Fini vissuto da vicino. 4/ E un giovane Gianfranco si innamorò di Follieri


Al ministero degli Esteri. A Palazzo Chigi, dove era vicepresidente del Consiglio. E ancora in via della Scrofa, dove era tornato preparandosi a una lunga opposizione. Era sempre aperta la porta di Gianfranco Fini per il vecchio amico Giorgio Moschetti, detto Giò il Biondo, l’ex numero due della dc andreottiana a Roma ai tempi di Vittorio Sbardella che aveva sempre aiutato quel leader rampante del Movimento sociale. Da vecchi amici passavano ore a chiacchierare delle vicende politiche in corso. Ma non si trattava sempre di quattro parole davanti al caminetto. Moschetti ha assistito in presa diretta a svolte politiche, a soluzioni di problemi interni, talvolta ha dato una mano nell’organizzare campagne elettorali o nel riattivare una rete di rapporti che mai era venuta meno per risolvere a Fini questo o quel problema. Quando Moschetti a fine novembre 2009 ha inviato al presidente della Camera una mail che lui stesso avrebbe definito agli amici “bruttissima”, sperando di essere ricevuto, ha elencato cinque episodi di quegli anni. Tre riguardavano personalmente Fini e la soluzione di problemi della vecchia e nuova famiglia. Due la soluzione di problemi del partito. Senza avere in mano quel testo di posta elettronica è difficile individuare quei cinque capitoli. Ma da giorni sondando i testimoni di quel lungo rapporto a Roma emergono episodi dei quella curiosa unione politica. Ed episodi a loro raccontati dalla viva voce dei protagonisti che potrebbero costituire la trama di quei cinque titoli. Cinque titoli che hanno destato subito l’attenzione del presidente della Camera dei deputati, che il 7 dicembre scorso concesse l’agognato appuntamento a Moschetti nel suo ufficio a Montecitorio.
Chissà se in quell’elenco appare anche un piccolo romanzo che si è concluso non nel migliore dei modi nei primi mesi del 2008. Quello dell’infatuazione che Fini provò per un giovane finanziere italiano da qualche anno emigrato negli Stati Uniti e destinato a una fortuna tanto rapida quanto lo sarebbero state le sue disavventure. Il giovane rampante si chiama Raffaello Follieri. Oggi sta scontando una condanna a 4 anno e mezzo di carcere negli Stati Uniti. Ma per qualche anno è stato uomo-copertina di molti magazine del mondo. Un po’ per le sue fortune finanziarie (che si sarebbero rivelate tarocche), un po’ per la storia sentimentale che lo legò all’attrice Anne Hathaway, deliziosa protagonista de “Il diavolo veste Prada”. Negli States Follieri aveva messo in piedi un piccolo gruppo finanziario, specializzato nel comprare e rivendere gli immobili delle diocesi colpite dallo scandalo pedofilia. Aveva preso come consulente Andrea Sodano, nipote dell’allora segretario di Stato Vaticano, e così aveva accreditato un suo rapporto stretto con la Santa Sede. Più tardi si sarebbe scoperto anche un altro millantato credito: Follieri aveva sostenuto di essere il fiduciario degli affari finanziari del Vaticano negli Stati Uniti,e così aveva abbindolato banche, finanzieri e perfino Bill Clinton. Per reggere la parte aveva naturalmente bisogno di venire di tanto in tanto in Italia, a Roma, a discutere con  i suoi “superiori”. In Vaticano passava un assegno mensile a un impiegato di una congregazione della Santa Sede, Antonio Mainiero detto Tony, che gli apriva fuori orario Musei Vaticani e giardini del palazzo consentendo di mostrare ad attoniti ospiti tutta l’influenza di Follieri. Nei viaggi romani il rampante finanziere è riuscito a fare il giro di qualche salotto. Gira che ti gira, chissà come ha incontrato anche Francesco Proietti Cosimi, detto Checchino. Allora era il principale assistente di Fini, che poi lo scaricò quando insieme ad altri esponenti di An fu intercettato dal pm di Potenza John Woodcock nella cosiddetta inchiesta su “Vallettopoli”. Poi il rapporto fra i due si è in parte ricucito, Checchino è stato ricandidato da Fini nel 2008, è diventato senatore e ha ripagato il suo leader seguendolo ora nella scissione dei gruppi di Futuro e Libertà.
