altro comunicato era rivolto a me. E annunciava l’intenzione di farmi causa civile e penale per un articolo secondo lui diffamatorio, in cui informavo sui conti e i problemi di alcune società controllate dal comico toscano e dalla di lui consorte, Nicoletta Braschi. Con la mano destra Benigni grondava di indignazione per le cause intimidatorie a Mauro e con la sinistra minacciava causa a un altro giornalista. Ma sì. Libertà per tutti! Di scrivere, condurre, pensare e perfino querelare. Querelino quanto vogliono, tanto poi in tribunale la verità viene quasi sempre fuori. Vero che chi comanda vorrebbe sempre essere adulato e incensato. Vero che le notizie fastidiose fanno andare di traverso il boccone a chi ne è protagonista. Vero che Berlusconi dà dei “farabutti” ai giornalisti e che prima di lui Massimo D’Alema aveva deliziato la categoria di complimenti come “iene dattilografe” o del più grazioso “canaglie” ricordato ieri dal direttore di Libero, Maurizio Belpietro. Dicano quel che vogliano, non mi sembra che in questi anni sia mancata libertà di scrivere e pubblicare. Chi vuole difende il mestiere di informare rovinando le suole delle scarpe nell’unico modo utile: alla ricerca di notizie. Vedrete che non saranno quelli a farsi la scampagnata o la stracittadina che dir si voglia in uno dei prossimi sabati, che auguro a tutti allietato dal sole delle celebri ottobrate romane.

