Così intorno al crocifisso di Michelangelo è nata la Pizza connection...



Nel post precedente ho raccontato in un  articolo la storia dei due Crocifissi di Michelangelo, quello la cui attribuzione probabilmente è falsa, ed è stato comprato dallo Stato italiano. E quello autentico che invece è passato nelle mani del Vaticano, della massoneria, della ndrangheta e della P2 e forse oggi si trova negli Stati Uniti. Adesso metto a disposizione parte del materiale giudiziario da cui sono partito per raccontare la storia. Che emerge la prima volta da un interrogatorio di monsignor Francesco Camaldo del 17 febbraio 2006. Eccone il testo a puntate... Di Tolla è l'appuntato che interroga, Camaldo è il cerimoniere del Papa che risponde...

 
TRASCRIZIONE DI UNA AUDIOCASSETTA CONTENENTE LE SOMMARIE INFORMAZIONI
RESE DA CAMALDO FRANCESCO IL GIORNO 17 FEBBRAIO 2006

Di Tolla L'anno 2006, il giorno 17 del mese di febbraio, alle ore 16.00, in Roma,
presso gli Uffici dell'Ispettorato P.S. del Vaticano, dinanzi ai sottoscritti
Ufficiali Agenti di P.G., ispettore capo Pasquale Di Tolla, in servizio
presso la Squadra di P.G. della Polizia Stradale di Potenza, assistente
Rocco Taddei, agente Michele De Felice, in servizio presso l'Ufficio in
intestazione, è presente Camaldo Francesco, il quale richieste le
generalità, previo ammonimento delle conseguenze penali cui si espone
chi si rifiuta dí darle o le dà false, risponde: "Sono e mi chiamo..."?
Camaldo — Francesco Camaldo.
Di Tolla — Nato a Lagonegro...
Camaldo Sono nato a Lagonegro il 24 ottobre 1952.
e...
Camaldo — Risiedo a Roma, Piazza San Giovanni in Laterano, 4.
Di Tolla Il signor Camaldo Francesco, sentito in merito ai suoi rapporti con Pizza
Massimo, è avvertito che è obbligato a rispondere secondo verità in
ordine ai fatti sui quali vengono richieste le informazioni. Allora, signor
Camaldo, lei conosce il signor Pizza Massimo?
Camaldo Sì, lo conosco. Dobbiamo andare... per essere precisi, vado un pochino
indietro nel tempo. lo sono amico di un avvocato che si chiama Andrea,
che si doveva sposare con questa ragazzetta che si chiamava Cristiana.
Cristiana era la figlia del proprietario del ristorante "Matriciano" qui a
Roma. E allora, alcune volte sono andato al ristorante per andare a cena
con questi ragazzi, per preparare il matrimonio. Il papà di Cristiana,
Alberto, che si fermava sempre così, a cenare o a pranzare con noi, stava
vicino a me, mi era molto... mi è molto devoto, un giorno mi disse: "Ti
devo far conoscere il dottor Giuseppe Pizza, che è un grande studioso di
cose della Chiesa. Guardi, Monsignore, è proprio una cosa... lui è
bravissimo, conosce tutto, il Vaticano... Mi piacerebbe che lei lo
incontrasse". E io ho detto: "Va bene, quando sarà... un giorno che
capito lo incontrerò". In uno di questi incontri... in uno di questi pranzi
che abbiamo fatto lì per la preparazione del matrimonio, un giorno c'era
anche questo dottor Giuseppe Pizza. Io l'ho conosciuto, un'ottima
impressione, diciamo, un grande personaggio, di una cultura spaventosa,
spaventosa. Lui possiede decine di migliaia di volumi, sapeva del
Vaticano cose che possiamo sapere noi che siamo agli addetti ai lavori,
ma la gente di fuori... io... inimmaginabile. Insomma, abbiamo fatto
conoscenza con questo signor Pizza Giuseppe. Tanto che io l'ho fatto
conoscere anche ad altri amici miei di ufficio, sia sacerdoti che laici, che
lavoravano con me, l'ho messo in contatto, perché era un piacere sentirlo
parlare. Durante questo periodo, adesso gli anni... posso dire, cinque—sei
anni fa, forse, cinque—sette anni fa così, io ho conosciuto anche un altro
signore che era sua eccellenza ambasciatore Ugolini, che era
Ambasciatore di San Marino nella Repubblica Araba in Giordania.
Questo anche l'ho conosciuto tramite il cardinale Angelini, il Cardinale e
l'ambasciatore Galassi, che è il Decano del Corpo Diplomatico presso la
Santa Sede, che è l'Ambasciatore di San Marino presso la Santa Sede. E
questo uomo è anche un uomo di una profondissima cultura scientifica ed
ecclesiastica, proprio un gentiluomo di altri tempi, con grande garbo, una
estrema signorilità. Conosciuto lui, ho conosciuto anche il suo segretario,
che fungeva un po' da segretario, così, nei confronti dell'Ambasciatore,
questo dottor Angelo Boccardelli, che era uno scultore, un pittore.
Abbiamo fatto con lui una mostra alla Gregoriana di quadri di questo
Boccardelli con le icone coptiche che l'ambasciatore Ugolini si era
portato dall'Egitto: una cosa che ha avuto una risonanza veramente
eccezionale, perché era una cosa molto bella. Bene, questi due
personaggi, Ugolini... l'ambasciatore Ugolini è... era, perché purtroppo
è morto, adesso, un mese fa, poi lo dirò. L'ambasciatore Ugolini era il
proprietario di una cosa a livello di eccezione... di un Crocifisso di
Michelangelo, l'unico Crocifisso in legno fatto da Michelangelo. Questo
era una... E allora Padre Pfeiffer, questo grande studioso di
Michelangelo e di arte della Gregoriana, questo padre gesuita, ha fatto
una pubblicazione su questo Crocifisso e... insomma, è una cosa
veramente eccezionale. E allora... è autentico, abbiamo fatto questa
pubblicazione scientifica al riguardo. L'idea di Ugolini, in un primo
tempo, era quella di regalare il Crocifisso al Santo Padre. Prenderlo,
darlo al Santo Padre e metterlo ai Musei Vaticani. In una stanza unica
mettere al centro questo Crocifisso, che è alto 35 centimetri, così, di
legno, che ha la scritta: "Michelangelo" scritta dietro nei capelli, l'unica
cosa firmata da Michelangelo, in una stanza tutta nera, con le luci.
Abbiamo preso contatti con il professor Buranelli, Direttore dei Musei, e
insomma le cose sembravano che andavano così. Quindi è passato un
anno, un anno e mezzo, roba di questo genere, sempre in questo modo.
Un giorno Giuseppe Pizza mi invita al "Matriciano" a pranzo, perché lui
andava quasi tutti i giorni a mangiare là, insieme anche a questi altri
sacerdoti, amici della Congregazione, e insieme ad Ugolini, perché io gli
vevo d'età eff -qtr—esTrres-a. E 4+golihi--veea~a_4_sua-Bfxcra.rd4jeJà_,___
noi trovammo Massimo P1/23. Quindi la prima volta che io ho
conosciuto Massimo Pizza è stata in questa occasione, chiamato dal
fratello per fare conoscenza con me e parlare un po' del Crocifisso.
Abbiamo parlato di questo Crocifisso, lui si è entusiasmato del
Crocifisso, Giuseppe Pizza era ancora più entusiasmato, finché
l'Ambasciatore, di buon grado, ha detto: "Va bene, ve lo faccio vedere",
perché lui era molto geloso di questo, perché ce l'aveva in una cassetta di
sicurezza, doveva andarlo a prendere, lo doveva portare, eccetera. E
quindi andiamo a casa di questo Ambasciatore, all'EUR, proprio verso...
verso Ostia, da quelle parti lì, una sera a cena e lui ci porta questo... ci fa
vedere questo Crocifisso. Io sono andato lì tre, quattro volte, ho trovato
Generali dei Carabinieri, Generali della Finanza... perché Ugolini era
conosciutissimo e conosceva moltissime persone, sempre per far vedere
questo Crocifisso... anche Arcivescovi, Vescovi, perché era una cosa
molto bella. Il desiderio poi dell'Ambasciatore, ad un certo punto...
quindi già, diciamo, che dopo questo episodio sarà passato un anno, un
anno e mezzo almeno, lui ebbe l'idea, il desiderio di creare un centro di
studi a Roma a livello internazionale. Cioè dice... lui voleva creare un
centro di studi laico, al di fuori della religione, per abbracciare tutti i
popoli, diciamo, più o meno una cosa del genere. Ma l'Ambasciatore, che
pure aveva disponibilità economiche, non era al livello di poter comprare
una struttura e di poterla mantenere. Allora decise... dice: "Allora, io
vendo il mio Crocifisso". Naturalmente la vendita del Crocifisso era una
vendita... perché non era un valore venale, che si poteva dire: "Questo
vale un milione o cento milioni", cioè questo era un pezzo unico. Lui
l'aveva fatto già anche valutare, penso... non so, in Danimarca, non so
dove, ma insomma era una decina di miliardi, in buona sostanza, questa
cosa qua. Allora decise di vendere il Crocifisso per reperire il danaro
necessario per comprare la villa dove fare il centro e per cominciare a
fare questo centro. Individuò una villa a Frascati. Questa villa era la
vecchia villa di Carlo Ponti, che lì a Frascati chiamano tutti quanti... tutti
c iamano
Carlo Ponti. Io sono andato una volta, una volta sola, a vedere questo,
una cosa tanto grande che io dissi pure all'Ambasciatore, dico
"Eccellenza, ma non è... ma questa non è cosa, cioè è una cosa troppo
grande. Non so, soltanto per comprarla... poi per mantenerla, per
agire...". Lui aveva tante amicizie, l'Ambasciatore, nel campo