Fu Proietti Cosimi quindi a portare il rampante Follieri a Fini, cui il giovane risultò subito assai simpatico e interessante. Follieri provò a fare fruttare rete di conoscenze e rapporti trovati nella capitale. Aprì una società lussemburghese con il suo nome, con quella sottoscrisse il capitale di una finanziaria italiana basata a Roma e vi mise il fidato Mainiero ad amministrarla. Era una immobiliare, e con Checchino pensò bene di cogliere al volo le eventuali occasioni che si sarebbero presentate con le dismissioni del mattone da parte di alcuni grandi gruppi pubblici. Fu durante una delle tante visite di Moschetti a palazzo che Fini confessò l’entusiasmo per quella nuova conoscenza, un ragazzo sveglio, bravo a fare affari, introdotto perfino nella politica internazionale. Un italiano all’estero che ce l’aveva finalmente fatta ed era pieno di miliardi. Disse che Checchino stava pensando a una joint venture con Follieri, coinvolgendo anche alcuni parenti di Fini specializzati in ristrutturazioni immobiliari. Parenti acquisiti, perché il legame di sangue era con la prima moglie, Daniela Di Sotto. “So che Massimo Sarmi alle Poste sta preparando un piano di dismissioni immobiliari”, disse il presidente di Alleanza Nazionale, facendo capire all’interlocutore che avrebbe favorito un incontro fra Poste e Follieri group. Moschetti non seppe poi a quale livello l’incontro ci fosse stato. Ma intuì che Sarmi, persona assai cortese, ma anche assai ferrata nella matematica, capì che due più due fa quattro, ma Follieri+Poste non sarebbe stata una buona operazione. Scelta assai lungimirante, visto il decorso delle vicende. Sfumato l’affare non vennero meno i rapporti di cortesia. Chissà se rafforzati nel frattempo dall’evolversi delle vicende sentimentali del futuro presidente della Camera. Negli Stati Uniti infatti Follieri cementò un rapporto con Frank Stella e la sua National Italian American Foundation (Niaf). Tanto che la fondazione principe degli italo-americani assegnò al giovane Follieri un ambito riconoscimento pubblico festeggiandolo insieme a George Bush padre. Stella, come è emerso in questi giorni, era anche il referente americano della Wind Rose International, società immobiliare fondata da Sergio, Giancarlo ed Elisabetta Tulliani e che ha sede a Roma al piano terra della palazzina dove è andato a vivere dal 2007 Fini. Se con le Poste l’affare sfumò, la finanziaria di Follieri almeno un immobile riuscì a comprare nel centro di Roma, a due passi da Trinità dei Monti. Ed è una fortuna per i creditori, visto che tutto è finito a gambe all’aria, compreso il tentativo di liquidazione di papà Pasquale dopo l’arresto americano del figlio, e la finanziaria romana è fallita nel febbraio di questo 2010.
Di politica parlava quindi Fini nei suoi incontri con Moschetti. Ma anche di affari, che sembravano sempre stare a cuore al futuro presidente della Camera. Affari nazionali e internazionali. E affari di famiglia. Della vecchia e della nuova famiglia…

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Fini vissuto da vicino. 3/Quella mano chiesta per la pubblicità degli amici

Eccola lì, la foto che stava in un angolo della scrivania di Giorgio Moschetti nell’ufficio dove Gianfranco Fini andava a trovarlo nel lontano 1993 cercando dal segretario amministrativo dell’ex dc romana prima una spinta e poi un aiuto per la corsa alle elezioni di sindaco di Roma contro Francesco Rutelli. Chissà se scappò a Fini l’occhio su quella foto che ritraeva l’ultimo sindaco di Roma della dc andreottiana, Pietro Giubilo, con il suo addetto stampa dell’epoca e un ragazzo di una tv romana che sbucava alle spalle. Era Andrea Ronchi, futuro portavoce di An, futuro ministro, protagonista ancora in erba di quella che sarebbe diventata la scissione di Futuro e Libertà nella destra italiana. Fini vide la foto sicuramente il 18 ottobre 1993, quando tornò da Moschetti dopo essere già sceso in campo a lamentarsi di non essere preso sul serio dall’establishment dell’epoca. L’allora numero uno del Movimento sociale era deluso perché a una puntata su Canale 5 del Maurizio Costanzo show erano stati invitati tutti gli aspiranti sindaci della capitale, meno Fini. C’era bisogno di qualche appoggio in più, altrimenti la candidatura rischiava di essere un buco nell’acqua. Sarà stato per la foto trovata sulla scrivania, ma fra tante cose quel giorno i due parlarono anche di Ronchi. Moschetti lo conosceva da tempo, sia come giornalista sia perché aveva una società di pubbliche relazioni insieme alla moglie Simonetta con cui ogni tanto cercava di prendere qualche lavoro nella Roma andreottiana, in Comune o nelle società municipalizzate. Fini non poteva sapere che tutti quegli incontri con Moschetti venivano registrati da una microspia piazzata nell’ufficio da un organo di polizia giudiziaria. Non lo sapeva nessuno dei protagonisti, naturalmente, finchè un collaboratore di Moschetti (che all’epoca era senatore) non la individuò e con una certa ingenuità il segretario amministrativo dell’ex dc la portò al primo commissariato di Roma centro sporgendo regolare denuncia. Molti, molti anni dopo- chissà come- quelle registrazioni che non poterono essere utilizzate nei procedimenti tornarono miracolosamente in mano al registrato che certo le ha ascoltate con amara curiosità e chissà se dopo se ne sarà disfatto. Una cosa era sicura: in quei frammenti audio c’era materiale per riscrivere la storia in modo assai diverso di quanto non abbiano consegnato le cronache. Ci sono anche tutti i particolari di quel finanziamento di 1,3 miliardi di lire dell’epoca (ad essere precisi un miliardo e 350 milioni di lire) pensato per la campagna elettorale del prefetto scelto dalla ex dc, che con Mino Martinazzoli si era trasformata in partito popolare, e che invece prese la direzione del movimento sociale, ad aiutare la scalata di Fini ai vertici della politica nazionale. C’è anche il colloquio di Moschetti con due imprenditori romani, vecchie conoscenze del senatore dc, che erano pronti a puntare le loro risorse economiche sulla campagna elettorale popolare. Trovarono dall’interlocutore una risposta che li sorprese, e fece capire loro che il mondo stava proprio cambiando: “Sul Ppi? Buttate via i vostri soldi. E’ Fini quello su cui puntare”.