Conservateci Berlusconi,che per noi sono soldoni

Non ci fosse Silvio Berlusconi, dovrebbero inventarselo. Perché magari il tipo non andrà giù a loro, che dell’antiberlusconismo hanno fatto una ragione di vita. Ma sicuramente i loro cari faranno il tifo per tenere il Cavaliere più a lungo in vita. Perché grazie ai dividendi di lunghi anni passati in trincea contro Berlusconi, è sicuramente cambiata in meglio la vita dei vari Beppe Grillo, Michele Santoro, Marco Travaglio, Serena Dandini, Fabio Fazio, Vauro Senesi, Nanni Moretti, Sabina Guzzanti. A guardare la crescita del tutto anticiclica dei loro contratti, dei loro 730 e perfino dei beni dichiarati al catasto, poche professioni sono così redditizie come quella dell’antiberlusconismo in servizio permanente ed effettivo. Chissà se privo della trama principale dei suoi saggi Marco Travaglio riuscirebbe a scalare la vetta delle classifiche e dei diritti d’autore facendo felici Editori Riuniti, Chiare Lettere e Garzanti. Chissà se Michele Santoro sarebbe riuscito comunque ad approdare nella sua amata Amalfi e conquistare il buen retiro sognato da una vita, come ha fatto il 26 giugno scorso acquistando il rustico isolato (6,5 vani), con annessi due agrumeti e un vigneto da sogno. E senza mettere Berlusconi al centro della sua satira, Sabina Guzzanti ce l’avrebbe fatta a sbarcare a Favignana e conquistare lì con l’aiuto di Banca nuova la terra e le mura per godersi il meritato risposo? Sono tutti più ricchi e famosi da quando il Cavaliere è in campo. Ecco come. Beppe GRILLO- Prima o seconda Repubblica, Grillo è fra i pochi a non dovere quasi tutto al politico da lui ribattezzato “psiconano”. Ma sulla breccia anche in quel campo non si resiste decenni ai massimi livelli. Berlusconi gli è servito per evitare il declino e restare sulla breccia cambiando abito e un po’ mestiere. Non ci sono dati ufficiali recentissimi, ma la sua dichiarazione dei redditi ha sfiorato i 5 milioni di euro. Guadagna con gli spettacoli e con il blog, oltre a qualche diritto di autore. Ha fatto la fortuna di uno studio grafico, il Casaleggio e associati, che gli cura il sito Internet e che ormai fattura circa 2 milioni di euro all’anno. Grillo ha una società immobiliare, la Gestimar, amministrata dal fratello. E direttamente o indirettamente ha la proprietà di 19 fabbricati e un terreno in tutta Italia: 10 a Genova, 4 a Olbia (Porto Cervo e Golfo Aranci), 3 in provincia di Livorno, due a Rimini e uno a Valtournanche, in Valle d’Aosta. Michele SANTORO- La sua principale entrata viene dalla Rai e dal contratto che gli ha rifirmato il direttore generale, Mauro Masi: circa 700 mila euro all’anno suddivisi fra stipendio base e conduzione delle varie puntate. Anche lui ha puntato i suoi risparmi sul mattone: risulta proprietario di tre fabbricati a Roma , di uno a Salerno, città natale, e di un fabbricato e tre terreni (due agrumeti e un vigneto) ad Amalfi, acquistati appunto all’inizio dell’estate durante le pause televisive Marco TRAVAGLIO- La sua ultima dichiarazione dei redditi ufficiale risale al 2005 ed era inferiore ai 300 mila euro annui. Oggi quella cifra la fa con i diritti di autore di un solo libro. Secondo l’ultimo bilancio ufficiale di una delle case editrici che lo pubblicano, Chiare Lettere, in gran parte si deve a Travaglio il monte.-diritti del 2008, circa 800 mila euro. Il suo successo spesso è diviso con altri colleghi che non sempre riescono a scalare le vette delle classifiche, come Pietro Gomez. Gestisce un blog (ma i ricavi lì sono pochini) e ora è diventato azionista del nuovo quotidiano Il Fatto. La sua partecipazione al programma di Santoro viene retribuita con un gettone da 1.700 euro a puntata per 35 puntate. Non è certo la sua attività più redditizia. Serena DANDINI- Conduttrice e autrice simbolo di Rai Tre, inventata da Angelo Guglielmi e difesa con le unghie da Paolo Ruffini, vale per la Rai 710 mila euro all’anno, un po’ più di Santoro: 300 mila come conduttrice e 410 mila come autrice. Ma se li guadagna: il compenso è legato a ben 118 puntate. I risparmi della coordinatrice della satira antiberlusconiana sono finiti anche qui nel mattone: La Dandini,dopo avere donato a figlia e marito una casa di famiglia, risulta intestataria di due fabbricati a Roma (uno acquistato da Nicola Caracciolo, fratello del compianto Carlo, editore di Repubblica e dell’Espresso) e di tre fabbricati e due terreni in provincia di Lecce, nel comune di Disio. Li ha acquistati nel 2007: imponente il rustico su cui ha fatto lavori di ampliamento (13 vani) e l’annesso ficheto. La Dandini ha anche una sua società di produzione, la Goa production, che nel 2008 ha fatturato 292.249 euro con un utile netto di 36.707 euro Sabina GUZZANTI- La figlia prediletta di Paolo Guzzanti non vive certo di quei mille euro a presenza che offre Santoro per le sue apparizioni tv spesso facendo la caricatura del cavaliere. Ma quei flash servono a Sabina per fare lievitare il fatturato della sua attività principale: spettacoli, libri, film. Anche la Guzzanti si è trasformata in imprenditrice e controlla la maggioranza assoluta del capitale della Sss produzioni srl dove la sigla sta per “secol superbo e sciocco”. Nel 2008 ha fatturato 266.840 euro con un utile di 45.114 euro. Anche per lei risparmi nel mattone: ha acquistato nell’isola di Favignana (famosa per il tonno) quattro fabbricati e quattro terreni, in parte ad uso pascolo e in parte seminativo. Nanni MORETTI- Dopo essere diventato ricco sui guai della sinistra (celebre il suo “D’Alema dì qualcosa di sinistra”), il regista ha fatto boom con il suo Caimano, il film che fa di Berlusconi una macchietta terribile. Una decina di milioni il risultato ottenuto dalle sue Sacher film e Sacher distribuzione grazie agli incassi al botteghino e ai diritti pay tv. Come tutta la squadra anti-berlusconiana investimenti sicuri nel mattone: 5 fabbricati a Roma, anche se in parte provenienti dall’asse ereditario. Fabio FAZIO- L’antiberlusconiano versione oratorio. Il più caro di tutti per la Rai, visto che il sujo contratto vale circa 2 milioni di euro all’anno. Un vero e proprio re del mercato immobiliare: ha 4 fabbricati a Milano, 5 fabbricati e 12 terreni in prov incia di Savona, fra Celle ligure e Albisola. E questo dopo avere venduto a Celle solo un anno fa una delle case di famiglia per 1,5 milioni di euro. franco.bechis@libero-news.eu