ecclesiastico, per esempio, anche con don Picchi. Dice: "Ma don Picchi
ha detto che mi manda i ragazzi tossicodipendenti che si devono
redimere, che possono venire là a lavorare, facciamo una sorta di
scambio: io offro la casa e loro offrono il lavoro". Insomma, a livello di
idea poteva essere anche una cosa molto bella, a livello poi di
concretizzare questa cosa diventava un po' difficile. Allora, individuata
la villa, per comprare... Poi andammo a Città della Pieve, nella villa di
Giuseppe Pizza, per avere una idea in vista della ristrutturazione della
villa di Frascati. Giuseppe Pizza a Città della Pieve ha una grande villa,
una villa settecentesca che lui aveva rimesso tutta quanta a posto, con il
giardino, una cosa molto tecnologica...
Di Tolla — Questo Giuseppe Pizza, chiedo scusa, è il fratello di Massimo?
Camaldo — Il fratello grande di Massimo. Il fratello grande di Massimo.
Di Tolla — Quello che sta in politica.
Camaldo — Quello che sta in politica. Stava, non so se sta più. Sta ancora?
Di Tolla — Sì, sì, sì.
Camaldo — Ah, questo qua.
Di Tolla — No, giusto per capire chi è.
Camaldo — Ah, sì. Il primo fratello, penso che... non so, ma penso che sia il fratello
più grande, credo. Non lo so...
Di Tolla — Ha altri tre fratelli, però non sappiamo, in ordine, chi è più grande e chi è
più piccolo.
Camaldo — Ah, altri tre? Cioè...
Di Tolla — Sì.
Camaldo — Adesso io conosco altri due. Adesso dirò.
Taddei — Sono i quattro in totale.
Camaldo —membri della famiglia: il dottor Lino Pizza, che... lui ancora viene, ogni
tanto mi telefona, passa a salutarmi, a livello proprio di conoscenza, al
quale io non ho detto niente di tutte queste storie del fratello, cioè di
questo che poi dirò, a lui non ho detto mai niente. Un altro fratello, che
presumo si chiamasse o si chiami Antonio, ma non so con sicurezza, che
è un medico geriatra...
.
Taddei Luigi.
Camaldo Luigi, forse. Ah, allora Luigi. Non lo sapevo. No, pensavo che si
chiamasse... Io l'ho visto una volta soltanto questo Luigi, un geriatra...
E poi ho visto una volta la mamma, perché sono venuti da me, a San
Giovanni, alla Cappella Corsini, per fare la Prima Comunione della figlia
di Massimo, che doveva fare la Prima Comunione, si era preparata
all'Istituto di... non so dove andava a scuola, c'erano stati dei problemi,
forse la mamma, la vecchia nonna, non poteva andare, che era stata un
po' così, stava male, eccetera eccetera, mi chiese se potevano fare la
Prima Comunione là e noi abbiamo fatto questa Comunione. Quindi, io
Luigi, la mamma, l'ho vista la prima ed unica volta lì a casa, durante
questa... questa Prima Comunione. Devo dire... devo dire che anche...
perché c'era mio padre allora, credo prima di morire, mio padre, mia
mamma, mio fratello piccolo... cioè abbiamo avuto l'impressione che
fossero persone dabbene, persone degne di rispetto, perché si sono
comportati degnissimamente. Cioè poi... manifestavano anche
esternamente cioè dei sentimenti buoni nei confronti di questa vecchia
mamma, che era come se fosse scesa la Madonna in mezzo a loro, tutti
quanti così... al momento della Comunione tutti si sono fatti la
Comunione, hanno partecipato alla messa, hanno risposto alla messa...
cioè queste cose qua. Allora, questo per... diciamo, questa parte della
famiglia. Il rapporto ancora Ugolini—Pizza Massimo: ad un certo punto,
quando loro si sono conosciuti, io non è che mi sono ritirato indietro, ma
io ho mille cose da fare, come ho detto prima, sono sempre indaffarato,
sono sempre occupato, loro due si vedevano spesso, Ugolini e Pizza, si
chiamavano ogni mese, ogni mese e mezzo, ogni... "Monsignore, tutto
quanto bene, tutto quanto a posto, stiamo procedendo in quella cosa".
Ugolini qualche volta veniva... veniva di più, però io gli ho detto
sempre, dico: "Eccellenza, lei non mi deve raccontare tutte queste storie,
perché io non ne capisco, non voglio entrarci. Queste sono cose che vi
dovete vedere voi". Perché lì subito sorse... ancora adesso io non ho
capito bene, per cercare di districare l'imbrogliata questione dell'acquisto
della villa, perché per grossi problemi esistenti... perché questa villa
comprata da Ugolini, cioè che Ugolini voleva comprare questa villa, mi
pare che forse c'erano delle... come si dice...
Di Tolla — Dei problemi di...
De Felice — Di ipoteca.
Camaldo — Di ipoteche, di... Eh, sì, ipoteche... forse questa, la figlia di Ponti, che
adesso non mi ricordo come si chiamava, questa qua forse aveva fatto
delle ipoteche e non l'avevo detto, aveva preso soldi... insomma, c'erano
dei problemi.
Di Tolla — Quanto costava questa villa?
Camaldo — Ah, non lo so.
Di Tolla — Non lo sa?
Camaldo — No.
Di Tolla — Quindi c'erano questi problemi.
Camaldo — Sicuramente c'erano dei problemi. Problemi anche grossi, perché una
volta Ugolini mi disse, dice: "Eh, meno male — dice — Monsignore che
lei, così... che ci siamo conosciuti, che abbiamo conosciuto anche
Massimo Pizza e Giuseppe, perché loro mi possono aiutare a districarmi
in questa cosa, perché è un problema molto grosso". Ma io in questo
istante ancora se dovessi dire quali erano i problemi effettivi... io non li
so.
Di Tolla — Ho capito. C'erano dei problemi, però lei non ne è a conoscenza.
Camaldo — Non sono a conoscenza.
Di Tolla — E i fratelli Pizza come potevano risolvere questo problema? Il Pizza
Massrrrrty, gaffiràvi-è.--p~rtat
Camaldo — Pizza Massimo era come se.:.
Di Tolla — Si è presentato come avvocato, come generale...
Camaldo — No.
Di Tolla — Come appartenente ai Servizi Segreti... che diceva?
Camaldo — Lui era uno che aveva una grande... quello che, secondo me... non tanto
che si è presentato con me, ma quando si è presentato con Ugolini, che
lui era un uomo d'affari, che aveva una grande disponibilità di danaro.
Di Tolla — D'affari, con grandi risorse economiche? Non ha mai detto che faceva
parte dei Servizi Segreti, era appartenente ai Carabinieri...
Camaldo — No, una volta mi disse che c'erano... che c'era... che conosceva forse,
ma però adesso questo non saprei... non saprei dire bene, non saprei...
Di Tolla — Va bene, vada avanti.
Camaldo — Eh.
Di Tolla — Quindi poi che cosa è successo?
Camaldo — Allora, ad un certo momento...
Di Tolla — Sì.
Camaldo — Quindi qui stiamo parlando di un anno, un anno e mezzo di tempo di
questa cosa, eh, almeno. Ad un certo momento, io ho cercato di
memori... di tornare indietro con la memoria, sarà stato a maggio di due
anni fa, penso. Perché io ho fatto il calcolo, l'anno scorso, con tutto
quello che è successo con il Papa, io non ho visto né l'uno e né l'altro,
quindi è stato sicuramente prima. A maggio di due anni fa, ci sarà stata
una rottura dei rapporti fra i due.
Di Tolla — Fra il Pizza e l'Ugolini?
Camaldo — Fra Pizza e Ugolini. E Ugolini mi telefonò e venne da me, disperato,
dicendo che lui aveva dato soldi a Pizza, che questi soldi dovevano
servire per risolvere i problemi, penso del... dell'acquisto di questa casa,
però io adesso come e quando non lo so, ma questo sicuro, non restituiti.
Lui aveva delle difficoltà enormi, aveva problemi gravissimi, il mondo
disperato, proprio disperato.
Di Tolla — Quanti soldi aveva dato al Pizza?
Camaldo — 380.000 euro. Questo lo so precisissimo. E vi spiego perché. Allora, lui
aveva dato in danaro a Pizza 380.000 euro. Allora io dissi
all'Ambasciatore: "Caro Ambasciatore, adesso..."... perché lui era
proprio disperato, voleva fare tutte le cose di questo mondo, voleva...
fare... come si dice, denunce sopra denunce, eccetera. Dico: "Guardi, io
le voglio bene...". Lui era molto afflitto, lui era molto già avanti con gli
anni e un po'... insomma, in salute non stava bene, come poi purtroppo
si è risolto. Io dico: "Guardi, io posso aiutarla in questo momento suo...".
Queste sono cose che una persona può fare una volta nella vita, io lo
posso fare una volta nella vita. Cioè io ho... io ho un giro dove ho tanti
amici, tante persone che mi vogliono bene. Io sono stato tanti anni
segretario del cardinale Poletti, sono venti anni... ventidue anni che sono
Cerimoniere... cioè ho tante amicizie, tante persone buone che mi
vogliono bene. Allora, dico: "Senta, io posso fare così. Io posso, penso di
potere... — e poi di fatto l'ho fatto — penso di poter chiamare un po' di
amici e se lei mi lascia un tempo utile...". Avevo chiesto un anno, ma poi
si è risolto in meno. "Se lei mi lascia un anno di tempo, io posso venirle
incontro. E quel danaro che le doveva dare Massimo Pizza io glielo
rimetto... glielo metto insieme io un po' alla volta, in modo che lei possa
risolvere questi suoi problemi, si tranquillizzi la vita...", perché lui era
tesissimo, molto nervoso, molto teso. "Si tranquillizzi la vita e termini
ogni rapporto con Massimo Pizza". Così è stato.

