Fisco, ecco il trucco per dribblare Tremonti e Obama

Prima mossa, prendere su tutti i propri risparmi ovunque conservati e portarli in Lichtenstein. Sì, proprio nel paese che per primo ha tradito la fiducia dei propri depositanti vendendo i loro nomi alla Germania. A Vaduz, ma dai gestori giusti. Pronti a varcare l’Oceano, destinazione Panama, l’ultima terra libera dalla morsa del fisco internazionale, visto che di lei se ne è dimenticata pure l’Ocse. Lì costituire una fondazione a cui intestare capitali e conti detenuti in Lichtenstein, e non c’è Barack Obama o Giulio Tremonti che possa bussare a quella porta. Chi ha ideato il sistema e lo ha messo in vendita perfino su Internet assicura che funziona. Si tratta di un gruppo di specialisti nella gestione dell’offshore. Il sistema è stato ideato dalla Panama offshore Incorporation e propagandato dal sito www.doubleassetprotection.com in risposta sostanziale alla guerra santa verso i paradisi fiscali. Nessuno ovviamente sostiene che bisogna beffare o dribblare il proprio sistema fiscale nazionale, ma l’ingegnoso meccanismo viene utilizzato per sfuggire al pressing di creditori insistenti. Vero che agli americani i gestori di patrimoni panamensi spiegano che è difficile blindare i propri risparmi standosene seduti comodamente in poltrona, perché poi accade che perfino la Svizzera con la sua Ubs ti volta le spalle e arrivano i guai. Che funzioni davvero o no, certo il meccanismo non è alla portata di chiunque, e chissà se bisogna fidarsi dei professionisti di Panama. Ma non farei spallucce, prendendo la cosa come un banale tentativo di truffa ai risparmiatori. Quel che oggi viene senza pudicizia alcuna suggerito e addirittura messo in vendita attraverso la rete, è poi lo stesso mestiere che fior di consulenti e studi tributari internazionali con più o meno raffinatezza fanno da decenni ideando architetture complesse e sfruttando tutti i meandri della legislazione per fare più ricchi i loro clienti e assai meno le esattorie dei singoli Stati. Dalle operazioni finanziarie più ingegnose alla costruzione di catene di controllo esterovestite, la storia delle imprese italiane è piena dei frutti dell’ingegno dei migliori consulenti. Tutti legalissimi, finchè le maglie della legge non si sono ristrette. Ma con un solo scopo: non pagare quel che verrebbe chiesto dal fisco nazionale. Non lo si è pagato e non lo si paga in parte per colpe di chi scappa, in parte per responsabilità di chi fa scappare. E nè per le une nè per le altre può risolvere solo uno scudo fiscale... Franco Bechis

Per l'eredità han dovuto resuscitare Caracciolo a giugno

L’atto porta del 19 giugno 2009, il numero di repertorio 80915/19467. E’ stato stilato dal notaio Antonio Mosca ed è stato trascritto nel registro del catasto il 20 luglio 2009. E’ un atto notarile pubblico di assegnazione a socio dei beni della società per scioglimento della stessa. Come riporta il documento è rubricato un po’ grottescamente come «atto fra vivi». Grottesco perchè la società sciolta si chiama «Tenuta di Torrecchia», ha sede a Cisterna di Latina e cede i suoi 120 beni fra porzioni di fabbricati e terreni al principe Carlo Caracciolo di Melito, nato a Firenze il 23 ottobre 1925. Ma il principe alla data dell’atto è passato a migliore vita da sei mesi: è morto il 15 dicembre 2008. Quell’atto però è necessario per l’eredità... La tenuta di Torrecchia era assai cara al principe, che ci ha vissuto gran parte del suo tempo. Lì dettò le sue ultime volontà il due agosto del 2006. L’unico testamento ritrovato al centro della contesa fra eredi sicuri (Jacaranda Falck) e presunti (figli illegittimi in causa). Fu aperto dal notaio Fabio Ricci di Aprilia alla presenza di testimoni due giorni dopo la morte del principe, il giorno successivo al rilascio del certificato di morte da parte dell’ufficio dello stato civile del comune di Roma. Una buona parte dell’eredità lasciata ad amici e conoscenti riguardava proprio terreni e fabbricati della amata tenuta di Torrecchia. Beni lasciati insieme a una consistente liquidità dallo stesso principe essenzialmente agli amici del gruppo Espresso che con lui avevano condiviso per decenni la passione per l’editoria. A Milva Fiorani ad esempio lasciò due milioni di euro, a Gianluigi Melega 500 mila euro. Somme consistenti. Ma poi il testamento continuava: “In merito alla società Torrecchia srl dispongo che le case attualemnte in uso, ovvero condotte in locazione dai signori Milvia Fiorani, Marco Benedetto, Donata Zanda ed Ettore Rosboch vengano agli stessi lasciate vita natural durante. Per tutto il resto del mio patrimonio, mobiliare e immobiliare, nomino mia erede universale Jacaranda Falck Caracciolo in Borghese”. Ma la società che aveva in carico la tenuta sarebbe da lì a poco satta messa in liquidazione e scioglimento, e il destino dei beni avrebbe dovuto essere l’assegnazione al socio per poi girare tutto ad eredi e usufruttuari secondo quanto stabilito. L’operazione non potè essere realizzata con Caracciolo in vita. E così si è fatta post mortem con quel grottesco “atto fra vivi” del giugno scorso che facilita il percorso ereditario... Franco Bechis

Mr Husky spacca gli Agnelli- Famiglia divisa sul commercialista che ha consigliato Marella sui cani mettendola nei guai con il fisco

L’uomo che con il suo appunto rischia di mettere nei guai con il fisco Marella Agnelli, e cioè il commercialista torinese Gianluca Ferrero che suggerì all’indomani della morte dell’Avvocato di non intestarsi i cani husky posseduti a Torino per non fare sembrare fittizia la residenza in Svizzera, ha provocato una frattura finora inedita fra gli altri eredi. E’ proprio su Mr Husky che la famiglia si è spaccata all’interno della cassaforte societaria, la Giovanni Agnelli & c e per la prima volta nella sua storia non ha votato all’unanimità una proposta del presidente, rischiando di causare le dimissioni di un irritato Gianluigi Gabetti. Lo rivela il verbale integrale dell’assemblea straordinaria della accomandita depositato presso MF-Honeyvem... L’autore di quel memorandum con i consigli alla vedova Agnelli che ora sono al centro della indagine del fisco italiano sull’eredità dell’Avvocato fu infatti nominato socio accomandatario della Giovanni Agnelli & c il 15 maggio 2008 per addirittura un trentennio, fino “all’assemblea di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2008”. La proposta arrivò da Gabetti, che di conseguenza sottopose all’assemblea della famiglia anche la modifica dell’articolo 10 dello statuto sociale con l’elenco dei soci accomandatari, convinto che per semplice alzata di mano la pratica sarebbe stata chiusa in un baleno. Mr Husky, il giovane Gianluca, era figlio di Cesare Ferrero, presidente del collegio sindacale della stessa Giovanni Agnelli & C. Come ricordò lo stesso Gabetti quel giorno, fu l’Avvocato prima di morire a raccomandarglielo: “si tenga stretto il dottor Ferrero”. Gianluca era pure nipote di un altro professionista di fiducia, Giorgio Giorgi, rappresentante comune degli azionisti. Tanto che con la nomina di Mr Husky a socio accomandatario quello stesso giorno si sono dovuti dimettere per incompatibilità padre e zio. Ma la rapida alzata di mano non ci fu. Per la prima volta nella storia della cassaforte degli Agnelli uno dei capostipite, la sorella dell’ Avvocato, Maria Sole Agnelli Teodorani Fabbri, alzò la mano per dire no. Nulla di personale verso Mr Husky, ma «lo spirito che ha sempre contraddistinto la società dalla sua costituzione è stato quello di circoscriverne la partecipazione ai componenti della famiglia. Ritengo che ciò trovi conferma nella norma che vuole in capo agli accomandatari il requisito di azionista. Si tratta pertanto non di semplici amministratori, ma di persone di famiglia. Vero che ci sono state le dovute eccezioni, di cui Gianluigi Gabetti è autorevole e ben voluto rappresentante, ma come è noto, l’eccezione conferma la regola e non la modifica». Maria Sole precisò con cortesia di non fare “alcuna valutazione sul candidato proposto, che anzi considera persona degna della massima stima”, e dopo una discussione anche accesa confermò la sua contrarietà alla nomina di Mr Husky decidendo però di astenersi nel voto per non provocare eccessiva frattura con un no, decisa comunque “ad attenersi allo spirito delle norme che governano la società”. Non la prese bene Gabetti, che replicò: “Ho sempre rispettato l’opinione degli azionisti, non sono mai venuto meno allo spirito che regola lo statuto della società e in questo spirito i fondatori, l’avvocato Giovanni Agnelli e l’ingegnere Giovanni Nasi, vollero che a fianco dei familiari vi fossero due amministratori indipendenti. Oggi io sono l’unico rimasto e la mia preoccupazione è che alla mia scomparsa possa non esserci più nessuno”. In effetti in passato altri due autorevoli esterni alla famiglia ebbero il ruolo proposto a Mr Husky: Cesare Romiti e Gabriele Galateri di Genola. Nessuno contestò le scelte. Ma il precedente non ha convinto Maria Sole. Provocando la frattura e il commento di Gabetti: «Prendo nota con tristezza che per la prima volta nella storia dell’accomandita una delibera non è stata assunta all’unanimità su tutto». Un precedente che non avrebbe potuto avere un bis: “altrimenti il mio impegno morale verso gli azionisti verrà riveduto perché è stato assunto alla condizione di potere sempre rappresentare l’opinione unanime degli azionisti stessi”. All’uscita dell’assemblea Gabetti fu avvicinato dalle agenzie di stampa: “Con il consenso di tutti Gianluca Ferrero è il nuovo accomandatario». Il caso Mr Husky è restato in famiglia... Franco Bechis

