L'ultima dei pm sul cav: condannatelo, perchè delinque solo a parole. Ma poi non fa nulla...

Di cosa è accusato Silvio Berlusconi dai magistrati di Trani? Di avere fatto pressioni e tentato di punire un mezzo di comunicazione, la Rai. Questo a Trani. Perché anche a Milano Berlusconi è accusato. E questo certo non farebbe notizia. Non fosse che l’accusa poggia sull’assunto diametralmente opposto: quella di non avere mai manifestato “intenti punitivi nei confronti dei mezzi di comunicazione”. Lo sostiene il giudice milanese Alda M. Vanoni in un documento inviato alla Camera il 13 febbraio scorso. Detta così sembrerebbe una cosa da pazzi. Ma non lo è. Perché a Milano come a Trani l’obiettivo è lo stesso: incastrare Berlusconi. Per farlo in Puglia bisogna dimostrare quella tesi, del Berlusconi che minaccia la libertà di comunicare. Per farlo a Milano bisogna dimostrare la tesi opposta. Lì infatti il giudice si è trovato una causa civile del gruppo Espresso contro il premier, che pubblicamente davanti a imprenditori si era lamentato dell’atteggiamento critico di quei giornali dicendo “non dovreste dargli più pubblicità”. A processo Berlusconi ha sollevato lo scudo costituzionale dell’immunità: “era una battuta politica, insindacabile”: E ai giudici, che altrimenti dovevano fermarsi, non è restata altra arma che accusarlo di essere quasi un santo: “Non sembra potersi collegare ad alcuna attività parlamentare svolta dall’onorevole Berlusconi, dato che le sue iniziative non hanno mai manifestato intenti punitivi nei confronti dei mezzi di comunicazione”. Morale della favola di Berlusconi imputato: “Sei colpevole? Ti condanno”. “Non sei colpevole? Male. Allora ti condanno per la tua intollerabile innocenza”.

Intercettare e incastrare è così bello che è addirittura meglio di salvare la vittima di un delitto. Il manifesto dei pm secondo Antonio Di Pietro

La difesa era scontata. Per uno come Antonio Di Pietro qualsiasi inchiesta possa mettere nel mirino “quel piduista di Silvio Berlusconi”- come ha detto ieri nel morbido salotto di Repubblica tv- è ottima a prescindere. E per difendere appunto a prescindere i magistrati di Trani l’ex pm divenuto leader politico ieri ha spiegato che quando lui era al loro posto faceva nello stesso modo: “non è che se io facevo inchieste a Milano e poi sentivo al telefono qualcuno che pagava tangenti a Napoli, Canicattì o Mondovì dicevo alt, non mi riguarda. Intercettavo tutto e poi alla fine decidevo di inviare gli atti a Napoli, Canicattì o Mondovì”. Quindi vero che i pm di Trani stavano indagando e intercettando sullo “scandalo dell’usura sulle carte di credito” (un clamoroso affaire del valore di 560 euro), ma se intercettando per quello hanno scoperto reati ben più grossi che riguardano – ha detto testualmente Di Pietro- “il presidente del Consiglio e il presidente della Rai, Minzolini”, benissimo hanno fatto a continuare a intercettare. Ed ecco l’asso sfoderato dal leader dell’Italia dei Valori per convincere qualche dubbio degli astanti: “ dimenticatevi questi fatti. Facciamo finta che ad essere intercettati a Trani fossero un gruppo di spacciatori di cocaina e si procedesse per quel reato. Mentre sono intercettati entra un’altra persona che dice ‘Ho saputo che domani Giuseppe va ad ammazzare sua moglie’. Il pm che deve fare? Fare finta di non sentire perché si sta occupando di un altro reato? No. Naturalmente intercetta anche il telefono di Giuseppe così capisce se si trattava di una battuta o se davvero quello lì fa anche l’omcidio e così si poi lo si incastra”. Ecco, con il suo discorso in parole povere fra mille strafalcioni in italiano, Di Pietro ha proprio centrato l’argomento chiave per cui non solo quelle di Trani, ma gran parte delle intercettazioni fatte dalle procure italiane sono inutili. Perché nella testa Di Pietro, che per fortuna non fa più il magistrato, e molti suoi amici pm che purtroppo sono in servizio hanno proprio solo quello: incastrare colpevoli su colpevoli con il giochino facile delle intercettazioni. Una persona normale che ha la fortuna di sentire uno annunciare “Giuseppe domani ammazza sua moglie”, che fa? Cerca subito Giuseppe e prova in ogni modo a sventare un uxoricidio, salvando la vita della povera donna. A Di Pietro e ai suoi amici pm una soluzione così evidente non salta nemmeno nell’anticamera del cervello: loro intercettano e incastrano. Se prendono Giuseppe con l’arma in mano dopo il delitto, sono felicissimi. E magari aspettano un po’ prima di farlo. Perché se continuano a intercettare Giuseppe a lungo, chissà mai che non commetta altri delitti e così alla fine si imbastisce un bel processone sicuro per strage. Questo manifesto politico del partito delle procure con lo slogan “intercettate, intercettate, qualcosa resterà” non è stato l’unico riferimento alla vicenda di Trani dell’intervista a Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori sbagliando nomi e cariche (“l presidente della Rai, Minzolini” è in realtà il direttore del Tg1) ha protestato contro l’attentato alla libertà di stampa che Silvio Berlusconi avrebbe commesso al telefono lamentandosi sia di giornalisti di Repubblica che di Michele Santoro. Ha sostenuto che erano sacrosante le puntate di Annozero sul “racconto di Mills” e sul “racconto del pentito Spatola” (lapsus: si trattava del racconto di Spatuzza. Spatola era invece un pentito del processo a Giulio Andreotti). Ha tuonato contro Berlusconi indagato che manda gli ispettori: “Vuole fare il prete e il sacrestano” (paragone incomprensibile, che vorrebbe sottolineare l’antinomia dei ruoli). E si è morso la lingua a proposito della nota di Giorgio Napolitano che frenava gli ardori del Csm: “ha detto le cose che potrebbe dire il mio vicino di casa. Un colpo al cerchio e uno alla botte”. Di Pietro quella lingua se l’è morsa meno poi affrontando temi politici e commentando le alleanze di Pierferdinando Casini un po’ a destra e un po’ a sinistra: “Casini fa il mestiere più antico del mondo…”.

Ma quanto minacciano la Rai questi politici! Bersani l'ha fatto tante volte da sembrare un terrorista

Il Pd deve ringraziare che nessun procuratore di provincia ha provato a mettere ai suoi dirigenti il telefono sotto controllo. Altrimenti il partito oggi sarebbe travolto dalle inchieste su concussione e minacce nei confronti dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni. Perché è proprio il partito di Pierluigi Bersani (e le formazioni politiche che hanno originato il Pd) quello che negli anni della par condicio più di tutti ha provato a fare mettere il bavaglio a trasmissioni televisive e perfino ad articoli di giornale che non ne tessevano le lodi. Per 98 volte il Pd o suoi singoli esponenti hanno presentato esposti all’Authority, ed è un record assoluto. Perché al secondo posto figurano i radicali (alleati del Pd) che per 70 volte hanno cercato di mettere il bavaglio a tv e giornali. Le attuali opposizioni da quando esiste la par condicio hanno tentato questa “minaccia” 190 volte, il Pdl (e in qualche caso Silvio Berlusconi come singolo firmatario) ci ha provato solo 27 volte, e visto che la Lega è caduta in tentazione altre 9 volte, l’attuale governo lo ha fatto 36 volte. A ragionare come i giudici di Trani, la maggioranza ha minacciato la libertà di stampa una volta ogni cinque minacce degli avversari. Vero che Michele Santoro è stato uno dei bersagli preferiti: 27 minacce politiche contro i programmi da lui condotti. Ma anche qui c’è una sorpresa: nove volte da Berlusconi & c e 13 volte dal centrosinistra che avrebbe dovuto incensarlo. Altra vittima eccellente della politica è stato Bruno Vespa: ha incassato in questi anni 21 minacce, 16 delle quali provenienti dal centrosinistra. Terzo posto per Emilio Fede, con 16 minacce, quasi tutte provenienti dalle fila di Pd, radicali e dintorni. Se si guardano invece le aziende, non c’è proprio par condicio: 147 volte minacciata la Rai, 90 volte Mediaset e 17 volte La7. Fra le principali vittime, grazie alla rilevanza avuta durante le amministrative, la TgR Rai, con 16 minacce rivolte, 7 dal centro destra e 6 dal centrosinistra. Nel mirino delle pressioni sulla par condicio anche la stampa quotidiana, minacciata ben 236 volte. In testa i quotidiani Finegil del gruppo Espresso a pari merito con Il Messaggero (21 minacce ciascuno), seguiti da Il Giornale (20 minacce), dal Resto del Carlino (19 minacce), dal Corriere della Sera (17 minacce) e da Repubblica (13 minacce). Ma se in tanti fanno la faccia feroce e mostrano i denti, il risultato non è poi diverso da quello emerso dalle telefonate di Trani fra Berlusconi e il commissario dell’Authority tlc, Giancarlo Innocenzi: un buco nell’acqua. Nel 75 per cento dei casi di minaccia l’autorità di garanzia nelle comunicazioni infatti se la cava con un’alzata di spalle: archivia o dichiara manifestamente infondati i rilievi. In un caso su quattro invece interviene, quasi sempre per chiedere al presunto colpevole di sanare autonomamente la possibile violazione di parità di condizioni fra le forze politiche. Anche qui di solito la riparazione avviene subito. In caso contrario l’Autorità dà una bella tiratina di orecchie al colpevole e tutto finisce a tarallucci e vino. In pochissimi casi arriva davvero la punizione voluta da chi aveva minacciato. Si contano 12 casi dal 1994 (quando l’autorità non esisteva e c’era ancora il Garante unico). Sette volte la sberla è arrivata a Mediaset e cinque volte alla Rai. Si strapperà i capelli, ma la vera vittima delle minacce, non è Michele Santoro. Il più colpito da frustate dei politici concessori è infatti Emilio Fede con il suo straordinario Tg4, che dal 1994 ad oggi si è visto comminare sanzioni per 850 mila euro (con decisioni talvolta ribaltate in pretura o davanti al Tar). Il povero Santoro vale come vittima tanto quanto Irene Pivetti: 150 mila euro a testa. L’ex deputato leghista si è presa la sanzione minacciata in unica soluzione: nel 2006 per un programma su Rete 4. Santoro invece per fare 150 mila euro ci ha messo otto anni. I primi centomila sono arrivati nel 2001 per una puntata del Raggio Verde in cui aveva linciato senza contraddittorio Marcello Dell’Utri. Gli altri sono stati aggiunti nel 2009 per una puntata di Annozero punita per la presenza di Beppe Grillo che insultava senza freno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il senatore Pd nonchè celebre oncologo Umberto Veronesi. Due uomini politici nati e cresciuti nel centro sinistra.

