Girandola di telefonate per pagare le vacanze lusso al segretario generale di Romano Prodi

Vorticoso giro di telefonate fra il 28 aprile e il 2 maggio 2008 fra imprenditori e dirigenti pubblici della cricca degli appalti per pagare ponti, week end e vacanze estive all'allora segretario generale di palazzo Chigi, Carlo Malinconico, ancora in carica negli ultimi giorni del governo di Romano Prodi. Il favore per lui è chiesto dal capo della cricca, l'ingegnere Angelo Balducci, signore dei lavori pubblici in Italia. Si attiva subito Diego Anemone, imprenditore di fiducia, che chiama Francesco Piscicelli, che ben conosce l'hotel agognato da Malinconico, Il Pellicano di Porto Santo Stefano all'Argentario. Così girandola di contatti con Roberto Sciò, direttore dell'Hotel, prenotato e pagato il ponte del primo maggio, qualche week end successivo e il meritato riposo ad agosto. Malinconico educatamente ringrazia Balducci in una telefonata che è un capolavoro di mozziconi di parole e allusioni.

Ecco la telefonata degli sciacalli

Ecco la famosa telefonata degli sciacalli, quella del 6 aprile, il mattino del terremoto in Abruzzo, fra un imprenditore, Francesco Maria Piscicelli De Vito e suo cognato, Pierfrancesco Gagliardi. Quando è stata pubblicata sui giornali Piscicelli ha scaricato la colpa sul cognato, sostenendo che c’era un errore nell’ordinanza. E invece è lui a pronunciare la frase più sgradevole, gradita però dal cognato che ha fatto capire che alle 3 e mezzo anche lui se la rideva dentro il letto… Così è raccontata la telefonata nel decimo faldone allegato all’ordinanza sulla cricca degli appalti. “Alle ore 03.30 circa del 6 aprile 2009, l’Abruzzo è stato sconvolto da un terremoto che ha causato quasi 300 vittime e distrutto numerosi edifici sia pubblici che privati. Sono state intercettate numerose conversazioni da cui si rileva che alcuni soggetti interessati nella presente indagine, sia imprenditori che non, si sono subito attivati per inserirsi nel lucroso affare della ricostruzione. Già nel primo pomeriggio del 6 aprile GAGLIARDI Pierfrancesco esorta il cognato PISCICELLI a prendere contatti con i suoi referenti presso gli uffici di via della Ferratella per approfittare dell’emergenza terremoto per partire rapidamente con dei lavori ... oh ma alla Ferratella occupati di 'sta roba del terremoto perchè qui bisogna partire in quarta subito ... non è che c'è un terremoto al giorno …(…) … così per dire per carità... poveracci PISCICELLI, cinicamente, ribatte che è la prima cosa a cui ha pensato appena percepita la scossa alle 3 e mezzo del mattino ... eh certo ... io ridevo stamattina alle 3 e mezzo dentro al letto …”

Balducci, Bertolaso e Soru distratto dalla campagna elettorale

Visto che le intercettazioni della inchiesta sulla cricca degli appalti sono ormai pubbliche e pubblicate, è un servizio a lettori e perfino agli stessi protagonisti fare ascoltare l'audio originale di quelle telefonate per capirne toni, accenti e sfumature. Questa è la telefonata fra Guido Bertolaso e Angelo Balducci del 14 gennaio 2009, più volte pubblicata in questi giorni. Tutte le telefonate chiave dell'inchiesta sono disponibili sul sito del quotidiano Libero a www.libero-news.it "Il pomeriggio del 14 gennaio il dr.BERTOLASO chiede390 a BALDUCCI di intervenire nei confronti della dottoressa Maria Pia FORLEO che sta in qualche modo rallentando l’indizione delle gare per l’affidamento della successiva gestione delle opere che si stanno realizzando alla Maddalena per il vertice G8, quando ci sarebbe da approfittare del periodo di campagna elettorale in Sardegna per poter lanciare in bandi di gara ... dovresti parlare un attimo con la dottoressa FORLEO … (…) … allora lei continua a fare tutta una serie di domande per riuscire a chiudere questi benedetti bandi di gara ... lì per la gestione …(…) … che non hanno luogo di essere poste ... come questioni perchè ... a mio giudizio ... non spetta a lei decidere se noi dobbiamo fare una sola gara per i 2 alberghi e per l'Arsenale ... oppure dobbiamo fare 3 gare ... 2 gare ... e quello che sia...questo purtroppo è compito del sottoscritto quindi ... se lei si vede con i nostri e definisce ... io ho bisogno di avere questo benedetto bando nelle prossime ore ... perchè se no poi non ce la faccio più …(…) … che non si ponesse problemi ... lei non deve parlare con la Regione ... coi ... non deve parlare con nessuno ... lei mi deve dare ...(…) …tecnico ... poi la durata del contratto ... la modalità di contratto eh ... questa ... la decido io …(…) …perchè ... è ovvio che io lo voglio sfruttare questi giorni … (…) … di campagna elettorale ... dove SORU pensa ad altre cose e nessuno eh! ... per chiudere un qualche cosa che altrimenti se ci mettiamo a fare la concertazione ... fra 2 anni stiamo ancora a discutere del bando di gara …(…) … hai capito? ... quindi dille per cortesia ... tanto lei so che ha già fatto il 99,9 per cento del lavoro ... se lei me lo chiude e me lo fa avere a me poi noi lo lanciamo subito e lei non si preoccupasse ... va bene?"

Che vuoi fare con questa inchiesta? Berluscopoli o Veltronopoli? Con 20 mila pagine tutto è possibile

Non è Tangentopoli, è il ritratto di un paese intero attraverso il filo del telefono (o meglio le cellule del telefonino). E’ tutto e il suo contrario il contenuto di quelle 22 mila pagine degli allegati all’ordinanza del tribunale di Firenze sulla cricca degli appalti pubblici. Dipende da chi le legge e da come si possono leggere. Dipende- è inutile nascondercelo- soprattutto da chi le vuole usare e contro chi le si voglia usare. Certo, per due anni quelle intercettazioni (ed è un caso raro in Italia) sono restate esclusivamente nelle mani di che le stava effettuando: i Ros dei carabinieri e- certo- anche i magistrati che le avevano ordinate. Non è uscito uno spillo. Al momento del deposito dell’ordinanza però sono deflagrate in tutta la loro potenza. Si può usare “Massaggiopoli”- come si è fatto, per colpire Guido Bertolaso (altro non c’è in quelle carte). Si può usare “Escortopoli” per puntare diritto a un gruppo di funzionari pubblici pedinati e intercettati – questo è certo- mentre si dirigono in stanze di albergo per farsi coccolare da casalinghe vogliose di arrotondare lo stipendio o da professioniste vere e proprie, anche se raccattate per strada davanti a una gelateria di Treviso (come è accaduto). Si può puntare a Gianni Letta, perché il suo nome è evocato nelle intercettazioni (ma lui mai intercettato). Si può unire tutto- come è stato fatto- per mettere nel mirino Silvio Berlusconi il cui nome a dire il vero appare assai poco nei brogliacci, ma che insomma alla fine sta sopra tutti e quindi di qualcosa dovrà pure essere colpevole. Ma con la stessa materia si può fare l’esatto contrario. Si può imbastire “Veltronopoli” e “Rutellopoli”, come Libero ha dimostrato, visto che i nomi di Walter Veltroni e Francesco Rutelli sono stati più volte tirati in ballo dalle intercettazioni come sponsor di imprese che alla fine hanno vinto i due più grandi appalti per le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Si può utilizzare quel materiale anche per gettare ombre non proprio piccole su Antonio Di Pietro. Era lui ministro delle Infrastrutture a controllare Angelo Balducci e la sua squadra. Per questo nel novembre 2007 Di Pietro fu chiamato a incontrare 50 imprenditori dell’Ance che si lamentavano dell’andazzo. Si alzò un marchigiano e disse di sapere prima ancora del varo dei bandi di gara quale sarebbero state le prime otto imprese a vincere gli appalti per i 150 anni dell’unità di Italia. Le elencò e le azzeccò tutte. E Di Pietro? Il massimo che riuscì a rispondere fu “io non posso farci nulla. Ho le mani legate”. Si potrebbe imbastire un filone di inchiesta sui magistrati: c’è materiale, e anche sostanza, sui comportamenti tenuti dal giudice della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro, socio di una immobiliare che speculava in Gallura (e nel cui capitale figurano esponenti coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata). Ci sono due autorevoli consiglieri della Corte dei Conti che brigano, prendono appalti e fanno attività del tutto incompatibile con il loro mandato. Si può imbastire un processo all’Università di Roma, per le raccomandazioni ottenute per passare gli esami e perfino per cambiare le classifiche di ammissione a facoltà con numero chiuso. Si può imbastire anche una commedia di quelle he sarebbero piaciute a Totò, qualcosa di vicino a Totò-truffa, perché ci sono pagine e pagine di intercettazioni truffaldine, dove è chiaro il millantato credito e perfino espresso. Magistrali le telefonate in proposito fra la coppia più messa all’indice in questa inchiesta: l’imprenditore Piscicelli e suo cognato Gagliardi (che festeggiano alle 3 di notte il terremoto de L’Aquila perché portarà lavori che in realtà poi non porta a loro). Prendono in giro un consigliere della Corte dei Conti, Antonello Colosimo, (che probabilmente prende in giro a sua volta loro vantando un canale privilegiato con Corrado Passera), assicurando di avere avuto un incontro (mai avvenuto) con Marco Bassetti per fargli avere una consulenza con Endemol. Si potrebbe usare quel materiale per costruire una “Vaticanopoli”: ci sono monsignori che chiedono raccomandazioni, c’è un commercialista che si intrufola negli appalti sostenendo di essere un alto esponente dello Ior. C’è di tutto davvero. Persino in una delle imprese chiave: la Btp. All’inizio dell’inchiesta al suo vertice c’è Vincenzo Di Nardo, che dichiara di votare Pd ed è vicino agli assessori Pd di Firenze. Poi arriva Riccardo Fusi, che vota Pdl ed è amico di Denis Verdini. Come si fa l’inchiesta per quegli appalti? Contro il Pd o contro il Pdl… C’è solo l’imbarazzo della scelta.