(1- continua)


A Bondi il bidone, agli amici della cricca il Crocifisso di Michelangelo



Un piccolo crocifisso di legno, lungo appena 42 centimetri, datato intorno all’anno 1500. Perfetto. Può essere iscritto dentro un cerchio e il centro del cerchio è l’ombelico del Cristo. L’ha scolpito Michelangelo Buonarroti. Un piccolo crocifisso. Anzi due piccoli crocifissi. In apparenza identici. Ma solo in uno dei due quell’ombelico è il centro di quel cerchio. Di uno di quei crocifissi si sa quasi tutto. Apparve una decina di anni fa nelle mani di un noto antiquario torinese, Giancarlo Gallino, che sosteneva di averlo acquistato da una misteriosa famiglia fiorentina. Lo fece valutare, molti autorevoli critici attribuirono l’opera a Michelangelo. Furono talmente convincenti che quando Sandro Bondi divenne ministro dei Beni culturali mise un’opzione per l’opera. E poi l’acquistò, per 3,2 milioni di euro anche se l’unica tranche pagata subito all’antiquario torinese fu l’anticipo da un milione di euro. La scoperta di quel crocifisso entusiasmò tutti. Gianfranco Fini volle esporlo subito alla Camera dei deputati nella sala della Regina. Lo videro migliaia di visitatori. Anche famosi critici, che osservatolo bene iniziarono ad avanzare dubbi sempre più consistenti: Michelangelo non c’entrava, quel crocifisso forse era un falso. Al massimo- disse uno- poteva valere 300 mila euro. Lo Stato si era preso un gran bidone. Sono bastate le voci, ed ecco scendere in campo le procure: quella di Roma, quella di Torino. E anche la Corte dei Conti, inchiesta per danno erariale nei confronti di Bondi. Quel che tutti però non sapevano è che il crocifisso di Michelangelo esistesse davvero. Scolpito quando lui aveva poco più di venti anni, ma la mano del maestro era già quella nota. E che in ogni caso, veri o falsi i crocifissi spuntati fuori quasi in contemporanea fossero due.
L’altro crocifisso di Michelangelo, forse quello buono, emerge misteriosamente da uno dei faldoni più sperduti dell’inchiesta sulla cricca degli appalti pubblici appena depositato a Perugia. Emerge perché legato a quel crocifisso c’è un bonifico da 180 mila euro partito da un conto corrente dello Ior e disposto da Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici e personaggio centrale dell’inchiesta sulla cricca. Il bonifico interessa oggi a Perugia, ma tutta la storia del secondo crocifisso si è dipanata lungo quattro anni almeno e ha attraversato senza che si rendessero conto della storia alla Dan Brown che ne emergeva di fronte a più di una procura, e soprattutto alla procura che più o meno è incappata davanti a ogni mistero di Italia in questi anni: quella di potenza, all’epoca del pm John Woodcock.
Tutto nacque nel lontano febbraio 2006, quando in seguito ad anomali spostamenti di denaro sui conti correnti vaticani, la gendarmeria della Santa Sede e il posto di polizia vaticano convocano per avere chiarimenti un monsignore di non seconda importanza in Curia: Francesco Camaldo, decano dei cerimonieri della Santa Sede. E’ dalla sua bocca che i poliziotti apprendono una storia che ha dell’incredibile. Camaldo racconta che qualche anno prima stava facendo un corso di preparazione al matrimonio alla figlia del proprietario di un notissimo ristorante romano, il Matriciano e naturalmente al suo futuro sposo, un avvocato. Tra una lezione e l’altra capitava che papà ristoratore invitasse il monsignore a fermarsi a cena nel locale. E a quel tavolo Camaldo fece conoscenze interessanti. Prima di tutte quella di Giuseppe Pizza, attuale sottosegretario all’Università, a che a monsignore apparve uomo di grandissima cultura. Poi quella di Giacomo Maria Ugolini, ambasciatore della Repubblica di San Marino presso la Repubblica araba di Egitto e il regno hascemita di Giordania. Mangia che ti mangia, le conoscenze si rafforzano, diventano quasi amicizie. Un giorno l’ambasciatore Ugolini preso da un trasporto di generosità annuncia a monsignor Camaldo: “ho un bene  prezioso con me, un Cristo crocifisso scolpito da Michelangelo. Lo ebbi anni fa dal sua Beatitudine Maximus Quinto, patriarca greco-melkita-cattolico di Gerusalemme. Vorrei donarlo al Papa”. Monsignor Camaldo si emozionò, ancora di più quando seppe che la paternità michelangiolesca era stata controfirmata da uno dei massimi esperti vaticani del Buonarrotti: il gesuita Heinrich Pfeiffer, professore della Gregoriana. La preziosa opera d’arte fu anche mostrata a monsignor Camaldo e a Giuseppe Pizza, tirato fuori da un caveau all’Eur in cui era custodito. Ma il dono non arrivò. Perché l’ambasciatore Ugolini ci ripensò. Tornò da Camaldo e disse: “vorrei tanto costruire una fondazione per l’incontro fra le religioni. Ho visto anche una villa vicino a Marino che mi sembra il posto adatto. Costa cara. E io non ho beni, se non quel crocifisso. Mi serve per reperire i fondi necessari”. La villa era appartenuta a Sofia Loren e Carlo Ponti, e fu lasciata alla figlia di quest’ultimo, Guendalina, un tempo socia e compagna di Valerio Veltroni, fratello di Walter, sindaco di Roma. Iniziarono le trattative, ma c’era un problema: Guendalina ebbe problemi finanziari e coprì di ipoteche quella villa. Bisognava toglierle. Se ne parlò fra amici come sempre a pranzo al Matriciano. Saltò su Giuseppe Pizza e disse: io ho la soluzione. Un fratello, Massimo, bravissimo a sbrogliare matasse di questo genere. E Massimo Pizza, misterioso personaggio che una volta si spaccia per agente del Sismi, un’altra per diplomatico somalo, altra ancora per generale dei carabinieri, scese in campo e sbrogliò la matassa da par suo. Tanto è che- lo raccontò monsignor Camaldo in numerosi interrogatori cui fu sottoposto in giro per l’Italia, ora raccolti nel faldone perugino- un giorno l’ambasciatore Ugolini andò in lacrime dall’amico alto prelato: “sono rovinato. Quel Pizza mi ha chiesto 380 mila euro in contanti per s brogliare la vicenda. Ed è sparito con i soldi. Vorrei morire”. Camaldo si commuove e dopo qualche settimana arriva con una busta da UgoliniCamaldo dona una somma così importante a un ambasciatore da poco conosciuto? Camaldo resiste ai primi interrogatori: “carità di amici che non sanno cosa ho fatto delle loro somme”. Poi rivela: “me li ha donati un amico solo, Angelo Balducci”. Vero. Ma Balducci, interrogato dimostra anche con le carte in mano che il prestito a monsignor Camaldo era di 230 mila euro, di cui 180 mila di bonifico Ior su Ior. E gli altri 150 mila? Camaldo crolla al terzo interrogatorio: “li ho presi senza che lui lo sapesse a mio padre. I risparmi di una vita dopo 40 anni di insegnamento”. Tutti i risparmi di famiglia regalati all’ambasciatore insieme a un debito grosso come una casa con Balducci? Perché? Il cerimoniere del Papa non sa dare una risposta. Solo il suo buon cuore cristiano. Anche Balducci non sa dare una risposta. L’ambasciatore Ugolini ancora meno: muore prima dell’interrogatorio.
Tutti i suoi beni, tutti i suoi debiti e perfino la fondazione che nel frattempo era stata creata a villa Ponti, e con essa il Cristo di Michelangelo, finiscono nelle mani del segretario di Ugolini, un poeta di scarse fortune : Angelo Boccardelli. Grazie a monsignor Camaldo viene combinato un incontro con monsignor Rino Fisichella, portando la preziosa opera d’arte. L’idea è quella di presentarla ufficialmente ai musei Vaticani in un convegno pubblico di grande clamore. Ma al convegno non arriva nessuno: Boccardelli non ha i soldi per gestire fondazione ed eredità Ugolini. Vende tutto, meno il Cristo di Michelangelo, a tale Cosimo Di Virgiglio. Sulle prime gli fa vedere il Cristo, spiegandogli della presentazione in Vaticano. Ma poi non si fida. E non sbaglia. Di Virgiglio viene arrestato con l’accusa di associazione mafiosa e si scopre che è legato alla n’drangheta. Ma sorpresa: si pente. E viene arrestato anche Boccardelli. Ma il crocifisso scompare. Dove è ? Il pentito della n’drangheta sostiene che Boccardelli lo aveva chiuso in un caveau di San Marino. Ma non salta fuori. Tutti i prelati coinvolti non ne sanno nulla. Il fratello di Pizza entra ed esce dalle inchieste. Viene perfino intercettato mentre con un’amica pensano di dare in pasto parte di questa storia a un conte grande amico del pm di Palermo Antonio Ingroia, perché di Camaldo e della cricca sarebbero amici autorevoli militari che “Ingroia non vede l’ora di incularsi”. Ma del crocifisso nessuno sa nulla. Finchè l’anno scorso non viene fatto sapere alla Dda di Reggio Calabria che il vero Crocifisso di Michelangelo (lo proverebbero gli expertise vaticani fatti in vista della presentazione ufficiale poi sfumata) è nelle mani del presidente del Rotary club di New York: Giorgio Hugo Balestrieri, ex P2, ex ufficiale della marina militare italiana, ex amico di Ugolini che si scopre essere uno dei più autorevoli gran maestri della massoneria sanmarinese. Ha le foto, le fa arrivare: il Cristo ce l’ha lui. In un caveau di una grande banca americana. Fino a dicembre scorso. Quando viene presentata una denuncia: il Cristo non c’è più. E’ di nuovo sparito. E con esso tutti i soldi di questa vicenda. Che fin qui ha spogliato il capo dei cerimonieri vaticani, suo papà, Angelo Balducci, il ministero dei beni culturali, la n’drangheta, i fratelli Pizza, le banche sanmarinesi. E non si capisce bene chi ha arricchito. Ma il vero Cristo di Michelangelo ha preso il volo. E chissà verso quali lidi. Un mistero assai più inquietante della intera storia della cricca.