I cani mettono nei guai Marella Agnelli con il fisco

L’Agenzia delle Entrate, che ha aperto un fascicolo sull’eredità di Gianni Agnelli per verificare eventuali profili di evasione fiscale, sta accertando anche l’effettiva residenza svizzera di Marella Caracciolo vedova Agnelli. A fare rischiare qualche brivido alla signora, secondo quanto risulta a Italia Oggi, sarebbe la passione di Marella per gli amati husky, i cani che prediligeva anche l’Avvocato, la cui permanenza sarebbe accertata in suolo italiano, principalmente a Torino per più dei fatidici sei mesi annui, data limite per considerare fittizia la residenza estera di un cittadino italiano. Ad avere attirato l’attenzione un appunto del commercialista torinese Gianluca Ferrero, con riferimento ai cani e ai domestici di casa Agnelli. Ad avere attirato l’attenzione degli ispettori del fisco italiano sono sostanzialmente due passaggi del memorandum firmato da Ferrero il 16 maggio 2003 con l’elenco dei beni posseduti dall’Avvocato al momento della morte, relativi all’assunzione dei 15 domestici in servizio nella residenza di famiglia sulla collina di Torino e all’intestazione dei cani. Il suggerimento dei commercialisti a Marella fu quello di non caricarsi nè dipendenti nè animali, intestando (così sta scritto nell’appunto) i domestici a John Elkann e i cani a un prestanome. L’avvertenza dei commercialisti di fiducia, scritta nel memorandum, fu infatti quella che con quei passaggi si poteva mettere a rischio l’effettiva residenza in Svizzera, «paese in cui l’amministrazione fiscale italiana non riconosce ai cittadini italiani lo status di residenti anche ai fini fiscali, salvo prova contraria da prodursi a cura del contribuente». Con il trasferimento a Marella di cani e domestici sarebbe divenuta secondo lo studio Ferrero «un domani molto complessa la possibilità di provare la propria residenza estera». Il testo di quel memorandum, reso noto per la pubblicazione sulla stampa italiana a fine luglio, è entrato ora nel fascicolo predisposto dalla Agenzia delle Entrate. Ufficialmente la struttura guidata da Attilio Befera non conferma e non smentisce l’indagine sulla effettiva residenza svizzera di Marella, ma spiega che gli ispettori del fisco “si stanno muovendo a 360 gradi”, partiti per il momento da ritagli di stampa, e che quindi tutti gli accertamenti del caso verranno effettuati “come prevede la procedura secondo routine”, anche se al momento nessuna contestazione formale è stata notificata. Naturalmente il tema della residenza della vedova Agnelli come di tutti gli eredi dell’Avvocato ha rilievo anche a proposito di eventuale liquidità che potrebbe emergere al di fuori dei confini italiani (la polpa di quell’indagine riguarderebbe infatti due miliardi di euro di fondi non ricompresi negli accordi ereditari e contestati dalla figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli). Indagini come queste sono svolte ogni anno dal fisco italiano su centinaia di grandi contribuenti e su migliaia di sospetti evasori. Non c’è da scandalizzarsi dunque se tocca anche agli eredi della più importante famiglia italiana di questi decenni. Come spesso capita le liti sugli assi ereditari provocano guai collaterali, e quel che è accaduto in casa Agnelli non poteva sfuggire agli occhi nè del fisco nè della stampa. Nessuno è colpevole di nulla fino a quando non viene accertata quella che è solo un’ipotesi in via definitiva, e il fisco italiano non sempre ha brillato in rapidità in casi simili. Giusto quindi invocare prudenza e garantismo, che sono bandiere sventolate in Italia quasi sempre secondo le convenienze e gli schieramenti del momento. Chi fa spallucce sul caso Agnelli e magari si indigna pure accusando chi ne riferisce di macchiare la memoria di chi non può più difendersi, spesso ha trasformato ipotesi giudiziarie che riguardavano per esempio le aziende di Silvio Berlusconi in titoli simili a sentenze passate in giudicato. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che imprese e grandi patrimoni italiani abbiano cercato di evitare la mannaia del fisco per decenni secondo formule più o meno raffinate. Stuoli di consulenti hanno lavorato per questo. La confusione legislativa ha offerto più di una via di fuga, è vero. Ma la sostanza è che ricchezza prodotta in Italia è stata sottratta con più o meno furbizia al fisco, e cioè al bene collettivo. Poi magari chi lo ha fatto è stato in prima fila a fare predicozzi sullo Stato che non funziona, sulle infrastrutture che mancano, sui servizi sociali scadenti. E cioè sulle conseguenze di quella furbizia. Ci saremmo risparmiati almeno la beffa delle prediche inutili... Franco Bechis

Il cavaliere inseguito dal Fisco. Anche sotto Tremonti

In un anno per ben tre volte il fisco ha bussato, con modi un po’ rudi, alla porta principale dell’impero di Silvio Berlusconi, quella del gruppo Fininvest. Per due volte, alla fine del 2007 e all’inizio del 2008, lo ha fatto regnante Romano Prodi e con Vincenzo Visco viceministro delle Finanze. La terza volta è capitata con lo stesso Berlusconi a palazzo Chigi e con Giulio Tremonti al ministero dell’Economia. Porta perfino una data simbolo di disgrazie, quella dell’11 settembre 2008, giorno in cui è stato consegnato a Fininvest un verbale di contestazione relativo a partite Ires, Irap e Iva dell’anno 2004. A rivelarlo è la nota integrativa al consolidato della capogruppo di Berlusconi da poco depositata al registro delle imprese. Con stile asciutto, la capogruppo guidata dalla primogenita del premier, Marina Berlusconi, spiega che “sul finire del 2007 e del 2008 alla società sono stati notificati due avvisi di accertamento- riferiti alle annualità 2002 e 2003- emessi dall’Ufficio delle Entrate- Roma I in esito alla verifica parziale condotta da personale della Direzione regionale della Lombardia». Per farla breve, nel primo si contesta la deduzione di una svalutazione della partecipazione in Trefinance sa, che è la finanziaria estera del gruppo, e nella seconda l’indebita fruizione del credito di imposta sui dividendi percepiti da un’altra partecipata, Euridea (la ex Standa) prima che questa venisse ceduta a terzi. Fininvest ha chiesto all’amministrazione, come fanno tutti, la formulazione di una proposta di accertamento con adesione. Ma è stata respinta: il regalino finale di Prodi e Visco. Alla società non è restata altra arma che avviare il contenzioso tributario “per vedere annullate entrambe le pretese dell’amministrazione finanziaria”. Ma ancora sotto il governo di centro sinistra è arrivata la richiesta di dare un’occhiata anche ai conti 2004. Da lì è partita l’indagine che si è concretizzata nel verbale di contestazione a Fininvest dell’11 settembre 2008. Per contestare “l’indebita deduzione di costi ai fini Ires e Irap e la mancata regolarizzazione ai fini Iva di movimenti finanziari ritenuti corrispettivi di prestazione di servizi”. Ritenendo di avere ragione, Fininvest non ha stanziato alcun fondo rischi, e quindi non si conosce l’entità delle tre contestazioni. Ma il gruppo è ormai abituato insieme a quello con i pm anche al braccio di ferro con il fisco. Avvenne anche in Spagna, dove nel 2008 dopo 10 anni un giudice ha dato ragione a Berlusconi, liberandogli 21,6 milioni... Franco Bechis