Santoro, da Servire il Popolo a Servire i pm...

Eccolo il leader che non c’era del partito che c’è più di tutti. Si sono trovati a Trani, Michele Santoro e il partito dei giudici. A “Michele chi?”, che in venti anni le ha provate tutte o quasi, mancava il partito della vita. Le toghe rosse erano prive di un vero leader. Sì, c’era Marco Travaglio, il giornalista più coccolato dalle procure, ma lì mancava la stoffa per l’avventura. Bravo ragazzo, solo che con la politica c’azzecca poco. Che meraviglioso incontro a Trani! Il tribuno televisivo insediato a vita nei palinsesti Rai per decisione giudiziaria di fronte all’ultima leva dei pm che impazziscono per la ribalta del piccolo schermo. Michele già calato nella parte, sotto braccio il faldone dei faldoni, quello che può fare aprire altre mille inchieste, centinaia di intercettazioni, mettere a soqquadro il Parlamento, fare ballare il settimo piano della Rai, rivoltare come calzini Autorità di garanzia, commissioni di vigilanza, maggioranze e opposizioni. Il matrimonio atteso da una vita. Perfino per uno come Santoro, svezzato dai maoisti di Servire il popolo che ai giudici avrebbero volentieri appiccato il fuoco. Poi cresciuto nella Telekabul di Alessandro Curzi e Angelo Guglilemi, da cui si è smarcato in fretta in cerca della piazza di cui diventare capopolo. Samarcanda, Il Rosso e il Nero, Temporeale, la fuga in braccio al nemico (Moby Dick su Mediaset), Il Raggio verde, Sciuscià, Annozero. Animale televisivo ma soprattutto politico in cerca della piazza della sua vita. Qualche giro di valzer ( e di Valter) con il pci-pds-ds-pd che lo ha portato perfino a Strasburgo. E l’attrazione per compagnia dell’antimafia, girotondi, bandiere arcobaleno, grillini dell’antipolitica, fazzoletti viola. Sempre inquieto, perché alla fine mai nessuno si è fidato di lui, l’ha voluto fino in fondo. Salvo il periodo dorato a Mediaset e – ironia della sorte- l’epoca gloriosa con i superpoteri affidatigli da Letizia Moratti nella prima Rai del centrodestra, Santoro non è riuscito a digerirlo mai nessuno dei manager delle aziende in cui lavorava. Qualcuno l’ha preso di petto, ed è andata male: toccare Michele chi? è come mettere le mani bagnate su fili scoperti della luce: si resta fulminati. E quando il poveretto se ne accorge troppo tardi, agonizzante a terra, manca ancora il colpo di teatro finale, quello che renderà chiaro a tutti come quello a terra sia il carnefice, e l’immacolato Santoro la povera vittima della prepotenza altrui. Uno così era proprio predestinato a diventare il leader naturale del partito dei giudici. Hanno lo stesso dna. Li sentite da anni? Hanno scagliato frecce, bombe a meno, scud sempre contro lo stesso bersaglio. E se quello prova a difendersi, ad alzare almeno uno scudo a protezione, le parti si invertono: diventa lui l’invasore e i poveri magistrati gli assediati. Certo a Trani avevano le idee un po’ confuse. In questi giorni anonime fonti giudiziarie dal sen sfuggite avevano sparacchiato un po’ di tutto. Berlusconi indagato anzi no. Berlusconi, Minzolini e Innocenzi indagati per concussione. Solo uno. No, due. Macchè, tutti e tre. Smentisco tutto, Minzolini non è indagato. Che avete capito? E’ indagato sì, ma in un altro contesto. Interdetto Berlusconi dai pubblici uffici. Ma no, interdetto Minzolini. O Innocenzi? O forse interdetto a tutti l’uso dell’American Express. Beh, un po’ di caos c’era laggiù. Forse il pm, Michele Ruggiero, era troppo giovane. Si era distratto pensando a villetta e terreni appena donati dai genitori a due passi dal lungomare di Bari. Ma ora niente paura. E’ arrivato a Trani il procuratore capo, anzi il capo dei procuratori. Ci pensa Santoro a dare una dritta all’inchiesta, a farle fare il salto di qualità. Con il suo faldone di carte subito segretate ha reso inutile il viaggio degli ispettori di Angelino Alfano, ormai un passo indietro rispetto agli eventi. Ha già ottenuto la generosa protezione del Csm, che ha blindato l’inchiesta contro i diritti assegnati dalla Costituzione al ministro della Giustizia. La rivoluzione è già iniziata. L’ex leader di “Servire il popolo”, neo fondatore di “Servire i pm” è già lì, sulle barricate.

Barzelletta sul Berlusca indagato in campagna elettorale? Sì, ma è vecchia, raccontatene un'altra

A raccontarla una sera fra gli amici, ti prenderebbero subito per rimbambito. “La sapete l’ultima? Quella su Silvio Berlusconi indagato a due settimane dal voto?”. Giù fischi: “Uh, è vecchia, vecchissima”. Eppure è la barzelletta che funziona meglio sotto elezioni. Anche questa volta: Silvio Berlusconi è indagato a Trani. Il reato è gravissimo: gli è scappato un vaffa (forse più di uno) al telefono nei confronti di Michele Santoro. Purtroppo nel codice penale si sono dimenticati un articolo in proposito, così i magistrati di Trani per sottolineare il peso di questa lesa maestà, hanno pensato bene di affibbiare al presidente del Consiglio ben due reati: concussione e minacce. La vittima di tanta ferocia istituzionale sarebbe Giancarlo Innocenzi, commissario dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni. Berlusconi si è lamentato con lui a proposito di due puntate di Annozero, quelle che hanno reso una star prima Patrizia D’Addario e poi il pentito-bluff di mafia Gaspare Spatuzza. E siccome l’autorità che si chiama di garanzia non riusciva a garantire nonostante le pubbliche proteste la vittima di questo linciaggio tv, che era appunto Berlusconi, lui si sarebbe sfogato al telefono con Innocenzi: “altro che autorità, siete ridicoli! Dovreste dimettervi tutti”. Nella barzelletta che si racconta a Trani questa sarebbe la terribile minaccia. Se in Italia dici a qualcuno “dovresti dimetterti”, puoi stare certo che il giorno dopo il poveretto impaurito lascia subito la poltrona. E infatti Innocenzi è lì al suo posto, dove per altro l’aveva nominato anni fa Forza Italia, partito guidato dal Cavaliere. Con l’iscrizione ufficiale del premier nel registro degli indagati, alla procura di Trani sta però per sfuggire il boccone più grosso dell’inchiesta: la competenza diventa di Roma, e gli incartamenti vanno spediti tutti nella capitale. Dove i magistrati rideranno assai poco: se i magistrati lì non infilzeranno subito Berlusconi, finiranno sbranati da colleghi e giornalisti che già preparano titoloni sul “Porto delle nebbie”. A questo punto la barzelletta non funziona più. Altro che ridere, non si capisce più nulla. Infatti i magistrati pugliesi hanno iscritto nel registro degli indagati anche l’oggetto delle minacce, Innocenzi, per favoreggiamento. Il poveretto così si trova nel duplice ruolo di vittima e di carnefice. Indagato c’è anche il direttore del Tg1, Augusto Minzolini, e finalmente si conosce l’ipotesi di reato: rivelazione del segreto istruttorio. Qui ancora ci sarebbe un po’ da ridere. Perché l’accusa viene proprio da quei magistrati che hanno così blindato a doppia mandata l’inchiesta segretissima, da trovarsela pubblicata in lungo e in largo sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. L’accusa a Minzolini è di avere divulgato a mezzo mondo di essere stato sentito come teste ai primi di dicembre nell’inchiesta sull’American Express. Gli avevano detto “mi raccomando, resti fra noi”, e invece lui è stato intercettato con mezzo mondo mentre raccontava l’esperienza vissuta. In questi giorni il direttore del Tg1 deve avere sensibilmente peggiorato la propria situazione: l’inchiesta era ancora segretissima per tutti quelli che non avevano ancora letto Travaglio, e lui ha nuovamente tradito il patto con i magistrati rivelando tutto prima ai lettori di Libero in un’intervista e ieri perfino ai fan di Enrico Mentana che lo ha ospitato nel suo programma sulla web-tv del Corriere della Sera. Se i pm di Trani avessero fatto prima un giro a Montecitorio, avrebbero trovato centinaia di politici della prima e della Seconda Repubblica in grado di metterli in guardia: “se volete mantenere un segreto, non raccontatelo mai a Minzolini. Quello non sa tenersi un cecio in bocca”. E’ un sorriso amaro però quello che si leva da Trani. Perché ormai questa vicenda è entrata a gamba tesa a pochi giorni dal voto in una campagna elettorale già imbrigliata come mai era accaduto dai tentacoli di procure, Tar, vicende giuridiche e giudiziarie. A dire il vero sono due le campagne elettorali che gli uffici giudiziari pugliesi ormai condizionano: quella dei politici per le regionali e quella tutta interna ai giudici togati per l’imminente elezione del prossimo consiglio superiore della Magistratura. Già che c’erano quei ferrei custodi del segreto istruttorio hanno fatto trapelare confuse notizie di telefonate fra Innocenzi e uno dei leader di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe: Cosimo Maria Ferri, attuale consigliere del Csm. Un po’ di fango fatto girare anche in quel ventilatore, senza che un fatto reale sia emerso e verificato. Riso amaro per tanti, dunque, e uno solo che in questa barzelletta triste riesce ancora a prendersi sul serio: Michele Santoro. Grazie a Trani può recitare la parte che da anni gli varrebbe l’Oscar come migliore attore protagonista: quella della vittima. Lo ha fatto anche ieri all’Infedele di Gad Lerner. Strana vittima quella che da più di 20 anni domina l’informazione televisiva (per tre anni addirittura, colpito insieme a Berlusconi dalla sindrome di Stoccolma: ha lavorato a Mediaset) e che pur di evitare lo sbocciare di nuovi talenti in grado di oscurarlo, si è fatto ibernare in prima serata Rai da una sentenza della magistratura che ce lo conserverà in eterno.