Favore non da poco ricevuto dagli eredi di Andreotti giunti al loro capolinea politico. E un po’ di riconoscenza Fini ebbe. Ascoltando le raccomandazioni su quel giornalista-pubblicitario, Ronchi, che presto gli sarebbe stato assai utile. Fu Moschetti a parlargliene assai prima di Gaetano Rebecchini. E fu una fortuna perché negli anni Ronchi si sarebbe rivelato per Fini una risorsa fondamentale. Messo un po’ da parte fra il 1994 e il 1996, fu Fini a parlare a Moschetti di Ronchi poco prima delle elezioni di quell’anno. Quando stava per lasciare il governo di Lamberto Dini fu fatto un tentativo in extremis di esecutivo ad ampio spettro costituzionale, affidato alla regia di Antonio Maccanico. Il governo era quasi fatto. Ma all’ultimo lo fece saltare Fini. Così lo raccontò Maccanico agli amici: “ Sono tornato a casa in via della Scrofa e ho incontrato Fini sulle scale, che mi ha detto di averci ripensato. Non si fa”. Quel giorno in via della Scrofa arrivò il vecchio amico e confidente Moschetti. Chiese a Fini il perché di quel no. Lui gli rispose:  “Vogliono fare un governo solo di massoni”. Moschetti scherzando disse: “ma se ci sono anche esponenti vicini all’Opus Dei!”. Fini rispose: “Perché, l’Opus Dei non è massoneria?”. Fu quel giorno che l’ormai presidente di Alleanza nazionale confessò all’amico ex senatore dc di avere dei problemi da sistemare su una partita di immobili, senza specificare se si trattava di mattoni del partito o di famiglia. Ma disse che stava dandogli una mano proprio Ronchi, attraverso alcune società estere da lui conosciute per la sua attività professionale. C’era sempre bisogno di una mano, dalle parti di via della Scrofa. Moschetti aveva ancora tante relazioni utili dopo avere militato ai massimi livelli nella dc capitolina per tanti lustri, fino a diventarne il quasi leader- sia pure senza fare ombra a Vittorio Sbardella. Di una mano aveva bisogno Fini sugli immobili, di una mano aveva bisogno Ronchi per le attività professionali che erano ormai a largo raggio. Si occupava di pubbliche relazioni e di campagne pubblicitarie attraverso la Apr pubblicità e marketing, che negli anni avrebbe conquistato cuore e portafoglio delle società pubbliche: Poste, Eni, Enel e così via. Ronchi insieme alla moglie Simonetta Sechi ed altri soci possedeva anche altre società meno note, ma assai attive a Roma, come la Baam srl e la Olifer srl (gestì per un certo periodo il Jazz caffè, poi gli affari andarono peggio e fallì quando Ronchi se ne era già disfatto). Con il giovane rampante politico di An destinato a scalare tutti i gradini del successo politico si imbarcò all’epoca un altro personaggio cresciuto all’ombra di Fini negli anni. Si chiama Ferruccio Ferranti, oggi è amministratore delegato del Poligrafico dello Stato. E’ stato anche amministratore di Sviluppo Italia e prima ancora amministratore della Consip, la società che centralizza gli acquisti per conto dello Stato. Una carriera rapidissima sotto l’ombra di Fini. E non è un caso se Ferranti nel tempo libero oggi riesce a sedere anche nel consiglio della Fondazione Fare Futuro, il pensatoio da cui è partita la prima secessione finiana. Ma all’epoca dei secondi anni Novanta, quando Fini chiedeva di tanto in tanto “una mano” a Moschetti, la folgorante carriera di Ferranti era ai nastri di partenza. Era più noto per essere il marito di Piera Salabè, figlia di Adolfo, l’architetto del Sisde e dei misteri di Oscar Luigi Scalfaro alla fine della Prima Repubblica, e il socio di Ronchi nelle agenzie di pr e pubblicità a caccia di commesse pubbliche. Sarà stato Moschetti, sarà stato il potere di Fini e del suo partito, ma arrivarono uno dopo l’altro gli agognati contratti prima dalle imprese pubbliche capitoline e poi dai grandi gruppi pubblici nazionali. I fatturati aumentarono anno dopo anno. E quel ragazzino che il numero due della dc romana fece vedere in foto a Fini in quel lontano 1993 sarebbe diventato l’ombra del leader. Pronto a concentrare nelle sue mani nel 2005 tutto il potere dei colonnelli e ora a diventare il gran ciambellano della secessione di Futuro e Libertà. Una scalata lunga anni. In cui mai Fini e Moschetti si sono persi di vista. Dai lunghi colloqui del 2004, alla vigilia della decapitazione di Giulio Tremonti per un incidente su Sviluppo Italia. A quelli di qualche anno più tardi, quando la strada di Moschetti ha incrociato quella della nuova famiglia di Fini. Trovando sulla sua strada Sergio Tulliani e uno strano progetto industriale che aveva immaginato per l’Acea…