Una gola profonda di Fli svela i segreti dei giorni neri di Fini


di Inside Man*

Bisognerebbe accendere un cero a san Pier Ferdinando Casini. Non ci fosse stato lui avremmo passato un Natale con il morale a terra, e chissà quanti di noi oggi sarebbero ancora lì, nei gruppi di Futuro e Libertà per l’Italia. Senza Casini chissà quanti di noi non avrebbero già preparato la valigia per riaccasarsi con il Cavaliere! Il primo a saperlo è proprio Gianfranco Fini. Mi son o rimaste impresse le sue parole pochi giorni prima di Natale: “sarò grato per sempre a Pier Ferdinando. Se lui non ci avesse subito messo a disposizione il Terzo Polo dopo la disfatta del 14 dicembre, si rischiava davvero di disgregare tutto…” . Io credo che senza quel gesto di Casini il vero rischio sarebbe stato Gianfranco. Non posso staccare dagli occhi la sua immagine pallida, inebetita dopo la conta dei voti della Camera sulla sfiducia a Berlusconi. Peggio di un pugile suonato. L’ho visto quel pomeriggio e anche la mattina dopo, e temevo davvero che lui non si sarebbe ripreso e che noi saremmo affondati ad avventura appena iniziata. Era incapace di reagire. Certo, la batosta è stata grande. Una scoppola che brucia, anche perché era del tutto inattesa. Ero con lui il 9 dicembre quando in un corridoio della presidenza abbiamo incontrato un amico comune, restato nel Pdl. Fini l’ha guardato quasi con compassione e gli ha detto: “cosa farete da domani? Se avrai bisogno di una mano, sappi che potrai sempre contare su di me”. Era sicuro, Gianfranco, maledettamente sicuro di vincere la partita. Come dargli torto? Anche all’assemblea del nostro gruppo quella certezza non era venuta meno. Io credo che lui sia davvero crollato quando ha capito cosa avevano deciso Silvano Moffa e Catia Polidori. Si era ormai capito che non avrebbe votato la sfiducia Maria Grazia Siliquini, anche se non pensavamo sarebbe passata dall’altra parte. Tutti la ricordavamo durante le nostre riunioni infervorarsi più di tutti contro Silvio Berlusconi. Lo definiva “Lucky Berlusca”, storpiando il nome di Lucky Luciano. Lei era forse la più esagitata di tutti contro il premier. E la più calda tifosa di Fini. Me la ricordo bene a settembre, a Mirabello, sul palco a incitare la folla che attendeva il leader mentre ritmava “Fini, Fini, Fini!!!”. La Siliquini è stata una sorpresa per questo, ma alla vigilia del voto avevamo capito che si stava sfilando. Lei è un tipo strano, è passata in mezzo a tanti partiti, ha vissuto anche qualche disavventura (finì in mezzo a un quasi dramma in Puglia: bruciò l’hotel in cui alloggiava e una telecamera la riprese mentre usciva- salvandosi- fra le fiamme). Dicono che sarà ripagata con un incarico all’Enel o qualcosa simile. Chissà… Comunque forse di lei Gianfranco aveva intuito. Di Moffa e della Polidori proprio no, e ci è rimasto malissimo. Ah, a proposito della Siliquini. E’ la cartina al tornasole di quanto le apparenze ingannano. Lei, ex democristiana, in pubblico appariva una delle più moderate. Nelle riunioni del gruppo era invece la più scalmanata. L’esatto opposto di Italo Bocchino. In pubblico sembra un guerrigliero di Futuro e Libertà. Nelle nostre riunioni interne è forse il più calmo e moderato di tutti. E’ molto tattico, Italo. E si è rivelato anche un grandissimo organizzatore, perché quel che c’è di Futuro e Libertà in gran parte l’ha costruito lui. In poco tempo ha compiuto un vero miracolo. Ma è stato questo miracolo che ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, e che probabilmente ci ha drammaticamente illuso. Il miracolo l’abbiamo visto ai primi di novembre a Bastia Umbra. C’era tutta questa Generazione Italia creata dal nulla da Italo, in gran  parte facendo uso di Internet. Erano migliaia: 8-10 mila, non so quanti, ma davvero tanti. Tantissimi se poi si pensa quanto sia difficile arrivare a Bastia Umbra. Non c’erano manco alberghi in grado di ospitarli tutti, bisognava dormire a chilometri e chilometri di distanza. Eppure erano tutti lì, entusiasti. E incazzati, incazzati neri con Berlusconi. Mai vista una rabbia così. Il clima era davvero da piazzale Loreto e per molti di noi è stata una sorpresa: giovanissimi, tanti 30-40 enni che sembravano compassati professionisti e che forse non avevano mai fatto politica. Credo che nessuno o pochi di loro appartenessero alla storia missina. Abbiano creduto che quello fosse davvero lo specchio del,l’Italia che aveva voglia di cambiare. E invece è stata una illusione. Perché forse erano davvero tutti lì. Nelle settimane successive ognuno nel proprio territorio ha provato ad allargare, a raccogliere militanti e magari qualche eletto negli enti locali. Nulla. Non si riesce ad aumentare di uno. I nostri gruppi parlamentari sono molto più rappresentativi di quel che si riesce a raccogliere in provincia. Forse a Bastia Umbra abbiamo toccato l’apice, e da lì in poi tutto è divenuto scivoloso. Perfino il comportamento di Gianfranco. Ne abbiamo discusso fra noi, e molte volte non l’abbiamo proprio capito. Anzi, quel pomeriggio del 14 dicembre dicembre più di uno aveva intenzione di iniziare il processo: perché mai nel famoso incontro con Giorgio Napolitano ha dato tutto quel tempio a Berlusconi per riorganizzarsi? Quello è Berlusconi, mica uno qualsiasi. Come si fa a dare un vantaggio così a chi ha al suo arco frecce come posti da viceministro o da sottosegretario, poltrone in consiglio di amministrazione di grandi società o enti pubblici? Come si fa? No, da lì in poi la strategia di Fini è diventata proprio incomprensibile. Inspiegabile anche quel suo usare  come arieti i vari Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio (perché è Gianfranco a mandarli avanti, per conquistarsi poi spazi di manovra…). Una disfatta. Che intendiamociantiberlusconiani nei nostri gruppi ce ne saranno tre o quattro al massimo. Tutti gli altri hanno grande rispetto per il presidente del Consiglio. Non dico che ne facciamo una malattia come capita al povero Andrea Ronchi che in questa situazione ha conquistato una gastrite permanente: sembra che giri con il cilicio addosso, tanto è sofferente. Ma insomma, a molti di noi non piaceva diventare i killer di Berlusconi. Non è capitato. E la barca regge. Grazie a san Pier Ferdinando. Certo, ora il leader è lui. Toccano a lui le mosse. In tv cercano lui per capire, lo invitano nei tg e nei talk show. E’ diventato centrale anche per noi. Ma intanto la barca non è affondata. E possiamo ancora navigare.



