Murdoch scende in campo a fianco del Papa perchè si è convertito? A guardare il battesimo delle figlie sulle rive del Giordano, sembra di sì

La foto campeggia sulla prima pagina di “Hello!”, una sorta di “Chi” inglese nel gossip familiare delle celebrità mondiali. Rupert Murdoch ritratto insieme alla moglie Wendi Deng , alla regina Rania di Giordania, a Nicole Kidman, sorride nel giorno del battesimo delle due figlie di ultimo letto, le piccole Grace (8 anni) e Chloe (6 anni). La cerimonia si è svolta il 22 marzo scorso sulle rive del fiume Giordano, celebrata da un prete cattolico proprio nell’esatto luogo dove tre dei quattro vangeli (Marco, Luca e Matteo) raccontano che Gesù Cristo avesse ricevuto il battesimo da Giovanni Battista. Madrina di battesimo è stata appunto la Kidman, attrice che non fa mistero della sua fede cattolica. Padrino un attore cattolico australiano, Hugh Jackman. Un fatto non vissuto privatamente, perché l’ampio servizio fotografico che occupa le 18 pagine è certamente stato autorizzato da Murdoch. Tanto da volere sembrare un messaggio al mondo su una possibile conversione del più potente imprenditore dei media internazionali. L’ha interpretato così, ad esempio, l’editorialista del Guardian, Nicholas Blincoe, che ha commentato quelle foto sotto il titolo” Una rinascita per Rupert Murdoch?- Con il battesimo delle sue figlie sulle rive del Giordano forse il capo di News Corp sta segnalando la sua personale conversione”. Certo che alla nascita le due bimbe di Murdoch non sono state battezzate, e farlo dopo anni in modo così suggestivamente simbolico e pubblicizzato è certo segno di una decisione dei genitori lungamente pensata e maturata. Per altro giunge dopo un’altra conversione in seno alla famiglia Murdoch, quella vissuta assai più privatamente del figlio James, vero erede del padre nella News corp, e noto in Italia sia perché si occupa direttamente di Sky, sia per la sua partecipazione all’ultimo Meeting di Rimini, da cui sembra sia rimasto particolarmente segnato. Sono più di uno quindi gli elementi personali della famiglia di Murdoch che accompagnano la scelta recentissima del Wall Street Journal di scendere in campo nella battaglia mediatica sugli scandali pedofilia per difendere Papa Benedetto XVI. Iln più importante quotidiano finanziario del mondo, posseduto dai Murdoch, ha sfoderato nell’occasione la firma di uno dei suoi più potenti columnist, William McGurn. Non si tratta di un qualsiasi editorialista del gruppo, ma di un cattolico che ha e ha avuto in passato ruoli manageriali in News corporation e che da anni scrive i discorsi più delicati ( i cosiddetti “position papers”) per lo stesso Murdoch. Non lo ha fatto solo fra il giugno 2006 e il febbraio 2008 quando l’allora presidente Usa George W. Bush lo ha chiamato alla Casa Bianca a guidare il team di chi scriveva i suoi discorsi ufficiali, dietro un compenso di 261 mila dollari all’anno. Potrebbe esserci una scelta editoriale, in parte una scelta politica (Murdoch non ha in simpatia Barack Obama e i media del gruppo non hanno lesinato attacchi al presidente Usa anche sulla linea abortista), ma anche una profonda convinzione personale del tycoon del media in questo sostegno inatteso a Benedetto XVI. D’altra parte i rapporti diplomatici fra Murdoch e il Vaticano sono buoni da molti anni. Fu il magnate anglo-australiano a donare nel dicembre 1999 alla Conferenza episcopale americana i 10 milioni di dollari che servivano alla costruzione della nuova cattedrale di Los Angeles. Nel gennaio dell’anno precedente l’arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, aveva insignito Murdoch dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno, con tanto di benedizione papale che scandalizzò molti cattolici romani. E forse sono stati proprio i rapporti che si crearono all’epoca a determinare la nuova svolta religiosa del magnate.

Se volete il Papa a processo, consegnate Obama a Spataro- La curiosa linea difensiva in Usa dell'avvocato di fiducia del Vaticano