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Due parole sullo scandalo per Gianfranco Fini



Debbo due parole a chi, sul mio blog o nei profili di Facebook, protesta con più o meno garbo per l'eccesso di informazioni su Gianfranco Fini. Non ho mai avuto dubbi in vita mia sulla legittimità delle indagini giornalistiche a proposito di chiunque chieda la fiducia degli elettori e ricopra incarichi elettivi, di governo o istituzionali a qualsiasi livello. Nessuno di loro ha diritto alla privacy, come nessuno dei suoi familiari. Posso capire che per loro sia antipatico, ma non comprendo come gli eletti non considerino per primi un dovere assoluto la trasparenza anche sulla attività della propria famiglia. Questa regola valeva per Silvio Berlusconi (e io per primo ho raccontato fin dal 1994 tutto quel che riuscivo a sapere su beni, attività e patrimoni di Veronica Lario e dei figli di Berlusconi). Valeva per Romano Prodi, per Fausto Bertinotti, per Pierferdinando Casini, per Marco Follini, per Massimo D'Alema e per i loro familiari di cui ho sempre raccontato nei giornali su cui ho scritto attività, patrimoni, avventure. Posso capire che per loro sia fastidioso (avrei la stessa reazione), ma è una delle regole della democrazia, una pena del contrappasso del potere. C'è chi l'ha capito e per primo ha cercato trasparenza in questi anni. E' un piccolo passo, ma gran parte dei deputati e dei senatori eletti hanno messo a disposizione del pubblico la situazione patrimoniale e reddituale propria e dei propri familiari. Fini, pure essendo diventato presidente della Camera, non ha reso pubblico nulla su Elisabetta Tulliani. E già questo è un motivo naturale di maggiore curiosità. E' stato grazie a sacrosanti servizi giornalistici che è potuto emergere il motivo reale di quella scarsa trasparenza: patrimoni e affari di famiglia nascondono grandi dubbi e operazioni poco trasparenti se non imbarazzanti. Ad oggi il presidente della Camera ha preferito l'imbarazzo e la nebbia a una semplice spiegazione. Quando si vende un immobile, si tratta con qualcuno e si sa chi compra. Quindi sarebbe bastata una semplice risposta. Altrimenti tutti i dubbi sono leciti e si alimentano di questa poca chiarezza. Chi si cela dietro la società proprietaria dell'immobile di Montecarlo, la Timara ltd? Quella sigla non vuole per caso dire "Tulliani immobiliare a responsabilità anonima?" o qualcosa di simile? Dubbio giustificato dal fatto che Gincarlo Tulliani fondò una società per lavorare con la Rai e la chiamò Giant enterteinment. E Giant significava "Giancarlo Tulliani". Piccola cosa? Può essere. Ma a ingigantirla è stata la scelta di fuggire quella risposta. Più si fugge, più si alimentano dubbi e ombre. 
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con le scelte politiche di Fini. E' legittimo che lui non sopporti più Silvio Berlusconi, è legittimo che sia stato deluso dal Pdl e pensi a una nuova strada politica, anche a farsi un partito nuovo. Avendo chiesto i voti per una strada che non condivide più, io credo che sarebbe giusto anche rivolgersi agli elettori e farsi confermare dal voto la nuova scelta. Ma non c'è nulla di scandaloso nel cambiare idea, ci sarà chi condivide e chi no come in ogni atto. Non c'è dubbio però che Fini si sia messo così, in modo evidente, al centro della politica italiana. E quando uno lo fa, non può lamentarsi dell'eccesso di attenzione nei suoi confronti. E' chiaro che interessa di più quel che fa lui piuttosto di un altro. E' al centro dell'attenzione e quel che dice viene vagliato e pesato più di altro. Ha scelto anche dei temi politici per il suo divorzio. Il primo è stato quello della legalità. Non stupisca che proprio quello venga verificato più di altri. In una democrazia sana quello dovrebbero fare i giornali. Anche Antonio Di Pietro ha scelto quella bandiera, il cuore della sua attività politica. E così la libera stampa gliene ha chiesto le ragioni più che ad altri. Una persecuzione? No, è questo il ruolo naturale della stampa. Se Berlusconi dice "io sono alla guida del partito che ha abbassato le tasse" e questo non è vero, i giornali si riempiranno di servizi su questa o quella tassa alzata, altro che abbassata. Avviene sempre così. E certo Berlusconi e Prodi sono stati vagliati e rivoltati come calzini dalla stampa in questi anni. Cosa è questa immunità che oggi si rivendica per Fini? Questa sì è innaturale e ingiustificata. E- permettetemelo- questa sì puzza non poco di regime. Molto più di quelle leggi bavaglio mai entrate in vigore...