Inchieste piene di bufale. Così da un anno si tenta il placcaggio a Berlusconi

Tutto per uno scandalo da 560 euro. E’ per tre carte di credito American Express che si erano viste chiedere rimborsi di 689 euro invece dei 129 attesi che la procura di Trani ha messo sotto controllo il telefono del direttore del Tg1, Augusto Minzolini, del commissario dell’Authority Giancarlo Innocenzi e intercettato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il suo sottosegretario Paolo Bonaiuti, decine di ministri e viceministri, segretari di partito, leader politici di maggioranza e opposizione. Uno di quei tre che giustamente protestavano per gli interessi esorbitanti era un ufficiale della Guardia di Finanza. Ha fatto denuncia alla procura di Trani e dopo settimane di indagine il pm Michele Ruggiero ha trovato altri due clienti American Express nelle stesse condizioni. Ai tre probabilmente grazie a super interessi sono stati prelevati quei 560 euro di troppo. Il pm di Trani a quel punto ha sequestrato ad American Express tutti gli atti relativi alle carte “Blue” rateali, sperando di trovare altri interessi da usuraio. Messi sotto inchiesta tutti i vertici italiani della compagnia americana. Pur avendo tutta la documentazione in mano, un gip deve avere autorizzato incomprensibili intercettazioni telefoniche ai manager American Express. Uno di questi è stato ascoltato mentre diceva: “al tg 1 ci penso io”. Probabilmente il mestiere di quel manager era cercare di attutire la portata della notizia, e magari di non creare ad American Express un danno di immagine assai più rilevante di quei 560 euro. Avrà chiamato le principali testate giornalistiche. Anche il direttore del Tg1 per dire: “non amplificate la notizia”. Così i magistrati di Trani hanno deciso di tenere sotto controllo tutte le mosse e le telefonate del direttore del Tg1. E hanno scoperto l’acqua calda: lui (e perfino i manager di American Express) avevano rapporti con i potenti. Minzolini addirittura con il presidente del Consiglio e i ministri! I pm si sono ingolositi: guarda che roba capitava loro fra le mani. Brogliacci da titoli di prima pagina dei giornali! Cose che sulla spiaggia di Trani non capitavano da almeno 6 anni, quando un altro pm (caso fotocopia) pensò bene di avviare da lì una sfortunata “banco poli” poi finita nel nulla: inchiesta su Banca 121, bufera in borsa sul Monte dei Paschi di Siena, iscritto nel registro degli indagati il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Quest’atto che era segretato naturalmente finì dopo pochi giorni sulle prime pagine dei giornali. I politici chiesero le dimissioni di Fazio e da lì iniziò la parabola discendente del Governatore. Il procuratore capo si infuriò con il pm, ma ormai la frittata era fatta. E il danno non riparato dalla successiva assoluzione di tutti gli indagati: l’inchiesta non stava in piedi. Non sta in piedi, a leggere le prime ammissioni ufficiali dei fatti, nemmeno l’inchiesta di oggi. Sarebbe un sollievo pensare che tutto sia dovuto solo alla voglia di protagonismo di qualche inquirente. Ma siccome Trani arriva dopo Fastweb-Telecom, che arriva dopo il fango gettato sulla cervicale di Guido Bertolaso dalla procura di Firenze che solo poche settimane prima aveva contribuito a mettere nel ventilatore il fango del pentito Gaspare Spatuzza, e arriva dopo l’allegra gestione a Bari del caso Patrizia D’Addario, che arrivava dopo lo “scandalo Noemi”, beh, qualche cattivo pensiero comincia ad arrivare. Immaginatevi il Berlusconi di fine aprile 2009: al massimo della popolarità, calato nel dramma del terremoto de L’Aquila, con davanti il passaggio che sembrava trionfale delle elezioni europee e l’organizzazione del vertice del G8. L’opposizione quasi non esiste, Walter Veltroni è saltato, Dario Franceschini sta gestendo l’agonia del Pd, Francesco Rutelli sta preparando le valigie. Berlusconi rischia di fare bingo per anni. E’ lì che salta fuori il punto debole del Cavaliere: il gentile sesso. Spunta Noemi e si prova senza successo a imbastire una sorta di caso di pedofilia. Ma l’arma è spuntata e davvero abborracciata. Tiene qualche settimana, ma diventa un buco nell’acqua. Lo fa anche il Pd, con una campagna elettorale lontana dai guai veri dell’Italia e centrata sulle questioni familiari/sessuali di Berlusconi. Arriva il G8, un successo. E il cavaliere sembra più forte di prima. Così spunta fuori Patrizia D’Addario. La debolezza di una notte di Berlusconi. Si monta la panna all’inverosimile. Ma alla fine sembra una maionese: non funziona, si squaglia. Disperazione assoluta: Berlusconi è ancora lì, tutto il potere nelle mani. E i sondaggi sono feroci con l’opposizione. Comincia a stancare perfino Antonio Di Pietro, che fino a lì ha divorato centimetro dopo centimetro lo spazio vitale degli alleati. Così spunta un evergreen: Dell’Utri, Palermo, la mafia, l’origine oscura dei capitali di Berlusconi, lo scudo fiscale che serve ancora a coprirla e farne perdere le tracce. Si trova il pentito, Spatuzza. Ma è un vero disastro e il castello frana al primo tentativo di conferma. E’ un dramma. Siamo alle porte della campagna elettorale per le regionali, e in Lazio scoppia anche il caso di Piero Marrazzo. Berlusconi supera tutto, non si riesce ad abbatterlo né con i vecchi né con i nuovi metodi. Quante carte restano? Il Cavaliere ha dalla sua più di una brillante operazione: via i rifiuti da Napoli, consegna record delle case ai terremotati de L’Aquila, il successo del G8. Pierferdinando Casini scherza: questo non è un governo Berlusconi, mi sembra il governo di Guido Bertolaso. Già. Sembrava proprio così. E a febbraio scattano gli arresti alla cricca degli appalti. Ci sarà chi ne avrà combinate di tutti i colori. Ma fin dall’inzio l’inchiesta sembra puntare a Bertolaso. L’ordinanza di arresto firmata dal gup di Firenze si sofferma per pagine a pagine sui massaggi del capo della protezione civile. Sostiene che in un caso sicuramente c’è stato un rapporto sessuale. Negli altri non è chiaro, ma lui voleva sempre una “certa Francesca”. Lo scopriremo dopo leggendo tutti i rapporti dei Ros: quando il gup gira intorno alla “certa Francesca” sa benissimo chi è: i Ros da settimane l’hanno identificata e perfino interrogata. Sanno tutto anche dell’altra massaggiatrice. Ma si preferisce il dubbio e si lascia il mistero. Che diventa fango. L’Aquila? Terra di sciacalli, altro che ricostruzione. E poco importa che gli sciacalli lì non abbiano avuto nemmeno una commessa. Bertolaso? Un assatanato di sesso. Falso, ma intanto il fango gira. Il G8? Solo corruzione e favori, la cricca degli appalti. Prove nessuna: l’unica è arrivata l’altro giorno dal Tar del Lazio, che ha annullato un appalto della cricca. Quello dell’auditorium di Firenze che nell’inchiesta sembrava raccomandato da Walter Veltroni e vinto da un imprenditore romano. Per il Tar irregolare quello, regolari le gare per la Maddalena. Ma non importa: il biglietto da visita del Cavaliere è stato frantumato, distrutto in mille pezzi nell’immaginario collettivo. Ora arriva Trani. A guardarla di penale nulla davvero. Ma di effetto politico in piena campagna elettorale, tanto. Volete che un Di Pietro o un Bersani non agguantino al volo la pappa graziosamente preparata? Sembra già di sentirli nei comizi: “La gente va in cassa integrazione, diventa disoccupata, non arriva alla fine del mese e Berlusconi a chi pensava? A Santoro, a come farlo fuori”. Che meraviglioso assist da Trani. Sembra chiudere il cerchio. Si posa beato sul pasticcio dei Tar che hanno fatto fuori il Pdl da Roma e sconcertato gli elettori. Rischia di funzionare questa volta. Ma tutto questo è solo un cattivo pensiero. E bisogna rifarsi a una massima di Giulio Andreotti: a pensare male si fa peccato. E talvolta ci si azzecca.