* pseudonimo dietro cui si cela un parlamentare di Futuro e Libertà

Alemanno pecca, Veltroni fa lo stesso ed è un eroe. Come De Benedetti, Ciampi, Amato, Rodotà, Di Pietro...


Che differenza c’è fra il signor Giorgio Marinelli e il signor Luca Rotini? Nessuna: sono due dipendenti dell’Azienda dei trasporti di Roma (Atac). Di più. entrambi hanno un papà body-guard di altissimo livello. Il papà di Giorgio ha fatto il capo-scorta del sindaco di Roma. Il papà di Luca pure. Eppure l’assunzione di Giorgio all’Atac è diventata uno scandalo nazionale, un titolo da prima pagina. Quella di Luca una curiosità da articoletto nelle pagine di cronaca locale. Perché la differenza fra Giorgio e Luca non è nel posto di lavoro e nell’eventuale raccomandazione ricevuta per ottenerlo grazie al lavoro di papà. La differenza fra i due sono i sindaci a cui i papà facevano da caposcorta. Per Giorgio il sindaco di riferimento è Gianni Alemanno. Per Luca Walter Veltroni. E che differenza c’è? Tutta la differenza del mondo: Alemanno è di destra, Veltroni di sinistra. Di più: Alemanno non è manco di quella destra che oggi è ammessa all’onore del mondo e dell’alta società: quella che dicono presentabile, moderna, stilosa e fighissima guidata dal cognato di Giancarlo Tulliani. No, Alemanno è di quella destra brutta, sporca e cattiva che sta dalla parte di Silvio Berlusconi. E’ lì il vero scandalo, non parentopoli. E’ nel peccato originale lo scandalo, non nel raccomandare il figlio di un proprio collaboratore per fargli avere il posto fisso. Perché se mai questo l’avesse fatto Alemanno, è scandalo, odiosa prepotenza, prevaricazione dei deboli. Se invece l’avesse fatto Veltroni, che è nato senza quel peccato originale, lo scandalo non c’è: sarà stata una debolezza di cuore, un impeto di generosità, una battaglia giusta per fare avere a un debole quel che altrimenti avrebbero negato.
Questa vicenda parallela, che proprio in questo modo si è riflessa su gran parte della stampa per poi circolare da lì nell’opinione pubblica, è il vero specchio di questo paese, ed è anche il termometro più sincero del potere reale, quello che nemmeno un ventennio berlusconiano è riuscito a scalfire.
L’Italia del Corrierone della Sera (talvolta anche di Repubblica che però fa più fatica a spacciarsi per terza e neutrale), della Stampa, di Confindustria, dei baroni universitari, degli scrittori, dei cineasti, degli intellettuali, dei banchieri, dei magistrati, dei salotti buoni, quella del potere vero, l’Italia regnante che ama fingersi sopra e oltre ogni parte così da emettere giudizi e condanne che hanno il timbro della divinità e della verità. Sì, la vicenda delle assunzioni all’Atac di Roma è proprio il più limpido riflesso di quella piccola e potente Italia che tutto decide e può, ma una sola cosa non è riuscita a dominare  e usare a suo piacimento: l’avventura politica di Berlusconi. Hanno provato a usarlo, cavalcarlo, dominarlo, metterlo in un angolo, denigrarlo, distruggerlo. Ma non gliene è riuscita nemmeno una. Eppure testardamente cercheranno ancora all’infinito. Tangentopoli, mafiopoli, sessuopoli, wikileaksopoli, ora parentopoli: fanno la cose in grande, mica si scherza. Ma lui è così coriaceo…
E’ che alla fine tanta panna montata così per seppellire l’uomo fa sorridere i più. E Corrieroni, banchieri, intellettuali, danno di matto. Perché gli italiani alla fine sono meno fessi di quel che loro credono. Apri la Rai e guardi il professore di turno che ospite della conduttrice alla moda scuote la testa. Lei lo provoca: “ma professore, dove andremo a finire con questi comportamenti del presidente del Consiglio?”. E lui, il professore Stefano Rodotà, dottrina pura dalle cui labbra pendere: “Lo dico da intellettuale: in rovina, in rovina…”. Ma che intellettuale e intellettuale superpartes: Rodotà è stato per lustri parlamentare del pci, poi il primo presidente del Partito democratico della sinistra. Non c’è uomo di parte più di lui. Ieri aprivi Radio radicale e sentivi all’ora di pranzo un’intervista a Giuliano Amato che spiegava che “sa come sono i politici? I politici parlano troppo..” e via con banalità su questi “politici”. Lo sentivi e ti chiedevi: “ma che mestiere ha fatto Amato tutta la vita?”. Era l’ombra di Bettino Craxi, e poi se ne è dimenticato. Era il premier che una notte si fregò il sei per mille sul conto corrente di tutti gli italiani. E poi se ne è dimenticato. Era il primo presidente dei Democratici di sinistra. E poi se ne è dimenticato. E a forza di dimenticarsene è sempre buono da usare per strologare su tutto, dal suo empireo super partes. Solo che lui dimentica. E con lui chi vuole fare dimenticare. Ma gli italiani non dimenticano. Prendi in mano un giornale e scopri che Carlo Azeglio Ciampi ha compiuto 90 anni e che è un padre della Repubblica anche se quando questa veniva fondata lui era in tutt’altre vicende affaccendato. Scopri anche che è un modello superpartes. Di più: è il simbolo stesso di quello che oggi l’Italia che conta vorrebbe tanto: il governo di responsabilità nazionale, un Super Ciampi premier. Per questo infastidisce tanto la realtà: che con Ciampi al governo il suo ministro della Giustizia, Giovanni Conso, graziò centinaia di mafiosi accogliendo la richiesta principale di Cosa Nostra: revocare il carcere duro. Leggi che Ciampi si indigna, protesta la sua innocenza e sostiene di avere graziato i peggiori killer della mafia a sua insaputa. Bevendosela tutta così, che altro puoi dire se non che quel governo allora fu di “irresponsabilità” nazionale, dove nessuno sapeva quel che si faceva? Potresti dirlo, ma non lo dice nessuno. Perché anche Ciampi fu uomo di parte, e della parte giusta: quella senza peccato originale. Prendi un altro giornale a caso, Repubblica, e leggi articolesse grondanti indignazione sulle relazioni strette fra Berlusconi e Mohammar Gheddafi. Ci si dimentica naturalmente che quel giornale è di proprietà di uno gnomo naturalizzato svizzero, Carlo De Benedetti, che alla fine degli anni Novanta ha deciso di crearsi un piccolo impero nell’energia. E ha iniziato dal gas. Quello di Gheddafi: 2 miliardi di metri cubi all’anno per 24 anni. Così passa la paura del dittatore di Tripoli e anche un bel po’ di indignazione. Leggi giornali e agenzie dell’Italia che conta e trovi altra grondante indignazione (l’Italia che conta è sempre indignata speciale): quella per il mercato delle vacche dei parlamentari. Il cognato di Tulliani che facendo il presidente della Camera, li dovrebbe proteggere, li ha sbeffeggiati: siete al calciomercato della politica. Ha stretto pure le labbra per non farsi scappare la parola fatidica di cui si lamentava fino a poche ore prima: “Traditori!”. Ma la parola è scappata agli Antonio Di Pietro e perfino ai giornalini che se l’erano presa con Libero per avere definito così i finiani: “Traditori, traditori!”. Qui non è manco questione di pesi e misure diverse: è proprio il concetto di tradimento che è diverso. Noi si diceva “tradimento” per la beffa appioppata agli italiani: mi voti per questo e una volta che ti ho preso il voto io faccio l’esatto opposto. Per loro- per i Fini, i Di Pietro, i Bersani, i giornaloni, gli intellettuali, che degli elettori e degli italiani se ne fregano assai, tradimento è verso il leader-burattinaio che ha avuto fiducia in te, che ti ha scelto e messo nelle liste elettorali portandoti lì. Ma è differenza da poco, come nel caso Atac: troveranno sempre un professorone, un editorialista pronti a spiegare super partes che se dici tu “tradire” è brutto sporco e cattivo. Se lo dicono altri è giudizio equanime ed obiettivo, musica per la democrazia. Tanto il problema è tutto lì: nel peccato originale.