L’Ocse boccia Boeri, il cocco di De Benedetti

Il direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti, nonché fondatore del sito Internet più in voga tra gli economisti italiani, Tito Boeri, è stato bocciato dall’Ocse dove aveva presentato la sua candidatura al ruolo di economista capo. Il bocconiano più amato dall’ingegnere Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo Espresso, aveva infatti presentato le sue credenziali per la successione di Klaus Schmidt-Hebbel, il chief economist uscente dall’Ocse di doppia nazionalità, cileno-tedesca. Lunedì scorso Boeri si è presentato a Parigi per il colloquio di rito che ha sostenuto con i responsabili dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che già lo avevano avuto in forze nel passato come senior economist. Ma i titoli non sono stati ritenuti all’altezza dell’incarico che è di assoluto prestigio e che nel passato più recente è già stato ricoperto con successo da un economista italiano. Dal 1997 al 2002 è stato infatti capo economista dell’Ocse Ignazio Visco, attuale vicedirettore generale della Banca d’Italia (nessun tipo di parentela con l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco). Già all’indomani del colloquio a Boeri è stato comunicato che la candidatura sarebbe stata scartata e che sarebbero proseguiti i colloqui formali per trovare un degno successore di Schmidt-Hebbel, economista specializzato nella riforma delle pensioni. A Boeri mancava l’esperienza necessaria, anche se il curriculum inviato elencava prestigiose istituzioni internazionali in cui il bocconiano avrebbe lavorato in questi anni: dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale, dall’Ufficio internazionale del lavoro alla Commissione europea. Ma si è trattato di una esperienza assai limitata, perché come spiegato durante il colloquio di Parigi in tutti i casi si è trattato di occasionali consulenze. Il titolo principale di Boeri resta dunque la cattedra da professore ordinario alla Bocconi, perché non fa titolo all’estero avere organizzato numerosi convegni e dibattiti per l’editore di Repubblica dirigendo la fondazione intitolata al compianto padre. Né è particolarmente conosciuta nel giro delle istituzioni internazionali l’attività della Voce.info, che pure ha un suo seguito non trascurabile nella stampa italiana (anche perché citandone la fonte gli articoli sono riproducibili gratuitamente). Come non ha fatto impressione ai vertici dell’Ocse la serie di performance del bocconiano nei salotti tv, come la celebre apparizione da Serena Dandini che lo invitò a “ spiegare alle masse del ceto medio riflessivo gli insondabili misteri della crisi finanziaria”. A Boeri resta così oltre all’attività universitaria e a quella di organizzatore dei think thank di De Benedetti anche la doppia collaborazione editoriale come economista-polemista. Con la sua sola firma scrive su La Stampa di Torino e in coppia con un altro economista, Pietro Garibaldi, pubblica commenti periodici su Repubblica, il quotidiano diretto da Ezio Mauro. Qui con qualche imbarazzo in più: se Boeri è assai amato dall’Ingegnere, non è particolarmente apprezzato dal fondatore del quotidiano del gruppo, Eugenio Scalfari, che in qualche occasione ha anche polemizzato direttamente. Boeri è stato- suo malgrado nell’ultimo anno protagonista di due accese polemiche. Una - più politica- sui costi del referendum del giugno scorso e del suo mancato inserimento nell’election day. In quel caso Boeri insieme ai suoi ragazzi di bottega era semplicemente scivolato sulla calcolatrice sbagliando addizioni e moltiplicazioni e imputando al governo costi extra stratosferici di finanza pubblica (400 milioni di euro), poi rivelatisi del tutto infondati e corretti in corsa facendo nuovi errori di calcolo. Inciampato nella matematica, Boeri è scivolato anche sulla attività più classica (quella sì avrebbe fatto titolo all’Ocse): la previsione degli andamenti macroeconomici. L’economista bocconiano infatti è stato fra i primi a gettare acqua sul fuoco della crisi economica internazionale, sminuendone la portata. E nell’agosto 2007, sottolineando che “l’economia mondiale che continua a crescere a tassi molto sostenuti e con le banche centrali che hanno finora assolto al loro ruolo”, esortava: “non gettiamo oggi, come tante volte in passato, i semi della crisi futura con una reazione eccessiva alla crisi corrente”. Semmai, scrisse in quell’occasione, la colpa di quel che stava già avvenendo sui mercati era “un insieme di cattiva informazione, inesperienza finanziaria e miopia dei consumatori/investitori che si sono lasciati attrarre dalla prospettiva di ottenere mutui a tassi mai visti prima”. Proprio grazie a perle come queste e in assoluta buona compagnia (quella di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina) Boeri è diventato suo malgrado protagonista di un recente saggio scritto con successo da Marco Cobianchi, dal titolo più che esaustivo “Bluff – Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente”. Forse all’Ocse più che il curriculum avevano prestato attenzione a quel saggio… franco.bechis@libero-news.eu

Berlusconi che piange per l'informazione che lo distorce è uguale a chi scende in piazza contro il suo regime