Le pagelle del Vaticano sulla politica italiana: Napolitano super. Berlusconi? Il principe fa quel che vuole, ma non si deve sapere. Draghi sì

Colloquio a distanza per gli auguri di buone vacanze con alto esponente vaticano. Chiaccherata in libertà anche sulle questioni di politica italiana. Con una sorta di pagella sulla politica italiana che qualche interesse può avere per tutti. Per questo mi permetto di riportarne la sostanza. Per il Vaticano il punto di riferimento assoluto è il rapporto ottimo con il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Del tutto assorbito, dimenticato il disappunto per l'intervento nel caso Eluana. Napolitsno viene apprezzato per l'equilibrio e per l'attenzione anche alle questioni d'oltretevere. "Ha grandi doti umane e saggezza. Ottimo il rapporto con il Pontefice. Apprezzato il suo ruolo di controllo e di suggerimento pacato all'attività di governo". Più imbarazzo per le vicende pubbliche di Silvio Berlusconi, che certo risultano poco digeribili a gran parte dei cattolici. "Nulla da dire sul rapporto con il governo. Le premesse sono state buone, non a tutte sono seguiti fatti. Berlusconi? Il principe da sempre fa quel che vuole. Ms la regola aurea è che non si sappia mai quel che fa...". Assai meno apprezzato nel centrodestra Gianfranco Fini, ma è comprensibile e forse reciproco. Poco interesse alla gara nel Pd. Mreno entusiasmo di quel che ci si immaginerebbe nei confronti di Pierferdinando Casini "Brutta quella sua campagna elettorale utilizzando nei manifesti immagini dei figli piccoli e della seconda moglie. Scelta di dubbio gusto". Non scalda oltretevere la corsa per la guida del Pd, anche se non si è particolarmente entusiasti della candidatura di Ignazio Marino, anzi. Ma la vera sorpresa viene dalla stima che il Vaticano nutre nei confronti di chi viene ritenuto "riserva della Repubblica", e cioè quel governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi che non a caso è stato ospitato poco tempo addietro sull'Osservatore romano. La stima e la simpatia nei confronti del banchiere centrale sono assai elevate, e certo maggiori di quelle che suscita il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti di cui per altro sono apprezzati alcuni interventi. Draghi è d'altra parte assai stimato anche in altri autorevoli ambienti cattolici, da Sant'Egidio all'Opus Dei fino a Comunione e liberazione. Sarà il Governatore forse la presenza più significativa all'imminente meeting per l'amicizia dei popoli, cui è stato invitato dall'integruppo parlamentare per la sussidiarietà fondato da Maurizio Lupi e a cui aderiscono anche Enrico Letta, Pierluigi Bersani e Gianni Alemanno...

Dite a De Benedetti di portare Repubblica anche nelle edicole in Puglia

Campanello di allarme per l'ingegnere Carlo De Benedetti. Scoperta forse una delle ragioni per cui Repubblica nonostante la trasformazione hard continua a perdere copie rispetto all'anno precedente (a giugno altri sette punti indietro). Il quotidiano di Ezio Mauro deve avere problemi di distribuzione. Certo è provato che non arriva nelle edicole pugliesi. Lo ha confessato implicitamente Niki Vendola, governatore della Regione, in un'intervista pubblicata oggi dall'Unità. Dopo avere sostenuto (lo fanno tutti, e lui si è adeguato) di essere vittima di un complotto dei magistrati baresi che conducono le inchieste sulla sanità e dopo avere comunque scaricato alla velocità della luce il suo primo assessore indagato (Alberto Tedesco), il povero Vendola si berlusconizza e sostiene di essere vittima di una trappola non solo giudiziaria, ma mediatico- giudiziaria: tutti infatti parlerebbero delle inchieste sulla sua giunta, ma ci sono "altre due inchieste di cui nessuno parla: una riguarda Fitto, l'altra escort e cocaina e porta a Berlusconi". Dunque secondo Vendola nessuno parla dell'inchiesta su escort-Berlusconi. O non funziona la rassegna stampa della Regione Puglia, o Repubblica deve essersi dimenticata in questi mesi di approdare alle edicole pugliesi...

Io e il Tg1- Ho vinto la scommessa con Minzolini:impossibile portare uno come me in Rai...

So che non è bello parlare di sè, ma qualche mail da voi l'ho ricevuta a proposito della mia condizione professionale e quindi devo qualche risposta agli iscritti a questo blog e soprattutto ai tanti amici di Facebook a proposito di quello che hanno letto su di me in questi tempi su qualche giornale o sito Internet. Fra le tante, una aveva fondamento: l'ipotesi di un trasferimento al Tg1 come vicedirettore di Augusto Minzolini. Personalmente non ci ho mai creduto, ma sono amico di "Minzo" dal 1990, abbiamo fatto tante cose insieme e spesso ci siamo divertiti come matti. Ognuno ha il suo modo di interpretare il mestiere che facciamo, ma divertirsi lavorando è raro e io questa fortuna l'ho sempre avuta. Con Minzo, che è forse il giornalista italiano con più fiuto per la notizia e che ha una carica di simpatia umana straordinaria, lavorare sarebbe stato divertentissimo. Per cui gli ho detto "perchè no? Tanto non ci riuscirai mai. Io non sono digeribile dal grande corpaccione Rai". Minzo è uno tosto e se lo sfidi parte in quarta: "Ci riesco? Scommettiamo?". Scommessa fatta, e l'ho vinta io. E non perché lui non si sia applicato, battendosi anzi come un leone (auguro a tutti di avere un amico così, ne sono restato sorpreso anche io). Non sto a raccontarvi cosa è avvenuto in questi tre mesi, bisognerebbe pubblicarci un romanzo. Ma una cosa mi è stata chiara fin dall'inizio: salvo Minzo, lì non mi voleva nessuno. Dentro e fuori. Non pensavo di avere fatto girare le scatole a così tanta gente semplicemente raccontando giorno dopo giorno quel che apprendevo e pubblicandolo sui giornali dove ho lavorato. Ogni tanto me ne dimentico qualcuna, gli altri invece se le ricordano tutte. Giulio Tremonti che qualcosa in Rai conta (e che non so perché sostiene che qualsiasi cosa appaia su Italia Oggi, perfino le foto, sono irriverenti nei suoi confronti), era pronto a imbracciare il bazooka sparandomi se solo mi fossi avvicinato a viale Mazzini. Il suo consigliere Angelo Maria Petroni (e a lui sicuro, non ho mai fatto niente forse per dimenticanza, anzi, anni fa gli proposi pure di collaborare a Italia Oggi) aspettava solo il mio nome per impallinarlo. Paolo Garimberti ce l'aveva a morte con me (e lì non ricordo io, magari avrò scritto qualcosa di sgradito in passato), il sindacato voleva trasformarmi in un falò, la redazione non era felice, anzi...Minzo non si è fermato davanti a nulla, testone come è, e io l'ho lasciato fare (avvisando il mio editore attuale per questione di lealtà) osservando stupito tanta determinazione. Fino a lunedì mattina. Quando a poche ore dal voto in cda ho capito che non solo tutta la sua determinazione sarebbe stata inutile, ma insistendo avrebbe rischiato anche lui. E qui dovevo restituire la prova di amicizia e gli ho chiesto, insistendo per tre ore, di levare il mio nome dalle sue proposte. Alla fine l'ha fatto, dicendomene di tutti i colori, e proponendo 5 vice invece dei 6 cui aveva diritto. Hanno rinviato la pratica a giovedì,come è accaduto altre sei volte. Ma questa volta, senza me, passerà. Auguri a Minzo di cui non scorderò mai la prova di amicizia. Ma non gli condono il pranzo che abbiamo scommesso: l'ha persa, e le scommesse sono scommesse...