Gattegna sfodera accuse di razzismo per un pezzo che non gli piace: Così banalizza la Shoah



Egregio Direttore,
sono rimasto stupito e costernato nel leggere l’articolo “Talmud tradotto- Berlusconi soffia gli ebrei a Fli” pubblicato da “Libero” l’8 dicembre scorso a firma di Franco Bechis.
E’ grave che un professionista esperto cada in un errore tanto grossolano e che confonda un’importante iniziativa culturale, la cui progettazione risale a diversi mesi fa, con un presunto mercanteggiamento elettorale dell’ultima ora che non è mai avvenuto e mai potrebbe avvenire.
Né l’autore dell’articolo né il giornale da lei rappresentato possono ignorare che per la cultura del nostro Paese sarebbe un grande arricchimento dotarsi della traduzione in italiano del Talmud, un’opera monumentale e fondamentale non solo per gli ebrei ma per l’intera società.
Mi rivolgo a lei per chiederle di riesaminare ciò che è stato pubblicato, tenendo presente che gli ebrei italiani si sono sentiti gravemente offesi nella loro onorabilità e preoccupati per la riproposizione di vecchi stereotipi che in passato hanno prodotto tanti lutti e tanti orrori.
Sarebbe un gesto apprezzabile se questa mia lettera fosse pubblicata sul giornale da lei diretto con il dovuto risalto.
Avv. Renzo Gattegna
presidente Unione comunità ebraiche italiane


Caro avvocato Gattegna, sono ebreo e italiano. E naturalmente non mi sento per nulla offeso da quel che ho scritto e fatico non poco a comprendere come possa esserlo lei o chiunque altro. Non ho mai scritto di un mercanteggiamento della comunità ebraica per il finanziamento della traduzione italiana del Talmud. Né ha senso riferirsi a un mercanteggiamento elettorale, visto che non si vota e la parola “elezioni” in questo momento sembra tabù per chiunque. Ho solo scritto che la scelta (a dicembre, non mesi fa) del governo italiano di trovare un finanziamento straordinario di 5 milioni di euro per tradurre il Talmud avrebbe fatto piacere all’Unione delle comunità ebraiche italiane. La sua lettera dice il contrario: evidentemente mi sono sbagliato. O non le fa piacere il finanziamento, oppure non le fa piacere che sia pubblico il nome del donatore: il governo di Silvio Berlusconi. E’ libero di dispiacersi per quel che vuole. Non le consento però da ebreo, appartenente a una famiglia perseguitata durante la seconda guerra mondiale, in cui chi è sopravvissuto lo ha fatto perché riuscito a fuggire lontano dal paese dove era nato, di banalizzare per una sua piccola polemica una tragedia dell’umanità. Di quali stereotipi, di quali lutti e di quali orrori va cianciando a proposito di un articolo sui finanziamenti alla ricerca? Trovi una sola parola nel testo pubblicato che dia appiglio alla viltà con cui lei replica. Mi stupisce che lei- per la carica che ricopre- possa brandire la Shoah con tale banale leggerezza, solo per dire “Io ho ragione (ed è un suo diritto), e se non mi dà ragione allora lei è un persecutore e perfino razzista (e questa è solo ottusa prepotenza)”. Faccio il giornalista, pubblico notizie e talvolta cerco di fornirne l’interpretazione. Può capitare di sbagliare o di trovare chi non è d’accordo. Lei come tutti ha il diritto di replica o di rettifica. Non di non abusarne, e tanto meno di offendere.

Franco Bechis

Berlusconi trova 5 milioni e lì dà alle comunità ebraiche per tradurre il Talmud


Gianfranco Fini ci ha impiegato una vita per scrollarsi dalle spalle il passato e conquistarsi il favore di una delle comunità più piccole, ma potenti del paese: quella ebraica. Ci sono voluti anni di abiure e distacchi, pazienti lavori diplomatici degli amici Alessandro Ruben e Giancarlo Elia Valori che furono alla base del suo antico viaggio in Israele. A Silvio Berlusconi è bastato un secondo e quattro righe di testo per conquistare da quella piccola, ma potente comunità non solo simpatia, ma gratitudine e riconoscenza proprio un uno dei momenti più difficili e delicati della vita del governo. Lo scorso tre dicembre infatti il governo Berlusconi ha mandato in Senato a firma del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini (fedelissima berlusconiana) le scelte del ministero e dell’intero esecutivo per finanziare in ogni settore la ricerca: dalla scienza alle lettere, dalle arti alla tecnologia. La somma trovata, pur fra le pieghe dei tagli imposti da Giulio Tremonti, è rilevante: un miliardo e 754 milioni di euro. Ed è anche più alta di quella proposta l’anno precedente (era un miliardo e 628 milioni di euro), contrariamente a quel che si dice in convegni non solo delle forze di opposizione. E’ in quel fiume di fondi pubblici che spunta una decisione piccola ma importantissima per la comunità ebraica: il fondo governativo per la ricerca ha deciso di finanziare un progetto che il Cnr ha siglato con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane- Collegio rabbinico nazionale. Si mette a disposizione un milione di euro per il 2011 e se ne garantiscono già altri quattro milioni fino al 2015 (qualsiasi governo sarà tenuto a rispettare la decisione) per “la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica”. Il Talmud accanto alla Torah è il principale testo sacro della tradizione ebraica ed è un’opera monumentale. Letteralmente la parola Talmud significa “insegnamento” ed è in sostanza la “Torah orale” rivelata sul monte Sinai a Mosè e da lui trasmessa di generazione in generazione fino a quando non fu messa per iscritto da maestri e sapienti dopo la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme, nel timore che gli israeliti potessero scomparire. Scritto in aramaico è stato tradotto dal rabbino Adin Steinsaltz in ebraico moderno, un lavoro che ha visto schierati con lui i massimi esperti di testi sacri ebraici e che è durato 50 anni, con alcune traduzioni terminate proprio in questo 2010. Quella traduzione ha naturalmente contribuito a diffondere il Talmud fra gli ebrei di tutto il mondo in modo più comprensibile di quanto non fosse avvenuto finora. Grazie al rabbino Steinsaltz il testo sacro è stato tradotto più agevolmente anche in francese, russo, tedesco e inglese. In italiano esistono solo alcune parzialissime traduzioni, ma il lavoro sarà più semplice di quello di Steinsaltz perché basterà partire dall’ebraico moderno e dalle interpretazioni del testo già adottate in questi 50 anni (era la parte più difficile). Vista la complessità dell’opera, non deve stupire l’impegno finanziario per la traduzione in italiano (5 milioni di euro), visto che per cinque anni dovrà lavorare una squadra di trenta professionisti. La scelta del governo e del Cnr ha ovviamente scatenato l’entusiasmo sia del rabbino capo di Roma, rav Riccardo di Segni sia del direttore del collegio rabbinico, Gianfranco Di Segni (che è biologo molecolare proprio al Cnr) secondo cui “con la traduzione si potrebbe rendere accessibile ai più il talmud. Potrebbe essere un primo passo per spingere molte persone ad intraprendere il difficile cammino dello studio dei trattati indispensabili per comprendere la nostra realtà”.
Se il favore della comunità ebraica italiana non è cosa da poco conto per Berlusconi in un momento politicamente così delicato, nel decreto per la ricerca del 3 dicembre scorso non ci sono solo le assegnazioni straordinarie al Cnr per il progetto Talmud, ma anche altri piccoli e grandi finanziamenti molto significativi per la ricerca: come i primi fondi per il progetto “bandiera Epigenomica” (costo di 30 milioni in tre anni) per “lo sviluppo della scienza genetica, con particolare riferimento alla teoria del sequenziamento del Dna e del Rna”. A grandi capitoli sarà comunque il Cnr il maggiore beneficiario dei fondi per la ricerca (627 milioni di euro) seguito dall’Agenzia spaziale italiana (574 milioni), dall’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati (308 milioni di euro) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (103 milioni di euro). Sempre nell’ambito del finanziamento al Cnr sono stati trovati anche 300 mila euro a titolo di “contributo straordinario per attività di ricerche internazionali con Israele nell’ambito del programma di ricerche Lens”.