Volete Benedetto XVI in aula come testimone nei processi sulla pedofilia nella chiesa americana? Benissimo, allora ordinate al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di andare a testimoniare a Milano sulle direttive date alla Cia per il rapimento di Abu Omar. A chiedere alla Corte suprema degli Stati Uniti l’applicazione di una sorta di par condicio giudiziaria è niente meno che lo Stato Città del Vaticano. Il paradosso legale è infatti formalmente depositato presso la Corte suprema americana da Jeffrey S. Lena, l’avvocato che coordina la difesa della Chiesa nei processi per pedofilia. La deposizione al processo è stata chiesta per papa Benedetto XVI da un avvocato del Kentucky, William McMurry, insieme a quella del cardinale Tarcisio Bertone, del cardinale William Levada e del nunzio apostolico in Usa, Pietro Sambi. Respinta una prima volta nel 2007 è stata ripresentata con documentazione a sostegno. Così il caso Kentucky è finito davanti alla Corte suprema americana insieme a quello dell’Oregon, in cui un tribunale vorrebbe chiamare a rispondere penalmente e civilmente il Papa e lo Stato Città del Vaticano degli abusi commessi da alcuni preti pedofili. La documentazione legale dei due fronti è approdata ora davanti alla Corte, che non ha ancora calendarizzato l’udienza. Gli avvocati delle vittime degli abusi hanno trasmesso un documento- per altro già rivelato dalla stampa britannica nel 2002- che secondo loro dovrebbe rappresentare la pistola fumante per dimostrare le responsabilità apicali del Vaticano nello scandalo. Si tratta di un documento non firmato di una sessantina di pagine, dal titolo “Crimen sollicitationis” che risale al 1962 e che secondo la tesi accusatoria sarebbe stato approvato dal “Papa buono”, Giovanni XXIII. Il documento fornisce istruzioni ai vescovi su come comportarsi davanti a casi di abusi sessuali o addirittura “comportamenti bestiali” che potessero emergere nell’episcopato. La regola era di proteggere accusati e vittime fino all’accertamento della verità mantenendo il massimo riserbo possibile sull’accaduto. Consigliando comunque di trasferire ad altra sede o altro incarico i sospettati. I procedimenti sarebbero stati immediatamente incardinati presso il Sant’Uffizio e secretati pena scomunica. Stesso segreto (e stessa pena in caso di violazione) avrebbe dovuto riguardare l’identità dei denuncianti e di eventuali testimoni. Denunce anonime dei fatti invece sarebbero state cestinate, a meno che già non gravassero sospetti su quei casi e si ritenesse quindi utile un’inchiesta. Al termine delle indagini riservate, se le accuse venivano ritenute del tutto infondate, ogni documento sarebbe stato distrutto. In caso di accuse indeterminate e senza riscontro, la pratica sarebbe stata archiviata e la documentazione conservata per inchieste future. In caso di prove riscontrate invece il processo sarebbe stato celebrato sentendo anche il colpevole. Queste istruzioni sarebbero state allegate anche a una nuova lettera inviata a tutti i vescovi nel 2001 dal cardinale Joseph Ratzinger, che guidava la congregazione per la dottrina della fede. E quindi secondo gli avvocati delle vittime di abusi dimostrerebbe la responsabilità apicale della Chiesa cattolica nel cercare di circoscrivere e insabbiare lo scandalo pedofilia. Dello stesso documento offre una lettura diametralmente opposta naturalmente l’avvocato Lena, secondo cui al massimo si dimostrerebbe l’intenzione della Chiesa di fare inchieste serie sui casi di abusi sessuali fin dal 1962 e il riserbo delle indagini sarebbe stato innanzitutto a garanzia delle vittime (sia per le conseguenze sulla vita privata sia per non esporle a tentativi di vendetta). Viene depositata dai legali vaticani anche una interpretazione del documento firmata da un esperto di diritto canonico, il professore Thomas P: Doyle che confuta tutte le tesi di McMurry. Quanto alla richiesta di testimonianza del Papa al processo, Lena prima rivendica presso la Corte suprema l’immunità diplomatica garantita a un capo di stato straniero come il pontefice, poi spiega che se questa richiesta fosse ritenuta esaudibile, allora avrebbero legittimità le richieste di tutte le corti di paesi stranieri di fare comparire a processo il presidente degli Stati Uniti nei casi di “extraordinary renditions” compiute dalla Cia in quei territori, “come è avvenuto in Italia”. Quanto all’organizzazione piramidale del Vaticano che imporrebbe il coinvolgimento dello Stato estero nell’azione civile intentata dalle vittime di abusi, l’avvocato Lena spiega alla Corte suprema che la Chiesa non è una società per azioni con a capo una holding di diritto vaticano, e che quindi non si può applicare la responsabilità amministrativa per un ente morale. La richiesta invece equipara il Vaticano a una qualsiasi multinazionale, pur non avendone in alcun modo la configurazione giuridica.

Benedetto XVI mangia meno strudel, ma è sereno. E' la Curia ad essere terrorizzata per l'offensiva sulla pedofilia