C'è un'Italia che batte la crisi

La più importante scuola di guida britannica ha scelto la Fiat 500 per fare prendere la patente ai ragazzi di sua maestà. Saranno forniti 14 mila modelli, e già il numero non è da buttare via. Ma grazie a questo accordo a Fiat è concesso l'ingresso sul mercato britannico dalla porta principale, quella dei giovani che si compreranno la prima auto. Un privilegio finora dato a General motors, che con la sua Vauxhall Corsa aveva conquistato proprio questo segmento di mercato delicato. Una buona notizia quella che arriva da Fiat. E che segue di poche settimane la consegna delle moto Guzzi alla polizia di Berlino, che le ha preferite alla Bmw. C'è un Italia che non solo se la cava, ma attraversa la crisi con successo. Quelli di Fiat e di Guzzi sono due casi, certo. Ma arrivano negli stessi giorni in cui la Sambonet fa suo un marchio storico tedesco come quello di Rosenthal e in cui la Todini costruzioni ha vinto la gara per costruire una delle principali autostrade della Georgia. E ogni giorno decine di piccole, medie e grandi imprese italiane riescono a vincere in casa e all’estero la loro sfida sul mercato. C’è anche e soprattutto questa Italia, che si racconta poco, in quell’anno nero per l’economia mondiale che ha frenato pil, fatto lievitare cassa integrazione e disoccupazione. Di queste probabilmente vedremo ancora traccia evidente e non lieve in autunno, ma sono veri e concreti i segnali di una inversione di tendenza, in grado di fare pensare davvero che abbia ragione Giulio Tremonti quando sostiene che si sta per attraversare l’ultimo miglio della crisi economica, magari senza conoscere i tempi di percorrenza, ma certi che alla fine si possa vedere la luce. Due i segnali che arrivano anche dagli indici economici. Il primo è ufficiale e l’ha comunicato ieri l’Isae: l’indice di fiducia dei consumatori italiani a luglio è salito dal 105,4 a 107,5, ed è il livello più alto dal novembre 2007. Il secondo segnale arriva da un articolato sondaggio Ispo-Agos sulla distribuzione. A parlare non sono in questo caso i consumatori, ma chi vende loro le merci. Il 59% degli intervistati vede la situazione del proprio esercizio commerciale in miglioramento o comunque positiva per i prossimi mesi. Uno su due immagina anche una evoluzione positiva dei consumi in generale, ed è un bel salto visto che lo stesso campione a marzo vedeva un futuro nero nel 73 per cento dei casi. Non è poco, tanto più se si ricorda che la vera origine di questa crisi è stata proprio nella caduta verticale della fiducia a livello mondiale... Franco Bechis

Marino di nuovo sbugiardato dall'Università di Pittsburgh

Ignazio Marino non disse la verità nel 2002 sul suo divorzio dall’Ismett di Palermo e casca nello stesso vizio di allora anche oggi, a sette anni di distanza. L’Università di Pittsburgh, suo datore di lavoro dell’epoca, in una lettera inviata al Foglio e pubblicata sul numero di oggi, conferma l’autenticità del documento rivelato dal quotidiano diretto da Giuliano Ferrara e pubblicato anche su Italia Oggi sabato scorso: il professore esperto in trapianti che oggi tenta la scalata al Pd sventolando la bandiera della questione morale, fu allontanato da quel centro di eccellenza proprio per irregolarità amministrative da lui compiute: note spese duplicate e indebitamente a lui rimborsate per almeno 8 mila dollari. Anche dall’ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro, arriva una versione assai diversa e anche un po’ stupita della ricostruzione fatta sul divorzio dell’epoca. Non riponendo nemmeno davanti al documento di Pittsburgh la bandiera della questione morale, il professore-senatore-aspirante segretario del Pd ha di fatti sostenuto di avere maturato la decisione di lasciare Palermo perché ci sarebbero stati appalti poco chiari che coinvolgevano l’Ismett e interferenze nella gestione. Cuffaro gli ricorda di averlo all’epoca difeso e di avere provato la mediazione con gli americani e che in ogni caso gli appalti dell’Ismett se li faceva l’Ismett stesso (di cui Marino fu amministratore delegato). Potrebbe essere questione di punti di vista. Non lo è invece il documento ufficiale (e non ufficioso, come il professore ha sostenuto) di Pittsburgh che motivò il suo brusco allontanamento proprio per una questione morale (che il datore di lavoro- lo stesso che oggi conferma- sventolò con evidenza proprio nei confronti di Marino). Per difendersi, senza dire nemmeno una parola sulla duplicazione a propria firma delle note spesa, il candidato alla segreteria del Pd ha sostenuto che queste sono procedure normali quando si litiga, che la lettera di allontanamento e di contestazione era solo una bozza ufficiosa, che poi quella ufficiale degli avvocati (da lui prodotta) l’ha sostituita e ha messo tutto a posto. E’ un falso. La lettera degli avvocati sventolata da Marino porta in intestazione la data del 6 settembre 2009 e l’orario 6:56 p.m. Quella di contestazione con tutti i gravi addebiti è stata controfirmata in ogni foglio e in calce da Marino alle 00:16 del 7 settembre 2002, quindi successivamente. L’uomo che vuole moralizzare il Partito democratico non dice dunque la verità Franco Bechis

Ignazio Marino non fu un cervello in fuga. Ma il re della cresta sulle note spese, messo alla porta dagli americani- Rivelazione de Il Foglio