Fini e la legalità/ 1993, il cassiere della dc disobbedì a Sbardella e versò a Fini 1,3 miliardi di lire

Vi chiedo “di dare una mano a Gianfranco Fini”. Fu questo l’appello che l’8 agosto 1991 in un tavolo del ristorante al Bolognese in piazza del Popolo a Roma, Michele Marchio, capo indiscusso del Movimento sociale a Roma rivolse a Giorgio Moschetti, tesoriere della dc romana. Fini aveva da poco riconquistato la guida del partito, che solo un anno prima gli aveva sottratto l’avversario dell’epoca, Pino Rauti. Il delfino di Giorgio Almirante aveva mostrato alla sua prima esperienza di guida politica una fragilità inattesa. Bisognava porvi rimedio, evitare ulteriori rischi. Per questo Marchio bussò alla porta della dc romana, di cui era leader indiscusso Vittorio Sbardella e di cui aveva le chiavi della cassa proprio Moschetti. Al pranzo partecipò lo stesso Fini, mentre Marchio fu accompagnato in auto dal giovane assistente, Francesco Storace, all’inizio di una lunga e promettente carriera politica. Fu in quella occasione che scattò il feeling fra Fini e Moschetti. Ed è in quell’incontro- in quel pranzo- che sono state poste le radici di un connubio ventennale. E’ lì- come rivelato ieri da Libero- che sono nati rapporti anche assai riservati fra i due uomini politici. Da quel momento Moschetti diventa il custode di molti segreti della storia di Fini. Quel pranzo è all’origine di una lunga storia che porterà all’incontro fra i due del 7 dicembre 2009 nell’ufficio del presidente della Camera. Un incontro a lungo chiesto invano da Moschetti. E ottenuto al volo solo quando a fine novembre 2009 all’ex segretario amministrativo della dc romana viene in mente di inviare una mail in cinque punti. Cinque titoli di un dossier che racconta la storia comune. Cinque vicende politico-finanziarie che ripercorrono gli anni trascorsi insieme.
Iniziò nel 1991 quell’avventura comune. A Fini servivano appoggi, strutture, accreditamento per rendere meno fragile la sua riconquistata guida del Movimento sociale italiano. Serviva anche un accreditamento con i veri poteri di Roma. “Qui comandano i palazzinari”, gli spiegò Moschetti che li conosceva tutti ed era abituato a bussare alle loro porte per avere sostegno anche finanziario. Da quel momento la rete di amicizie e di supporti fu in piccola parte condivisa con il nuovo politico emergente. Che avrebbe avuto presto la sua grande occasione. Era la fine del mese di agosto 1993, forse i primi giorni di settembre, bisognerebbe chiedere con precisione ai tre testimoni che oggi sono ancora vivi e possono confermare. Certo fu prima della domenica di chiusura della festa della destra a Mirabello (anche quell’anno capitò il 5 settembre). Fini salì nell’ufficio di Moschetti accompagnato da Donato La Morte. In quei giorni si stavano decidendo i candidati per le elezioni al comune di Roma. In campo c’era Francesco Rutelli. La dc- quell’estate diventata partito popolare con Mino Martinazzoli- non aveva ancora scelto. Sembrava dovesse scendere in campo Rocco Buttiglione, ma non si decideva. Se no il candidato sarebbe diventato il prefetto di Roma, come poi accadde. Fini voleva offrire i suoi voti alla dc, e chiese a Moschetti di convincere Martinazzoli a non rifiutarli. Il segretario della dc romana scosse la testa: “Gianfranco, non hai capito la situazione. Io ho già tre avvisi di garanzia e mi stanno portando il quarto. Non vedi il clima? Devi provare a correre tu per le elezioni”. Fini sorrise timidamente. Si avviò alla porta insieme a La Morte, vecchio amico di Moschetti perché per lunghi anni era stato consigliere provinciale della dc a Roma. Poi proprio sull’uscio guardò il segretario amministrativo della dc romana: “Ma secondo te, se mi presento da solo, quanti voti prendo?”. Moschetti rispose secco: “Il 36 per cento!”. Finì sgranò gli occhi: “ma tu mi darai una mano?”. E ottenute assicurazioni, se ne andò. Si rividero a lungo durante la campagna elettorale e anche per l’organizzazione delle successive politiche del 1994.
