Quel giudice ha buon cuore: fa uno sconto di 200 milioni a Berlusconi. Senza motivo
Ci sono almeno 26 pagine di troppo nelle 146 scritte dal giudice monocratico Raimondo Mesiano per condannare la Fininvest di Silvio Berlusconi a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 749 milioni di euro per avere perso la chance di nominare oltre a quello del L’Espresso anche il direttore di Panorama. Sono di troppo perché sono ripetute due volte. La prima quando si spiegano le richieste dell’Ingegnere. La seconda volta quando ascoltate le parti il giudice monocratico spiega che cosa ha deciso e perché lo ha fatto. La tesi di una parte è diventata sentenza. E’ qui il tallone di Achille principale di questo processo che ha portato fra mille polemiche al più grande risarcimento mai concesso da un tribunale italiano. E’ un po’ come se in un processo penale il tribunale facesse copia e incolla della requisitoria del pm trasformandola in sentenza. Certo, può accadere ed è accaduto, quando nelle aule di giustizia il diritto alla difesa, l’escussione di testi, le eccezioni, i fatti nuovi, i contesti, le controprove a nulla servono perché ci si è innamorati della tesi dell’accusa. In quei casi però se il pm chiede dieci anni di carcere, il tribunale dieci ne commina. Nel caso della sentenza per il risarcimento sul cosiddetto lodo Mondadori quel che non si capisce allora è proprio la pena finale. Il giudice Mesiano (che pure deve essere andato di fretta: in più pagine della sentenza sbaglia perfino il nome della casa editrice, chiamata “Mondatori”) non ne passa una agli avvocati della Fininvest. Spiega che la sentenza di corte d’appello che diede torto a De Benedetti costringendolo poi a trattare con Berlusconi la spartizione della grande Mondadori (aveva in pancia pure Espresso e Repubblica) fu solo effetto di corruzione del giudice che presiedeva un collegio, Vittorio Metta. Affermazione apodittica, che reinterpreta perfino il processo penale di cui manco si sono acquisite integralmente le carte. Corrotto il giudice, corrotta la sua sentenza che cassava il celebre lodo che avrebbe consegnato la Mondadori a De Benedetti. Ma se quel giudizio fu carta straccia- come sostiene il giudice Mesiano- perché mai concedere alla Cir solo il risarcimento per avere perso la chance di nominare insieme i direttori di Espresso, Repubblica, Panorama, Donna Moderna e tante altre testate di successo? Se la sentenza che ridiede la Mondadori a Berlusconi fu corrotta, bisognerebbe restituire tutto a De Benedetti senza tanti giri di parole. Invece Mesiano sceglie la strada della “chance” perduta dall’Ingegnere, che gli avvocati della Cir si erano immaginati solo nel caso le loro tesi principali fossero state rigettate (e non lo sono state). Detta in parole semplici: se quel giudice che diede ragione a Berlusconi non fosse stato corrotto da avvocati amici di Berlusconi, quante chance avrebbe avuto De Benedetti di vincere anche in appello e tenersi tutto? La risposta pratica ve la do io- ed è contenuta perfino nella sentenza-: nessuna. Eravamo ancora nella prima Repubblica. Comandavano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. E come riferisce lo stesso De Benedetti tutti e tre avevano fatto sapere ai due contendenti che Mondadori+Repubblica+Espresso a uno solo sarebbe stato impossibile. Avrebbero scritto una legge antitrust ad hoc per impedirlo. Ma il giudice Mesiano che anche questo ha letto nelle testimonianze processuali ha deciso del tutto a casaccio (non spiega perché) che De Benedetti avrebbe avuto l’80% delle chance di conquistare tutto. Così concede alla Fininvest uno sconto di circa 200 milioni di euro. Se De Benedetti avesse avuto il 100% delle chance il risarcimento sarebbe stato poco sotto il miliardo di euro, quel che secondo Mesiano vale la mancata conquista della Mondadori. Anche qui, valutazione del tutto a casaccio. Perché oggi l’intera Mondadori vale in borsa meno di quella cifra. E dentro ha cose che all’epoca non aveva: ad esempio la Silvio Berlusconi editore ( Chi, Sorrisi e Canzoni).
Ci sono ipotesi giuridiche un po’ spinte nella sentenza. Come quella di giustificare il ritardo con cui De Benedetti si è accorto del danno subito chiedendone il risarcimento, paragonando il povero ingegnere a un malato di Aids che solo dopo anni si è accorto di essersi beccato il virus in seguito a trasfusione (pagina 57). O quando si spiega che l’assegnazione di quel caso non doveva essere al giudice Metta, perché questo aveva troppo potere come diceva un volantino dell’epoca di Magistratura democratica (fatto dato per certo ma non provato perché lo stesso giudice Mesiano ammette di non avere reperito più quel volantino).
Voli grotteschi a parte la sentenza che accoglie in toto la tesi Cir pecca soprattutto di vuoto di memoria storica. Non si ricorda che azionisti della Amef e della Mondadori erano riuniti in un patto di sindacato comunicato al mercato e a tutti i piccoli azionisti. Che quel patto fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi ma anche i Merloni, i Rocca e Leonardo e Mimma Mondadori) e di tutti i piccoli azionisti Mondadori e Amef. Che presa la Mondadori violando il patto di sindacato Amef e gli accordi comunicati al mercato, De Benedetti la fuse con Repubblica ed Espresso, facendo pagare a tutti i soci – volenti o nolenti- della Mondadori- 410 miliardi di lire dell’epoca a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Anche quello potrebbe essere un danno patrimoniale subito dagli azionisti Mondadori dell’epoca. Si disse che i due – Scalfari e Carracciolo- avevano rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi vennero fuori carteggi segreti che regolavano assai diversamente la partita. Ed erano firmati da una parte dall’azionista del gruppo Espresso- Repubblica, Caracciolo, che vendeva. E dall’altra dall’acquirente: il nuovo presidente della Mondadori, Caracciolo.
( Da Libero- 7 ottobre 2009)
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