Chi lo ha visto tutti i giorni nelle ultime settimane racconta di un Benedetto XVI provato, stanco, fisicamente sofferente. Il Papa cammina con fatica perfino all’interno degli appartamenti pontifici, sorride ed assaggia appena un pezzetto dell’amato strudel con le mele annurche che gli preparano le collaboratrici laiche che da anni lo assistono. Mangia poco, spesso non tocca nemmeno quelle mozzarelline di bufala che il suo segretario, padre Georg Gaenswein, gli fa arrivare da Frattamaggiore. Anche la via Crucis seguita in papa mobile, le vacanze estive disdette per la prima volta scegliendo il meno faticoso ritiro di Castelgandolfo rendono evidenti a tutti questa sofferenza. Che non è solo esterna, perché il Papa- racconta chi gli sta più vicino- ha vissuto con grande dolore quel che è stato chiamato lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma non si sente sotto assedio. Joseph Ratzinger è sereno, profondamente sereno. E ha a cuore oggi forse più di prima quella guida pastorale del suo popolo che è probabilmente la vera ragione dello scandalo e di quell’assedio che racconta quotidianamente la stampa di tutto il mondo. E’ la verità del cristianesimo, quell’unione fra fede e ragione raccontata nelle udienze del mercoledì attraverso le vite dei santi ad occupare il Papa. E non lo preoccupa quel che emerge perfino dentro la Chiesa. E’ nelle altre stanze vaticane che si vive con timore questo assedio di cui forse alcuni cardinali e alti prelati ingigantiscono oltremodo la portata. Non pochi rifiutano colloqui telefonici e- quando inevitabili- evitano accuratamente giudizi e riferimenti a vicende di cronaca. Perfino gli indirizzi di posta elettronica più riservati sono utilizzati con cautela e sospetto: chi vuole parlare lo fa solo a quattro occhi. Chiedi se immaginano una regia ad organizzare la campagna che monta ormai ha troppe radici diverse: quelle dell’ America puritana e di cultura ebraica, quelle anglicane, quelle semplicemente laiche e anticlericali da cui ti saresti atteso qualsiasi spallata, ma anche quelle cristiane, cattoliche, addirittura nella patria stessa del Pontefice. Sulle prime chi si incontrava in Curia ripeteva quasi rassicurante che forse regia c’era, ma solo per comuni interessi economici. I casi di pedofilia erano noti da anni, in ogni dettaglio proprio quelli che venivano sventolati in queste settimane. Se si alzava il tiro era solo per soldi: fare circolare come indiscreti documenti notori, farli pubblicare sui giornali e poi sfruttarne il clamore era utile a un manipolo di studi legali che puntando il dito sul Vaticano e trovando un giudice disposto a seguirli avrebbero fatto lievitare oltremisura risarcimenti e parcelle. Ma la furia delle onde in tempesta è seguita così devastante, si è unita a venti impetuosi e diversi nazione dopo nazione (si guardi all’Italia, dove il tiro al Papa ha sostituito dopo il flop elettorale immediatamente il tiro a Silvio Berlusconi), che oggi nelle stanze vaticane pochi credono sia solo questione di soldi. Per questo si ripercorrono le tappe di questo pontificato trovando uno dopo l’altro chi e perché soffia su quei venti. La Chiesa. C’è una data- chiave che spiega da dove nascono gtli attacchi interni al Papa. E’ quasi all’inizio del pontificato di Benedetto XVI: il 22 dicembre 2005, giorno dell’incontro con la curia romana per gli auguri natalizi. E del suo giudizio tagliente sul Concilio Vaticano II, che per il Papa non è stato una “apertura al mondo”, ma nel solco pieno della tradizione millenaria della Chiesa, solo un “passo fatto verso l’età moderna che appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto fra fede e ragione”. Detta così sembra solo una questione dottrinale, e invece all’interno della Chiesa è stato discorso di rottura decisa. Da lì il Papa è stato sentito come un nemico da gran parte dell’ala liberal e progressista degli episcopati. Lì e in altri discorsi sui valori fondamentali, sulla difesa assoluta della vita, si è consumato il vero scontro fra il Papa, il mondo laico e anticlericale (e questo era ovvio) ma soprattutto una parte non marginale della Chiesa. Se oggi la conferenza episcopale tedesca e buona parte di quella austriaca sono anche apertamente critiche del pontificato, il motivo è proprio in quel discorso del dicembre 2005, acqua ghiacciata sull’interpretazione rivoluzionaria del Vaticano II. Ebrei e mussulmani. Meno teologica e più facile da comprendere l’avversione del mondo mussulmano e di quello ebraico nei confronti del pontefice. Il discorso di Ratisbona incendiò subito l’Islam. La liberalizzazione del rito antico, che ha rispolverato la formula sulla conversione degli ebrei, il recupero della comunità lefebvriana (il vescovo negazionista, ma tutti erano sospettati di dottrina antisemita), l’annuncio prima di recarsi in Sinagoga della beatificazione di Pio XII hanno creato un solco profondo fra Benedetto XVI e i rabbini di tutto il mondo. Protestanti. Occasioni dirette di scontro non sono state così evidenti. Ma certo non è stato gradito il percorso di avvicinamento e perfino di apertura al rientro degli anglicani in seno alla chiesa cattolica romana. La Costituzione apostolica messa punto dal cardinale William Levada per l’occasione seguiva infatti una richiesta avanzata dalle comunità anglicane più tradizionaliste spaventate per l’apertura dell’ala liberal verso l’ordinazione di donne e omosessuali dichiarati. Più che come un gesto di comunione così quell’apertura del Papa è stata interpretata come un vero e proprio progetto scismatico sulla chiesa anglicana. Tutto questo teme la Curia, con cui peraltro il papa ha scarsissimi rapporti: gli unici che frequenta settimanalmente e da cui Benedetto XVI coglie umori di palazzo e apprende notizie dal mondo sono infatti il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il cardinale Giovanni Battista Re e il ricordato cardinale Levada. Altre cose arrivano sulla scrivania di Padre Georg grazie a una rassegna stampa filtrata dalla segreteria di Stato e che non sempre giunge nelle mani del Pontefice. Ma anche se a gocce e filtrato da racconti altrui, il Papa conosce bene quel che sta avvenendo nel mondo e nella Chiesa. Un vescovo gli ha riferito anche parole allarmate scritte in una lettera privata dall’ex presidente del Senato, Marcello Pera: “come è possibile che un miliardo di cristiani assistano in silenzio ed impotenti al tentativo di distruggere il Papa, senza rendersi conto che dopo questo non ci sarà più salvezza per nessuno?”. Certo, Benedetto XVI vive con dolore i fatti avvenuti nel suo gregge perché ne è il pastore. Ma non è preoccupato dell’assedio. Come ha ripetuto a chi ha incontrato anche in questi giorni: “è solo Cristo che assedia la Chiesa”.

Bertolaso a confronto con Prodi in Umbria ha fatto davvero il miracolo!