Fu qualche tempo dopo che spuntò fuori un giallo che fece intuire quale fosse stata “quella mano” che Moschetti doveva dare a Fini nella corsa a sindaco di Roma del 1993. Un deputato della Lega Nord tirò fuori la copia di una lettera a firma di Giulio Caradonna, leader missino dell’epoca, in cui si sosteneva che a Fini arrivarono due miliardi di vecchie lire dalla corrente andreottiana di Sbardella. Fu una rivelazione a tarda sera. Alle cinque del mattino Fini tirò giù dal letto Moschetti. Con Donato La Morte si videro tutti insieme a concordarono di smentire formalmente tutto. Fu un capitano dei carabinieri a raccogliere la smentita, attraverso la formula dell’auto-querela che Fini aveva fatto a se stesso. La vicenda sarebbe proseguita qualche anno anche con l’assoluzione di Caradonna, visto che una perizia calligrafica mostrò che non era sua la perizia calligrafica in calce a quella lettera. Così si chiuse la vicenda. Ma la versione all’epoca concordata fu di comodo. Lo avrebbe confessato anche anni dopo ad amici lo stesso Moschetti. Più che falsa la versione era imprecisa. Non di due miliardi si trattò. Ma di un miliardo e 300 milioni di vecchie lire che effettivamente finanziarono in nero (mai registrati) la campagna elettorale di Fini. Non fu Sbardella a stabilire quel contributo. Anzi. Lo Squalo era in rotta con Andreotti da qualche tempo. Chiese a Moschetti quindi di finanziare la corsa elettorale del candidato scelto dal ppi, il prefetto di Roma. Ma il segretario amministrativo, che aveva già deciso in cuor suo di restare fedele ad Andreotti e di non seguire Sbardella nell’ultimo strappo, disobbedì allo Squalo. Forse anche con un certo acume politico, comprese che il futuro apparteneva a Fini, che Tangentopoli stava spazzando via per sempre la vecchia dc. E quel miliardo e trecento milioni puntò sulla corsa di Fini. Non servì a farlo vincere. Ma da lì iniziò davvero la seconda Repubblica, quindi la scommessa non fu affatto persa. Chissà se è in quel miliardo e 300 milioni che si può trovare uno dei capitoli del dossier che tante preoccupazioni è in grado di creare al presidente della Camera. Certo in quel gesto si è cementato il rapporto segreto fra l’ex segretario amministrativo della dc romana e il nuovo leader della destra italiana in rapidissima ascesa. Fu il primo mattone. Presto ne sarebbero seguiti altri. Anche nella confusa fase della caduta del primo governo di Silvio Berlusconi e del tentativo di costruire un governo di unità nazionale guidato da Antonio Maccanico. In quel biennio Moschetti da un lato dovette occuparsi dei suoi processi, dall’altro seguì a distanza le vicende finanziarie del partito che sarebbe diventato Alleanza Nazionale. Facendo da chioccia anche a un pulcino della nidiata, Andrea Ronchi, che Fini aveva dovuto mettere da parte per un po’. Ma che Moschetti da anni guardava con una certa simpatia, avendolo visto crescere all’ombra del cupolone. 2-continua- Il resto domani nottee nei giorni successivi- E su Libero da domani in avanti

Fini e la legalità/ Il presidente della Camera è sotto scacco dell'ex cassiere della dc di Sbardella

C’è un misterioso dossier in cinque capitoli che tiene sotto scacco Gianfranco Fini. Cinque vicende politico-finanziarie che preoccupano da tempo il presidente della Camera dei deputati. C’era un semplice titolo per ognuna di quelle cinque vicende nel messaggio di posta elettronica che a fine novembre 2009 apparve nella casella alla Camera della segretaria particolare di Fini, Rita Marino. A inviarlo un mittente con tanto di nome e cognome: Giorgio Moschetti. Oggi è un libero cittadino, ma per decenni è stato un vecchio lupo della politica nella capitale. Fu il segretario amministrativo della dc capitolina, corrente andreottiana, quando re di Roma era Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”. Nel 1992 Moschetti, soprannominato “Giò er biondo” per la capigliatura splendente (oggi tendente al platino) fu anche eletto senatore. Una fortuna, perché c’era ancora l’immunità parlamentare. Quell’anno scoppiò tangentopoli e il tesoriere della dc romana, insieme al segretario amministrativo del partito a livello nazionale, Severino Citaristi, fu colpito da una gragnuola di avvisi di garanzia e anche di una richiesta di arresto, che il Senato respinse. Per anni fu travolto da inchieste e processi, uscendone fuori definitivamente cinque anni fa, anche ottenendo assoluzioni sui reati più gravi (ad esempio le tangenti Intermetro). Moschetti è appunto un libero cittadino. La sua dc è scomparsa nella notte dei tempi, ma la passione per la politica non è mai venuta meno. Come Sbardella conosceva bene il vecchio Msi. Alla fine degli anni Ottanta diede anche una mano a Fini, su richiesta dell’ex senatore Michele Marchio. Divennero amici, si frequentarono. Lavorarono insieme anche se mai questo rapporto fu reso pubblico. La frequentazione non è venuta meno negli anni Novanta, ed è continuata fino a tempi più recenti. Incontri nella sede di An in via della Scrofa, al ministero degli Esteri, a palazzo Chigi all’epoca di Fini vicepresidente del Consiglio, anche i passi ufficiali raccontano quella lunga frequentazione fra i due. Spesso Fini chiedeva consigli al vecchio amico, altre volte ha utilizzato la sua rete di rapporti e conoscenze per fare crescere il suo partito a Roma. Un ottimo rapporto. Ma nel 2009 qualcosa deve essere cambiato. Per mesi Moschetti chiese un appuntamento al presidente della Camera. Numerose le telefonate con la Marino, sempre molto cortesi. Ma l’appuntamento non veniva mai fissato. Finchè in quel mese di novembre la segreteria della presidenza della Camera chiese alla segretaria di Moschetti di inviare un messaggio di posta elettronica con la richiesta di appuntamento, così sarebbe stato messo in scadenzario e avrebbe avuto una riposta ufficiale. A Moschetti- che chissà come ne era a conoscenza- venne in mente quel misterioso dossier. Scrisse la mail con la richiesta di appuntamento e per motivarlo vi allegò quei cinque titoli, tre che riguardavano personalmente il presidente della Camera e due il suo partito. Cinque titoli che sembrarono la più classica delle parole magiche: una sorta di “Apriti Sesamo” in grado di forzare qualsiasi resistenza protocollare. La mail fu spedita e nemmeno un’ora dopo squillò il telefono nell’ufficio dell’ex tesoriere della dc romana: “il presidente della Camera è lieto di incontrarla nel suo ufficio a Montecitorio la mattina del 7 dicembre prossimo”.