Ha ragione Letta: gli sciacalli non hanno vinto appalti a L'Aquila

Nessuna delle imprese- “sciacallo” i cui imprenditori sono stati intercettati dalla procura di Firenze nell’inchiesta sulla cricca degli appalti pubblici ha vinto una sola gara post- terremoto nella provincia de L’Aquila. Non ha quindi mentito Gianni Letta, e non ha invece alcun fondamento la caccia grossa al sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri scatenata da Repubblica e da autorevoli esponenti dell’opposizione. Non ci sono quelle, ma ci sono invece entrambe le società che secondo le intercettazioni sarebbero state già aiutate da Walter Veltroni a vincere i due appalti principali per le celebrazioni dell’Unità di Italia: quello di Firenze e quello di Venezia. Sono pubbliche dal primo giorno, e non segrete, le commesse date alle imprese di ogni tipo per i lavori post-terremoto. Gli elenchi sono sostanzialmente tre, in continuo aggiornamento, consultabili da qualsiasi cittadino sui siti della Regione Abruzzo, del comune de L’Aquila e della protezione civile. Il primo elenco contiene lavori in emergenza e tutti i nomi delle ditte impegnate nelle opere di puntellamento degli edifici lesionati e di demolizione di quelli che non si possono tenere più in piedi. Per ogni casella è indicato il nome della ditta, la città o il paese dove vengono eseguiti i lavori e perfino via e numero civico interessati. In questo elenco (11 pagine) non ci sono importi pre-stabiliti, perché ogni lavoro non è quantificabile prima del suo compimento. Non figura nessuna ditta riportabile agli imprenditori “sciacalli”, ma c’è la romana Sac (associata a un’impresa abruzzese) cui sono dedicate pagine e pagine di intercettazioni: si tratta della stessa ditta che ha vinto l’appalto per il teatro della musica di Firenze e che secondo gli intercettati sarebbe stata sponsorizzata dal sindaco di Roma, Walter Veltroni. C’è poi un secondo elenco (7 pagine fitte fitte), associato al prospetto C.a.s.e., che comprende 97 ditte, i lavori assegnati, gli importi a base d’asta, le variazioni, i ribassi offerti e il valore definitivo di ciascuna commessa. Anche qui assenza totale degli sciacalli intercettati. C’è però- insieme a numerose altre ditte venete, la Sacaim spa della famiglia Alessandri. Anche questa ditta era già emersa nelle intercettazioni per avere vinto l’appalto del nuovo palazzo del cinema di Venezia come ditta del cuore di Veltroni. A L’Aquila ha ottenuto un piccolo lotto di lavori per 4,8 milioni di euro, per la realizzazione di piastre in cemento armato. Nello stesso elenco figura anche un colosso della Lega coop, come Manutencoop, che si è assicurata il servizio di facility management per 9,6 milioni. Sempre Lega cooperative ha ottenuto con il Consorzio Etruria coop uno dei lotti principali per la progettazione e realizzazione degli edifici residenziali: 13,7 milioni di euro. Ma ci sono tutte le imprese più note del settore, e l’appalto più rilevante (54,8 milioni) l’ha vinto un consorzio fra Giuseppe Maltauro spa e Taddei spa. Il terzo elenco ne raggruppa in realtà altri due sotto le sigle Map (Moduli abitativi provvisori rimovibili) e Musp (Moduli uso scolastico provvisorio), e racchiude 76 ditte che in qualche caso vincono più di un appalto. Anche qui nessuna ditta in qualche modo riportabile a quella degli sciacalli di cui Letta aveva negato (giustamente) ogni tipo di presenza. D’altra parte quelli definiti sciacalli erano due imprenditori, legati da rapporto di parentela: Francesco Maria De Vito Piscicelli e suo cognato Piefrancesco Gagliardi. Quest’ultimo è il proprietario del gruppo Gialor che controlla a sua volta la Avalon srl, la Soave srl, la Per non dormire srl e a cui sono collegate anche la Gamas srl, la Magazzini generali srl, la Casello srl, la W3 srl, la Paradiso srl, la santa letizia srl e la Case nel verde srl. Nessuna di queste imprese è mai sbarcata a L’Aquila e dintorni. Quanto a Piscicelli, imprenditore non lo può più essere: sono fallite le due imprese di sua proprietà, la Edil costruzioni generali (1996) e la casa di tutti srl (2004). Oggi Piscicelli è solo il direttore tecnico della Opere pubbliche e ambiente spa, con sede a Roma in via Margutta 3. Il 90 per cento del capitale figura in mano alla legittima consorte, Rossella Troise: Ma al di là delle quote azionarie, anche questa azienda non figura negli elenchi post-terremoto abruzzese. Per altro l’unico segnale da parte del governo ai Piscicelli è arrivato il 10 febbraio scorso proprio alla Troise: una cartella esattoriale per 7.168,42 euro spedita da Equitalia gerit a nome del fisco italiano. Per altro ieri confondendo un po’ le acque, Repubblica confondeva questi unici sciacalli doc con una serie di altri imprenditori intercettati mentre brigavano per ottenere gli appalti a L’Aquila. Non erano gli sciacalli: ma i soci del supergiudice della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro.

Berlusconi felice per l'aria pulita dei carabinieri. Ma quando esce un cavallo dispettoso...

Certo, erano poche parole e solo alle ultime righe. Eppure ha fatto una certa impressione ieri nell’articolo di fondo di prima pagina del Corriere della Sera leggere a firma di Francesco Giavazzi: “Silvio Berlusconi- che queste cose le capisce al volo e nutre anche un sano scetticismo verso la vanità di Bruxelles- ha chiesto che la gestione delle crisi nel Sud dell’Europa venga delegata al Fondo monetario internazionale (…) Berlusconi deve insistere: il suo intervento potrebbe essere cruciale per salvare l’euro”. Fa una certa impressione e soprattutto l’ha fatta al diretto protagonista. “Uh, non capita tutti i giorni”, ha sorriso ieri mattina il presidente del Consiglio al cronista di Libero sorseggiando una flute di spumante al termine della cerimonia inaugurale dell’Anno accademico della scuola ufficiale carabinieri. E chissà se nel calice levato in aria con il comandante dell’Arma Leonardo Gallitelli c’era anche qualche bollicina per quel ritratto inatteso da salvatore dell’euro. Certo non è sfuggito al premier: “Mi fa piacere che il prof. Giavazzi abbia notato lo sforzo fatto dall’Italia durante il vertice europeo informale dell’11 febbraio. L’intervento del Fondo monetario però non è più una ipotesi caldeggiata solo da pesi extra Ue come la Gran Bretagna, ma una realtà visto che partiremo tutti dalla due diligence che il Fmi farà sulla situazione reale dei conti greci”. Salvatore dell’euro. Con il timbro di Giavazzi, il bocconiano che firma anche quella Voce.info insieme a Tito Boeri, uno che può non attende un secondo a infilare un dito nell’occhio del Cavaliere. Ecco perché ieri mattina gongolava Berlusconi al contrario di quel che appariva sulle agenzie di stampa che stavano mettendo in rete una sua stizza per le inchieste giudiziarie. Mai visto negli ultimi anni un Cavaliere tanto allegro. Visibilmente orgoglioso di questa gigantografia fattagli dalla prima firma economica del Corriere e felice anche lì in mezzo agli alti comandi dei carabinieri che lo coccolavano e ringraziavano per la vicinanza del governo all’Arma. Per cogliere la reazione di Berlusconi all’incitamento di Giavazzi è stato necessario strapparlo oltre che alle tartine dell’aperitivo all’affetto di un assai anziano pluridecorato che il premier stava blandendo: “e chi lo avrebbe detto, eh, venti anni fa che noi due ci saremmo mantenuti così in forma?”. E via con un ritornello sempre verde: “ma lo sa che io alle 7 del mattino sono già al lavoro e prima delle due di notte non riesco mai a staccare? Eppure, vede come ci manteniamo giovani?”. Ad occhio il suo interlocutore avrà avuto una ventina di anni più del premier, e sprizzava felicità da tutti i pori. Si era diffusa nelle ore precedenti la vocina maliziosa che Berlusconi avrebbe dato buca ai carabinieri, un po’ irritato per quelle 22 mila pagine di intercettazioni dell’inchiesta “Bertolaso” realizzate dai Ros, ma tutto è stato smentito prima dai suoi collaboratori (“nessun malanimo. Anzi, finchè i faldoni sono stati in mano ai Ros non è sfuggito uno spillo”), poi dai fatti (il premier ieri era lì presente) e infine dall’allegria manifestata palesemente ieri dal Cavaliere. In prima fila durante la cerimonia quando raramente ha staccato gli occhi dall’unico allievo ufficiale-donna presente sul palco (visione che obiettivamente ingentiliva l’ambiente). Poi nella saletta riservata dove si è sottoposto alla consegna ufficiale dello stemma dell’arma insieme a Ignazio La Russa, a venti minuti buoni di incontro a quattr’occhi con il Cocer degli ufficiali carabinieri, e infine- spariti gran parte dei notabili che l’avevano accompagnato, al rito aperitivo-baci-abbracci con chiunque gli si avvicinasse. “Vuoi un appuntamento? Ma certo. Ma come, non ti ricevono? Prendi il numero riservato di Marinella…”. Flute in mano pronto a fendere la folla alla sola visione di Renata Polverini: “Renaataa…!”, baci e un appuntamento per le ore successive. Uscita lei, rivolto al pubblico un po’ con stellette, un po’ no: “Ah… questa campagna elettorale! Ma sapete quanti appuntamenti avevo ieri? Ventisette!”. Ma con una giornata 7 del mattino-2 di notte anche quelli si smaltiscono. Sono andati via tutti. Berlusconi si fa accompagnare alla porta dai generali. Subito fuori dall’uscio lo attendono i carabinieri a cavallo per la rassegna musicale e i saluti formali. I cavalli sono lì da un po’, e quando a loro scappa, scappa… Berlusconi saluta due generali sorridente: “Sto bene quando vengo qui da voi, perché trovo aria pulita…”. Sorride e il sorriso si trasforma in smorfia, ma poi gli viene proprio da ridere. Perché sull’uscio ai cavalli è proprio scappata! L’aria sarà pulita, ma irrespirabile. Non importa, è stata una grande mattinata per l’eroe dell’euro.