De Benedetti fa il travet. Via da Sankt Moritz, ora abita a Dogliani e compra casale con un mutuo

Carlo De Benedetti oltre alle società lussemburghesi e portoghesi ha rimpatriato in Italia anche se stesso e la sua signora, Silvia Cornacchia prima in Donà delle Rose poi in De Benedetti. La notizia è ufficiale, ed è contenuta in una cortese lettera della Cir inviata a Libero (vedasi box qui sotto): da qualche settimana l’Ingegnere ha infatti trasferito la sua residenza civile dalla esclusiva località svizzera di Sankt Moritz, al comunque blasonato paese di Dogliani nel cuneese: è quello che ha dato i natali all’editore Giulio Einaudi e dove hanno sede parte dei poderi Luigi Einaudi, appartenuti all’ex presidente della Repubblica italiana. A Dogliani l’ingegnere e la sua signora hanno in effetti acquistato terreno e quattro ampi casali, uno da 23,5 vani, uno da 9,5 vani, uno da 7,5 e uno da 5,5 vani. Sono stati comprati fra il 2006 e il 2007, anno dedicato alla ristrutturazione dei fabbricati, da una società personale. All’ epoca era denominata Casita società semplice ed era posseduta al 99% dall’Ingegnere e all’1 per cento dalla sua signora. Nel 2008 la società ha cambiato denominazione, diventando Cà di nostri società semplice e con un aumento che ha raddoppiato il capitale sociale, riservato al 99 per cento a Silvia Cornacchia e all’uno per cento all’Ingegnere. Così ora casali e terreno sono divisi in parti uguali fra gli sposi. Chissà, forse per segnare anche in questo modo il desiderio di tornare alla normalità, De Benedetti come un travet qualsiasi ha acceso perfino un mutuo fondiario sul maniero. Il contratto è stato firmato il 22 maggio 2008 davanti al notaio Giancarlo Reverdini Grassi di Torino con la Banca popolare di Sondrio. Il finanziamento concesso all’Ingegnere è stato di 5 milioni di euro, al tasso di interesse annuo del 5,5% (nemmeno regalato). Secondo lo schema di contratto pagherà di interessi 2,5 milioni di euro e di spese un milione di euro per un totale di 8,5 milioni di euro, somma per cui è stata iscritta ipoteca volontaria sul maniero. La durata del mutuo è di 15 anni, e quindi le rate correranno fino al 2023, quando De Benedetti avrà compiuto 89 anni. Il contratto di mutuo porta proprio la firma dell’Ingegnere, ma nella premessa si precisa che “Carlo De Benedetti, nato a Torino il 14 novembre 1934, interviene al presente atto non in proprio, ma nella sua qualità di unico amministratore e legale rappresentante della società Casita società semplice (poi trasformata in Cà de nostri, ndr) con sede in Torino” Sarà dunque la società immobiliare e non la persona fisica a garantire la banca. Con il mutuo De Benedetti ha finanziato l’acquisto non solo dei casali, ma anche del terreno circostante con tanto di vigneto che confina proprio con i poderi Luigi Einaudi e le celebri viti del Dolcetto più blasonato delle Langhe. Per altro a vendere il maniero sono stati proprio degli Einaudi: Letizia, Germano e Celestino che non risultano però discendenti diretti dell’ex presidente della Repubblica. Proprio per il vino e la presenza di casali blasonati Dogliani, paese con meno di 5 mila abitanti, ha attratto negli ultimi anni più di un vip che lì si è ritirato o ha acquistato una seconda casa per i week end. Ci passa spesso il fine settimana il critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grassi. Ci vive da tempo Nicoletta Bocca, figlia di Giorgio, che anno dopo anno ha fatto incetta di vigne e poderi coltivandoli di persona. Secondo una leggenda di paese un giorno sarebbe approdata lì portata da una Lamborghini scortata da body guards in moto anche una star della moda internazionale come Naomi Campbell, ma l’affare immobiliare inseguito sarebbe sfumato in extremis. A Dogliani vive da tempo in libertà anche il fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio. E’ benvoluto dagli abitanti, che la domenica lo vedono sempre a messa. Prima di prendere ufficialmente la residenza mettendo fine alle polemiche sul trasferimento in Svizzera, De Benedetti e signora erano soliti trascorrere nel maniero qualche lungo week end. L’ingegnere è stato riconosciuto qualche tempo fa mentre trattava l’acquisto di due biciclette ed è stato recentemente visto farsi il pieno alla sua Porche ultimo modello al distributore automatico.

E' Bersani il più coccolato dai Tg Rai

L’allarme è stato lanciato ieri dalle colonne di Repubblica: “Il Pdl invade i Tg Rai” e Silvio Berlusconi naturalmente li guida e presiede. E giù una serie di dati attribuiti all’Authority per le telecomunicazioni per testimoniare la preoccupazione dell’organismo di garanzia per presunte ripetute violazioni della par condicio. Ma i dati reali offrono un quadro diametralmente opposto. Nei telegiornali Rai viene sostanzialmente rispettato l’equilibrio che da anni governa la par condicio: un terzo del tempo al governo, un terzo alla sua maggioranza e un terzo all’opposizione. Se squilibrio c’è è proprio a favore di Pd-Idv e Udc. Nella settimana dal 28 febbraio al 6 marzo scorso, quella successiva alla presentazione delle liste, con tutto il caos che ne è venuto, il governo e il suo presidente hanno ottenuto sui Tg Rai non un terzo, ma un sesto o un settimo dello spazio a disposizione. Maggioranza e opposizione sono in perfetta par condicio sul Tg1 (28,72% l’una e 28,12% l’altra). Su tutti gli altri Tg ha spazio oltre misura l’opposizione, in vantaggio di 3,2 punti sul Tg2, di 6,3 punti sul Tg3 e dei quasi 12 punti su Rai news 24. Nelle due settimane precedenti di campagna elettorale, con le liste non ancora presentate, il governo ha avuto più spazio, con un eccesso di presenza sul Tg2 e un difetto sul Tg3. Quanto ai rapporti fra maggioranza e opposizione, Pdl e soci erano in vantaggio di un punto e mezzo sul Tg1 e in svantaggio di due punti e mezzo sul Tg2. Assai rilevante invece la violazione della par condicio su Tg3 (quasi venti punti percentuali regalati in più all’opposizione rispetto alla maggioranza) e su Rai news 24 (29 punti percentuali in più all’opposizione). La preoccupazione dell’Authoprity per lo squilibrio dunque riguarda l’eccesso di amore (proibito in campagna elettorale) di Tg3 e Rai news 24 nei confronti di Pd, Italia dei valori, radicali, verdi, sinistra e Udc. Per valutare la par condicio infatti un tempo la commissione di vigilanza e da quando è nata l’Authority prendono in considerazione il tempo di parola, e cioè le interviste e le dichiarazioni di tutti i protagonisti della politica trasmesse in diretta o riassunte dal conduttore o dal giornalista specializzato. Non fa fede invece il cosiddetto “tempo di notizia”, quello per cui un politico o un partito è oggetto e non soggetto della notizia trasmessa. Ad esempio nel caso del processo Mills tutto il tempo dedicato alla notizia è attribuito al Pdl e a Silvio Berlusconi, e non potrebbe essere considerato un favore. Altro esempio: se Antonio Di Pietro viene intervistato per un minuto da un tg e dice che Berlusconi è un corrotto, un mafioso e un bandito, quel minuto viene calcolato nel tempo di parola a favore di Di Pietro e nel tempo di notizia a favore di Berlusconi. Per questo il tempo di notizia (che per altro è giustamente dettato dalla cronaca) non vale ai fini della par condicio. Quello di parola dice invece che l’invasione dei Tg di Stato finora è stata di Pierluigi Bersani & c