Segnalo ai lettori di questo blog e del sito Facebook il sensazionale documento pubblicato oggi da Il Foglio di Giuliano Ferrara: la lettera del 2002 con cui il direttore del centro medico dell'Università di Pittsburgh allontanò Ignazio Marino dall'Ismett di Palermo perché faceva la cresta sulle note spese, condannandolo a restituire gli 8 mila dollari scoperti solo nell'ultimo anno e a rinunciare al tfr e all'ultimo mese di stipendio. Un documento che è la cartina al tornasole della storia di Italia. Marino fu incensato allora e rimpianto come un cervello in fuga costretto a questo da una politica miope. E' stato santificato, invece che essere processato come chiunque avesse fatto quel che si è scoperto su di lui. Carlo Marcelletti, che quei dubbi avanzò, perse tutto fino a morirne in mezzo ad accuse infamanti. Ecco il documento che oggi pubblica Il Foglio: Gentile dottor Marino, per varie ragioni Lei ha espresso il Suo desiderio di presentare le dimissioni dalla Sua posizione presso lo UPMC (University of Pittsburgh Medical Center) e da altre posizioni che derivano da tale rapporto. Secondo i termini e le condizioni indicate di seguito, l’UPCM accetterà le Sue dimissioni, con effetto da oggi. Le Sue dimissioni riguardano tutte le posizioni presso UPMC Health System così come i privilegi dello staff medico presso gli ospedali UPMCHS e il Veterans Administration Hospital di Pittsburgh, Pennsylvania. Lascerà anche la Sua posizione in facoltà presso la Scuola di Medicina dell’Università di Pittsburgh e si dimetterà anche da direttore dell’Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) e dal Centro Nazionale Trapianti italiano. In conseguenza delle Sue dimissioni, a partire da oggi cesserà di ricevere qualsiasi compenso, prebenda e benefit. A questo proposito, accadrà quanto segue: 1. L’UPMC non provvederà oltre al pagamento del Suo alloggio, ma può restare nell’appartamento sino al 30 settembre 2002. Tuttavia, a partire da oggi, l’UPMC terminerà immediatamente il pagamento dei servizi di aiuto domestico, e Lei sarà responsabile per ogni servizio, la tv via cavo e le altre fatture legate all’appartamento. 2. Per venerdì 13 settembre 2002 provvederà a restituirci tutti i cellulari, i cercapersone, i computer portatili, i documenti identificativi, le chiavi ecc., sia italiani sia americani. La Sua auto e le chiavi della Sua auto dovranno essere consegnati a Giuseppe Alongi a Palermo. 3. Tutte le carte di credito così come le carte di acquisto dell’UPMC saranno immediatamente restituite a Giuseppe Alongi. 4. Qualsiasi altro pagamento da parte dell’UPMC o di qualsiasi sua società controllata verso di Lei o la Sua famiglia si interromperà oggi e Lei accetta di rimborsare l’UPMC Italia per qualsiasi pagamento anticipato. In conformità con la policy dell’UPMC la Sua copertura assicurativa sanitaria e dentistica proseguirà fino al 30 settembre del 2002. Dopo tale data, e se non richiesto altrimenti, Le saranno forniti tutti i diritti offerti dalla normativa vigente in materia (COBRA, Consolidated Omnibus Budget Reconciliation Act). Sempre in conformità con la policy dell’UPMC, provvederà a restituire immediatamente tutti gli archivi e i documenti, sia in forma elettronica sia cartacea, che Lei ha rimosso o dei quali ha causato la rimozione dall’ufficio di Palermo e non rimuoverà alcun archivio né da Palermo né da Pittsburgh senza l’autorizzazione dell’UPMC. Tutti i libri e i giornali acquistati dall’UPMC o dalla Scuola di Medicina dell’Università di Pittsburgh dovranno restare nell’ufficio di Palermo o in quello di Pittsburgh o, se dovesse scegliere di trattenerne qualcuno, li potrà acquistare a un prezzo ragionevole. Per permettere una regolare transizione, i Suoi effetti personali potrebbero essere rimossi dal Suo ufficio entro venerdì 13 settembre 2002. Come richiesto dalla nostra policy, l’UPMC supervisionerà con discrezione la rimozione degli oggetti dal Suo ufficio. A partire da venerdì 13 settembre 2002, il Suo ufficio dovrà essere liberato, Lei non farà ritorno all’ufficio di Palermo, né a quello di Pittsburgh, o all’ospedale di Palermo a meno che non le sia richiesto da un rappresentante autorizzato dell’UPMC. Come Lei sa, nell’iter ordinario necessario a elaborare le Sue recenti richieste di rimborsi spese, l’UPMC ha scoperto che Lei ha presentato la richiesta di rimborso di determinate spese sia all’UPMC di Pittsburgh sia alla sua filiale italiana. Di conseguenza è stata intrapresa una completa verifica sulle sue richieste di rimborso spese e sui nostri esborsi nei Suoi confronti. Tale verifica è attualmente in corso. Alla data di oggi, riteniamo di aver scoperto una serie di richieste di rimborso spese deliberatamente e intenzionalmente doppia all’UPMC e alla filiale italiana. Fra le altre irregolarità, abbiamo scoperto dozzine di originali duplicati di ricevute con note scritte da Lei a mano. Sebbene le ricevute siano per gli stessi enti, i nomi degli ospiti scritti a mano sulle ricevute presentate a Pittsburgh non sono gli stessi di quelli presentati all’UPMC Italia. Avendo sinora completato soltanto una revisione parziale dell’ultimo anno fiscale, l’UPMC ha scoperto circa 8 mila dollari in richieste doppie di rimborsi spese. Tutte le richieste di rimborso spese doppie, a parte le più recenti, sono state pagate sia dall’UPMC sia dalla filiale. Come restituzione dei rimborsi spese doppi da Lei ricevuti (lei, ndt) accetta di rinunciare a qualsiasi pagamento erogato dall’UPMC o dall’UPMC Italia ai quali avrebbe altrimenti diritto, compresi (a titolo esemplificativo ma non esaustivo) lo stipendio per il mese di settembre 2002 e il pagamento per qualsiasi giorno di vacanza, permesso o malattia accumulato. Accetta inoltre di rinunciare a ogni diritto contrattuale per il trattamento di fine rapporto che potrebbe ottenere in seguito alle Sue dimissioni e solleva ulteriormente, congedandosi per sempre da esse, l’UPMC e tutte le sue filiali, compresi ma non soltanto la UPMC Italia e i suoi successori e aventi causa, da ogni e qualsiasi richiesta che possa avere ora o potrà avere in futuro, risultanti da eventi antecedenti a questa lettera. L’UPMC La solleva da ogni altra restituzione per i rimborsi spese doppi da Lei ricevuti. Rispetterà i termini e l’impegno contenuto nel suo Accordo esecutivo di lavoro con l’UPMC del 1 gennaio 1997 come espresso nei paragrafi 3C, 3D e 4 del suddetto Accordo. Si asterrà dall’esprimere qualsiasi commento sia in pubblico sia in privato che, intenzionalmente o no, possa essere considerato dispregiativo dell’UPMC e/o di ogni sua filiale, consociata, direttore, funzionario o impiegato o possa in qualsiasi modo compromettere le operazioni dell’UPMC o avere un impatto negativo sulla reputazione dell’UPMC in Italia o in qualsiasi altro luogo del mondo. Salvo che l’UPMC non sia tenuta a rivelare le circostanze del Suo allontanamento a dirigenti selezionati e membri del Consiglio di amministrazione dell’UPMC e funzionari in Italia coinvolti con l’ISMETT a causa di obblighi fiduciari di UPMC nei loro confronti, l’UPMC manterrà confidenziali i termini delle Sue dimissioni e delle circostanze che le hanno affrettate. L’UPMC l’avviserà di tale rivelazione e avviserà coloro ai quali verrà fatta tale rivelazione che le circostanze riguardo le Sue dimissioni sono confidenziali. Su richiesta proveniente da qualsiasi potenziale datore di lavoro o partner commerciale, l’UPMC Le fornirà referenze neutrali, ovvero saranno fornite soltanto le date del rapporto di lavoro e la posizione da Lei occupata. Nell’eventualità in cui l’UPMC determinasse che Lei non ha rispettato una qualsiasi delle condizioni di dimissioni elencate nei paragrafi precedenti di questa lettera, l’UPCM non sarà vincolata a nessuna delle promesse illustrate in questo paragrafo in materia di riservatezza e referenze. Fermo restando tuttavia che l’UPMC, prima di contravvenire a tali promesse, Le farà pervenire con anticipo ragionevole una comunicazione dettagliata e le darà una ragionevole opportunità di rispondere e/o rimediare. La sua firma sulla linea sottostante indicherà l’accettazione di questi termini e la Sua intenzione di essere legalmente vincolato a essi. Cordialmente, Jeffrey A. Romoff

Via, tutti in permesso, che paga Brunetta. Ma lui non ci sta e rivuole dai sindacati 6 milioni di euro

Via dal lavoro, c’è un direttivo sindacale fondamentale e a cui non si può mancare. Riunione sul contratto, discussione sulle nuove regole, questioni naturalmente di vita o di morte. Certificate, come vuole la legge, dai direttivi dei vari comparti del pubblico impiego di Cgil, Cisl, Uil, Ugl e sigle varie. Ma alla fine i conti non tornano. E dopo avere visto il rapporto sul 2007 e i primi dati ufficiosi sul 2008, il ministro della Pubblica amministrazione e dell’Innovazione, Renato Brunetta, ha scoperto che sono stati sfondati- e non poco- i tetti contrattuali previsti per i permessi sindacali retribuiti. E ha deciso di chiedere indietro alle varie sigle l’extra: 6 milioni per il 2007, forse anche più per il 2008. Secondo i calcoli del ministero infatti sarebbe stata sfondato di più di 300 mila ore il monte permessi sindacali retribuito che già è abbastanza generoso, di circa 475 mila ore. Quasi il doppio quindi (anche se i sindacati non sono convinti di questa cifra e attendono più particolari dal ministero per una eventuale replica). Il sospetto è che sistematicamente quei permessi siano stati richiesti e distrattamente vidimati dagli organi direttivi sindacali sulla carta per la loro ragione istituzionale, nella realtà invece per svolgere attività non coperte dalla normativa. A parte eventuali abusi privati che verrebbero perseguiti secondo legge, l’ipotesi è che più che a una riunione del direttivo i dipendenti pubblici con incarichi sindacali fossero attesi a un congresso o a una manifestazione anche solo a fare numero in sala. Compito ingrato, certo, e forse anche più noioso e faticoso della stessa mansione pubblica ricoperta, ma non si capirebbe il motivo per cui tutto ciò debba avvenire a spese dello Stato. La querelle era già stata sollevata in più di un incontro fra il ministro e i vertici dei più importanti sindacati, che quindi sono preparati al braccio di ferro. Ma nessuno si attendeva una contestazione formale con tanto di ipotesi di risarcimento simile a quella che il ministero di Brunetta sta per inviare a tutte le forze sindacali. D’altra parte quello dell’eccesso nei permessi e distacchi sindacali retribuiti è sempre stato uno dei cavalli di battaglia di Brunetta, che nel febbraio scorso aveva rivisto in un dl i tetti stabiliti, recuperando al lavoro 360 unità su base annua e consentendo un risparmio nel secondo semestre 2009 di più di 4,8 milioni di euro. Per i permessi e distacchi sindacali retribuiti il ministero ha speso nel 2007 ben 156 milioni e 767 mila euro... Franco Bechis