Il doppio gioco di Renzi, il Pd che spiana la strada al manager della cricca

C’è anche il volto nuovo del Pd a Firenze, il sindaco Matteo Renzi, nell’ultimo filone di inchiesta della procura di Firenze sui grandi appalti. Secondo la documentazione raccolta nel faldone numero 7 allegato all’ordinanza di custodia cautelare in carcere di 4 esponenti della cricca degli appalti pubblici, uno dei più importanti imprenditori intercettati, Riccardo Fusi della Btp, godeva di un canale privilegiato per orientare il piano regolatore di Firenze. Glielo aveva trovato un suo collaboratore, Lorenzo Nencini (figlio di Mario, imprenditore) che era riuscito ad agganciare un collaboratore del sindaco, Marco Carrai e ottenere nel piano urbanistico il via libera alle due sole aree di interesse Btp: quella del Panificio militare e quella della Manifattura Tabacchi. La rivelazione delle intercettazioni è in qualche modo clamorosa, perché pubblicamente Renzi invece aveva giocato il ruolo di avversario di Fusi-Btp per avere bloccato il suo progetto di tranvia con tanto di fermata in piazza Duomo. Ma le intercettazioni raccontano come in realtà all’imprenditore, già coperto dal risarcimento sulla revoca di quell’appalto, della tranvia non importasse nulla, e l’interesse fosse proprio in quel che in anticipo aveva ottenuto dalla giunta Renzi. Così la raccontano i Ros: “La sera del 21 settembre Mario Nencini accenna a Riccardo FUSI che il figlio Lorenzo ha parlato con l’imprenditore Marco Carrai, indicato quale ‘braccio Destro’ del sindaco Matteo Renzi, e di aver avuto, come anticipazioni, le linee guida del nuovo sindaco in materia urbanistica”. Il Nencini conferma che “ha ricevuto notizie positive sia per il Panificio Militare che per Manifattura Tabacchi” e aggiunge: “Prioritari sono non un metro cubo in più nella città ... e sarà solo valutato il Panificio e la Manifattura Tabacchi”. Fusi rivela di avere già avuto la stessa anticipazione da una sua fonte, Andrea Bacci e che- aggiungono i carabinieri- “il sindaco sbloccherà tutto quello che interessa loro direttamente”. Nencini prova a dare però anche la notizia che ritiene cattiva: “il sindaco vuole ridimensionare la realizzazione della tramvia ... te avevi la tramvia su piazza del Duomo tua? Ed ora se non la fanno più?” Annotano i carabineri: “ Fusi non sembra preoccuparsi di questa evenienza nella considerazione che ha già un contratto firmato in mano”. E allegano l’intercettazione ridanciana dello stesso Fusi: ‘Mario... (ride)... bene... se non la fanno più mi daranno i soldi ... mi daranno ... oh Mario ... (ride) ... se la vita è così non c'è mica problemi... secondo te, c'ho un contratto firmato dal 2003 e te poi ti svegli la mattina e tu mi dici che non me lo fai più, secondo te io che fo? ... (…) loro possono dire quello che vogliono ... ma te mi insegni che quando ho un contratto d'appalto firmato se non me lo fai fare tu mi paghi... e per spostarlo devo essere d'accordo io su quanto tu mi dai di differenza... (…) … o Mariolino ... via ... è tutto positivo!”.

Se non eri con Veltroni, fino al 2008 potevi sognarti l'appalto

Dopo quella fiorentina spunta una pista veneziana nel settore grandi appalti della cricca dei lavori pubblici guidata da Angelo calducci e Fabio De Santis che porta diritto al cuore del Pd. A finire sotto la lente dei magistrati dei Ros e degli inquirenti fiorentini che indagano sulle commesse dei grandi eventi c’è, oltre all’appalto del teatro della musica di Firenze, anche quello per il palazzo del cinema di Venezia. A vincerlo fu un gruppo veneto, la Sacaim della famiglia Alessandri che più volte appare nei faldoni dell’inchiesta. Una vittoria che fu – come capita- contestata dagli altri concorrenti perché all’apertura delle busta fu assegnato un punteggio assai modesto al ribasso offerto dai concorrenti, e così a vincere fu in realtà una delle imprese che aveva proposto il costo più alto di realizzazione. Ad essere contestata dagli esclusi da uno degli appalti più golosi delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità di Italia (70 milioni di euro, secondo solo a quello fiorentino) è stata sia la composizione della commissione aggiudicatrice sia la formazione delle squadre di progettisti, architetti e strutturisti dietro le singole offerte. Perché a vincere e fare vincere sarebbe stato un pool di professionisti romani molto legati alla amministrazione capitolina durante all’epoca di Walter Veltroni e in qualche caso anche in quella precedente di Francesco Rutelli. Per altro quest’ultimo al momento dell’assegnazione degli appalti di Firenze e di Venezia era vicepresidente del Consiglio dei ministri alla guida della struttura di missione per il 150° dell’Unità di Italia. Nelle mani degli inquirenti ci sono decine e decine di intercettazioni in cui i protagonisti, imprenditori, architetti e ingegneri, ritengono che i due appalti di Firenze e Venezia siano stati pilotati proprio dal tandem “Veltroni-Rutelli”, e proprio questa ipotesi investigativa è al centro di uno dei principali filoni di inchiesta (ci sono tre faldoni dei 20 dedicati agli appalti nell’era Pd, per oltre 3 mila pagine di intercettazioni). Per il filone Firenze per altro la pista investigativa segue anche le tracce di un colloquio fra Veltroni e il sindaco Pd dell’epoca, Leonardo Dominici, che doveva servire ad orientare la commissione. Il colloquio è citato da numerosi intercettati che dicono di averne avuto conferma anche da un assessore Pd allora in carica. Pizzicato poi al telefono Alberto Levi, consulente di uno degli imprenditori in gara, mentre si sfogava con una dirigente del comune di Firenze: “comunque è una roba da pazzi ... (…) ma era tutta pilotata ... (…) … tutta una grande pilotata ... hanno dato 55 ... a quelli che dovevano vincere perchè in qualche modo... son tutti i progettisti di Veltroni e Rutelli ... son passati ... a Venezia ha vinto la Sacaim con un progettista romano, va bene ? …è un veltroniano puro...va bene ? loro hanno vinto con ... perchè li hanno blindati !... cioè, quelli che dovevano vincere sono stati blindati”. I carabinieri annotano: “l’interlocutore manifesta anch’egli disappunto per quello che è successo, asserendo di aver avuto rassicurazioni, contrariamente a quanto poi è avvenuto, che la gara sarebbe stata espletata in maniera regolare ... mamma mia che porcaio! ... meno male che tutti dicevano e tranquillizzavano ... dicendo ... ‘la gara, è una gara vera’”... Intercettato anche l’ architetto Marco Casamonti, che dice al telefono: “io lo sapevo da due mesi .. non c'era verso”. E il suo interlocutore, il vicepresidente di Confindustria Toscana, Vincenzo Di Nardo che amaro aggiunge: “ Oh Marco questo ti insegna anche un'altra cosa .. o tu diventi amico di Rutelli o di Veltroni o tu puoi tornare a casa. A loro non non gliene frega nulla ... lì doveva vincere la Sacaim a Venezia, ed ha vinto la SACAIM .. non c'è storia. Comunque c'è una grande polemica ... perchè questa è roba da banditi..”. Ed è sempre Casamonti, un architetto ben introdotto in quel mondo, a spiegare per dove passa l’influenza di Veltroni sui grandi appalti: “per lo studio Abdr (iniziali di Arlotti Laura , Beccu Michele, Desideri Paolo, Raimondo Filippo) e per il loro strutturista, Silvio Albanesi, che è l'ingegnere che sta in tutte ... tutte le commissioni ministeriali. E’ un incapace, è solo un uomo di apparato”. Anzi, secondo gli intercettati l’architetto Desideri era così convinto di fare man bassa dei più importanti appalti per l’Unità di Italia da non essere stato nemmeno presente nei giorni decisivi della assegnazione delle due gare di Firenze e Venezia: “è una settimana che è a Mali e ora è alle Maldive ... perchè lui non aveva da fare nulla... aveva bell'e finito tutto da un pezzo”. E proprio quest’ultimo intercettato, il Di Nardi imprenditore da sempre di sinistra, si lascia andare allo sfogo: “Non voterò mai più Pd dopo quello che ho visto. Mi fa schifo, non posso certo votare Berlusconi, ma non andrò più a votare” Certo l’appalto veneziano della Sacaim è omaggiato da gran parte della struttura della cricca degli appalti. Dopo l’assegnazione si trovano tutti a Venezia a festeggiare la famiglia Alessandri, anche tre dei quattro arrestati della cricca: Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola. Festa che come era tradizione di qualche componente della cricca, sarebbe poi finita in camera d’albergo allietata da una fanciulla rimediata in extremis da qualche imprenditore compiacente.