Minzolini: da 30 anni parlo con i premier. E' il mio mestiere

lui non risulta nessuna indagine. Il direttore del Tg1, Augusto Minzolini sostiene di non avere ricevuto alcun avviso di garanzia e quindi di non potere dire nulla sulla presunta concussione per cui sarebbe indagato a Trani. Dice però che se il fatto fosse vero, lo prenderebbe come un tentativo di intimidazione a lui e al Tg1. A Trani infatti c’era andato, come teste, dimostrando il millantato credito di chi sosteneva che sul Tg1 mai sarebbe apparsa una notizia contro l’American Express. Solo il Tg1 infatti ha dato informazione dell’inchiesta di Trani. Quanto all’accusa di avere ricevuto la linea del Tg1 da Silvio Berlusconi, la considera “ridicola”. Certo che ha parlato con il premier, 4 o 5 volte da quando è al Tg1. Lo faceva anche prima, perché così si fa il giornalista. E difende, anche con toni aggressivi, il suo lavoro in questa intervista a Libero. Augusto, sei indagato per concussione alla procura di Trani… … Alt. Io non so nulla. Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia. Che io sia indagato lo dici tu, non io. Non c’è e credo proprio che non arriverà mai… Le notizie sono di fonte ufficiosa, ma autorevole. E credo che a quest’ora non ce le abbia solo io. Risultano indagati per concussione il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il membro dell’Authority tlc, Giancarlo Innocenzi, e il direttore del Tg1, tu… Io? Concussione? E come faccio ad avere concusso? La Rai è pubblica e tu sei incaricato di pubblico servizio. Se prendi una “comanda” dall’esterno e comandi i servizi alla tua redazione, ecco qui la concussione. Cioè mi accusano di fare il giornalista, che parla con i politici e il direttore che appunto dirige? Sembrerebbe così. Tu parli spesso con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi? Spesso no. Ma è capitato… Devo fare come il confessore: quante volte, figliolo? Da quando faccio il direttore del Tg1, quasi un anno, direi quattro o cinque volte. Parlo con lui e con un’infinità di altri politici… Anche di opposizione? Sì, anche di opposizione. Per altro sono una persona educata e rispondo a tutte le telefonate che mi fanno. Talvolta per cortesia, altre volte per interesse. Faccio sempre il giornalista e se non parlassi con i protagonisti dei fatti, mi sarebbe difficile comprenderli, no? A proposito, secondo te il presidente del Consiglio non è una buona fonte di informazione? Io spero che si informassero alla fonte diretta anche i miei predecessori. Sentivi al telefono Berlusconi anche prima di essere nominato al Tg1? Certo che sì. Ho iniziato a fare il giornalista politico nel 1980. Tranne due anni e mezzo che ho vissuto negli Stati Uniti, per scrivere articoli e retroscena ho parlato con tutti. Anche con diversi presidenti del Consiglio, ministri e segretari di partito… E mai ti sei trovato nei guai per averlo fatto? Mai. Infatti questa è pura follia. Di più: lo dico con franchezza: è un atto intimidatorio. Non ha senso, è fuori da ogni logica. Mi accusano di avere parlato con Berlusconi? E che accusa è? Poi – sostieni tu, mi accuserebbero anche di avere parlato con la mia redazione? E la chiami accusa? Significa che secondo i magistrati io dovrei fare il direttore sordo- perché non devo sentire il presidente del Consiglio- e muto, perché non dovrei dare indicazioni alla redazione. Insomma, sono colpevole di non essere sordomuto, altro che concussione! Forse dovresti parlare meno al telefono. Ah, su questo d’accordissimo. Ma questo è il paese. Se ho capito bene queste presunte intercettazioni che non pubblica nemmeno Il Raglio del Travaglio.. Il Fatto quotidiano, vuoi dire… Il Raglio del Travaglio. Beh, queste intercettazioni nascono da una indagine su interessi esorbitanti che avrebbe applicato ad alcuni clienti di revolving card l’American Express. Qualcuno- e lo riconosce perfino Il Raglio del Travaglio- ha millantato di potere intervenire sul Tg1 per bloccare informazioni dell’inchiesta ed evitare una campagna sull’American Express. Tutto nasce da una denuncia di un ufficiale della Guardia di Finanza a cui sono stati applicati tassi secondo lui da usura. La procura di Trani mi chiede di comparire come persona informata dei fatti. Quindi ti hanno già sentito? Sì. Nell’autunno scorso. Li ho chiamati, e informandomi sui motivi della convocazione. Così ho scoperto che forse l’unico tg che ha mandato in onda un servizio sull’inchiesta contro l’American Express è stato proprio il Tg1. L’ho spiegato a Trani, e per me era finita lì. Come sia possibile che poi sulla base di un’ipotesi inesistente di cui ho fornito prova abbiano continuato a intercettare in cerca di chissà che, proprio non lo so. Lo sai che sei un incaricato di pubblico servizio, non un direttore come gli altri? Certo che lo so. Per questo sul Tg1 si è data informazione anche dell’inchiesta sull’American Express. E ogni giorno si cerca di dare le informazioni più complete e rilevanti. Se ne rende conto il pubblico che continua a seguirci… Ecco qui i dati di ieri: Tg1 al 29,2%, il Tg5 al 23,9%. Evidentemente gli ascoltatori ritengono il Tg1 un prodotto equilibrato e non condizionato da chi tenta attraverso intimidazioni di piegare la linea del giornale a questo o quel partito. E i partiti, intimidazioni a parte, si fanno sentire direttamente? Chiedono molto? Telefonano, io ascolto. E poi decido di testa mia rispettando tutti e soprattutto dando ai cittadini la possibilità di capire. Però abbiamo ridotto un po’ la politica, perché i dati su ascolti e gradimenti dicono che interessa assai poco. Dici? E perché? Forse ne è stata fatta troppa in passato, o forse è troppo evanescente. Non si occupa dei temi reali. Guarda questa campagna elettorale: tutte inchieste, intercettazioni, timbri quadrati, rotondi o rettangolari… E c’è pure la par condicio. Sì, e la dobbiamo rispettare. Oggi ho letto su un quotidiano dei dati assolutamente falsi. Siamo lì con il bilancino a calcolare tutti gli interventi. Ho una squadra che non sgarra quasi al secondo. La par condicio certo frena. Pensa che frena me che vorrei tanto fare un altro editoriale… Ma non sono proprio quegli editoriali la ragione vera di polemiche e guai? Polemiche le farebbero comunque. Rifarei ogni editoriale che ho firmato. Ce l’hanno con quello che ho detto su Spatuzza e Ciancimino jr? Ho detto che sono pentiti non credibili? Forse ero fra i pochi allora a ritenere questo. Ora hanno capito tutti. E’ una colpa intuire in anticipo? Ho fatto un editoriale sostenendo che era opportuno reintrodurre l’immunità parlamentare. Giù fischi e critiche. Un mese dopo Marcello Maddalena, il vicepresidente del Csm, Nicola Mancino e altri autorevoli magistrati hanno sostenuto la stessa cosa… Ma continuano a chiedere le tue dimissioni. Sì, personaggi a dire poco ridicoli. Antonio Di Pietro dice che dovrebbero cacciarmi a pedate nel sedere. Era il linguaggio di Benito Mussolini. Detto questo vado volentieri davanti alla commissione di vigilanza o al cda Rai per spiegare le mie idee e difenderle. Non ho paura delle idee. E non vi rinuncio nemmeno se usano atti per intimidirmi. Non mi intimidiscono. Ho le mie idee, e per fortuna le rendo pubbliche. Sono cristallino. Quello che penso lo dico in televisione. Lo dico nelle riunioni di redazioni. E naturalmente anche in una telefonata privata… Non esistono telefonate private. Guarda questa intervista. Esce su Libero. Ma prima finisce in un faldone. Lo scoop lo sta facendo il maresciallo all’ascolto… Dici? Mi hai chiamato sul fisso, attraverso il centralino Rai. E’ intercettato anche questo? Vabbè, cerca di essere più veloce tu a trascriverla…

Carlo De Benedetti si fa uno scudo ad personam e riporta in Italia 143 milioni

Carlo De Benedetti si è fatto un personale scudo fiscale che ha consentito alla fine del dicembre 2009 di riportare in pancia alla sua Cir 143 milioni di euro che venivano dal Lussemburgo. La liquidità è arrivata con le feste natalizie dopo una complessa operazione di riassetto di alcune partecipazioni del gruppo dell’Ingegnere in territori che un tempo facevano parte dei paradisi fiscali: l’isola di Madeira e il Lussemburgo. La prima operazione è partita il 3 novembre scorso proprio a Madeira, dove aveva sede la Cirfund Lda. Quel giorno si è deciso di trasformare la società di diritto portoghese in società di diritto lussemburghese e di trasferirne la sede nel Granducato, dopo avere accantonato a riserva distribuibile all’azionista unico (la Cir International sa) 26,1 milioni di euro. La società che aveva un valore di 144 milioni di euro ha così ricostituito il capitale nella sua nuova veste giuridica e geografica per 118 milioni di euro. Una volta fatta l’operazione, il 21 dicembre scorso la Cirfund sa è stata fusa per incorporazione nella holding lussemburghese dell’ingegnere, la Cir International sa, che ne ha potuto assorbire il patrimonio. Il giorno successivo De Benedetti ha chiuso l’altra lussemburghese del gruppo, Cofide International, messa in liquidazione volontaria per farne assorbire il patrimonio alla Cofide italiana. La terza operazione porta la data del 30 dicembre 2009 ma è stata formalizzata il 27 gennaio, e quindi non è chiaro se l’effetto contabile sarà riverberato nei bilanci 2009 o in quelli del 2010. Riguarda una terza lussemburghese delll’ingegnere, la Ciga Luxembourg sarl di cui azionista unico è la Cir spa italiana. E’ stato prima approvato il bilancio 2009 che ha mostrato un utile di 3,1 milioni di euro. L’utile ha assorbito parzialmente la perdita di 39,2 milioni di euro fatta registrare l’anno precedente e accantonata. A quel punto sono state fatte quattro successive operazioni sul capitale, rima per creare una mini-riserva distribuibile, poi per assorbire la perdita restante attraverso una riduzione del capitale per 36 milioni di euro e infine per portare il nuovo capitale a un milione di euro distribuendo 143 milioni di euro di dividendi all’unico azionista, che è Cir. Un’iniezione di liquidità che certamente ha allietato i conti della finanziaria guidata dal figlio dell’Ingegnere, Rodolfo. Proprio ieri Cir ha approvato in consiglio di amministrazione i conti 2009, che sin sono chiusi con un sorprendente utile netto di 143 milioni di euro superiore proprio nell’anno della crisi del 50% a quello dell’anno precedente. L’operazione lussemburghese però non è stata citata nel comunicato della società che spiega il miglioramento nei conti con “un’ eccedenza finanziaria netta aggregata a 121,6 milioni di euro (44,2 milioni a fine 2008)” e con la ripresa dei mercati azionari e finanziari internazionali. Bisognerà attendere la pubblicazione del bilancio integrale che sarà sottoposto all’assemblea degli azionisti per capire se il segreto di questo boom vada cercato proprio nel rientro dei capitali dal Lussemburgo

