Non si va in Paradiso passando dai paradisi fiscali. Così il Papa prepara la sua strada al rientro dei capitali
Sono passati più di 40 anni da quel 26 marzo 1967 quando Paolo VI tuonò contro l’esportazione illecita dei capitali dalle pagine della Populorum progressio, un’enciclica chiave nella storia della dottrina sociale della Chiesa. E quel passaggio, in un mondo così lontano da quell’epoca, riecheggia con forza nella nuova enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, che questa mattina verrà presentata ufficialmente in Vaticano e di cui Italia Oggi anticipa tre capitoli. «Paolo VI», ricorda papa Ratzinger, «invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all’estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione». Insomma, non si va in Paradiso passando per i paradisi fiscali.
La nuova enciclica sostiene che “tutto questo è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico”. Non è tenero, Benedetto XVI, con gli imprenditori e con i manager che spesso sono stati all’origine della crisi finanziaria che sta mettendo in ginocchio il mondo. E per quanto un’enciclica sia fatta per attraversare il tempo, non mancano riferimenti anche di dettaglio all’attualità. Per il Papa uno dei rischi maggiori “è senz’altro che l’impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di straordinaria mobilità». Ma non sono solo gli imprenditori ad avere perso il senso della propria responsabilità sociale: “Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi”. Per anni, sostiene il Papa, “la perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all’imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall’altro”. La realtà non è più quella. E con parole che farebbero felici il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti, e che fotografano con lucidità l’attuale situazione internazionale, il Papa spiega che “l’economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze». Sarà grazie a questo ruolo riconquistato da stati e governi che si potranno riprendere in mano le redini della globalizzazione oggi sfuggite. Basta non assolutizzare i processi economici e ricordare che questi dipendono e sono governati sempre dagli uomini. “La globalizzazione”, dice Benedetto XVI citando in questo il suo immediato predecessore, “a priori non è buona nè cattiva (...) Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato, preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi (...) I processi di globalizzazione, adeguatamente concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande redistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto”. E’ qui il senso vero del mercato come è inteso da Benedetto XVI: non giustifica più la sua esistenza con il solo criterio della giustizia commutativa (lo scambio classico fra bene e prezzo), che portata all’esasperazione lo distrugge, ma vivrà se saprà costruire una economia di mercato anche attraverso la giustizia distributiva e quella sociale. Una ricetta non banale proprio per il G8 alle porte...
Franco Bechis
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