Anche Tesauro, parruccone della Corte costituzionale, in affari con la cricca

Spunta il nome di un alto magistrato nelle inchieste sulla cricca degli appalti pubblici. Si tratta del giudice della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro, già presidente dell’Autorità antitrust italiano. Il magistrato- che non risulta al momento indagato- è stato più volte intercettato al telefono con uno degli esponenti più discussi della cricca, Antonio Di Nardo, cui Tesauro di fatto fa da consulente per un contenzioso assai serio con l’Autorità di Vigilanza nei lavori pubblici. Ma i magistrati fiorentini stigmatizzano anche un secondo ruolo ricoperto dal giudice della Corte Costituzionale: quello di socio de “Il Paese del sole immobiliare”, società a caccia di concessioni e appalti di costruzioni in Gallura, nel cui capitale Tesauro fa compagnia a imprenditori e dirigenti pubblici più volte sospettati di collusioni con la criminalità organizzata. Con la stessa quota di Tesauro c’è anche un dirigente del Ministero delle Infrastrutture, Ivo Blasco, così descritto nell’informativa dei carabinieri: “Si segnala che il citato BLASCO Ivo, risulta indagato per reati aggravati dalla finalità mafiosa (art. 7 Legge 203/1991) nell’ambito di una indagine denominata “TAMBURO” condotta nel 2002 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro nel 2002 riferita al condizionamento esercitato da alcune ‘ndrine calabresi nella esecuzione dei lavori dell’autostrada Salerno- Reggio Calabria”. Nel Paese del Sole figurano poi lo stesso Di Nardo, e Aniello Cera, due nomi che agli inquirenti fanno nascere il sospetto di “eventuali collegamenti con della criminalità organizzata (anche in considerazione dei rapporti di parentela del Mastrominico). Ci sono poi anche Mario Sancetta, consigliere della Corte dei Conti e sodale della cricca degli appalti, e un altro imprenditore di riferimento della cricca, Rocco Lamino. Che cosa fa l’immobiliare co-fondata a fine 2007 dal giudice della Corte Costituzionale? Lo raccontano i magistrati fiorentini grazie alle intercettazioni telefoniche. “Nella giornata del 23 ottobre DI NARDO Antonio parla33 con tale Guglielmo delle trattative che sono in corso con una signora di Santa Teresa di Gallura per l’acquisto di un’area edificabile, precisando che in questa operazione è pure interessato il presidente Tesauro (Giuseppe) ... “eh solo che ... un intoppo domani me ne devo venire perchè ... mò sto con Rocco vedi ... dice che 'sta signora di Santa Teresa di Gallura ci ha fatto una controfferta ... pure abbiamo parlato con Tesauro... con il Presidente ... che anche loro sai sono soci in questa cosa ... e quindi dobbiamo formare un altro tipo di società e ci dobbiamo fare una controfferta perchè lei ci ha chiesto ... era partita da 1.600 al metro mò è scesa quasi a 1.200 ... 1.100 ... al metro quadro ….(…) … sono 6.000 metri di terra c'è tutta una concessione al 2,5 % di edificabilità …(…) … a Santa Teresa …(..) …sul mare... sul mare”. Tesauro che viene ascoltato dai magistrati mentre combina incontri, pizze al circolo Aniene e rapidi caffè a Napoli con esponenti della cricca, cerca di risolvere a Di Nardo anche il problema con l’Autorità dei lavori pubblici, che contesta al funzionario statale proprio il possesso di due società: una Soa e la immobiliare fata con Tesauro, incompatibili con la sua funzione. Per altro la figura stessa di Di Nardo è più volte discussa nell’ordinanza dei magistrati di Firenze, che così lo definiscono: “diretto referente di soggetti riferibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso” e “referente” negli appalti della cricca di “alcune delle imprese consorziate di origine siciliana e campana connotate dalla presenza, quali soci o amministratori, di soggetti già coinvolti in procedimenti penali per reati di associazione di stampo mafioso”. Non proprio le migliori compagnie, figurarsi i migliori soci in affari, per un giudice della Corte Costituzionale.

Clerici, la casalinga che fa Sanremo

Un po’ grazie alla famiglia di origine, un po’ grazie alla Rai che l’ha blindata con uno dei migliori contratti della sua storia. Ma una cosa è certa: Antonella Clerici il Festival di Sanremo se lo potrebbe guardare tranquillamente in poltrona da casa. Averebbe un solo imbarazzo: quale casa? Alla banca dati Sister del catasto italiano la Clerici di case ne ha più di un immobiliare. Basta battere il codice fiscale della bionda dal mattone d’oro per trovare la proprietà o la comproprietà di 41 fabbricati in tutta Italia. Il grosso, 32, sono in provincia di Milano, fra il capoluogo e Legnano, e in gran parte si tratta di appartamenti, cantine e garage in corso Magenta. Ma ce ne sono anche 4 nella provincia di Varese (Busto Arsizio), due in quella di Genova (Rapallo) e tre nella capitale. Appartamenti talvolta acquistati da sola, altre con la sorella, in altri casi ancora frutto dell’eredità e divisi con tutta la famiglia. Certo un discreto patrimonio immobiliare che potrebbe garantire alla Clerici un buon reddito anche in caso di assenza dai teleschermi pubblici. Eppure la conduttrice del Festival di Sanremo 2010 non perché era in grado di vivere nella bambagia ha perso la grinta nell’ultima trattativa economica con la Rai. Secondo fonti interne all’azienda è riuscita a spuntare proprio tutto quello che voleva fino all’ultimo centesimo. La sua annata vale 1,6 milioni di euro, prezzo da star assoluta anche per le generose casse della tv di Stato. Si dice che sia stata calcolato in 500 mila euro il cachet per il solo Sanremo, ma dall’azienda non arriva conferma né ufficiale né ufficiosa. Si sa invece che la formula contrattuale coinvolge la Clerici anche nelle decisioni sulle produzioni esterne e sugli altri contratti di collaborazione per la “Prova del cuoco”, tanto che almeno uno di rilievo è stato fortemente chiesto da lei. E si sa anche che nella trattativa la Clerici ha chiesto un risarcimento più che simbolico per i danni che avrebbe patito con l’interruzione dopo solo due puntate (quelle del 22 e del 29 settembre 2009) della seconda edizione di “Tutti pazzi per la tele”, crollata da una stagione all’altra dal 25% al 14% di share. Per le 6 puntate non andate in onda ha ottenuto un bonus risarcitorio da 120 mila euro, assai più elevato di quello che di norma si assegna (il 10% del compenso personale previsto) in caso di cancellazione improvvisa di show o programmi televisivi. Secondo quanto risulta a Libero per altro la Clerici ha chiesto di non incassare personalmente il risarcimento, ma di versare i 120 mila euro a una società milanese, la Oliver srl, con sede in piazza della Repubblica. La srl, che è attiva nel settore delle comunicazioni e delle partecipazioni immobiliari, risulta avere la proprietà di un immobile ad Ansedonia, vicino ad Orbetello (Argentario) ed è oggi interamente intestata alla psicologa Cristina Clerici, sorella di Antonella e sua “socia” anche nella proprietà di alcuni immobili. Ma fino al mese di marzo 2007 le quote della Oliver erano così divise: “90 per cento Antonella e 10 per cento Cristina Clerici”. Che il passaggio azionario sia stato più formalità che sostanza non lo indica solo la richiesta della conduttrice di Sanremo di versare quei 120 mila euro di risarcimento alla Oliver, ma il bilancio stesso della società. Quello chiuso al 31 dicembre 2008 indica ad esempio un debito da 748.494 euro “verso soci per finanziamenti infruttiferi”. La voce generica è così tradotta in nota: “si precisa che lo stesso è stato erogato da un socio e che il finanziamento è inteso non produttivo di interessi; lo stesso socio, pur avendo ceduto la sua partecipazione, ha concesso ulteriori facilitazioni creditizie alla società, incluse nella voce debiti verso altri (213.320 euro)”. Insomma, avendo un credito da circa un milione di euro nei confronti della Oliver srl , che ha un fatturato più o meno equivalente, Antonella ne è tuttora la titolare di fatto. Nonostante queste discrete possibilità, in più occasioni la Clerici ha preferito come tutti gli italiani farsi finanziare dalla banca di fiducia l’acquisto di casa attraverso l’erogazione di un mutuo. L’ha fatto per la prima volta nel 1992 a Milano, quando la Banca popolare di Verona le concesse un mutuo da 100 milioni di vecchie lire per comprare l’appartamento in largo Cairoli. E due volte con la Banca di Legnano per l’acquisto di due case a Roma. La prima nel 1999: 500 milioni di lire per comprare casa in via Cola di Rienzo, al centro del quartiere Prati. E la seconda alla fine del maggio scorso, quando lo stesso istituto di credito del paese natio ha concesso ad Antonella un mutuo ventennale da 2,3 milioni di euro (3,4 con gli interessi) per acquistare a Roma Nord, in via della Mendola, due appartamenti, uno da dieci vani e uno più o meno della metà.