Quel 7 dicembre di primo mattino si spalancarono davvero le porte di Montecitorio per “Giò er biondo”. Fini fu calorosissimo. Non fece alcun accenno al contenuto di quel messaggio di posta elettronica. Fece vedere le foto familiari a Moschetti, le bambine avute con Elisabetta Tulliani, parlò un po’ della situazione politica, scherzò sui microfoni e su un incidente che era avvenuto qualche giorno prima, quello della chiacchierata informale sul pentito Gaspare Spatuzza rubata dalle telecamere a un convegno in cui Fini sedeva a fianco del procuratore capo di Pescara, Salvatore Trifuoggi. L’incontro con Moschetti si stava piacevolmente prolungando, quando fu interrotto da una richiesta ufficiale dei capogruppo dell’opposizione che volevano vedere urgentemente il presidente della Camera per sciogliere un braccio di ferro in corso sulla legge finanziaria. Il tempo stringeva, così Fini chiese subito al vecchio amico: “Allora, Giorgio, che vuoi fare nella vita?”. Moschetti non perse tempo: “Vorrei essere scongelato. Ho passato una vita a occuparmi dei miei processi. Si sono ammalati anche i miei figli per questo. Da cinque anni ho chiuso ogni pendenza giudiziaria. Mi sembra naturale tornare a vivere, ridare dignità alla mia famiglia…”. Fini sorrise: “Che vorresti fare?”. E Moschetti disse che lui non aveva bisogno di soldi, né voleva incarichi politici, ma solo qualcosa per recuperare il prestigio perduto: “Una presidenza, ad esempio. Ho visto che a Giuliano Amato avete dato la Treccani…”. Fini rispose che per certe nomine contava il governo, ma disse che da lì a pochi mesi ci sarebbero state le elezioni regionali e sicuramente sarebbe venuto fuori qualcosa di interessante anche per Moschetti. Gli chiese di pazientare qualche mese, volle avere un giudizio anche sul candidato che stava per scendere in campo per il Pdl nel Lazio, Renata Polverini. Moschetti rispose: “a dire il vero non la conosco. L’ho vista come tanti qualche volta in tv. Mi raccomando però non fare lo stesso errore del mio amico  Gianfranco Bettini che si è trasformato in un campione dell’antipolitica candidando per ben due volte un giornalista alla guida della Regione Lazio”. Fini sorrise, cominciò a raccontare delle difficoltà del quadro politico. Gli disse che aveva visto da poco Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Bruno Tabacci e fece una battuta che colpì Moschetti: “Sai, Giorgio… qui vogliamo rifare la tua dc…”. Il presidente della Camera raccontò al suo interlocutore che comunque il quadro politico era destinato a un vero e proprio terremoto: “dopo le regionali cambierà tutto”. Fu a quel punto che bussò alla porta la fedelissima Marino: “Presidente, ci sono i capigruppo dell’opposizione che la aspettano”. Fini cortesemente si congedò, ma promise affettuosamente all’interlocutore che si sarebbe mantenuto in contatto con lui “per quelle cose che ci siamo detti”. Dopo quell’incontro Moschetti e Fini si sentirono ancora il 18 gennaio 2010 e durante la campagna elettorale per le regionali. Poi sui rapporti fra i due è calato il silenzio. Non sul dossier in cinque capitoli, che resta sospeso sul capo della politica romana. Ma che cosa c’era di tanto importante per Fini in quei capitoli? Non c’è speranza di ottenere informazioni dirette da qualcuno dei protagonisti. Negherebbero uno di avere inviato il messaggio di posta elettronica e l’altro di averlo ricevuto. Solo l’incontro del 7 dicembre non può essere smentito. Forse per capire di più questo giallo che sta alimentando la politica italiana, basterebbe ripercorrere passo dopo passo venti anni di frequentazioni fra Fini e Moschetti. Lì potrebbe esserci se non la risposta la traccia giusta per provare a comprendere quel dossier in cinque capitoli. E allora iniziamo questo viaggio nella memoria. Tornando a un caldissimo giorno di agosto del lontano 1991. L’8 agosto 1991. Piazza del popolo, a Roma. Ristorante dal Bolognese. C’è un tavolo prenotato e stanno arrivando gli ospiti. Il primo ad arrivare è un giovane politico missino, Gianfranco Fini. Il secondo è Giorgio Moschetti, cassiere della dc romana di Vittorio Sbardella. Il terzo è il leader del Msi romano, il senatore Michele Marchio. A dire il vero c’è anche una quarta persona, all’epoca meno nota. E’ lui che ha guidato fin lì l’auto di Marchio, di cui è fedele assistente. Un giovane promettente, destinato a fare carriera. Si chiama Francesco Storace… 1- continua

Fini e la legalità/ La Contini rivela: impose lui il candidato del boss che pagò 100 mila euro al partito