E' in Olanda il grande orecchio che intercetta per i pm italiani

Sono tre i gruppi specializzati in intercettazioni telefoniche a cui le procure di Roma e Firenze hanno dato le commesse milionarie per registrare tutti i colloqui della cricca degli appalti e della cricca dei telefoni. Insieme i tre gruppi hanno fatturato nel 2008 oltre 100 milioni di euro, quasi tutti legati alle richieste delle procure italiane. Per seguire Angelo Balducci & c è stato firmato un mandato alla società Area del gruppo Formenti. Per l’inchiesta su Fastweb, Telecom Italia e Gennaro Mokbel sono state due invece le società coinvolte dalla procura di Roma: la Sio di Cantù del gruppo Danting e la Etm di Napoli del gruppo Rcs (nulla a vedere con la Rizzoli). Fra le migliaia di pagine (oltre 200 mila nelle due inchieste) depositate insieme alle due ordinanze di arresto, ci sono anche i mandati ufficiali per le intercettazioni. Non le relative fatture, che sono ritenute riservatissime, anche se in parte quei lavori compaiono fra le righe di bilancio delle singole società. I tre grandi orecchi al servizio delle procure hanno in mano oltre la metà del mercato italiano del settore. Affari in parte coperti da segretezza, in parte anche da qualche mistero. Come nel caso della Sio di Cantù. Appartiene sulla carta al manager che la guida, Elio Cattaneo, che proprio nei primi giorni di gennaio ha proceduto a un riassetto delle partecipazioni delle varie controllate. Ma tutto il gruppo riporta a una misteriosa holding di diritto olandese, la Danting B.V., il cui azionariato non è palese. La holding estera (che sulla carta può appartenere a Cattaneo come ad altri azionisti non dichiarati), probabilmente costituita in origine anche per motivi fiscali, ha infatti la partecipazione di maggioranza della Gsh, altra scatola societaria sotto il cui ombrello ci sono tre società italiane specializzate nel business delle intercettazioni e della security, la Sio, la Sicurezza attiva e la Sicurint, due società collegate (Ctr e Sicurezza attiva) e altre due società straniere, la Sionet societeè anonyme e la Sioska sro. Pur avendo in mano complessivamente quasi 25 milioni di euro di fatturato dal sistema giustizia italiano, e operando in inchieste delicatissime come appunto quella su Fastweb e Telecom Italia, il gruppo Danting non brilla dunque per trasparenza, offrendo qualche dubbio sulla opportunità che le intercettazioni della giustizia italiana siano in qualche modo controllate da una struttura estera. Più lineare la catena di controllo degli altri due gruppi specializzati in intercettazioni coinvolti nelle due inchieste. Fattura circa 35 milioni di euro all’anno in Italia il gruppo Rcs che a parte l’omonima azienda controlla anche la Etm sicurezza srl di Napoli e tre società straniere: la Foretec sa in Francia, la Dars Telecom sl in Spagna e la Telinco llc negli Stati Uniti. La Rcs è società leader di mercato in Italia, anche se ha sofferto come tutti i concorrenti della lentezza dei pagamenti del ministero della Giustizia. Per questo, scrive nel suo bilancio, nel 2008 ha deciso di cedere a società di factoring oltre 31 milioni di euro di crediti pro solvendo “per fare fronte agli ingenti ritardi negli incassi delle fatture per prestazioni di servizi rese nei confronti della Pubblica amministrazione”. Ciònonostante con orgoglio si sottolinea che “è aumentata la presenza di Rcs nelle procure della Repubblica”. E se i pagamenti tardano, basta diversificare l’attività: “la vera novità è costituita dall’attività svolta nel mercato estero. Nell’esercizio in commento si è concretizzata una importante vendita di apparecchiature e servizi connessi al governo vietnamita”. La società che ha seguito la cricca degli appalti e anche le avventure rosa e osèe di alcuni dei suoi protagonisti è l’Area del gruppo Formenti, che fattura circa 32 milioni di euro e che è collegata ad altre due società specializzate: la A&A srl di Varese e la Tsi (tecnologie al servizio delle informazioni) srl di Cuneo. Dei tre è il gruppo più casalingo, con una catena di comando lombarda e poche ambizioni di sbarcare su mercati internazionali: va benissimo restare in casa dei vari magistrati che continuano ad assegnare commesse. Redditizie: nel 2008 a fronte di un fatturato di 31,6 milioni di euro il “risultato operativo è stato di 15,7 milioni di euro, corrispondente al 49,7% del fatturato, su livelli di sicura eccellenza che confermano l’estrema solidità del business in cui la società ha operato”. Anche l’Area si lamenta naturalmente dei ritardi nei pagamenti da parte del sistema giudiziario italiano, imputabili secondo la società a Pierluigi Bersani, che quando faceva il ministro del governo di Romano Prodi ha “posto fine al sistema di anticipi di cassa operati dalle Poste italiane per conto del ministero della Giustizia, Per questo le procure si sono trovate prive delle risorse per fare fronte con regolarità agli impegni assunti”. Si sono accumulati così a inizio 2009 oltre 200 milioni di crediti che hanno rischiato di mandare gambe all’aria molte società del settore. Poi è arrivata la soluzione rateale del ministro Angelino Alfano e soprattutto sono arrivate le nuove commesse delle maxi-inchieste a rasserenare gli animi e a fare quadrare tutti i conti. Due sono ormai sotto gli occhi di tutti, la terza è in corso d’opera (fondi neri di alcune società pubbliche) e non sono ancora noti i nomi delle società di intercettazione coinvolte.

Quando c'è di mezzo un giudice, il Csm manda a quel paese la legge

Con 10 voti a favore, 4 contrari, 5 assenti e 7 astenuti il plenum del Csm ieri ha salvato il giudice Leonardo Bonsignore, presidente del Tribunale di Cagliari, dal trasferimento di ufficio per incompatibilità familiare, riconoscendo in effetti che la legge lo avrebbe imposto, ma si può non rispettare. La decisione ha lasciato qualche ferita interna, sia perché il voto finale ha ribaltato la decisione presa in commissione, sia perché il relatore di maggioranza, Mauro Volpi (votato da Rifondazione), ha fatto un riferimento alle recenti polemiche sulle procedure elettorali spiegando come “in questo periodo che tanto si protesta è bene che la forma prevalga sulla sostanza”. Il caso è molto semplice, e per altro nasce dalla segnalazione del diretto interessato: a Cagliari il giudice Bonsignore presiede il Tribunale, e la sua legittima consorte, Lucia La Corte, presiede il Tribunale per i minorenni. Secondo l’articolo 19 della legge sull’ordinamento giudiziario e le circolari interpretative “sussiste sempre situazione di incompatibilità fra magistrati in rapporto di parentela o affinità sino al terzo grado, coniugio o convivenza, preposti alla dirigenza di uffici giudiziari giudicanti o requirenti della stessa sede. Nel solo caso di Tribunali o Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale, il Consiglio può escludere che ricorra in concreto una situazione di incompatibilità se siano adottati accorgimenti tali da assicurare che i magistrati operino senza alcuna interferenza e senza che si abbia alcuna incidenza negativa sulla funzionalità dell’ufficio”. Ascoltato dal Csm il giudice Bonsignore ha assicurato che con la moglie non poteva esserci alcuna interferenza possibile: lei giudica i minori e lui gli adulti: “né in astratto né in concreto si ravvisa alcuna incompatibilità, stante l’insussistenza di interferenze fra le attività e le funzioni dei due uffici considerate le competenze del tutto separate di detti uffici”. Probabilmente in sostanza il giudice Bonsignore, che a Cagliari sta bene e che comprensibilmente non aveva alcun desiderio di essere allontanato dalla consorte, aveva ragione: lui e la signora avrebbero avuto davvero poche o nulle occasioni per pestarsi i piedi o agire in cartello familiare. Ma la legge consentiva di chiudere occhio solo in occasioni particolari, precisamente elencate. E in quelle non rientrava il caso di Cagliari. Peggio: con una piccola inchiesta, è venuto fuori che per legge il presidente del Tribunale distrettuale ha “dovere di vigilanza nei confronti dei giudici del tribunale dei minorenni”, quindi anche sulla moglie. Bonsignore si è difeso: “è una legge del 1946, totalmente e integralmente disapplicata in tutta Italia. In ogni caso assolutamente mai si sono verificate a Cagliari in concreto interferenze né mai c’è stata esplicazione alcuna del potere di sorveglianza”. Per la commissione del Csm poco contava la buona condotta auto-certificata dal magistrato: la legge è legge, e si deve rispettare, per cui marito e moglie non potevano stare entrambi a Cagliari. Ieri il plenum grazie anche al voto di Nicola Mancino ha graziato invece per buona condotta i due coniugi, decretando che le leggi si possono anche non rispettare