Finiti in pasto tutti i telefoni e telefonini di Bertolaso

Ufficialmente nell’inchiesta della procura di Firenze sugli appalti della protezione civile il gip aveva autorizzato l’intercettazione di 12 numeri di telefonini utilizzati da sei personaggi, fra cui i quattro arrestati. Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere diversamente da quanto di solito avviene non solo non vengono schermati i numeri di questi telefonini (in altre ordinanze con i puntini si maschera l’utenza), ma vengono riportati interamente anche i numeri delle utenze di altri indagati o semplicemente di persone non coinvolte nell’inchiesta che hanno telefonato a uno degli indagati. In tutto si rivelano i numeri di telefono di 40 personaggi, a cui vengono fatti corrispondere 46 numeri di telefonino, tre numeri di telefono di casa e quattro numeri diretti di ufficio. Rivelati ad esempio il numero di casa del procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, e due telefonini di Guido Bertolaso (uno privato e uno intestato alla presidenza del consiglio dei ministri), oltre al suo diretto di ufficio. Rese pubbliche fra le altre le utenze dell’attuale presidente della Fieg, Carlo Malinconico, di un albergatore, di un avvocato, di mogli e fidanzate dei protagonisti e di numerose segretarie o assistenti di imprenditori privati e della presidenza del Consiglio dei ministri

E Alemanno rovinò il massaggio di Bertolaso...

Era quasi una settimana che Diego Anemone, costruttore chiave della cricca degli appalti pubblici e il suo braccio destro Simone Rossetti stavano preparando l’evento. Tutto in vista di quel giorno fatidico di domenica 14 dicembre 2008, quando il supercapo della protezione civile era atteso al Salaria Sport Village per una doppia seduta di massaggi. Uno tradizionale, con protagonista Francesca, la preferita di Guido Bertolaso. E uno speciale, specialissimo, con tanto di bottiglia di champagne, due coppe di cristallo, musica soft e assoluta riservatezza. “Vengo”, aveva confermato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio appena alla vigilia. Proprio mentre Rossetti stava selezionando la protagonista del messaggio speciale: era stata consigliata da un amico una ragazzaa-bomba originaria della Malaysia. Anche Francesca era allertata e disponibile a lavorare di domenica per il suo cliente così affezionato. Ma proprio quando le cose sembravano organizzate a puntino, a Bertolaso è arrivata allarmata una telefonata da parte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Il Tevere era in piena da circa 48 ore e l’onda attesa a Roma sembrava non avere fatto troppi guai. Il gran capo della protezione civile quella domenica mattina era passato in rassegna su tutti i ponti. Proprio all’ora di pranzo è capitato l’imprevisto: l’onda di piena ha staccato un barcone ormeggiato sul Tevere che si era incagliato sotto ponte Sant’Angelo. Alemanno aveva chiamato Bertolaso, e si è deciso di fare saltare in aria il barcone con l’aiuto della marina militare. Ora prevista: le 15,30. Stessa ora del primo massaggio. Telefonata ad Anemone: “il dovere mi chiama, non vengo. Ma per le 21- 21 e 15 ce la faccio ad essere lì”. Pazienza alla fine premiata. L’operazione barcone in aria è riuscita perfettamente, e alla fine è riuscito a raggiungere Bertolaso anche Alemanno, appena terminata l’intervista faccia a faccia con Lucia Annunziata. Un po’ stanco, senza la possibilità di un massaggio davvero ricostituente, alla fine Bertolaso si è dovuto limitare al massaggio speciale. Ad attenderlo c’era la bionda brasiliana Monica. Che stando alle intercettazioni successive e alla soddisfazione di tutti i protagonisti, ha svolto in modo eccellente il suo lavoro…

Nemmeno Van Straten ci ha salvato da Veltroni & c- Lo sfogo di un imlrenditore della cricca

La frase scappa di bocca all’imprenditore che naturalmente non sa di essere intercettato. “Ma questa è una banda armata.. io infatti guarda ho sempre votato a sinistra...Non li voto più ... ho deciso non vò più a votare. Preferisco incazzarmi col Berlusconi piuttosto essere inculato da Veltroni “ E davanti all’interlocutore che annuisce “Questo, questo era pacifico... purtroppo!”, lui rincara la dose: “ Il bello è che la gente ben pensante, tutti i miei amici borghesi di sinistra, vedono in Veltroni l'illuminato ! L'illuminato una sega, capito, ecco.... se questo è il buon dì, ecco è bene che io non li voti più ... capito?... io ho finito di votare... a questo punto non mi rompo più coglioni”. A parlare, in uno dei tanti colloqui intercettati dai carabinieri che lavorano per la procura di Firenze è Vincenzo Di Nardo. Non è un personaggio qualsiasi, e non solo per il capoluogo toscano: Già amministratore delegato della Btp, Baldassini-Tognozzi-Pontello, nel suo curriculum ha inanellato una carica dopo l’altra: vicepresidente di Ance Toscana, vicepresidente di Confindustria Firenze, professore a contratto della facoltà di Architettura dell’Università, presidente nazionale del Comitato grandi infrastrutture dell’Ance. Un pezzo grosso, dunque. Che in un’altra telefonata intercettata come quella sopra riportata nel dicembre 2007, all’architetto Casamonti che confessava “Io ti devo dire la verità .. guarda .. io sono di sinistra .. lo sono sempre stato .. però spero che questa volta pigliano una rintronata ... perchè non è possibile…”, raccontava amaro: “ Io sono di tre generazioni di gente socialista ... ho sempre votato a sinistra .. ma io stavolta non li voto ... a me non m'importa una sega...Preferisco incazzarmi con il governo Berlusconi che essere inculato dal governo Prodi ... capito ? Io voglio l'onestà ... non posso pensare che la cricca di Veltroni … Ti immagini il nuovo Partito Democratico… che fanno queste cose così ... l'occupazione dei romani ... dai! .. ma dove siamo!”. Di Nardo è così furioso con gli esponenti della classe politica che ha sempre votato perché, come molti professionisti di Firenze e di altre città di Italia (architetto Casamonti compreso), è scandalizzato dalla gestione degli appalti per i 150 anni dell’Unità di Italia. E’ una struttura commissariale a gestirli, e Prodi alla guida ha messo naturalmente il re degli appalti pubblici, Angelo Balducci, che poi ne affiderà la gestione ordinaria al suo braccio destro, Fabio De Santis. Entrambi sono stati arrestati nei giorni scorsi dalla procura di Firenze proprio per la gestione dei bandi di gara nei grandi eventi. La struttura di missione per i 150 anni dell’Unità d’Italia a quell’epoca risponde al vicepresidente del Consiglio dei ministri, Francesco Rutelli. E agli occhi degli imprenditori esclusi dalle gare che commentano quello che è avvenuto a Firenze (teatro della musica), a Venezia (palazzo del Cinema) e in altri grandi appalti, più che la cricca Balducci, ha pesato la “cricca dei sindaci di Roma”, appunto Rutelli-Veltroni. C’è un intero faldone di documenti raccolti dai carabinieri che compongono un dossier di 1.162 pagine sulle accuse che professionisti e imprenditori in quel periodo rivolgono- anche con amarezza (ne erano stati militanti)- ai vertici del neonato Partito democratico. Ben quattro fra imprenditori e professionisti addetti ai lavori sostengono che ad esempio la gara per il teatro di Firenze, la più importante delle celebrazioni (80 milioni di euro), sia stata pilotata da una telefonata fatta da Veltroni al sindaco Pd della città, Leonardo Domenici, che in questa inchiesta è già sentito dalla magistratura per gli appalti della zona Castello. In tre sostengono di avere le prove che prima di scegliere i vincitori della gara fiorentina sia arrivata una telefonata di Veltroni al sindaco di Firenze, Domenici. Ma gli investigatori inseriscono a questo punto un misterioso (omissis). Lo fanno un’altra volta, quando l’architetto Casamonti rivela al telefono a un imprenditore di avere capito che in ogni caso per passare la gara bisognava adeguarsi ai desideri del leader del Pd: “è arrivato l'ordine di Veltroni ... poi ascolta io ho chiamato Van Straten .. per dirgli se lo faceva con noi ...m'ha detto ..."no...non posso" ... (omissis)”. Si tratta di Giorgio Van Straten, amico e compagno di vacanze di Veltroni che il fondatore del Pd fece inserire nel nuovo consiglio di amministrazione della Rai. Ma anche su questo misterioso punto gli inquirenti hanno apposto un omissis.