Quanti dei 22.604 sfollati del terremoto in Umbria del 26 settembre 1997 un anno dopo hanno avuto sistemazione in una casa? Nemmeno uno. E alla data del 26 settembre 1999, a due anni esatti dal sisma? A quella data era stata consegnata una abitazione, una villetta in legno, a 28 famiglie sulle 9.285 colpite dal sisma. Un ano dopo, e cioè a tre anni dal sisma, risultavano consegnati alloggi alternativi a 821 nuclei familiari dei 9.285 originari. Per mesi i terremotati umbri hanno vissuto in tenda, poi sono arrivati i container. E quelli sono restati per anni. Al 31 dicembre 2009, e cioè dodici anni e tre mesi dopo il sisma, ancora 8 famiglie vivevano nei containers.
In Abruzzo gli sfollati hanno toccato la vetta di 67.459 persone, 35.690 delle quali sistemate in tendopoli, gli altri in hotel e case private. Otto mesi dopo in tenda non c’era più nessuno. A un anno dal terremoto il problema di una abitazione permanente riguarda solo 1.750 persone che in gran parte hanno visto classificata la loro abitazione come inagibile dopo il mese di agosto 2009. Non sono né in tenda né per strada: ospiti in albergo o in alloggi temporanei ad affitto agevolato. Tutti gli altri hanno avuto sistemazione in una vera casa, spesso costruita a tempo record. Quelle previste nel progetto C.a.s.e. (complessi antisismici sostenibili e ecocompatibili) sono state tutte realizzate e consegnate: 4.449 abitazioni completamente arredate per 15 mila persone. In più il progetto Map, villette in legno, previsto per 8.500 persone, è già stato realizzato in ampia parte e consegnato a 5.700 persone. Tanto per fare un raffronto, le prime villette in legno in Umbria hanno iniziato a sostituire i containers solo nel 2001, a quattro anni esatti dal terremoto. L’Osservatorio sulla ricostruzione della Regione Umbria così dopo mesi descriveva il “successo”: “Noi che sappiamo cosa significa aver paura della  terra che trema, noi che dormiamo fuori anche se le nostre case sono agibili, invidiamo "la gente dei container", loro non devono preoccuparsi più della terra che trema, hanno un'abitazione sicura. Poi il tempo passa, la paura si attenua, allora i container sono sì un ambiente sicuro e protetto ma piccolo, caldo in estate e freddo in inverno (…)Passano gli anni, e aumenta il disagio di vivere nel container, ma stanno per arrivare le casette di legno, e le case in muratura ed altre soluzioni alternative al container. Entro il 2001 i villaggi di container vengono trasformati in villaggi fatti prevalentemente da casette molto più confortevoli e per molti il container resta solo un ricordo, per i più piccoli l'unico ricordo della propria abitazione per molti vecchi l'ultimo ricordo e per molti il ricordo di un forte disagio ma un grande insegnamento: tutti possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”. Cioè quattro anni in una stamberga di latta che diventa una ghiacciaia di inverno e un forno di estate, e bisognava pure ringraziare il governo di Romano Prodi, quello di Massimo D’Alema, quello di Giuliano Amato e la giunta rossa umbra perché vivendo da clochard si poteva scoprire che “tutti possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”. Altro che rivolta delle carriole, ci sarebbe stata da fare. Ma laggiù nessuno è stato così sciacallo da mettersene alla testa e organizzarla. Bisogna avere anche lo stomaco per fare cose così, e nel centro destra nessuno se l’è sentita di speculare così sui guai dei terremotati.
In Umbria l’unica cosa che tentarono di fare subito era la concessione di contributi diretti per la riparazione di edifici privati attraverso programmi denominati di “ricostruzione leggera”, ma anche lì l’amore smodato della sinistra di governo per la burocrazia mandò gambe all’aria l’intero progetto. Ecco come lo spiega la relazione stessa dell’Osservatorio: “Dopo la presentazione, entro i termini, delle domande e la pubblicazione, in fasi successive, di quelle finanziate, è iniziata, nel periodo aprile-agosto 1998, la progettazione degli interventi da concludersi entro novembre 1998 (120 giorni dalla pubblicazione). Tale termine è stato prorogato per consentire l’integrazione dei progetti ed è stato fissato a febbraio 2000 il termine ultimo per il rilascio delle concessioni contributive”. Quel che si poteva fare in pochi mesi è stato così sbloccato solo in due anni e mezzo. Nel solo comune de L’Aquila a un anno dal sisma hanno già ricevuto senza tante pastoie burocratiche contributi definitivi per riparazione e ricostruzione simile a quella “leggera” dell’Umbria 6.242 persone sulle circa 9 mila che avevano fatto domanda. Altre 27.316 persone hanno ricevuto il cosiddetto “Cas”, contributo di autonoma sistemazione che può arrivare fino a 700 euro al mese.
Per arrivare a qualcosa di vagamente paragonabile a quello realizzato finora in Abruzzo per l’Umbria ci è voluto più di un lustro, e non è stata quella la gestione più scandalosa di una ricostruzione post terremoto in Italia.

Epifani tira la cinghia. La crisi morde anche i conti della Cgil. E Vodafone le lancia una ciambella