Ciampi e Scalfaro si fecero scappare anche il boss di Gomorra



Il capo del clan dei Casalesi, il protagonista principale delle vicende di Gomorra raccontate da Roberto Saviano, scrisse nell’agosto del 1993 al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro chiedendogli la revoca del regime carcerario duro previsto dal 41 bis. Francesco Schiavone detto Sandokan dunque supplicò insieme ad altri tre boss della camorra Scalfaro di “revocare il trattamento penitenziario a cui siamo sottoposti e di ripristinare la legalità. La lettera di Schiavone fu resa pubblica l’11 agosto di quell’anno, poche settimane prima che il ministro della Giustizia Giovanni Conso firmasse la revoca del carcere duro per 140 boss mafiosi. E’ un nuovo inquietante particolare che emerge fra le pieghe di quell’anno oscuro in cui il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (chiamato “governo del Presidente” anche perché voluto fermamente da Scalfaro) accettò di fatto le condizioni che la criminalità organizzata aveva dettato nella stagione degli attentati e delle stragi. Per Schiavone in realtà non ci fu bisogno di quella revoca, perché fu la magistratura dell’epoca ad alleggerire la condizione carceraria del capo del clan dei Casalesi. Il 17 ottobre del 1993 infatti i giudici della Corte di Appello di Napoli presero la clamorosa decisione di alleggerire la sua pena già comminata nell’attesa dei processi chiave ancora in corso (per cui sarebbe stato poi condannato all’ergastolo), scarcerandolo e limitandosi a firmare un provvedimento di sorveglianza speciale per tre anni. Il giorno stesso della scarcerazione Schiavone detto Sandokan si è reso latitante. E così proprio mentre si apprestava a firmare la resa alle condizioni imposte dalla criminalità organizzata il governo Scalfaro-Ciampi-Conso si fece sfuggire di mano uno dei più pericolosi camorristi esistenti, il capo del clan dei Casalesi.
Resta ancora un giallo per altro la ragione per cui l’allora ministro della Giustizia, Conso, firmò quell’anno come guardasigilli di Ciampi due provvedimenti di maxi-revoca del 41 bis a boss della Camorra e della mafia. Il primo fu il 14 maggio e riguardò 140 detenuti delle carceri di Secondigliano e di Poggioreale. Il secondo avvenne il 5 novembre e alleggerì la condizione carceraria per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone.Davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe Pisanu l’ex ministro della Giustizia del governo Ciampi ha ricordato soltanto il secondo provvedimento di revoca del regime carcerario duro ai boss, dimenticando il primo. E ha sostenuto di averlo adottato in segreto e in solitudine, per verificare se quel segnale di disponibilità fosse utile a mettere fine alla stagione stragista di Cosa Nostra. Conso però ha omesso molti particolari di quell’anno emersi anche documentalmente nelle ore successive. A parte il primo provvedimento di revoca, esisteva anche un verbale del comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico in cui prima l’ex capo della polizia, Vincenzo Parisi (legatissimo a Scalfaro) e poi l’allora direttore delle carceri italiane, Nicolò Amato, proposero l’abolizione o l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi. La commissione antimafia ha per questo deciso di riconvocare Conso insieme ad altri esponenti delle istituzioni dell’epoca (Nicolò Amato e Ciampi). Ieri sera il Tg1 ha provato a intervistare telegfonicamente sul tema lo stesso imbarazzatissimo Conso. L’ex ministro ha risposto al telefono, prima fingendo di non essere in casa: “No, mio padre non c’è”, ha balbettato (Conso ha 88 anni, ndr). Poi ha ammesso la sua identità e si è scusato, spiegando che l’argomento è troppo delicato per concedere interviste, e che chiarirà i dubbi emersi nelle sedi istituzionali: in antimafia e presso la procura della Repubblica di Firenze, che sta conducendo una indagine sulle presunte trattative dell’epoca fra Stato e Mafia.
Fra i testimoni dell’epoca è probabile che venga sentito anche l’allora capo della Dia, prefetto Gianni De Gennaro. Anche perché poche settimane prima del provvedimento di clemenza ai boss mafiosi firmato dal governo Ciampi proprio De Gennaro concesse a La Stampa una allarmatissima intervista così titolata: “Dopo le stragi Cosa Nostra punta al golpe”. De Gennaro così lesse stragi e attentati di quell’estate: “I boss potrebbero essersi convinti che il terrore sia l’unica strada per invertire la tendenza contraria, fidando nell’effetto paura per fiaccare il consenso sociale alla linea governativa. Ma le finalità sono anche di natura più concreta e immediata, per esempio quelle di fare modificare l’atteggiamento istituzionale, cambiando alcune norme di recente emanazione. Una di queste- non l’unica- mi pare possa essere l’articolo 41 bis che regola le modalità di detenzione per i mafiosi. La carcerazione differenziata mette in crisi Cosa Nostra: il mafioso finalmente non comunica con l’esterno e, soprattutto, perde l’aureola di onnipotente anche fra le sbarre. Non è un caso che fra gli attentati sventati ve ne sia uno che stava per essere attuato contro 14 agenti di custodia di Pianosa. Se Cosa Nostra voleva reagire, è segno che il 41 bis non le piace”.
Quindi poche settimane prima della seconda clamorosa calata di braghe di fronte ai boss mafiosi da parte del governo Scalfaro-Ciampi-Conso il direttore della Dia aveva chiesto semmai di non mollare sul 41 bis, spiegandone semmai la grande efficacia. Diventa ancora più misteriosa allora la scelta del governo dell’epoca.

In barca con il boss? Non era Briatore, ma il figlio di Ciampi


 Per sostituire Silvio Berlusconi e affrontare la grave situazione economica e istituzionale il Partito democratico vorrebbe un governo come quello che nel 1993 calò le braghe di fronte alla mafia dandola vinta alla massima organizzazione criminale italiana: il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Proprio nelle ore in cui emerge la grave responsabilità di quell’esecutivo che disapplicò il 41bis (il carcere duro ai boss) come i mafiosi volevano, ricattando lo Stato di strage in strage, uno dei leder del Pd, Walter Veltroni, se ne è uscito con una proposta incredibile: “Si deve dare vita a un governo istituzionale che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al Paese. Chi vuole votare ora è nemico dell’Italia”. Va bene che il Pd è ormai famoso per non averne azzeccata mai una da quando è nato, ma l’uscita di Veltroni ha fatto strabuzzare gli occhi a molti dei suoi. Proprio quando dentro il partito si stava perfino accarezzando l’idea di accasare (c’è chi dice perfino come leader) un uomo-simbolo dell’antimafia come Roberto Saviano, è sembrato follia uscirsene con quel “modello governo Ciampi” proprio nel bel mezzo delle rivelazioni sui favori fatti dall’esecutivo in quel 1993 ai boss di Cosa Nostra accettando di fatto le condizioni poste dal papello Ciancimino trovato un anno fa. Prudenza avrebbe consigliato di cancellare perfino il ricordo di quel governo, che tutto fece meno che rassicurare l’Italia, ma il Pd- si sa- è fatto così: se trova l’occasione per un hara-kiri ci si butta a capofitto.
Proprio mentre Veltroni confessava al Corriere il suo modello, ieri davanti al pm fiorentino della Dna, Gabriele Chelazzi, si è svolto l’interrogatorio di Nicolò Amato, che nel 1993 era direttore delle carceri italiane. L’ex collaboratore del ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, ha confermato che la decisione di disapplicare il carcere duro ai mafiosi venne proposta dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, un fedelissimo del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e che vi furono anche “pressanti insistenze” per la revoca della carcerazione dura da parte del Viminale, che era guidato da Nicola Mancino. Grazie a questo pressing il governo Ciampi adottò due decreti di revoca del carcere duro ai mafiosi. Uno a maggio e l’altro a novembre e i destinatari erano in tutto 280 boss detenuti nelle carceri di Secondigliano, di Poggioreale e dell’Ucciardone.
Amato ha confermato parzialmente la versione di Conso, dicendo che non vi fu trattativa con le organizzazioni mafiose (non avrebbe per altro potuto dire diversamente), ma discussione politica sì, tutta nelle sedi istituzionali. Lo scopo sarebbe stato quello già rivelato dall’ex ministro della Giustizia: fare finire la stagione delle stragi allentando la morsa di quel 41bis che a tutti era chiaro fosse all’origine degli attentati e degli assassinii del 1992-’93.
Ci sarà da indagare naturalmente sulle versioni e sui motivi di quella scelta, ma intanto i nuovi fatti emersi, le testimonianze e le documentazioni per la prima volta acquisite agli atti sono in grado di riscrivere la storia di quegli anni e probabilmente buona parte della storia di Italia così come l’abbiamo conosciuta. Sentenze comprese.
La vicenda dei rapporti fra Stato e Mafia invece di essere studiata e indagata con prudenza viene spesso utilizzata in modo distorta come manganello di uno schieramento contro l’altro. Ha brandito questo argomento in modo maldestro lo stesso Saviano contro la Lega, scatenando le ira del ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Incidente simile è accaduto ai primi di novembre al Fatto quotidiano ditretto da Antonio Padellaro. Che ha pubblicato l’anticipazione di un libro-intervista alla prima moglie di Flavio Briatore titolando “Quando Mr. Billionaire frequentava i mafiosi” e prendendosi una querela dal diretto interessato. Il Fatto si scandalizzava per la presunta frequentazione da parte di Briatore alla fine degli anni Ottanta di due personaggi: Gaetano Corallo, il re del casinò delle Antille e Rosario Spadaro, re degli hotel delle Antille. Erano loro i mafiosi individuati dal Fatto, e Briatore ha querelato perché sostiene di non averli mai frequentati.
In effetti i due personaggi frequentavano all’epoca il bel mondo. Non la famiglia Briatore, però. Si trattava della famiglia Ciampi. E in particolare del rampollo di Carlo Azeglio, Claudio, che all’epoca era dirigente dell’ufficio di New York della Bnl, in mezzo a mille polemiche per non avere controllato la filiale di Atlanta ed evitato lo scandalo internazionale dei fondi all’Iraq. Ciampi jr aveva rapporti strettissimi con Spadaro, tanto da essere stato intercettato dall’Alto commissario antimafia, Domenico Sica (le carte sono ancora in archivio) numerose volte al telefono con lui e nell’estate del 1989 addirittura mentre erano insieme in barca. Un missino dell’epoca, per anni fiero oppositore di Gianfranco Fini e ora finito fra le sue braccia, il barone Tommaso Staiti di Cuddia, presentò una interrogazione parlamentare che fece molto rumore, ipotizzando che nelle Antille con Spadaro fosse finito anche il governatore della Banca di Italia, Carlo Azeglio Ciampi. In effetti nelle telefonate con Ciampi jr c’erano numerosi riferimenti di Spadaro a un imminente incontro con “il Governatore”. Interrogati poi i due sostennero che il riferimento era al Governatore della isola di Sant Marteen. Ciampi jr per diradare le ombre che si addensavano sul padre ammise la frequentazione con Spadaro, prima sostenendo “non ho letto da nessuna parte che Spadaro sia stato giudicato colpevole di qualche reato”, poi aggiungendo: “Rosario è cliente della Bnl da molti anni, più di dieci. Siccome io mi occupo dell’area commerciale, mi sembra naturale che io abbia contatti con lui. Credo non sia reato e tantomeno peccato andare in barca con qualcuno..”. Spadaro è stato arrestato due volte. Nel 1993 dalla polizia olandese nelle Antille per un’inchiesta sulle tangenti. Nello stesso anno è stato indagato dalla procura di Messina per traffico internazionale di armi. Nel 2005 Spadaro è stato arrestato una seconda volta per ordine della procura antimafia di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”. Reati che non hanno portato al momento a condanne in via definitiva. Resta il fatto che Spadaro in barca andava con il figlio di Ciampi e non con Briatore. Banale particolare che però insieme a quelli ben più seri e sostanziosi che emergono fra i segreti dell’attività del governo Ciampi nei confronti della mafia, racconta una storia assai diversa dalla favola ufficiale narrata. Particolare che sconsiglia vivamente di utilizzare questi temi in modo strumentale: spesso si rivelano armi a doppio taglio.