Chiesa, è iniziata la grande corsa Milano-Torino

La corsa è già iniziata da tempo, anche se il traguardo più ambito resta lontano. Dietro il caso Boffo e i tormenti della Chiesa italiana che hanno portato martedì alla ruvida discesa in campo del Vaticano non c’è solo una contesa culturale e politica. I protagonisti sono sempre gli stessi, ma il campo di partita è quello della guida delle grandi diocesi della Chiesa italiana al Nord. Sono in scadenza quelle di Torino (in primavera, ma il passaggio di testimone avverrà dopo l’ostensione della Sindone), e soprattutto quella di Milano (a inizio 2011). In entrambi i casi i cardinali che le guidano hanno superato il 75° anno di età, rimettendo il mandato nelle mani del Papa che ha concesso una proroga biennale, a Saverino Poletto (Torino) nella primavera 2008 e a Dionigi Tettamanzi (Milano) nella primavera 2009. L’esito non è affatto scontato né nell’uno né nell’altro caso: E quelle due nomine di intrecciano naturalmente con una partita tutta vaticana, quella sulla successione del cardinale Giovanni Battista Re alla guida della Congregazione per i Vescovi (vedasi altro articolo in pagina). Sarà dunque nuovamente sull’asse fra la Conferenza episcopale italiana e la segreteria di Stato Vaticana che si giocherà la partita più importante per la chiesa italiana. Su Torino l’urgenza è più immediata e la candidatura più in evidenza è quella che vorrebbe proprio il segretario di Stato: Monsignor Giuseppe Versaldi, vescovo di Alessandra e visitatore apostolico dal 2009. Il cardinale Tarcisio Bertone si fida di lui a occhi chiusi, da quando nel 1994 lo volle con sé alla arcidiocesi di Vercelli. Bertone ne era l’arcivescovo prima di essere nominato a Genova e Versaldi lo raggiunse come vicario generale, insignito del titolo di Prelato d’onore di Sua Santità. In Cei per Torino era invece emersa la candidatura di monsignor Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e responsabile della pastorale sul lavoro dei vescovi italiani. In altri ambienti della curia vaticana invece si spinge per la nomina di monsignor Rino Fisichella, per cui era già stata ipotizzata senza successo la guida della diocesi di Modena (assai meno rilevante del capoluogo piemontese). Ma la partita vera è quella che si gioca a Milano, e non è l’anno di tempo che ancora manca al fischio finale sufficiente a spegnere tensioni, bracci di ferro e ambizioni. E’ nella più grande diocesi di Italia per altro che si è consumato il caso Boffo, secondo molti osservatori legato anche ai delicatissimi equilibri dell’Istituto Toniolo, cui di fatto spetta la nomina del rettore dell’Università cattolica. Da anni si combattono in quel consiglio di amministrazione due schieramenti della chiesa italiana, e solo per l’abilità politica e diplomatica di Camillo Ruini e Dino Boffo per due mandati si è arrivati a costituire la maggioranza che ha portato in rettorato Lorenzo Ornaghi mettendo in minoranza due vecchie volpi dc come Emilio Colombo e Oscar Luigi Scalfaro e i consiglieri nominati dallo stesso arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. Ma con quel che è accaduto, si fa assai più delicata la nuova nomina della guida della Cattolica, che arriverà a novembre, a giochi forse in corso ma assai probabilmente già fatti per la successione di Tettamanzi. Dalla segreteria di Stato vaticana già nei mesi scorsi era trapelata una soluzione non di rottura come quella di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Ponitificio consiglio per la Cultura e delle commissioni sui beni culturali e l’archeologia sacra della Chiesa. Sembrava quasi il candidato unico, quando il cardinale Re è riuscito a portare l’attenzione del Papa su monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia, che Benedetto XVI ha apprezzato durante la visita pastorale del novembre scorso. Una gara dietro cui si intravedono ancora una volta tensioni tutte di palazzo vaticano, da una parte la curia tradizionale e dall’altra la segreteria di Stato.

Bertone, l'elefante nella cristalleria vaticana

Poche righe, “che hanno spazzato via 50 anni di alta diplomazia vaticana”. L’amaro sfogo sfuggito a uno dei più anziani cardinali che conosce la Curia come le sue tasche dopo il comunicato della Segreteria di Stato che avrebbe voluto chiudere il “caso Boffo”, è il termometro più evidente del clima che si vive il giorno dopo in Vaticano. Un clima che a dire il vero accompagna fin dai suoi primi passi l’arrivo alla guida della segreteria stessa del cardinale Tarcisio Bertone. Già faceva storcere il naso a molti l’idea di affidare la guida della diplomazia a un salesiano. Figurarsi poi uno come Bertone, che solo l’anno prima della nomina era finito su tutti i giornali per avere fatto il telecronista (tifoso) di Sampdoria-Juventus su una televisione locale genovese. Molti ne apprezzavano la simpatia e i modi diretti, grandi doti, non propriamente adatte all’incarico. Si comprese subito quando Bertone prese possesso dell’abitazione vaticana destinata la segretario di Stato. Vi dimorava il predecessore, cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio dopo l’elezione a papa di Joseph Ratzinger. Chiese un po’ di tempo prima di lasciare l’alloggio, anche per trovare una nuova abitazione degna del rango. Il tempo però si prolungò. Un giorno il segretario del cardinale Bertone chiamò casa Sodano annunciando: “Eminenza, domattina vengono gli imbianchini per fare dei lavori di riadattamento”. Gli imbianchini arrivarono, e in fretta e furia Sodano dovette lasciare l’appartamento in cui si sarebbe entro pochi giorni insediato il segretario di Stato. Episodio banale, certo. Ma indicativo di una svolta radicale nel protocollo. E chi era abituato ai passi felpati della diplomazia restò a bocca aperta. Si trattava di un caso personale, ma da lì ad oggi l’abbandono dei passi felpati della diplomazia è divenuto un habitus della segreteria di Stato che più di un incidente ha causato, non di rado creando problemi seri allo stesso Pontefice. Si attribuisce al cardinale Bertone la supervisione (e la successiva gestione) del discorso del Papa a Ratisbona che rischiò di aprire una nuova guerra di religione con l’Islam. Non meno esplosivo il dossier sui lefebvriani e il vescovo negazionista Richard Williamson. Ma di incidenti più o meno grandi è lastricata la strada di questi anni, perfino nei rapporti fra il Vaticano e le conferenze episcopali locali. Si è rischiato quasi uno scisma in Brasile, dopo che l’arcivescovo di Recife, don Jose' Cardoso Sobrinho, scomunicò i medici che avevano fatto abortire una bambina di nove anni stuprata, per poi essere di fatto sconfessato dal Vaticano con un intervento chiesto da Bertone al presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Rino Fisichella (che ebbe parole di buon senso e pietà, ma il tutto sembrò una sconfessione dell’episcopato brasiliano). Altro incidente, assai insolito nella storia vaticana, quello di inizio 2009 con la nomina di Gerhard Wagner a vescovo ausiliario di Linz, importante diocesi austriaca. La nomina suscitò un putiferio (Wagner era considerato troppo tradizionalista) nella conferenza episcopale di Vienna e non sapendo che pesci prendere, la segreteria di Stato fece pressioni sul nominato perché rifiutasse l’incarico. Così avvenne a quindici giorni dalla firma papale della nomina, ma la toppa fu peggiore del buco perché Wagner fece trasparire la non volontarietà della rinuncia. Precedente che sta preoccupando in questi giorni gran parte della Curia, visto che il Cardinale Bertone sembra sia riuscito a convincere il Papa sulla nomina del prossimo prefetto della Congregazione dei vescovi

Nella guerra dei Berluscones Marina e Piersilvio inciampano in Mills

Ci sono due nomi che rischiano di trasformarsi in una buccia di banana nella causa di separazione fra Silvio Berlusconi e Veronica Lario. Sono nomi di società off shore: Century One e Universal One ltd, e sono apparsi a più riprese in una serie di processi davanti alla procura di Milano. Due nomi chiave nella sentenza di condanna di primo e di secondo grado dell’avvocato britannico David Mills. Sono riapparsi nel filone sui diritti tv e nel procedimento Mediatrade. Ma le stesse due sigle sono state utilizzate dalla difesa di Silvio Berlusconi per uno dei rari successi giudiziari ottenuti: quello che allontanato dal capo di Piersilvio e di Marina Berlusconi una delle ipotesi investigative più gravi, il riciclaggio. Ma la storia di Century One e Universal One rischia di trasformarsi ora in un’arma a doppio taglio per il Cavaliere. Fra i motivi della condanna di Mills c’è soprattutto quello di avere taciuto i “beneficial owners” dei due trust durante la deposizione testimoniale al processo All Iberian. L’avvocato inglese che nel 1997 aveva trascurato il particolare (e per questo è accusato di averlo fatto apposta, poi ripagato da Fininvest), in una successiva deposizione ha ricostruito la vera storia dei due trust. Nacquero all’inizio degli anni Novanta, grazie alla collaborazione fra Mills, Carlo Bernasconi , Livio Gironi e Candia Camaggi (che ne scelse i nomi per affinità con il mondo del cinema). I beneficiari erano appunto i figli di primo letto del Cavaliere, che nel frattempo però aveva già concepito gli altri tre figli con Veronica (l’ultimo, Luigi, era nato nel 1988). Secondo la ricostruzione contenuta negli atti del processo i due trust sarebbero serviti a mettere in sicurezza parte del patrimonio di Berlusconi a favore dei due figli di primo letto, Piersilvio e Marina. Così scrivono i magistrati milanesi a pagina 99 della sentenza di primo grado con cui condannano l’avvocato inglese: “La falsità e reticenza delle dichiarazioni di Mills in ordine alla reale proprietà delle società Century One e Universal One risulta dalle prove orali e documentali raccolte. Egli era a perfetta conoscenza che le società erano state create per volontà diretta di Silvio Berlusconi, che intendeva così trasmettere una parte del proprio patrimonio ai figli Marina e Piersilvio- mantenendone però il controllo fino al proprio decesso, con una facoltà decisionale delegata solo a Gironi, Foscale e Confalonieri, da comunicarsi per il tramite esclusivo dello studio di David Mills- e che i capitali ad esse afferenti erano gestiti da Paolo Del Bue per conto della famiglia Berlusconi. Di quanto sopra la deposizione confessoria di Mills del 18 luglio 2004 davanti ai pm milanesi- sul punto mai ritrattata- e le sue affermazioni agli ispettori di Inland Revenue, costituiscono pieno riscontro”. Questa deposizione di Mills dell’estate 2004 è stata utile- come ricordato- proprio per allontanare il sospetto di riciclaggio dalla testa di Piersilvio e Marina. Ma rischia di entrare a pieno diritto nella causa di separazione fra Silvio e Veronica. Perché un faldone intero di documenti processuali è lì a dimostrare come il cavaliere si sia adoperato fin dagli anni Novanta per proteggere un asse ereditario privilegiato di cui non c’era né evidenza né contabilità ufficiale. Non si sa quanti soldi siano stati trasferiti su quei due trust. Ma i magistrati milanesi scrivono: “è documentata in atti l’entità dei prelievi in contanti effettuata negli anni 1991-1994 sui conti di ciascuna società: quasi 71 miliardi di lire italiane sul conto di Century One, oltre 32 miliardi di lire italiane su quello di Universal One. I relativi giustificativi il 3 gennaio 2002 furono trasmessi all’autorità giudiziaria elvetica nell’ambito della commissione rogatoriale in corso”.