La crisi finanziaria ha colpito anche la Cgil, facendo franare per colpa della cassa integrazione e della disoccupazione quel monte-premi sicuro delle trattenute sindacali automatiche che da sempre tiene in piedi i conti del primo sindacato italiano. Per questo nel 2009 Guglielmo Epifani e i suoi stretti collaboratori hanno dovuto tirare la cinghia con un piano di ristrutturazione interna che ha tagliato costi e personale della Cgil ricavando però risorse da destinare alla nuova missione: “l’attività politica”. Lo rivela un documento riservato interno sulle finanze della Cgil compilato da uno dei suoi massimi dirigenti, Enrico Panini, segretario confederale con delega anche sulle politiche amministrative e finanziarie. Primo punto del documento proprio l’effetto della crisi sui conti Cgil: “l’esplosione della cassa integrazione”, scrive Panini, “ comporterà una riduzione delle risorse per gli effetti che essa produce sulle deleghe sindacali; alle conseguenze che deriveranno dal mancato rinnovo di tanti rapporti di lavoro precari; agli effetti della riduzione dell’occupazione. A tutto ciò si devono aggiungere  diverse questioni relative al tesseramento. Basti ricordare che stanno andando in pensione generazioni con rapporti di lavoro a tempo indeterminato e con retribuzioni alte, che vengono sostituite con nuovi iscritti che sono, quando va bene, all’inizio della loro carriera o che hanno rapporti di lavoro discontinui. Contemporaneamente nel passaggio attivi/pensionati perdiamo ogni anno migliaia di deleghe che non passano allo SPI”, e cioè al sindacato pensionati della Cgil. Proprio quello pizzicato a Piacenza a riparare a questa caduta di consensi con falsi tesseramenti. Le tessere dei pensionati ammontavano per la Cgil a oltre 13 milioni di euro nel 2008, ma si sono ridotte a 10,8 milioni di euro nel 2009. La situazione finanziaria preoccupa molto i massimi dirigenti Cgil, tanto è che Panini spiega: “dobbiamo cominciare a fare i conti – per la prima volta dal dopoguerra – con una consistente riduzione delle entrate che durerà per un periodo non breve”.
Il piano messo a punto nel 2009 prevede taglio dei costi a tutti i livelli come è avvenuto nelle aziende. E’ un sindacalista a scrivere, ma sembra di leggere un top manager di qualche multinazionale: “in alcuni casi viviamo decisamente sopra le nostre disponibilità, o assumiamo impegni di spesa non coperti adeguatamente, e tutto ciò è inaccettabile. Registro, inoltre, per la totale assenza di una cultura di sistema nelle nostre politiche sull’uso delle risorse, sprechi molto consistenti”. Panini ricorda come la prima riorganizzazione sia avvenuta nel settembre 2008 con la creazione di una rete telefonica Cgil che ha fatto risparmiare 50 mila euro con il passaggio da Tim a Vodafone su tutto il territorio nazionale eccetto la Lombardia (lì le penali di Tim per la rescissione anticipata dei contratti sarebbero state molto alte), sostituendo con un solo contratto ben 700 tipologie contrattuali diverse “che semplicemente comportavano il fatto che a parlare fra di noi ognuno di noi spendeva una follia”. Altri tagli di spesa con la riorganizzazione dei Caaf: “Attualmente abbiamo in uso, per compilare un 730 uguale in tutt’Italia, ben cinque applicativi fiscali. Il solo costo di manutenzione ordinaria è stimato, per difetto, in due milioni di euro ogni anno. Risorse letteralmente buttate dalla finestra. Abbiamo circa 90 società fiscale, oltre a quindici Caaf regionali. La sola decisione di ridurre in modo significativo le società fiscali comporterebbe un risparmio stimato fra i dieci ed i quindici milioni di euro all’anno. Considerate che il numero delle società fiscali che chiudono in rosso i loro bilanci sta aumentando e che il Governo sta scaricando costi consistenti sui servizi fiscali. A fronte di una situazione che si fa più difficile noi continuiamo  a buttare risorse dalla finestra quando si potrebbe evitare”. Altre misure immaginate, oltre a quello dell’aumento dei contributi per allargare le entrate, anche il controllo delle spese per abbonamenti a riviste e libri vari e sui viaggi dei dirigenti del sindacato ( il taglio solo qui nel 2009 è stato di 320 mila euro) e perfino la riduzione delle spese per il personale: “un deciso contenimento dell’organico del Centro confederale, con una migliore organizzazione, una progressiva riduzione del personale investendo all’interno di questa riduzione su una presenza di compagne e giovani”.  Aboliti i 100 mila euro circa che si spendevano ogni anno per tradurre i documenti Cgil nelle regioni bilingue: anche in Alto Adige se li leggeranno ora in italiano. Tagliati del tutto nel 2009 i 100 mila euro di finanziamento assicurato ad organizzazioni dei consumatori come Sunia e Federconsumatori.
In questo quadro di lacrime e sangue, anche a costo di sacrificare i lavoratori interni del sindacato, sono state trovate risorse per la nuova missione Cgil, chiamata “investire sulle politica”. Sui questo piatto che non dovrebbe apparire nel menù tradizionale di una attività sindacale Epifani ha gettato nel 2009 una fiche consistente: “+ 720 mila euro in iniziative, dalla conferenza di programma a manifestazioni nazionali e incremento delle risorse per l’attività relativa ad immigrazione e disabilità”. Secondo il documento interno “che il ruolo della CGIL in questa fase richiede di indirizzare molte più risorse verso l’iniziativa politica. Ma dare attuazione alle nostre decisioni sul versante politico comporta una destinazione consistente di risorse sulle voci relative all’iniziativa politica e ciò dovrà essere previsto, salvo cambi di fase non preventivabili ad oggi, per più anni”.

La Bonino si vendica e disattiva il bancomat della Cgil


A vederla così sembra quasi una perfida vendetta contro il Pd che non l’ha supportata a dovere nel Lazio. Assegnato in commissione Lavoro, stampato il 2 aprile a pochi giorni dal verdetto delle regionali, è piombato come un missile su palazzo Madama il disegno di legge di Emma Bonino e dei radicali (a firma Donatella Porretti e Marco Perduca) di riforma dei sindacati. Missile vero per Cgil e Cisl e Uil perché oltre a obbligare tutte le confederazioni sindacali a una certa democrazia interna e a una trasparenza di bilancio identica a quella delle società per azioni il ddl radicale stabilisce il divieto “di ogni trattenuta sindacale, anche se derivante da contratto di lavoro”. Alla Cgil e a tutte le altre confederazioni quindi si potrà aderire come a un partito politico o a un club: solo su base volontaria e con versamento diretto. Una tragedia per tutti i sindacati, visto che i loro bilanci custoditi gelosamente nel segreto delle confederazioni (salvo sintetiche note pubblicate) si reggono in gran parte proprio su quelle trattenute sindacali automatiche contrattate più che con i lavoratori con i datori di lavoro. Nel bilancio 2008 della Uil i proventi da tesseramento ammontavano a 11,2 milioni di euro, oltre a 2,3 milioni di crediti da tesseramento. Nel documento contabile della Cisl per lo stesso anno sono indicati 19,7 milioni di euro di ricavi per “quote di tessere annuali di competenza confederazioni” e nello stato patrimoniale fra le attività 28,5 milioni di euro di “crediti per tessere”. In quello Cgil del 2006, l’ultimo reso pubblico i ricavi da tessere erano in tutto 22,9 milioni di euro e i crediti alla stessa voce verso le strutture ammontavano ad altri 3,9 milioni di euro. Ma tutte queste somme sono da considerare per grande difetto, perché quelle poche note inserite nei prospetti di bilancio resi pubblici non fotografano la verità sindacale. Potrebbe farlo un eventuale bilancio consolidato che non esiste, ma che così comprenderebbe tutte le strutture territoriali e di categoria dei sindacati. Si pensi che il reale fatturato della Cgil e spa secondo stime rese pubbliche e non smentite ufficialmente è assai più vicino al miliardo di euro che non a quella trentina di milioni indicati nei prospetti del bilancio nazionale. Più della metà di quel giro di affari dovrebbe arrivare proprio dalle trattenute sindacali dirette sui 5,7 milioni di iscritti Cgil dichiarati nel 2009. Abolire la trattenuta sindacale automatica è proprio come togliere il bancomat ai sindacati, Cgil in testa. Così invece della cassa continua da cui prelevare rischierebbero davvero la bancarotta. Perché la volontarietà del contributo diretto costringerebbe ogni volta i tesserati anche più affezionati a riflettere su cosa possano ricevere in cambio di quel gettone generosamente erogato.
Il ddl Bonino prevede il riconoscimento della personalità giuridica dei sindacati in cambio della quale si stabiliscono norme per la democrazia interna e obblighi di trasparenza. Nello statuto dei nuovi sindacati debbono essere indicati “gli organi dirigenti e le relative competenze, le procedure per l’approvazione degli atti che impegnano il sindacato, i diritti e i doveri degli iscritti, la previsione di un bilanciamento delle presenze di genere negli organi collegiali nella misura massima dei due terzi e la garanzia di presenza delle minoranze negli stessi, le misure disciplinari adottabili e le corrispondenti procedure di ricorso”. Si stabilisce l’obbligo di redazione e pubblicazione del bilancio annuale del sindacato, corredato di nota integrativa secondo quanto stabilisce il codice civile per le società per azioni. E’ obbligatoria la pubblicazione del bilancio entro il 30 giugno di ogni anno “si almeno tre quotidiani a diffusione nazionale e corredato da una sintesi della relazione sulla gestione e della nota integrativa”. In caso di violazione di questi obblighi di trasparenza oltre a una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 50 mila e 500 mila euro ai sindacati inadempienti con decreto verranno sospese le “contribuzioni a favore del sindacato o dell’associazione”. Dopo norme di agevolazione fiscale per le libere contribuzioni detraibili dalla dichiarazione dei redditi dei contribuenti fra 100 e 100 mila euro e l’esenzione fiscale per le attività sindacali proprie, arriva la mazzata dell’articolo 5 sulle trattenute sindacali: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è vietata ogni forma di trattenuta sindacale, anche se derivante da contratto di lavoro. Il pagamento delle quote associative ai sindacati da parte del lavoratore dipendente o autonomo avviene attraverso diretto versamento volontario. La legge 4 giugno 1973, n. 311, è abrogata”. Un testo chiaro e netto, che sicuramente risulterà indigesto al Pd, ma che farà convolare a nozze il Pdl rischiando così grazie ai radicali di fare trovare in Parlamento la stessa maggioranza che si è trovata in commissione di vigilanza per applicare radicalmente al par condicio in questa campagna elettorale facendo sospendere tutti i talk show.