Il Csm piccona già la legge Maroni sugli immigrati

Che fosse contrario l’aveva fatto sapere a chiare lettere, forse andando al di là delle proprie competenze costituzionali prima che il Parlamento votasse il testo di legge. Ora il Csm di Nicola Mancino ha assestato una picconata decisa al pacchetto sicurezza e più in generale alle norme di leggi penali e amministrativi che dovrebbero regolare l’espulsione degli immigrati clandestini. La scorsa settimana il plenum di palazzo dei Marescialli si è diviso su una pratica della ottava commissione, originata da un quesito del presidente del tribunale di Genova e ha stabilito che le udienze di convalida per l’espulsione davante ai giudici di pace non possono più essere effettuate in locali della Questura. Anche a rischio di fuga dell’immigrato. La questione sembrava di poco conto, e per altro la pratica, originata nel 2008, non ha nemmeno citato le nuove norme divenute legge (il reato di clandestinità) pochi giorni prima del plenum del Consiglio superiore della magistratura. A Genova per alcuni anni i processi di convalida delle espulsioni sulla base della legge Bossi-Fini si sono tenute nei locali messi a disposizione del Questore in modo da potere procedere con l’espulsione in tempi brevi dopo il fermo dell’immigrato irregolarmente presente sul territorio italiano. Poi è cambiato il coordinatore dell’ufficio dei giudici di pace e ha stabilito che in questura no, non si poteva fare. Bisognava andare come per tutti gli altri processi in un’aula di tribunale. Il questore preoccupato ha elencato quelle che secondo lui erano le conseguenze negative della decisione: “necessità che gli stranieri fossero trasferiti nei locali dell’ufficio del Giudice di pace, ritardi nei provvedimenti di convalida, pericolo che gli stranieri si sottraessero alla vigilanza degli agenti di polizia, non essendo possibile adottare nei loro confronti i mezzi di coercizione normalmente adoperati nei confronti dei detenuti”. E così infatti stava avvenendo, per questo il presidente del Tribunale che non sapeva optare per l’una o l’altra tesi ha chiesto aiuto al Csm. Era il 14 ottobre 2008. E con i tempi del Csm, simili a quelli di una gestante, nove mesi dopo è stata partorita la decisione. No, la dignità di uno straniero e il suo diritto a un’aula di tribunale adeguata è più importante del rischio di fuga. Dibattito lacerante, anche un po’ superato dalla storia, quello che per più di un’ora ha coinvolto il Csm. Ma ala fine si è stabilito che celebrare un processo in locali della Questura è da stato di polizia. E i clandestini potranno darsela a gambe in attesa dell’aula giusta... Franco Bechis

I mercati sconfitti da un ragazzino. Un quindicenne rivela che gli analisti continuano a non capire nulla

Si chiama Matthew Robson, ha 15 anni e sette mesi. Come tanti ragazzini va a scuola: frequenta a Londra un istituto superiore specializzato in economia. Dal mese di giugno è stagista della Morgan Stanley, e per questo è diventato subito famoso. Il 10 giugno scorso ha scritto, raccontando se stesso e i suoi amici, un report della banca d’affari dal titolo «Media & Internet- Come i ragazzi consumano i media». Secondo i dirigenti della Morgan Stanley, da allora è il documento più chiesto e commentato, tanto da avere messo in crisi la City e molti analisti specializzati nel settore. Il caso è finito ieri sulla prima pagina del Financial Times, sostenendo la rivoluzione copernicana di quel rapporto. Che è invece una somma di banalità. Che cosa dice il teen-ager che sembra avere sconvolto gli analisti finanziari? Che i ragazzini della sua età non leggono i giornali, al massimo guardano ogni tanto qualche titolo e preferiscono farlo su Internet o guardando un tg. Esperienza probabilmente vissuta da quasi tutti i genitori in una qualsiasi casa del mondo. Ma ignota agli analisti. C’è di più. Matthew spiega di non avere soldi. Alla sua età non si possiede una carta di credito. Quindi non si possono comprare giochi on line e raramente si fanno videogiochi sul pc. Invece i genitori suoi e dei suoi amici hanno regalato a tutti una consolle per i videogiochi: ad alcuni la Wii, ad altri la Playstation, ad altri ancora la Xbox. Sorpresa? C’è qualcuno dei lettori con prole cui sia sfuggita questa passione dei ragazzini? Agli analisti finanziari che ora gridano un “ohoo...” di meraviglia sì. Era sfuggito. Per fare soldi (anche se nell’ultimo anno ne hanno persi e fatti perdere non pochi) non fanno figli, e quindi Matthew ha svelato loro un mondo ignoto in grado di modificare radicalmente le loro granitiche certezze sugli investimenti. Il ragazzino spiega ancora che alla sua età il problema principale è sempre quello: pochi soldi in tasca, quindi gioca e comunica con i suoi simili sempre con lo stesso criterio: spendere il meno possibile. Usa i social network, ma anche se tutti ora dicono che Twitter è il mezzo del momento, e perfino in Iran si è usato, lui spiega che quando scrive il suo tweet nessuno lo legge, e non c’è grande soddisfazione, ma che per leggere lui una frasetta dei pochi amici che lì sopra stanno si mangia tutto il credito del telefonino, perché il mezzo è lento e assai caro. Due alternative: facebook per comunicare senza spendere con i compagni, o la chat possibile attraverso le consolle dei videogiochi che ormai si collegano ad Internet ovunque ci sia il wifi. Il rapporto che sta sconvolgendo la City è lungo tre paginette, e gira sempre intorno allo stesso tema: pochi soldi da spendere, e quindi non si spende. Ci saranno anche leggi terribili e direttive europee in arrivo, ma anche per la musica il criterio è quello: nella sua cerchia di amici otto su dieci non comprano musica su Internet, perché è troppo cara. La scaricano gratis e illegalmente. “Ohhh...” dell’analista che avrà magari rivisto dopo queste previsioni al ribasso le stime di crescita di Apple (ma nel frattempo Matthew crescerà e magari inizierà a spendere beffando tutti quelli che ora stanno cambiando la loro idea del mondo). Per una pura coincidenza la vicenda del teenager che pontifica dal report di Morgan Stanley è divenuta pubblica la stessa mattina in cui a Milano il presidente della Consob, Lamberto Cardia nella sua densa relazione annuale analizzava le ferite lasciate dal terremoto finanziario che da Lehman Brothers in poi ha messo in ginocchio i mercati e piegato le economie mondiali mettendo le ali alla recessione. Dei contenuti della relazione e delle ricette proposte- anche normative- per proteggere come non è stato fatto il risparmio riferiamo in abbondanza nelle pagine interne del quotidiano. Le sagge parole di Cardia, come gli interventi legislativi provvidenziali di Giulio Tremonti e le soluzioni che molti governi hanno adottato in questi mesi sono naturalmente importantissimi. Ma il caso Matthew indica che il fianco dei mercati è ancora scoperto come prima, pronto a costruire nuovi castelli di cartapesta, a crearsi leggende che lì dentro diventano realtà, fragile ancora come un tempo. Fragili le analisi prima, ancora più fragile ore per lo choc che può provocare la serie di banalità (vere) elencate da un ragazzino. Se questa è l’ossatura dei mercati finanziari, non c’è ricetta che tenga. Presto ci risaremo.... Franco Bechis