Silvio-Veronica, scene da un patrimonio- Tutte le cifre del divorzio del momento

Silvio Berlusconi oggi ha in tasca 3,8 miliardi di euro. Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario in tasca ha 80 milioni di euro. I tre figli di Silvio e Veronica, e cioè Eleonora, Barbara e Luigi, possono già contare su 1,2 miliardi di euro grazie ai beni assegnati dal padre. Dipende proprio da questi tre parametri il valore di quel che diventerà il trattamento di fine rapporto della seconda moglie del cavaliere. In termini giuridici si chiama legittima, ma quando ci sono di mezzo i figli e un patrimonio in gran parte legato alle vicende di borsa, è assai difficile da calcolare. Fra moglie e marito per altro c’è qualcuno che ha messo non un dito, ma un ditone da 750 milioni di euro: è Carlo De Benedetti, che grazie alla causa intentata da Cir a Fininvest e già vinta in primo grado rischia non solo di rendere più povera tutta la famiglia, ma anche di rendere inutile qualsiasi accordo consensuale fatto oggi dai coniugi Berlusconi davanti al giudice. Anche per questo dividere il più grande patrimonio d’Italia non sarà uno scherzo da ragazzi. Le caratteristiche stesse della causa potrebbero incidere e non poco sul valore del bene. Basti pensare che dei 3,8 miliardi di euro oggi attribuibili al cavaliere ben 2,5 sono legati alla patrimonializzazione di quattro titoli quotati: Mediaset, Mediolanum, Mondadori e Mediobanca. Stesso discorso per i tre figli di secondo letto: 850 milioni su 1,2 del loro patrimonio possono risentire della volatile sensibilità dei mercati finanziari. Anche se non è stata la chiave principale di questi mesi di separazione fra i coniugi, ora qualsiasi passo sopra le righe nella causa di liquidazione di Veronica rischia di fare perdere anche a lei una parte della posta in gioco. Silvio oggi può contare su circa 700 milioni di euro di liquidità a diretta disposizione grazie alla quota distribuibile del patrimonio delle quattro holding di controllo di Fininvest a lui riconducibili, e alla liquidità depositata sui loro conti correnti presso la Arner bank e il Monte dei Paschi di Siena. Due miliardi e mezzo il valore di capitalizzazione di borsa dei titoli riportabili alla sua persona fisica, altri 178 milioni di valori mobiliari in società non quotate e circa 420 milioni in immobili. Il pezzo più pregiato in portafoglio resta Villa Certosa, che nel bilancio della società che la controlla (Immobiliare Idra) è stato da poco rivalutato in 168 milioni di euro (terreno più fabbricati). Seconda per valore proprio la villa di Macherio dove abita in Italia Veronica: 78 milioni di euro, che potrebbero entrare a pieno diritto nel conto del trattamento di fine rapporto della signora. Vale di meno villa San Martino ad Arcore (52 milioni), ed appare incedibile: a quelle mura è davvero affezionato il premier. Ci sono poi altri immobili a Roma, in Sardegna e a Segrate che potrebbero entrare a fare parte della trattativa. A Silvio Berlusconi persona fisica sono intestati 6 fabbricati a Milano (frutto dell’eredità paterna), due piccoli terreni (poco più di un agro) pratosi a Castelveccana, nel varesotto e dieci fabbricati a Lesa, sul lago Maggiore, in provincia di Novara. Il premier li ha comprati il 30 settembre 2008 da una coppia di coniugi, Daniele Mulacchiè e Marina Girola. Costituiscono il complesso di Villa Lapejre o Villa Correnti sulla statale del Sempione: un piano interrato, un piano sottoterra, uno sottotetto e tre piani fuori terra, oltre a un edificio per il custode, uno ad uso darsena, un edificio “adibito a sala hobby/palestra con terrazza, bagno e ripostiglio”, vari box, parcheggio auto coperto e “parco su cui insistono piscina e annesso spogliatoio, campo da tennis e campo da bocce”. Valore stimato in circa 12 milioni di euro. Infine le partecipazioni immobiliari estere, quella nella Bridgeston Ltd alle Bermuda e quella nella Sweet Dragon Limited a Dubai. Veronica ha sostanzialmente tre partecipazioni mobiliari: quella nella San Daniele srl, ora in liquidazione, quella nel “Foglio edizioni” (38%) che edita il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara e quella nella Finanziaria Il Poggio, il braccio immobiliare dell’ex first lady italiana. Attraverso questa controlla altre due società: la Orchidea reality corporation a New York e la Palace Gate mansions ltd a Londra. Nel ramo immobiliare ha acquistato una serie di palazzi e abitazioni di un certo valore in Sardegna, a Londra (a Kensington, dove Veronica passa parte del suo tempo), a Bologna, Milano e New York, sulla 55 strada. Il pezzo più di pregio è acquisto recente: 135 porzioni di fabbricato a Milano Due, con la proprietà di gran parte di palazzo Canova. Operazione conclusa il 31 marzo 2009, quando già iniziava ad esserci il grande freddo con il marito. Lo testimonia anche un atto che non ha precedenti: per acquistare palazzo Canova Veronica ha dovuto bussare per la prima volta nella sua storia in banca e chiedere un mutuo. Così la Banca popolare di Sondrio le ha concesso un finanziamento ventennale di 20 milioni di euro di capitale oltre a 10 milioni di euro di interessi e 4 milioni in spese di istruttoria, al tasso di interesse annuo del 2,85%.

La strana storia del paffuto console di Parma che impone Patrizia D'Addario per raccogliere fondi pro bambini. E spunta perfino l'ombra di Gelli

Dietro il disco che sta per lanciare Patrizia D’Addario c’è un misterioso giallo, che unisce l’escort barese a un paffuto console di Parma, balzato agli onori delle cronache durante i giorni del sequestro e assassinio del piccolo Tommaso Onofri e ora plenipotenziario di una organizzazione Onu per salvare i bambini in difficoltà nata in Serbia, trasferitasi in Macedonia e cresciuta anche grazie ai buoni uffici del figlio di Licio Gelli, Raffaello. Il giallo emerge proprio all’ombra di un fatto di cronaca che ieri abbiamo raccontato ai lettori di Libero. Il 19 dicembre scorso un gruppo di cassintegrati della Metalli preziosi di Paderno Dugnano si è rifiutato di scendere in campo per una partitella di calcio di beneficienza con la Nazionale italiana solidale, proprio perché a dare il calcio di inizio sarebbe dovuta essere la D’Addario: “se c’è lei niente partita”. I dirigenti della nazionale a scopo benefico, composta da ex calciatori, artisti e perfino giocatori in attività, non hanno voluto rinunciare alla presenza della escort, e la partita non si è giocata. L’allenatore della squadra, Dario Casetta, ha regalato la maglia numero 10 alla D’Addario facendone la madrina ufficiale della squadra. Lei ha ricambiato l’attenzione promettendo di versare alla squadra a fini di beneficenza parte dei diritti di autore che avesse dovuto incassare con il suo primo disco promosso lunedì scorso al Midem di Cannes. Da quando però la D’Addario è diventata dodicesima giocatrice di quella nazionale, nessun avversario vuole più scendere in campo, rinunciando perfino alle iniziative di beneficenza collegate. Ieri con Libero ha voluto prendere le distanze dall’iniziativa un giocatore come Nicola Legrottaglie coinvolto nel varo della nazionale, ma tenuto all’oscuro del caso D’Addario. Ora sembra preoccupato anche il presidente della squadra, l’ex portiere dela Juventus e della nazionale A, Stefano Tacconi. Che confessa a Libero: “Avrà anche un visetto carino quella D’Addario, ma da quando è madrina non vuole giocare più nessuno con noi. Rischiano di saltare 5-6 partite già programmate dopo quella con i cassaintegrati. Meglio che salti lei…”. Già, ma chi ha voluto la D’Addario? “Ah, non è stata scelta della squadra: ce l’ha imposta il console di Parma”. Di che paese? “Il console italiano, Claudio Borghi”, spiega Tacconi. Ed italiano è il Borghi che anima le iniziative della Nazionale italiana solidale sperando di raccogliere fondi per adottare o salvare i bambini di tutto il mondo in difficoltà. E’ pure console, nominato a questo ufficio dopo avere ricoperto per qualche anno l’incarico di viceconsole, dalla prima ambasciata dei bambini nel mondo. L’ambasciata fu creata l’8 giugno 1991 nella ex Jugoslavia, a Medjashi e la sua sede fu poi trasferita a Skopje, in Macedonia, che la riconobbe giuridicamente nominando ambasciatore il suo fondatore, l’insegnante Dragj Zmijanac. Fu riconosciuta anche dall’Onu che le diede a pieno titolo i diritti diplomatici grazie all’intervento della sottocommissione per la promozioni e la protezione delle minoranze. In quel consesso sedevano due italiani in possesso di passaporto diplomatico, Raffaello Gelli, figlio del venerabile Licio e sua moglie Marta Gelli. In commissione al loro fianco fu cooptato Dragj Zmijanac. E da quel momento, avendo l’ex insegnante macedone la possibilità di offrire onorificenze e passaporti diplomatici, si allungò la lista italiana dei beneficiari. Subito fu nominato un ambasciatore onorario a Napoli, Antonio Diletto. Seguirono onorificenze a personaggi famosi, spesso calciatori (come Daniele Massaro). E infine veri e propri incarichi, come quello arrivato al parmigiano Borghi, nominato prima viceconsole e poi console effettivo della ambasciata per i bambini nel mondo. Lui si è dato un gran da fare. Anche se la prima volta che è balzato agli onori delle cronache è stato per un fatto tragico: il rapimento del piccolo Tommaso Onofri. Borghi si precipitò a casa dei genitori del piccolo, spiegando di essere il migliore amico del padre. Fondò subito un comitato “Liberate Tommaso”, e successivamente, appreso il tragico epilogo della vicenda, una fondazione benefica in memoria del piccolo. Prima iniziativa: una partita di beneficenza, poi l’apertura di due conti correnti, uno bancario e uno postale. Ma non è mai stato chiaro quali iniziative si fossero intraprese con quei fondi. Nel 2007 la mamma di Tommaso, Paola, in un’intervista sollevò qualche dubbio sulla gestione di Borghi: “Non voglio accusare nessuno in particolare, ma quei fondi sembrano spariti nel nulla”. Borghi non spiegò, ma piccato si dimise dalla fondazione e presentò querela nei confronti della signora. Il 20 ottobre però il gup di Milano ha prosciolto la signora da ogni accusa di diffamazione,. Sostenendo che non c’erano gli estremi nemmeno per arrivare a un rinvio a giudizio. E’ stato poche settimane dopo che Borghi ha deciso di utilizzare la D’Addario come prima testimonial delle iniziative del consolato per i bambini nel mondo. “Non so nemmeno”, sostiene con una certa saggezza Tacconi, “se lei possa essere una mascotte utile a iniziative del genere”. E in effetti mettere in primo piano una escort per convincere il buon cuore degli italiani a versare fondi a favore delle adozioni dei bambini sembra la mossa più controproducente che ci possa essere, come i fatti stanno dimostrando. Per questo è ancora più misterioso il legame fra il testardissimo Borghi e la D’Addario.