Chi è il giudice Argento. Inflessibile con il Pdl, tenera con gli spinelli

C’è una sentenza che ben prima della sua decisione di escludere la lista Pdl di Roma e provincia dalle prossime elezioni regionali ha dato al giudice Anna Argento il suo quarto d’ora di celebrità. Risale a 10 anni fa, l’11 febbraio 2000, ed è diventata da un lato un punto di riferimento per i radicali antiproibizionisti e dal lato opposto uno scandalo per le comunità anti-droga. Quel giorno infatti il giudice Argento assolse un restauratore di mobili romano pizzicato dalla guardia di Finanza con 8.230 dosi di hashish, prendendo per buona la tesi della difesa: erano per esclusivo uso personale. Il restauratore fu arrestato il 24 gennaio e con processo per direttissima portato davanti al giudice monocratico Anna Argenti. Non è noto se all’epoca nel suo ufficio fosse già presente il ritratto di Che Guevara che tante polemiche ha scatenato in queste ore. E’ nota però la scelta del giudice di sposare integralmente la meravigliosa tesi avanzata dal difensore del restauratore, l’avvocato Francesco Caroleo Grimaldi: le 8.230 dosi di hashish avevano puro scopo terapeutico per lenire i dolori per cure dentali mal riuscite. Nella clamorosa sentenza il giudice Argento scrisse che le condizioni dell’imputato, colpito da “stato di forte depressione dovuta a patologie di tipo odontoiatrico” inducevano a “non ritenere improbabile che lo stesso si fosse approvvigionato di tutta quella quantità di hashish per assicurarsi la possibilità di continuare a trarre sollievo ai dolori che gli procurava la caduta dei denti”. Certo, avere in casa due chili e mezzo di dosi “terapeutiche” poteva sembrare “incompatibile con il solo consumo personale, anche in considerazione del possibile scadimento degli effetti, ma è pur vero che il solo dato quantitativo, in mancanza di sicuri elementi di prova dell’attività di spaccio, non può ritenersi sufficiente, secondo un consolidato orientamento della Cassazione, ad affermare la penale responsabilità dello stesso”. L’imputato fu così assolto e il povero giudice Argento anche all’epoca fu subissato di critiche. Pungenti quelle di Andrea Muccioli, responsabile della comunità di San Patrignano: “Per evitare eccessi di discrezionalità come questo”, disse, “pazzeschi, ma purtroppo all’ordine del giorno, bisognerebbe istituire come negli Stati Uniti i tribunali speciali per i reati legati alle tossicodipendenze che sono composti da magistrati esperti solo in droghe e tecnici del settore”. Non fu quello l’unico episodio per cui il giudice Argento passò all’onore delle cronache. Fu lei ad assolvere il marocchino Nabil Benyahya dalle accuse delle procura di avere assassinato nella notte fra il 19 e il 20 agosto 2004 una turista tedesca a Roma, Vera Heinzl. Il caso fece clamore e se ne occupò a lungo la stampa, con grande sorpresa per quel finale. Sempre la Argento condannò a 400 euro di multa e 1500 euro di risarcimento danni un politico romano, Edmondo Angelè per avere tirato un orecchio al ginecologo Severino Antinori durante una riunione della lista “Per Tajani sindaco”. Un precedente giudiziario quindi in casa Pdl con protagonista lo stesso magistrato. Che in qualche modo aveva già intersecato le vicende di Silvio Berlusconi apparendo come teste il 22 aprile 2002 al processo Imi-Sir. L’Argento fu convocata il 22 aprile 2002 come ex dipendente del ministero di Grazia e Giustizia per testimoniare su una vecchia riunione che si sarebbe dovuta tenere al ministero sulla edilizia carceraria convocando (per toglierselo dai piedi) il presidente del collegio giudicante sulla causa Imi-Sir. La testimonianza della Argento fu essenziale per la pubblica accusa contro Cesare Previti, tanto da essere più volte riportata in sentenza.

La libreria bianca che turba la cricca

Questa telefonata è allegata agli atti della inchiesta sulla cricca degli appalti pubblici. Secondo i giudici dimostrerebbe uno dei casi di regalia degli imprenditori (qui Diego Anemone)ai dirigenti pubblici che gestiscono gli appalti. Il beneficiario è qui Fabio De Santis, a colloquio con la moglie Silvia sull'arrivo di una libreria in regalo che però è bianca e non del colore gradito, noce. "Il pomeriggio del giorno successivo, MONTANARI Rita, attuale socio e amministratore unico della citata TECNOWOOD srl, mentre il marito MONTEROTTI Antonio e amministratore unico della AMP srl, partecipata al 66%; società di produzione di arredi entrambe di fatto riferibili ad ANEMONE Diego e al fratello Daniele come oramai emerso in più conversazioni intercettate, avvisa l’ing. Fabio DE SANTIS che il lunedì successivo(1 dicembre) gli manderà due operai a montare la roba... La mattina di lunedì 1 dicembre, alle ore 10.36, MONTANARI Rita informa Fabio DE SANTIS che gli operai staranno a casa per le 11.30 successive ..." aho! verso le 11.30 stanno là eh? … (…) … okay … meno male … (inc) ... perchè io speravo per le 11.00 ma stanno andando via adesso ..." DE SANTIS assicura che ha già avvisato a casa ... "grande, grande Rita ... sì … sì sono tutti avvertiti a casa! … (…) Alle ore 11.41 FAUSTI Silvia si lamenta con il marito Fabio DE SANTIS che la libreria che hanno portato a casa è bianca quando invece doveva essere colore noce ... "Fabio ... ma la libreria bianca l'hanno fatta?" Anche DE SANTIS manifesta disappunto per l’inconveniente "no ... doveva essere… mannaggia la miseria !!" La moglie rimprovera al marito per l’errore del colore. La sera DE SANTIS Fabio chiede140 alla moglie come sta procedendo il montaggio dei mobili (ore 18.53.50) "... ahò! …(…) … ma il mobile lo hanno fatto in camera tua?" Silvia ribatte che per oggi hanno montanto solo la libreria, rimarcando ancora una volta che il colore bianco non le piace "la libreria è bellissima ... certo bianca ... ma insomma... non è la morte sua, come dicono a Roma… comunque... vedi un po' tu … giudica..." Silvia sembra che però si sia fatta una ragione per il colore sbagliato, ammettendo che, dopo tutto, si tratta di mobili non pagati e quindi bisogna accontentarsi ... "no soprattutto mi fa incavolare... l'unica cosa ... capisco a caval donato non si guarda in bocca ... è sempre ...però dico che cazzo! ... però la sedia me la potevano scurire ..."

Ma guarda te chi c'è dietro l'inchiesta su Telecom e Fastweb: il grande fratello di Di Pietro. Il solito Genchi...

Tutti i tabulati e i tracciati di traffico telefonico, per un totale di almeno 700 mila files, dell’inchiesta su Fastweb e Telecom Italia Sparkle, sono finiti nelle mani del superconsulente delle procure, Gioacchino Genchi. Sì, proprio il poliziotto più volte sospeso dall’incarico per le polemiche nate sulla sua attività professionale privata, che ora si è messo al riparo sotto l’ombrello politico di Antonio Di Pietro intervenendo al congresso dell’Italia dei Valori e suscitando un mare di polemiche per avere sostenuto che Silvio Berlusconi si era inventato il tiro della statutetta del Duomo prima di Natale. Nonostante le perplessità già emerse con il ruolo di Genchi nelle inchieste di Luigi De Magistris, la procura di Roma ha deciso di ricorrere ancora una volta al superconsulente proprio per la sua inchiesta probabilmente più delicata. A chiamare Genchi in campo è stato il sostituto procuratore Giovanni Di Leo. A Genchi sono stati via via affidati i documenti informatici sequestrati dalla procura in case e uffici degli indagati. Nelle sue mani sono finitib alcuni computer e floppy disk sequestrati a Telecom Italia Sparkle, fra cui quattro con la dicitura “Informazioni Telecom Italia riservate”. Sempre a Genchi sono finiti quattron pacchi di materiale e documentazione sequestrati sia presso Telecom che presso Fastweb, fra cui tutto il materiale informatico acquisito in ufficio e nella abitazione di Bruno Zito, uno dei dirigenti Fastweb coinvolti nell’inchiesta. Con successivo atto la procura di Roma ha affidato sempre a Genchi l’analisi del traffico telefonico di tutte le utenze intestate a protagonisti dell’inchiesta, iniziando da quelle di Carlo Focarelli e focalizzandosi in particolare su quelle di due dirigenti di Fastweb, il già citato Zito e Giuseppe Crudele. Genchi ha tracciato anche tutta la mappatura del traffico telefonico originato dalle utenze di Francesco Micheli, che non risulta a dire il vero fra i destinatari di provvedimenti finali dell’inchiesta. Parte del traffico telefonico del finanziere musicofilo è comunque negli allegati provvisto dalla classica mappatura di Genchi. Il poliziotto che in privato (essendo in aspettativa) fa il consulente delle procure ha messo sotto anche tutti i gestori telefonici, facendo spesso la voce grossa. Agli atti sono depositate infatti numerose lettere di Genchi a Tim, Vodafone e H3g, con la minaccia di bloccare i pagamenti loro dovuti dalla procura in caso di scarsa collaborazione ricevuta