Scalfaro-Ciampi: da 20 anni fanno la morale a tutti, ma furono loro a calarsi le braghe davanti alla Mafia

Fu per un articolo che Salvo Lima fu assassinato. Fu per lo stesso articolo che saltarono in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che Oscar Luigi Scalfaro divenne capo dello Stato, che esplosero le bombe al Velabro e all’Accademia dei Georgofili. L’articolo è il 41bis dell’ordinamento penitenziario, che isola i boss mafiosi dai contatti con le loro famiglie e dai pizzini dei capi in libertà. Sappiamo da anni dalle inchieste giudiziarie, dai pentiti e dai documenti ritrovati che le stragi e gli attentati del 1992-’93  erano il pressing di Cosa Nostra per ottenere l’abolizione di quel 41bis. Questo sta scritto anche nel famoso papello Ciancimino ritrovato per caso poco più di un anno fa e che sarebbe lì a mostrare la trattativa in corso fra Stato e Mafia. Quel che non era noto invece è che la mafia vinse quel braccio di ferro con lo Stato. E che ad arrendersi fu lo Stato rappresentato al Quirinale proprio da Scalfaro, a palazzo Chigi da Carlo Azeglio Ciampi, al Viminale da Nicola Mancino, al ministero della Giustizia da Giovanni Conso, alla direzione della polizia da un fedelissimo di Scalfaro come Vincenzo Parisi. Fu quello Stato ad arrendersi alla mafia e a dargliela vinta, senza abolire il 41bis ma disapplicandolo di nascosto prima nel maggio e poi nel novembre 1993 a ben 280 boss di Cosa Nostra, metà dei quali erano detenuti a Palermo nel carcere dell’Ucciardone. Nella sua audizione della scorsa settimana davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe Pisanu l’allora ministro della Giustizia, Conso, ha candidamente ammesso di avere deciso di liberare dal giogo del 41 bis nel novembre 1993 quei 140 boss della mafia di propria autonoma scelta, non consultandosi con alcuno e solo per vedere se con un gesto- diciamo così, di distensione- finivano le stragi.  Già l’ammissione in sé ha fatto franare il castello dei teoremi giudiziari di molte procure italiane. Queste sostenevano infatti che fino agli anni Ottanta il referente unico della mafia fosse Giulio Andreotti, poi pentito fino a diventare addirittura il padre del 41 bis. Andreotti- continua il teorema- fu punito per questo con l’assassinio di Lima, cui seguirono quelli di Falcone e Borsellino. A quel punto di strage in strage- continuava il teorema- Cosa Nostra provò a intavolare una trattativa con pezzi dello Stato. E attraverso Ciancimino raggiunse Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che si preparava a diventare politico e non voleva stragi fra i piedi, per raggiungere lo scopo. Certo, il teorema vacillava perché una volta andato al governo Berlusconi confermò il 41 bis e iniziò anzi una dura lotta alla mafia culminata con un discorso a Palermo nell’ottobre 1994 che fu esaltato perfino da Attilio Bolzoni su Repubblica. Le inchieste cercavano per chiudere la partita qualche documento o qualche atto riportabile a Berlusconi per dimostrare che sì, la trattativa era reale e il 41bis stava per essere abolito. Ora l’ammissione di Conso manda tutto all’aria perché se trattativa mai fosse esistita, le richieste della mafia furono esaudite dal governo Scalfaro-Ciampi-Mancino-Conso. Un bel guaio per dietrologi, magistrati, campioni dell’antimafia, perfino per i vari Roberto Saviano: la loro tesi sui rapporti fra mafia e politica sta diventando un boomerang. E ora rischia di colpire proprio chi da venti anni fa la morale e insegna la retta vita a tutti gli altri italiani. La mafia voleva una cosa e l’ha ottenuta da quel governo, non da altri. Conso ha certamente aperto una autostrada alla verità storica, ma la sua versione fa acqua da molte parti. Lui ha ammesso quell’episodio del novembre 1993, ma è saltato fuori anche un decreto precedente di revoca del 41 bis ad altri 140 boss del 14 maggio 1993, la sera stessa dell’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro. Quindi sono stati due i decreti del governo Ciampi a disapplicare il 41bis ai mafiosi. Il primo, quello dimenticato da Conso, fu suggerito misteriosamente in una riunione del 12 febbraio 1993 dall’allora capo della polizia, Parisi (era l’ombra di Scalfaro) e sostenuto dal direttore delle carceri Nicolò Amato. A differenza dei teoremi giudiziari precedenti, ci sono documenti e fatti che provano quanto è avvenuto nel 1993. Ciampi era capo del governo. Richiesto ora di un commento si è rifiutato di intervenire con una dichiarazione facendo però sapere in privato che lui non c’entrava e che aveva ereditato una proposta simile dal governo precedente di Giuliano Amato, in cui Conso e Mancino erano già ministri. La versione Ciampi è plausibile semmai per il primo decreto, quello di maggio. Ma per il secondo, firmato sei mesi dopo (a novembre) Giuliano Amato non può centrare proprio nulla. Credibile la versione di Conso, allora, di avere deciso tutto in solitudine e di nascosto? Mica tanto. Come faceva ad essere quella revoca del 41 bis nascosta al direttore dell’Ucciardone e al magistrato di sorveglianza del carcere? Impossibile. Come impossibile che fosse nascosta ai pubblici ministeri di Palermo che un anno prima avevano chiesto l’applicazione del 41bis per quei boss mafiosi. Impossibile che quella decisione fosse ignota al procuratore capo di Palermo, che dal 15 gennaio 1993 era Giancarlo Caselli, né al procuratore aggiunto Guido Lo Forte e ai pm Roberto Scarpinato e Gioacchino Natoli.  Eppure nessuno protestò, nessuno rese pubblico per venti anni che lo Stato nell’anno di Scalfaro-Ciampi-Mancino-Conso-Parisi e Caselli aveva ceduto alla mafia, dandogliela vinta sul 41 bis. Strano che i pm che di solito insorgono per queste cose e scatenano campagne stampa, si chiusero in un mutismo assoluto. Strano, eppure comprensibile: se avessero rivelato gli atti a loro conoscenza, si sarebbe sbriciolato fra le loro mani l’atto di accusa nei confronti di Andreotti che avevano appena firmato.  Anche per questo bisogna riscrivere la storia di Italia degli ultimi venti anni.