E' fatta, immunità in Senato per l'ex assessore Pd alla Sanità pugliese. Per Tedesco, il dalemiano, la scossa non ci sarà

Giovedì 9 luglio la giunta per le elezioni del Senato ha preso atto dell'opzione del senatore Paolo De Castro per il mandato da europarlamentare e delle sue dimissioni da Palazzo Madama. Al suo posto è già subentrato il primo dei non eletti Pd nelle elezioni politiche 2008 alla circoscrizione Puglia: Alberto Tedesco. Si tratta dell'assessore alla Sanità della giunta di Nicky Vendola che nel febbraio scorso si è dovuto dimettere dopo essere stato coinvolto nell'inchiesta sulla sanità pugliese, e per i suoi rapporti con l'imprenditore Giampaolo Tarantini. E' l'inchiesta da cui secondo Massimo D'Alema sarebbe arrivata la celebre "scossa" a Silvio Berlusconi. Non si prenderà la scossa invece il dalemiano Tedesco, che da ora può contare sullo scudo dell'immunità parlamentare

Viva i radicali, che mettono in piazza stipendi e spese dei parlamentari

Su 945 parlamentari eletti alla Camera e al Senato italiano solo nove hanno reso pubblici i loro stipendi e il dettaglio delle spese effettuate ogni mese. Su 78 eurodeputati italiani uscenti dal Parlamento di Strasburgo solo due hanno fatto la medesima scelta. Undici in tutto su più di mille: i radicali. Mentre ancora una volta parandosi dietro regolamenti e camarille la Camera dei deputati ha rifiutato questa settimana in ogni modo un invito a rendere conto di come ogni eletto spende i rimborsi forfettari concessi (si tratta di più di 8 mila euro netti al mese per ciascuno), Marco Pannella, Emma Bonino e la piccola truppa radicale, ha messo ogni dato sul sito internet del partito, sotto la voce «anagrafe pubblica degli eletti». Grazie a questa opera di trasparenza assolutamente unica nel suo genere (è vero che c’è qualche altro singolo volenteroso che ci prova, come il giovane parlamentare del Pd, Andrea Sarubbi, ma nessuno lo fa come i radicali), è finalmente possibile sapere il netto che ogni mese viene consegnato a ciascun deputato e senatore. Per chi sta a Montecitorio si tratta di 14.778 euro netti al mese (non c’è però tredicesima), composti da una indennità base di 5.236 euro netti, dal rimborso spese di soggiorno netto di 4.003 euro al mese, di altri 4.190 euro a titolo di rimborso forfettario “per le spese inerenti al rapporto fra eletto ed elettori”, di un ulteriore rimborso forfettario mensile per le spese di trasporto di 1.091 euro e infine di un rimborso spese telefoniche da 258 euro mensili. Che quel netto resti tale dipende appunto da quanto ciascun deputato liberamente decide di mettersi in tasca o di usare per fare politica. I radicali più della metà la girano al partito, altro spendono per i collaboratori o per restare a Roma non avendovi residenza. Per ognuno di loro è elencato il dettaglio. Un senatore, grazie a regolamenti un po’ diversi, intasca ogni mese netto quasi mille euro più di un deputato: in tutto sono 15.924 euro netti, perchè l’unica voce identica a quella dei deputati è il rimborso delle spese di soggiorno. Tutte le altre sono più generose, indennità base compresa (5.614 euro). Un ex parlamentare europeo come Marco Pannella prende netto al mese un po’ più di un deputato, un po’ meno di un senatore: 15.060 euro netti fra indennità e rimborsi a forfait. Ad Emma Bonino invece arrivano ogni mese 20.693 euro netti (ma 10.375 li gira alla lista Pannella). Si tratta dei 15.294 euro dei senatori, più l’indennità da vicepresidente del Senato (2.950 euro) e la pensione da parlamentare europeo (1.819 euro). Evviva la loro trasparenza. Franco Bechis

Fisco choc per gli abruzzesi. Da gennaio tutte le tasse con gli arretrati. Ma le Marche hanno pagato solo il 40 per cento dopo 12 anni...

I senza casa de l’Aquila in attesa di uscire dalle tende, come promesso, dal prossimo autunno dovranno comunque mettersi rapidamente in cerca di un commercialista di fiducia. Sperando che il suo studio non sia crollato e che si siano salvati documenti degli anni passati. Perché da gennaio 2010 il fisco vuole tasse e contributi sospesi all’indomani del terremoto, senza fare più distinzioni fra abitanti della zona del cratere e quelli di altre zone. Lo stabilisce un apposito articolo del decreto legge anti-crisi approvato dal consiglio dei ministri il 30 giugno scorso. I pagamenti dovranno essere integrali, ma rateizzabili fino a 24 mesi. Il 16 giugno invece i terremotati di Marche e Umbria del 1997 hanno pagato la loro prima rata di tasse sospese. La stessa amministrazione fiscale che oggi chiede indietro i soldi agli abruzzesi colpiti dal terremoto era stata molto più generosa con i loro predecessori solo 7 mesi fa. A dicembre infatti il Parlamento aveva approvato definitivamente il decreto legge che stanziava i soldi per l’organizzazione del G8 (allora previsto alla Maddalena), inserendo una norma per il recupero delle tasse sospese alle popolazioni di Umbria e Marche nel 1997, 1998 e 1999. A dodici anni di distanza il governo aveva stabilito che dal gennaio 2009 in ben 120 rate gli ex terremotati dell’epoca dovessero iniziare a pagare allo Stato tributi e contributi che all’epoca come sempre avviene in questi casi furono sospesi. Con un picco di generosità ulteriore il Senato aveva approvato un emendamento per spostare quella data da gennaio a giugno. E in effetti il 16 giugno scorso marchigiani e umbri ex terremotati hanno versato la prima delle 120 rate dei tributi di 12 anni fa. Ma a loro è stato condonato il 60 per cento di quanto dovuto. Il pagamento rateizzato riguarda quindi solo il 40 per cento degli importi ovviamente senza aggravio di sanzioni. Può darsi che la generosità mostrata nei confronti di quei contribuenti sia stata eccessiva. Certo il raffronto con l’Abruzzo fa impressione. Perché realisticamente a gennaio sarà già un miracolo avere ripreso in una parte della popolazione colpita un minimo di normalità. Pensare che abbondino lavoro e attività economiche tanto da permettersi di pagare due volte le tasse dopo avere perso tutto, è semplice utopia. In ogni caso se lo stesso governo a pochi mesi di distanza offre un trattamento tanto diverso a due popolazioni anche geograficamente così vicine, compie un errore. Se ne è accorta la stessa maggioranza che alla Camera ha già chiesto l’immediato stralcio della norma... Franco Bechis

Camera, i rimborsi restano top secret. Così ai deputati in tasca fino a 15 mila euro netti al mese