Dopo che il consueto caravanserraglio di comici, intellettuali, giornalisti e politici senza altro palcoscenico hanno annunciato la solita manifestazione per la libertà di stampa messa rischio, Silvio Berlusconi prova a recitare la stessa parte dei suoi accusatori, con un piagnisteo non proprio nuovo di zecca sulla «povera Italia, con un sistema informativo come questo». Il premier ieri ce l’aveva con qualche virgolettato attribuitogli a tradimento da un paio di quotidiani sulla sua intenzione (negata) di fare fuori i vertici dei servizi segreti. Si è tirato naturalmente fuori dal caso di Dino Boffo: «fino a qualche giorno fa non sapevo nemmeno chi fosse» e si è indignato per chi ha sospettato la sua regia dietro la campagna di Vittorio Feltri... Il Berlusconi proprietario di Mediaset, temporaneamente azionista politico di riferimento della Rai, proprietario diretto o indiretto di Mondadori e Giornale che si atteggia a vittima del sistema informativo e il gruppone di quelli che dipingono il Berlusconi- capo del regime che soffoca la libertà di stampa sono due facce della stessa moneta. Merce falsa, buona per una politica che altro non sa dire e ormai fuori corso. Non è un vizio solo italiano. L’altra sera ho partecipato su Sky tg24 a un dibattito sul caso Boffo dove c’era un giornalista inglese che recitava la solita litania dell’Italietta che con i suoi giornali guarda dal buco della serratura, violenta la vita privata e la privacy dei cittadini e porta in prima pagina temi insulsi come le tendenze sessuali di tizio o caio. Pensavo di non avere capito bene, ma il collega parlava un ottimo italiano. E allora non ci ho visto più: chi deve dare lezioni ai giornali italiani? La stampa inglese? Quella che ha vivisezionato ogni pelo della famiglia reale? Quella che ha sbattuto le relazioni gay dei propri ministri costringendoli alle dimissioni? Beh, il mondo è fatto così. Lo stesso collega si diceva scandalizzato dell’ammissione di Berlusconi di avere rapporti quotidiani con il Vaticano: “ingerenza clamorosa della Chiesa nello Stato”. Per fortuna con me c’era Sandro Magister che in stile molto british ha osservato: “hai ragione, In Gran Bretagna questo scandalo non accade: la Regina è capo della Chiesa anglicana...”. Quella sulla libertà di stampa è una commedia. L’Italia non corre rischi: è un paese libero ed esercita questa libertà, piaccia o no. A decidere siete voi lettori ogni giorno in edicola o davanti alla tv.Ps. Questo è l’ultimo dialogo fra noi. Cambio lavoro. Ho ringraziato in privato editore e colleghi. Ma il grazie più di cuore è a voi lettori. Che siete e sarete sempre la forza più grande di Italia Oggi. Franco Bechis

Madre e figlia Agnelli faccia a faccia davanti al fisco italiano

Entro il 28 settembre sia Marella Agnelli che la figlia Margherita in lite per l’eredità dovranno comparire davanti all’Agenzia delle Entrate per rispondere alle prime domande del fisco sul presunto tesoretto da due miliardi di euro con cui oltreconfine si sarebbe distribuito parte del patrimonio dell’Avvocato. Non è quindi più solo un fascicolo quello aperto dal direttore dell’Agenzia, Attilio Befera, ma un formale invito al contraddittorio che è stato notificato ad entrambe le parti in lite il 28 agosto scorso: direttamente a Margherita, che ha residenza fiscale in Italia, e allo studio legale che assiste Marella, che ha residenza fiscale in Svizzera. Con quell’atto si sospende ogni prescrizione. La vicenda che infatti ha suscitato tanto clamore questa estate (l’accusa di Margherita e dei suoi legali di sottrazione di parte dell’asse ereditario per un valore di due miliardi di euro) sarebbe infatti caduta in prescrizione entro il 31 dicembre di quest’anno. L’invito al contraddittorio- che è un invito a comparire per le prime spiegazioni entro un mese dal ricevimento- è il primo atto formale che sospende quella prescrizione. E ha un valore non solo sostanziale di un certo peso. La stessa famiglia Agnelli, secondo fonti accreditate, aveva pensato che l’annunciata apertura di un fascicolo sulla base di ritagli di stampa fosse più che altro un atto di grande evidenza mediatica che con il suo clamore sarebbe stato utile al governo italiano per mettere le ali al rimpatrio dei capitali con lo scudo fiscale che partirà il prossimo 15 settembre. Qualche consulente aveva addirittura immaginato di potere utilizzare proprio quel provvedimento per regolarizzare eventuali poste contestabili da parte delle Agenzia delle Entrate italiana. La formalizzazione del procedimento sottrae invece qualsiasi somma alla possibilità del rimpatrio: quindi ogni deposito legato a quella eredità al di fuori dei confini italiani dovrà restare dove si trova in attesa delle indagini degli 007 fiscali di Giulio Tremonti. E l’indagine a questo punto ci sarà, partendo anche dalla documentazione che potrà essere portata nel contraddittorio dai consulenti di Marella e Margherita. Nell’occasione si verificherà anche l’effettiva residenza svizzera di Marella, chiedendo spiegazioni su quel documento dello studio di commercialisti torinesi Ferrero in cui si sconsigliava di tenere la proprietà dei cani husky e di assumere i domestici proprio per evitare contestazioni sul punto. Il braccio di ferro fisco-Agnelli è dunque iniziato. Franco Bechis