Se sbaglia il Pdl, si punisca il Pdl. Non i suoi elettori

Che sia per i pasticci dei polli del Pdl o per quelle volpi dei magistrati che una ne pensano e cento ne trovano, alla fine i soli ad essere puniti saranno gli elettori. Dopo la decisione del Tar del Lazio di non ammettere il simbolo del Pdl non avranno infatti diritto di scelta le centinaia di migliaia di cittadini simpatizzanti per il Pdl nella provincia di Roma. Di più: siccome il merito del ricorso verrà discusso a maggio, dopo avere votato, c’è anche il fondato rischio che il voto delle Regionali venga successivamente invalidato. E’ già accaduto in tempi recenti a Messina per molto meno: una lite sull’eredità del simbolo ex Psi fra Bobo Craxi e Gianni De Michelis. Così alla beffa iniziale per gli elettori Pdl potrebbe aggiungtersi la beffa bis per tutti: sostenere con le proprie tasche i costi di due elezioni invece di una. Ieri sera l’unica cosa certa era che il contestato decreto interpretativo varato dal governo venerdì scorso a nulla è servito. I listini di Roberto Formigoni in Lombardia e di Renata Polverini nel Lazio sono stati ammessi alla competizione elettorale a prescindere. Il Tar del Lazio di quel decreto se n’è semplicemente fatto un baffo. Non avevano tutti i torti quindi Giorgio Napolitano, e il suo predecessore Oscar Luigi Scalfaro a sostenere che non il Pdl bisognava salvare, ma il diritto costituzionale di scelta dei suoi elettori, che oggi sono maggioranza nel paese e anche nelle due regioni, Lazio e Lombardia, dove si è verificato il braccio di ferro sull’ammissione delle liste. Lo spirito della Costituzione e delle leggi elettorali non può essere quello di punire gli elettori. Semmai sono loro che possono punire i partiti negando il loro voto. Bisognerebbe dunque trovare nelle norme elettorali la soluzione opposta a quella che emerge da questa vicenda: punire i partiti che commettano leggerezze ed errori e non gli elettori, che colpe non possono avere. Una sanzione proporzionata a un caso come quello di Roma, in cui il presentatore di lista arriva all’appuntamento in colpevole ritardo, potrebbe essere quella della decadenza dal diritto del rimborso elettorale per quella lista. Non è piccola punizione: per il Pdl del Lazio significherebbe dire addio a circa 11 milioni di euro in cinque anni, stando ai sondaggi della vigilia. Questo tipo di sanzione colpirebbe davvero i polli e non gli elettori (che anzi risparmierebbero qualcosa, visto che quei rimborsi vengono finanziati con le loro tasse). Poi ciascun partito se la vedrebbe con i responsabili delle negligenze da cui pretendere ristoro per il danno subito. Una soluzione simile offrirebbe giustizia e non soppressione di diritti costituzionali come sta avvenendo. L’applicazione alla lettere della forma delle attuali regole elettorali non ha nulla a che vedere con la vera giustizia. Tanto più che le regole non sono uguali per tutti in tutta Italia. Ad esempio scalda tanto gli animi il decreto interpretativo del governo che non ha modificato nulla della legge (tanto che a nulla è servito), ma il Pd è stato zitto e ben felice davanti alla scelta della Regione Umbria di cambiare le regole del gioco elettorale con una nuova legge del gennaio 2010, che ha modificato tempi e modi di presentazione delle liste esentando dalla raccolta firme tutti i partiti che potevano contare su un gruppo consiliare già costituito. Sappiamo quanto sianmo generose le assemblee legislative nel concedere deroghe alla composizione dei gruppi: così nel Parlamento si è già fatto un regalino non da poco ad Antonio Di Pietro. In Umbria il gioco è servito a tenere fuori dalla porta i radicali, che lì davano fastidio. Un sopruso passato in cavalleria. Si riempono tutti la bocca di prediche sul rispetto delle regole, ma appena le regole mettono a rischio la loro pagnotta, possono finire tranquillamente sotto i piedi. E’ quella pagnotta che deve essere pena del contrappasso. Ma la tolgano ai partiti, non ai cittadini.

Bertolaso? La cricca ne aveva terrore

Guido Bertolaso era temutissimo dagli appartenenti alla cricca degli appalti. Un po' preoccupati per come avevano fatto lievitare il costo degli appalti legati al G8 della Maddalena. Questa telefonata è del 4 settembre 2008, al telefono ci sono Fabio De Santis, numero due di Angelo Balducci e un ingegnere, Susanna Gara, dipendente del Ministero delle Infrastrutture. Oggetto del colloquio proprio il lievitare dei costi G8 e il timore per la reazione di Bertolaso Ecco come l'ordinanza sulla cricca racconta questa telefonata:
"La mattina del 4 settembre l’ing. Susanna GARA, dipendente del Ministero delle
Infrastrutture, che fa anch’essa parte della Struttura di Missione che coordina i lavori alla Maddalena, con tono preoccupato, informa126 l’ing. DE SANTIS che nella predisposizione del progetto definivo per la realizzazione del main conference affidati all’impresa ANEMONE, è prevista una maggiorazione della spesa di minino 28 milioni di euro ... per quanto riguarda invece ANEMONE ... il Main Conference ... (…) … lì loro stanno per produrre un definitivo che è in aumento di qualcosa tipo il 50 % ... senza fare ... (…) … da 32 di lavori tranne le maggiorazioni eccetera ... stanno per arrivare a quasi 50 ... (…) … più le maggiorazioni ... (…) … a tutte quelle cose speciali che sono state richieste per realizzare l'involucro della ... della cosa ... del Main Conference e via discorrendo ... DE SANTIS è preoccupato per la reazione che può avere BERTOLASO se gli prospetta esigenza di dover incrementare la spesa complessiva di 100 milioni di euro ... quella bisogna che facciamo una riunioncina a Roma con Mauro e con tutti quanti perchè bisogna ... (…) … eh, perchè bisogna prospettarla …(…) … a BERTOLASO perchè sennò ci si incula quello ... cioè gli mandiamo un conto che sarà 100 milioni di euro in più ... (…) … eh ... (ride) ... cioè mi fa i peli ...

Girandola di telefonate per pagare le vacanze lusso al segretario generale di Romano Prodi

Vorticoso giro di telefonate fra il 28 aprile e il 2 maggio 2008 fra imprenditori e dirigenti pubblici della cricca degli appalti per pagare ponti, week end e vacanze estive all'allora segretario generale di palazzo Chigi, Carlo Malinconico, ancora in carica negli ultimi giorni del governo di Romano Prodi. Il favore per lui è chiesto dal capo della cricca, l'ingegnere Angelo Balducci, signore dei lavori pubblici in Italia. Si attiva subito Diego Anemone, imprenditore di fiducia, che chiama Francesco Piscicelli, che ben conosce l'hotel agognato da Malinconico, Il Pellicano di Porto Santo Stefano all'Argentario. Così girandola di contatti con Roberto Sciò, direttore dell'Hotel, prenotato e pagato il ponte del primo maggio, qualche week end successivo e il meritato riposo ad agosto. Malinconico educatamente ringrazia Balducci in una telefonata che è un capolavoro di mozziconi di parole e allusioni.

Ecco la telefonata degli sciacalli

Ecco la famosa telefonata degli sciacalli, quella del 6 aprile, il mattino del terremoto in Abruzzo, fra un imprenditore, Francesco Maria Piscicelli De Vito e suo cognato, Pierfrancesco Gagliardi. Quando è stata pubblicata sui giornali Piscicelli ha scaricato la colpa sul cognato, sostenendo che c’era un errore nell’ordinanza. E invece è lui a pronunciare la frase più sgradevole, gradita però dal cognato che ha fatto capire che alle 3 e mezzo anche lui se la rideva dentro il letto… Così è raccontata la telefonata nel decimo faldone allegato all’ordinanza sulla cricca degli appalti. “Alle ore 03.30 circa del 6 aprile 2009, l’Abruzzo è stato sconvolto da un terremoto che ha causato quasi 300 vittime e distrutto numerosi edifici sia pubblici che privati. Sono state intercettate numerose conversazioni da cui si rileva che alcuni soggetti interessati nella presente indagine, sia imprenditori che non, si sono subito attivati per inserirsi nel lucroso affare della ricostruzione. Già nel primo pomeriggio del 6 aprile GAGLIARDI Pierfrancesco esorta il cognato PISCICELLI a prendere contatti con i suoi referenti presso gli uffici di via della Ferratella per approfittare dell’emergenza terremoto per partire rapidamente con dei lavori ... oh ma alla Ferratella occupati di 'sta roba del terremoto perchè qui bisogna partire in quarta subito ... non è che c'è un terremoto al giorno …(…) … così per dire per carità... poveracci PISCICELLI, cinicamente, ribatte che è la prima cosa a cui ha pensato appena percepita la scossa alle 3 e mezzo del mattino ... eh certo ... io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto …”

Balducci, Bertolaso e Soru distratto dalla campagna elettorale

Visto che le intercettazioni della inchiesta sulla cricca degli appalti sono ormai pubbliche e pubblicate, è un servizio a lettori e perfino agli stessi protagonisti fare ascoltare l'audio originale di quelle telefonate per capirne toni, accenti e sfumature. Questa è la telefonata fra Guido Bertolaso e Angelo Balducci del 14 gennaio 2009, più volte pubblicata in questi giorni. Tutte le telefonate chiave dell'inchiesta sono disponibili sul sito del quotidiano Libero a www.libero-news.it "Il pomeriggio del 14 gennaio il dr.BERTOLASO chiede390 a BALDUCCI di intervenire nei confronti della dottoressa Maria Pia FORLEO che sta in qualche modo rallentando l’indizione delle gare per l’affidamento della successiva gestione delle opere che si stanno realizzando alla Maddalena per il vertice G8, quando ci sarebbe da approfittare del periodo di campagna elettorale in Sardegna per poter lanciare in bandi di gara ... dovresti parlare un attimo con la dottoressa FORLEO … (…) … allora lei continua a fare tutta una serie di domande per riuscire a chiudere questi benedetti bandi di gara ... lì per la gestione …(…) … che non hanno luogo di essere poste ... come questioni perchè ... a mio giudizio ... non spetta a lei decidere se noi dobbiamo fare una sola gara per i 2 alberghi e per l'Arsenale ... oppure dobbiamo fare 3 gare ... 2 gare ... e quello che sia...questo purtroppo è compito del sottoscritto quindi ... se lei si vede con i nostri e definisce ... io ho bisogno di avere questo benedetto bando nelle prossime ore ... perchè se no poi non ce la faccio più …(…) … che non si ponesse problemi ... lei non deve parlare con la Regione ... coi ... non deve parlare con nessuno ... lei mi deve dare ...(…) …tecnico ... poi la durata del contratto ... la modalità di contratto eh ... questa ... la decido io …(…) …perchè ... è ovvio che io lo voglio sfruttare questi giorni … (…) … di campagna elettorale ... dove SORU pensa ad altre cose e nessuno eh! ... per chiudere un qualche cosa che altrimenti se ci mettiamo a fare la concertazione ... fra 2 anni stiamo ancora a discutere del bando di gara …(…) … hai capito? ... quindi dille per cortesia ... tanto lei so che ha già fatto il 99,9 per cento del lavoro ... se lei me lo chiude e me lo fa avere a me poi noi lo lanciamo subito e lei non si preoccupasse ... va bene?"