I deputati italiani non renderanno conto se non volontariamente di come spendono il rimborso spese forfettario mensile di 4.190 euro che dovrebbe coprire le spese per mantenere i rapporti con il proprio collegio di appartenenza. Con 49 sì e 428 no la Camera dei deputati questa settimana ha sonoramente bocciato la proposta avanzata dalla radicale Rita Bernardini e più volte lanciata negli ultimi due anni dalle colonne di Italia Oggi. D’altra parte prima della prova del pulsante elettronico a respingere la proposta della Bernardini era stato il deputato questore Antonio Mazzocchi (Pdl), secondo cui l’idea di rimborsare ai deputati solo le spese documentate avrebbe fatto lievitare i costi della Camera dei deputati. Mazzocchi ha spiegato che per passare dal rimborso forfettario al regime a piè di lista si sarebbe comunque prima dovuto trovare un accordo anche con i senatori. E ha aggiunto: «Va osservato che tali interventi potrebbero comportare un significativo aggravamento delle procedure correlate sia per il deputato sia per gli uffici della Camera, come è noto interessati al blocco del turn over». La tesi è questa: se i deputati debbono presentare ricevuta fiscale delle spese sostenute, poi gli uffici della Camera dovrebbero controllarle prima di rimborsarle. E la fatica sarebbe eccessiva. Tesi curiosa, visto che così avviene in ogni posto di lavoro, e visto che oltre ai 630 deputati la Camera ha anche circa due mila dipendenti i cui rimborsi spesa si spera vengano controllati dall’amministrazione.Respinta anche l’idea di non rimborsare i taxi a forfait almeno a chi dispone di auto di servizio. «Non vi sono auto», ha sostenuto Mazzocchi, «riservate al singolo deputato. I deputati che ricoprono incarichi istituzionali hanno la possibilità di accedere ai servizi dell’autorimessa prevalentemente per fare fronte agli impegni istituzionali all’interno del comune di Roma. In ogni caso restano a loro carico le spese sostenute fuori dalla città di Roma». Di fronte a questo muro c’è almeno un neo deputato che ha provato a fare passare un’altra minima richiesta: quella di rendere pubbliche (anche senza ricevute e non ai fini del rimborso) le modalità di utilizzo di quei 4.190 euro mensili da parte di ogni deputato. Potrebbero essere utilizzati per pagare contratti a progetto ai collaboratori (i cosiddetti portaborse) o per altre attività. Ma anche semplicemente essere messi in tasca esentasse e fare lievitare lo stipendio. Ci ha provato Giovanni Battista Bachelet. Spiegando con il cuore in mano davanti all’assemblea: «Penso che sia un principio importante la rendicontazione delle spese. È una delle cose che più mi ha meravigliato l’anno scorso diventando deputato. Per alcune spese, giustamente, come quelle dei treni o degli aerei, chi fa politica (cioè viaggia e spende) spende, chi non fa politica non spende. Viceversa, con il rimborso forfetario, c’è un premio inverso: meno si lavora e si spende per la politica, più soldi vanno a finire nel nostro stipendio. È un risultato paradossale che la rendicontazione contribuirebbe almeno in parte a mitigare...». Il cuore in mano e la semplice ragionevolezza di questo argomento non sono bastati. Ufficialmente nessuno ha preso la parola per contestare questa richiesta. Ma poi con il ditino ha pigiato il pulsante del voto. Ed è uscito il responso: hanno votati sì in 91 (e già non sono pochissimi), ma votato no in 370 (la maggioranza assoluta dell’aula). Quindi niente trasparenza sulle spese. E tutti i deputati sulla carta potranno mettersi in tasca ogni mese l’indennità netta da 5.236 euro, più la diaria (in caso di nessuna assenza) netta da 4.003 euro, più il rimborso spese da 4.190 euro netti, più quello a forfait per i trasporti da 1.091 euro netti più altri 258 euro netti di rimborso telefono. In tutto fanno 14.778 euro netti al mese...

Che mistero quei titoli Usa sequestrati a Chiasso! Vallgono due finanziarie di Tremonti

E’ dal tre giugno scorso che la Guardia di Finanza di Como ha nei suoi uffici la valigetta più bollente che sia mai passata in Italia. Contiene titoli di Stato americani per un valore complessivo di 134,5 miliardi di dollari. E’ stata sequestrata a Ponte Chiasso a due cittadini giapponesi su un treno che avrebbe dovuto portarli in Svizzera. I due, di cui non è stata diffusa l’identità, risultano residenti dai documenti a Kanagawa e a Fukuoka e sono stati rilasciati, denunciati a piede libero. Secondo indiscrezioni uno dei due sarebbe Tuneo Yamauchi, cognato di Toshiro Muto, già vicegovernatore della Banca del Giappone. Nessuna autorità ha ancora dichiarato ufficialmente veri o falsi quei titoli. E il mistero è già un giallo internazionale. Sono state scarne quanto mai le notizie ufficiali. Abbottonatissime le fiamme gialle. Muro di silenzio alla procura di Como, titolare dell’indagine. Imbarazzo nelle autorità politiche e monetarie. Brividi corsi nelle principali cancellerie internazionali. Perché un fatto solo è certo: se quei titoli di Stato fossero apparsi palesemente falsi, i due giapponesi sarebbero dovuti essere in galera. Ma se sono autentici la legge italiana prevede l’applicazione di una multa pari al 40 per cento del loro valore: più di 50 miliardi di dollari, che da soli risolverebbero ogni problema di cassa per Giulio Tremonti. Ufficiosamente si è lasciato trapelare la probabile falsità di quei titoli, una versione che metterebbe nei guai qualche finanziere (perché non ha proceduto all’arresto dei due giapponesi), ma che non creerebbe problemi nè con gli Stati Uniti nè con paesi eventualmente possessori di quel misterioso tesoro (le ipotesi sono al momento Giappone, Cina o Russia). Ma è evidente che la versione di due ladruncoli in giro per l’Europa con una valigetta da 134,5 miliardi di titoli falsi fa acqua da tutte le parti. Chi mai li avrebbe acquistati, oltretutto senza controllarne l’autenticità? La stampa americana che si è occupata del caso ha ipotizzato che i falsari siano i solityi capi-mafia italiani. Spaghetti, pistola e secondo tradizione il caso sarebbe chiuso. Il titolare di una radio Usa, Hal Turner, ha invece sostenuto nell’etere e sul suo blog l’autenticità di quei titoli, sostenendo che l’informazione proveniva da fonti di altissimo livello. Due giorni dopo è stato arrestato, chiusa la sua radio e oscurato il blog. Un giallo nel giallo. Come anche quello sulla qualità dei titoli. Secondo la Gdf si tratta di Bond Kennedy. Ma la foto diffusa illustra dei Treasury Notes, con cedola non staccata e incassata (altra stranezza). Il mistero è sempre più inquietante... Franco Bechis

Scaroni sfida Berlusconi a Porto Torres

Con un annuncio dato con poche ore di preavviso al presidente della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci, l’Eni guidata da Paolo Scaroni ha deciso la chiusura- al momento temporanea, per «almeno due mesi» dello stabilimento chimico di Porto Torres. Con un lungo comunicato si spiega che «l’andamento dello stabilimento di Porto Torres nei primi mesi del 2009 è stato pesantemente condizionato dalla attuale crisi finanziaria, che ha aggravato la già difficile situazione economica del sito». Le perdite sono rilevanti. Ma il caso è diventato politico. Perchè Porto Torres fu riaperto a febbraio per intervento di Silvio Berlusconi. E il gesto sa di sfida, soprattutto all’indomani della guerra del gas originata dal decreto anti-crisi (...)E’ da tempo che l’Eni sta attuando con governo e autorità locali una sorta di braccio di ferro sul caso Porto Torres. Da anni lo stabilimento perde decine di milioni di euro (circa 150 milioni fra il 2008 e la previsione di rosso 2009) e fatica a tenere un mercato già non particolarmente brillante. Da anni non mancano le pressioni delle autorità politiche regionali e nazionali per evitare una crisi che avrebbe un risvolto sociale rilevante in Sardegna. Per quetso nel dicembre scorso Scaroni era stato convocato in Parlamento, dove era uscito da un’audizione assicurando “L’Eni non chiuderà l’impianto cracking di Porto Torres”. Ai primi di gennaio invece lo stabilimento si fermò, ufficialmente “per problemi di manutenzione”. Insorsero come sempre le autorità locali e siccome si era in piena campagna elettorale per scegliere il nuovo governatore, il caso è subito diventato nazionale. A metà gennaio Silvio Berlusconi chiamò a Mosca lo stesso Scaroni, tirandolo fuori da un incontro decisivo per le sorti del gas italiano e gli impose (comunicandolo poi ufficialmente con una nota di palazzo Chigi) l’immediata riapertura dello stabilimento, dettandone anche le condizioni, i piani di sviluppo e le possibili soluzioni sindacali. Ed è stato probabilmente di nuovo il gas a intersecarsi con la vicenda della chimica sarda. All’Eni non è infatti andato giù (anche perchè letto sul testo di legge, senza preavviso) quell’articolo 3 del recente decreto legge anti-crisi che stabilisce la “riduzione del costo dell’energia per imprese e famiglie” obbligando a cedere a prezzi vincolati 5 miliardi di standard metri cubi di gas. Una norma che secondo le prime stime avrebbe un impatto negativo su Eni di almeno cento milioni di euro. Per questo nelle fila del governo il caso Porto Torres è sembrato la risposta dell’Eni. Un guanto di sfida... Franco Bechis