La parola decisiva ai magistrati l’ha detta in un interrogatorio formale del 16 maggio 2008 Barbara Debra Contini. Convocata davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo che cercava di capire qualcosa di più sulle irregolarità riscontate nella candidatura a senatore di Nicola Di Girolamo, la Contini assicurò “è stata una candidatura adottata direttamente dal presidente Fini”. Parole taglienti come il ghiaccio, che oggi sono allegate al fascicolo processuale dell’ex senatore coinvolto nello scandalo Fastweb- Telekom con accuse pesanti di concorso in riciclaggio e di brogli elettorali con la complicità della ‘ndrangheta. Qualche giorno fa, il 30 agosto, la procura di Roma ha deciso di mandare a giudizio immediato l’ex senatore che fu costretto a dimettersi nella primavera scorsa quando è scoppiato lo scandalo, finendo in carcere dopo avere perso l’immunità parlamentare. La prima udienza del processo è già stata fissata per il 2 novembre prossimo. Ma per Di Girolamo è possibile uno stralcio e se ci sarà l’ok dei pm anche il patteggiamento o il rito abbreviato. L’ex senatore infatti da mesi ha iniziato a collaborare con i magistrati sia sul troncone principale dell’inchiesta, sia sull’origine e le modalità della sua candidatura al Senato nella circoscrizione estera europea. C’è già stata una decina di interrogatori, ed è probabile che prima di dare il proprio assenso al patteggiamento i pubblici ministeri ne vogliano fare ancora qualcuno proprio sulla vicenda politica. Di Girolamo ha spiegato quel che già i magistrati avevano letto nelle intercettazioni. E cioè che la sua candidatura era stata ideata da Gennaro Mobkel, l’ex neofascista divenuto il boss al centro dell’inchiesta, avendo tirato le fila di tutte le operazioni illecite scoperte. Mobkel avvicinò un vecchio amico, Stefano Andrini (dirigente pubblico a Roma, costretto alle dimissioni dopo l’esplosione dello scandalo), che fece da tramite fra Di Girolamo e Marco Zacchera (An), uno dei tre coordinatori del Pdl che doveva occuparsi delle candidature degli italiani all’estero. Gli altri due erano appunto la Contini (Forza Italia) e Stefano Stefani (Lega). In più intercettazioni telefoniche e ambientali Mobkel sostiene parlando con amici e altri sodali di avere pagato "una piotta" solo per ottenere il sì di An alla candidatura di Di Girolamo. Le ricostruzioni sono confuse, in parte dice di averlo fatto lui direttamente, in altre occasioni sostiene che il pagamento lo avrebbe fatto lo stesso Di Girolamo. Gli inquirenti traducono dal romanesco "na piotta" identificando la cifra in 100 mila euro. Ma in altre intercettazioni allegate Mobkel ripete in più occasioni di avere pagato per la candidatura di Di Girolamo più di un milione di euro. Può essere che nella cifra siano compresi i costi della campagna elettorale. In un caso sostiene di avere dato per la mediazione con An ad Andrini 50 mila euro. Ma negli interrogatori in carcere Mobkel non ha voluto rispondere sul punto. Lo farà nel processo o nel prossimo interrogatorio nella speranza di ottenere il patteggiamento lo stesso Di Girolamo. Ai magistrati infatti interessa molto capire a chi andarono quei soldi e per quali strade il boss romano avesse costruito con l'appoggio di An quella che lui stesso chiamava  "l'inizio di una scalata al potere". Per questo diventa oggi molto imbarazzante quella versione fornita dalla Contini ai magistrati romani: "Mi erano state fatte delle segnalazioni formali sulla circostanza che Di Girolamo non era conosciuto nelle comunità europee all'estero. Segnalai a Zacchera qusta circostanza chiedendogli di verificare e di valutare attentamente il nome. Zacchera mi rispose che la decisione era stata adottata direttamente dal Presidente Fini e Zacchera assicurava, contrariamente alle voci giuntemi la stima complessiva che Di Girolamo avrebbe avuto a suo dire in Europa". Dichiarazione imbarazzante, anche perchè nelle intercettazioni allegate il nome di Fini compare in moltissime occasioni. Anche all'indomani dell'elezione, quando chiama Di Girolamo per un incontro faccia a faccia. Il senatore a quel punto non è più intercettabile, e quindi non esistono brogliacci sulle chiaccherate. Ma all'incontro fa riferimento Mobkel con altri interlocutori, rivelamndo pure che Fini aveva ricevuto dall'ambasciata italiana in Belgio una lettera di supporto a Di Girolamo per futuri incarichi. Sarà tutta materia da dipanare al processo, a meno che la definitiva chiarezza non arrivi dai prossimi interrogatori dell'ex senatore. Certo quel processo diventa una ulteriore macigno nella battaglia per la legalità messa al centro della sua nuova avventura politica dall'attuale presidente della Camera