Caso pedofilia, Papa sotto tiro per portargli via qualche miliardo di euro

C’è una sola cifra ufficiale fino ad oggi rivelata sull’entità dei risarcimenti che la Chiesa americana ha dovuto pagare per i casi di pedofilia. E’ contenuta nel rapporto stilato dalla John JAY College of Criminal Justice per la conferenza episcopale americana. Fino al 2002 ha censito pagamenti totali per 572 milioni di dollari, 499 effettuati direttamente dalle diocesi coinvolte e 72,3 sopportati da ordini religiosi. Al rapporto ogni anno vengono allegati i nuovi risarcimenti ottenuti con trattativa diretta e talvolta anche in seguito a veri e propri processi: il costo totale sopportato dalla Chiesa americana fino ad oggi si avvicina al miliardo di dollari. Ed è una cifra calcolata per difetto: molte diocesi hanno perferito tenere segreti i patteggiamenti su casi che non erano esplosi sulla stampa locale. D’altra parte bastano già i casi censiti ufficialmente: sono ben 4.392 nei soli Stati Uniti i sacerdoti o i religiosi accusati di pedofilia. Per ognuno di loro su un database pubblico all’indirizzo Internet http://app.bishop-accountability.org è archiviata tutta la documentazione raccolta negli anni. Lì da anni sono depositati tutti i documenti relativi al caso di padre Murphy della diocesi di Milwaukee. Anche i carteggi fra gli arcivescovi e il cardinale Tarcisio Bertone, all’epoca segretario della Congregazione della dottrina della Fede. Quel che sta agitando in queste ore il New York Times non è dunque uno scoop giornalistico: gli avvocati di cinque vittime degli abusi sessuali hanno fornito documentazione che era ampiamente pubblica (addirittura on line) e pubblicata dalla stampa locale. Perché allora imbastire una nuova campagna sulla base di documenti editi, già discussi e che fra il 2002 e il 2004 avevano ricevuto spiegazioni e versioni dei diretti interessati (anche queste archiviate)? Il motivo è facile da intuire, senza correre dietro a troppi complotti difficili da dimostrare. Il grosso dei casi di pedofilia negli Stati Uniti è stato gestito da cinque studi legali con sede principale in America e ramificazioni internazionali. Alcune di queste law firm hanno preso la difesa di vittime di presunti abusi sessuali da parte della Chiesa anche in Irlanda. Non è noto, ma è possibile che qualche studio stia valutando anche i casi tedeschi. Fino ad ora i cinque studi legali principali hanno ottenuto dalle trattative sui risarcimenti con le varie diocesi americane 43 milioni di dollari di fatturato, e non capita naturalmente tutti i giorni. Una cifra rilevante, che rappresenta la parte principale di una torta da 65 milioni di dollari (il resto è diviso fra singoli studi legali di provincia). Ma il monte-risarcimenti finora è stato contenuto proprio dalla decisione di delegare le trattative ad ogni singola diocesi. Anche quando le Conferenze episcopali hanno affrontato la piaga della pedofilia con pubbliche scuse, la linea dei legali di parte è stata quella di addossare la responsabilità ai singoli al massimo riconoscendo le colpe dei vertici di alcune diocesi, subito rimossi. Una linea che finora è riuscita a fare limitare i danni e anche l’entità stessa dei risarcimenti. Alzare il tiro sul Vaticano e ottenere un’ammissione di responsabilità da parte delle più alte gerarchie o addirittura da parte del Pontefice, farebbe lievitare sensibilmente il monte-cause, probabilmente provocando la bancarotta dello Stato del Vaticano. Non sono in pochi a ritenere che il pressing straordinario che si verifica in queste settimane abbia innanzitutto ragioni economiche. Gli interessi sono notevoli, e non solo quelli degli studi legali. Negli Stati Uniti in bancarotta o quasi è già andata negli anni passati la diocesi di Boston. Per fare fronte alle cause già definite, ai patteggiamenti e alle cause di pedofilia ancora in corso, ha dovuto mettere in vendita uno a uno gli immobili di un patrimonio che era stato valutato in 500 milioni di dollari. Con la pistola alla tempia e la necessità di fare cassa, è stato venduto più o meno alla metà del suo valore. C’è addirittura un gruppo imprenditoriale nato e cresciuto sul business della pedofilia negli Stati Uniti: quello italo-americano dei Follieri. Il giovane erede Raffaello alla fine si è messo nei guai ed è stato arrestato due anni fa con accuse assai pesanti. Ma nel frattempo è riuscito a fare incetta di immobili (anche grazie ad alcune vantate entrature vaticane) dalle principali diocesi coinvolte negli scandali, comprandoli in tre casi in blocco a un prezzo scontato oltre il 50% i valori di mercato e poi rivendendo il tutto con ampio guadagno. Follieri non è l’unico. E a molti fa gola una torta che se il Vaticano venisse messo ko potrebbe valere qualche decina di miliardi di euro.