D'Addario madrina? I cassintegrati la rifiutano e Legrottaglie rinuncia alla beneficenza

Quando l’ha saputo Nicola Legrottaglie, difensore della Juventus e della Nazionale italiana, ha subito preso le distanze: “Ah, io con quella Patrizia D’Addario non voglio c’entrare proprio nulla. Non sapevo fosse stata coinvolta nella Nazionale italiana solidale (Nis) e anzi lo trovo imbarazzante”. A Legrottaglie, che in quella nazionale di vecchie e nuove glorie nata per uno dei tanti tour di beneficenza per iniziativa dell’ex portiere azzurro Stefano Tacconi, è sfuggito infatti che madrina della Nis fosse divenuta da un paio di mesi proprio l’escort barese che tentò di incastrare con il suo registratore Silvio Berlusconi. A lei Dario Casetta, allenatore della squadra benefica in cui hanno giocato oltre a Tacconi anche Marco Osio, Luca Bucci e Lorenzo Minotti, ha consegnato la maglia azzurra numero dieci, ottenendo in cambio la devoluzione alla onlus di parte dei diritti di autore che eventualmente la D’Addario incasserà con il suo prossimo disco, presentato lunedì al Midem di Cannes. Un matrimonio che ha suscitato un certo clamore, quello fra la escort barese e la squadra di Tacconi. Lasciando appunto all’oscuro uno dei partecipanti all’iniziativa, come Legrottaglie, che per altro ricorda: “a dire il vero non ho mai giocato in quella nazionale. Mi hanno proposto 5-6 partite l’estate scorsa spiegandomi che gli incassi sarebbero stati devoluti a una associazione benefica specializzata nell’adozione di bambini in difficoltà. Per giocare naturalmente avrei dovuto essere libero dagli impegni con la Juventus e con la nazionale A, e questo non è mai capitato. Appena nato, dunque, il matrimonio D’Addario- Nazionale italiana solidale rischia già di naufragare per le prese di distanza. La squadra di Tacconi, dopo avere giocato l’ultima partita il 19 settembre scorso a Fontanellato, vincendo 1 a 0 contro la nazionale della polizia di stato, non è più riuscita a scendere kin campo. L’esibizione clou sarebbe dovuta avvenire pochi giorni prima del Natale, a Paderno Dugnano, giocando contro una rappresentativa di cassintegrati della Metalli preziosi, che dal dicembre 2008 aveva di fatto chiuso i battenti. Quando però il 9 dicembre i dirigenti della Nazionale hanno posto la condizione irrinunciabile della presenza della D’Addario, che avrebbe dovuto dare il calcio di inizio, i cassintegrati si sono rifiutati di giocare. I loro rappresentanti sindacali (anche la Fiom Cgil) sono corsi dal sindaco di Paderno Dugnano, il giovane Marco Alparone, primo farmacista della cittadina, che ha subito condiviso le loro preoccupazioni. Spiega il primo cittadino: “ Due dirigenti della Nazionale italiana solidale si sono presentati il giorno della conferenza stampa tirando fuori all’improvviso la condizione della presenza della D’Addario, divenuta madrina della squadra. D’accordo con i cassintegrati ho risposto che non se ne parlava nemmeno. La partita serviva a portare solidarietà ai lavoratori, non a fare pubblicità a quella signorina. Loro hanno chiesto di fare due telefonate e poi ci hanno detto che la condizione D’Addario era irrinunciabile. Allora abbiamo rinunciato a loro. La partita si è giocata salvando l’incasso. Ma in campo è scesa più banalmente la mia giunta contro i lavoratori della Metalli preziosi in crisi”.

Per il fisco la escort d'Italia valeva 733 euro al mese

Nome, D’Addario Patrizia. Reddito lordo 2005 : 12.265 euro. Netto mensile: 733,84 euro, appena 170 euro sopra la soglia della povertà ufficiale. Tasse pagate: 2.725 euro all’anno. Non se la passava un granchè bene la protagonista del sexy gate italiano prima di fare esplodere il caso Silvio Berlusconi. Certo, i redditi per esercitare il mestiere più antico del mondo non finiscono mica nel 740, e alla D’Addario sarebbero bastate due serate da accompagnatrice perfino senza “utilizzatore finale” per essere rimborsata di quel che in un anno aveva versato al fisco con il suo 740 ufficiale. Ma fino a lì la povera Patrizia non deve avere vissuto anni d’oro. Ora si atteggia a star del Midem di Cannes, il salone internazionale della musica dove la D’Addario è sfilata sotto i flash internazionali pochi giorni fa. Ma era ben altra musica quella che suonava dieci-quindi anni fa, quando per piazzare insieme al socio qualche book video o fotografico della sua Stadium pictures snc a Bari le doveva provare proprio tutte. Fu il suo primo flop imprenditoriale. Voleva produrre film, telefilm, documentari, spot, spettacoli teatrali, libri d’arte e fotografici sul Mezzogiorno d’Italia e la Puglia in particolare. Non ha ottenuto che qualche piccola commessa e quando era appena uscita dalla fase di lancio la D’Addario e il suo socio, Riccardo Schito, avevano dovuto chiudere baracca e burattini e liquidare la società. Non è andata molto meglio negli anni successivi: qualche piccolo contratto televisivo, qualche book fotografico, perfino un calendario. Anche se non traspariva dalla dichiarazione dei redditi, qualche soldino Patrizia doveva averlo messo da parte. Tanto che dal 2000 risulta proprietaria di una bottega da 193 mq a Triggiano e dal 2001 di un appartamento di 6,5 vani e di cantina da 20 mq a Bari, oltre che dei beni ereditati l’anno precedente, alla morte del padre Francesco e poi a quella del fratello Luigi, insieme alla madre a Bari (due alloggi da 4,5 vani ciascuno) e nel quartiere Carbonara (un terreno). Ma al catasto la D’Addario è stata protagonista di una girandola di atti in questi anni. I problemi più grossi li ha avuti con la bottega di Triggiano: Patrizia l’aveva conquistata grazie a un atto di permuta con una società: la Galtieri Tommaso e Gaudino Cataldo snc. Loro avevano girato a lei il negozio e in cambio avevano ricevuto da lei parte dell’eredità paterna cui avevano rinunciato madre e fratello: due alloggetti in “abitazione di tipo ultrapopolare” da 1,5 vani ciascuno in via De Rossi a Bari, uno allo stesso indirizzo da 2,5 vani, uno da un vano appena e uno un po’ più ampio, 4 vani. Ma sulla bottega l’anno successivo, il 9 febbraio 2001, è stata posta ipoteca giudiziale dal giudice di pace di Bari con decreto ingiuntivo a favore dell’avvocato Domenico De Felice tutto per una piccola cifra che fra capitale e interessi ammontava a 7 milioni di vecchie lire. Il resto dell’eredità paterna, due mini alloggi ad Adelfia, sono stati venduti il 10 maggio 2001 ai signori Arciuli (marito e moglie) di Bari. Ma non si è potuto ricavare un granchè. Le speranze di Patrizia erano tutte in un’altra parte di eredità: il terreno a Carbonara e il diritto di costruzione di tre fabbricati lì sopra. Era quello che lei avrebbe voluto trasformare in residence e per cui aveva cercato contatti e spintarelle in alto loco. Chiese una mano anche allo stesso Berlusconi, che non poteva dargliela, visto che il comune era saldamente in mano al Pd e al sindaco Michele Emiliano. Secondo la documentazione depositata al catasto però il comune in qualche modo era intervenuto nella vicenda. Il 4 ottobre 2007 infatti aveva costituito davanti al notaio barese Concetta Capano un vincolo di destinazione a favore del municipio del capoluogo pugliese. “I signori Frisone Vincenza (la mamma, ndr)”, si trova scritto nell’atto, “D’Addario Patrizia e D’Addario Luciano, proprietari del fabbricato a costruirsi sito in Bari-Carbonara, si sono obbligati a riservare e destinare a favore del comune di Bari e dei terzi aventi comunque diritto e interesse a tale riserva e destinazione- sempre che il fabbricato venga realizzato- a parcheggio privato le aree di pianoterra e del piano interrato della superficie complessiva di mq 295,75”. Il comune aveva quindi detto sì al progetto di Patrizia, chiedendo in cambio di costruire un parcheggio. Ma poi non se ne è fatto nulla.