Santoro e Annozero sono il peggio. Fanno danni alla giustizia. A dirlo non è il cav, ma una toga rossa

Chissà se Edmondo Bruti Liberati, procuratore aggiunto di Milano ed esponente di spicco di Magistratura democratica ieri sera ha visto anche il nuovo processo via web tv e satellite imbastito da Michele Santoro a Bologna. Un mix fra processo politico a Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi e di un processo vero, una docu-fiction con primo attore Marco Travaglio e per sceneggiatura le carte della procura di Trani. In scena anche i soliti attori che recitavano coordinati da Sandro Ruotolo i brogliacci delle intercettazioni. Chissà se l’ha visto. Perché cosa ne pensi anche una delle più autorevoli “toghe rosse” di Italia, non è più un mistero. Bruti Liberati lo ha detto fuori dai denti il 23 marzo scorso, partecipando a un seminario di formazione del Csm a Roma. Spiegando che Annozero e Santoro sono nocivi alla giustizia, e come per i fumatori di tabacco, bisognerebbe proprio dire loro di smettere. “Con le trasmissioni di Matrix su Erba”, ha detto Bruti Liberati, “è stato insidiato il primato, per me negativo, fino ad allora detenuto da Porta a Porta: si è passati decisamente al genere della docu-fiction, con verbali di intercettazione recitati da attori. Ma poiché la gara al peggio è sempre aperta, ecco Michele Santoro che con Annozero si spinge oltre e la docu-fiction si espande con la messa in scena di interi verbali di dichiarazioni recitati da attori, il tutto sotto gli occhi di una nuova sua compagnia di giro”. Benvenuta allora, secondo il procuratore aggiunto di Milano, la decisione dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni che ha posto un freno alle docu-fiction giudiziarie. Ma Bruti Liberati va oltre, perché secondo lui bisognerebbe impedire anche ai magistrati per dovere deontologico di partecipare ad Anno zero o trasmissioni simili se si mandano in onda docu-fiction giudiziarie. L’imperativo è uno solo, secondo il procuratore aggiunto di Milano: “il magistrato non coopera, nemmeno con la sua semplice presenza, a legittimare trasmissioni nelle quali si imbastisce il processo parallelo”. Bruti Liberati è nettissimo: “dai delitti di sangue si è passati ai processi di mafia, criminalità organizzata e criminalità economica, affrontati anche essi con il canone della spettacolarizzazione, che ha trovato nuovi moduli. La presenza di magistrati in trasmissioni di questo tipo a prescindere dalle dichiarazioni che rendono e anche se la vicenda non è trattata dal loro ufficio, ineluttabilmente conferisce autorevolezza al processo parallelo. Ed è il colmo che, sempre ‘a fin di bene’, si intende, per evidenziare la vera VERITA’ (maiuscolo testuale, ndr), siano proprio magistrati a sponsorizzare il processo parallelo. Da certi contesti invece un magistrato, a mio avviso, deve puramente e semplicemente tenersi alla larga. Agli inviti a partecipare a certi dibattiti televisivi è possibile rispondere NO grazie (anche se ciò- e ne ho avuta personale esperienza, suscita lo sbalordimento degli interlocutori, abituati a ricevere pressanti sollecitazioni a partecipare piuttosto che dinieghi)”. Secondo il procuratore aggiunto di Milano i magistrati non debbono accettare nemmeno la proposta di una “dichiarazione pre-registrata”, perché sarà comunque “oggetto di un montaggio e rimane incontrollabile il come la dichiarazione preregistrata sarà inserita nel corso della trasmissione”.

DinosauRAI, quelli che si piazzano sulle tv di viale Mazzini e non li scollano più

Michele Santoro è il conduttore più longevo della storia della Rai e probabilmente della stessa televisione italiana. Soprattutto è il giornalista che da più anni fa sempre lo stesso programma, cambiando di tanto in tanto il nome e la scenografia dello studio (e per un triennio anche azienda, buttandosi fra le braccia del “nemico” Silvio Berlusconi). E’ passato quasi un quarto di secolo da quell’esordio da conduttore su Rai 3, un sabato sera del lontano 1986, la prima edizione di Samarcanda. Un quarto di secolo sempre uguali a se stesso che rappresenta un primato non solo per la tv italiana, ma anche in giro per il mondo. Bruno Vespa, che spesso viene associato a Santoro per contrapposizione, in effetti ci litiga anche lui da un quarto di secolo. Ma all’epoca faceva il giornalista del Tg1, e non il conduttore. Porta a Porta ha un marchio affermato e la sua bella età. Ma a fronte del Santoro show quel pogramma è poco più di un ragazzino: è iniziato nel 1996, ed ha 14 anni di età. Prendiamo un altro dinosauro della tv pubblica, bravo, bravissimo (anche Santoro lo è) come Giovanni Minoli. Anche lui ha condotto e fatto interviste sempre alla stessa maniera. Il suo programma, Mixer, è andato in onda a lungo sui teleschermi pubblici: 18 anni. Poi Minoli ha fatto altro e se ogni tanto ancora oggi riesuma il modello Mixer, lo fa in punta di piedi, sul satellite o non occupando più la programmazione di punta dell’azienda. Perché finchè funziona il modello Santoro, che provi a proporgli di fare altro e lui scatena piazze e procure per la lesa maestà, nessun altro può crescere nella televisione pubblica. Non è un caso se l’unico nuovo conduttore emerso in questi anni e a cui è stata data una vera chance, e cioè Giovanni Floris con la sua Ballarò, ce l’ha fatta solo grazie al contestatissimo editto bulgaro di Berlusconi. A Santoro non fu rinnovato il contratto (grazie a quel gesto ora starà in tv a vita), i palinsesti si liberano all’improvviso e un giovane come Floris- che come si è visto aveva talento- è potuto emergere. Senza quell’editto sarebbe ancora dietro a una scrivania polverosa ad attendere che qualche conduttore decidesse di rinunciare alla sua dittatura nell’etere. E avrebbe avuto qualche difficoltà anche a conquistarsi un posto in prima fila almeno come conduttore del Tg. Anche lì non scherzano. Si ironizza tanto sull’attaccamento alle poltrone dei politici e della Prima Repubblica, ma i giornalisti, anche nella seconda Repubblica non sono da meno. Al Tg1 c’è una conduttrice ex giovane (ma anziana non è) che però offre il suo bel volto ai telespettatori da un’epoca in cui perfino Santoro era ancora relegato a qualche rubrichetta di cinema e cultura sul Tg3. E’ Tiziana Ferrario, che dal 1982, spostandosi da un’edizione all’altra, conduce il Tg1. Anche qui un primato assoluto, sfiorato solo da un altro conduttore ancora in servizio, Maurizio Mannoni del Tg3, che ha iniziato nel 1987, e sono 23 anni. Terzo posto per Maria Luisa Busi, che è lì da 19 anni e sembra ancora una ragazzina. Quarta piazza per Maria Concetta Mattei (18 anni al Tg2). Ma non scherzano nemmeno Paolo Di Giannantonio (15 anni), Dario Laruffa (15 anni) e Attilio Romita (15 pure lui, ma fra Tg2 e Tg1). Intendiamoci anche altri conduttori di tg hanno dominato per anni sullo stesso teleschermo. Ma non lo fanno più, come Bianca Berlinguer (22 anni) e Lilly Gruber (19 anni). Hanno scelto ruoli diversi e dato la possibilità a qualche giovane di non trascorrere tutta la vita in attesa della propria chance. Tanti anni così e si rischia pure di essere ripetitivi. Se si percorre l’orologio della storia di Santoro si trova sempre lo stesso copione immancabile. Stesse trasmissioni, stesse polemiche, stessi magistrati pronti a intervenire, stesse reazioni: scioperi bianchi, piazze. Come ieri sera. Perché anche il Santoro day di Bologna non è affatto una novità. Accadde durante la campagna elettorale del 1992. In onda stava andando Samarcanda, e una puntata scatenò furiose polemiche: quella sull’assassinio di Salvo Lima. Santoro chiese alle folle antimafia di Palermo se erano contente di quella scomparsa, e venne giù il mondo. Gianni Pasquarelli, direttore generale della Rai, propose al consiglio di sospendere tutte le trasmissioni, Samarcanda compresa, durante la campagna elettorale. E così si decise: in onda solo le tribune elettorali. Non si sa come, Santoro riuscì a reagire e a mandare in onda uno spot di protesta: sigla di Samarcanda, ospite in studio e tutti zitti. Perché la Rai aveva messo il “bavaglio”. E non finì lì. Sciopero bianco, sit in di protesta in Sicilia, Samarcanda itinerante. E naturalemte minaccia di lasciare la Rai e denuncia in procura di Roma per sospensione di pubblico servizio e abuso di ufficio (Pasquarelli fu indagato). Bis nel 1993, con la Rai dei professori (Claudio Demattè presidente, Gianni Locatelli direttore generale, Pierluigi Celli capo del personale). Le Santoro-news furono ribattezzate “Il rosso e il nero”. Dovevano partire un giovedì, ma la rai non aveva promosso un suo caporedattore come voleva Santoro. Lui protestò come se quello fosse atto di censura. E annunciò di non andare in onda, sollevando sindacati e piazze. In nessuna azienda questo sarebbe stato tollerabile da parte di un dipendente. Ma non era un dipendente qualsiasi: era Santoro, il dittatore della tv che sarebbe durato al potere più di Benito Mussolini. E la purga ha riguardato tutti gli altri. Lui è ancora lì.

Bernabè sta pensando all'azione di responsabilità nei confronti di Tronchetti Provera

C’è un dossier da qualche giorno sulla scrivania dell’amministratore delegato di Telecom Italia, Franco Bernabè, dietro la decisione di rinviare l’approvazione dei conti consolidati 2009 del gruppo. Un faldone di documenti che la Deloitte insieme al nuovo amministratore delegato di Telecom Sparkle, Andrea Mangoni, ex numero uno di Acea, ha raccolto su mandato dell’azionista all’indomani dell’esplosione dell’inchiesta della procura di Roma. La Deloitte ha acquisito copia della documentazione in mano ai magistrati e scavato a fondo nella sede di corso Italia a Roma anche su tutta la corrispondenza fra il management della controllata e la società madre. Il compito della struttura di legal account di Deloitte è stato puramente investigativo per offrire all’azionista documenti e analisi sul rapporto fra controllata e controllori fin dagli albori dei fatti che hanno portato ai numerosi arresti (da Gennaro Mokbel a Silvio Scaglia fino all’ex amministratore delegato di Telecom Sparkle, Stefano Mazzitelli). Secondo fonti autorevoli interni al gruppo, il fascicolo documentale per ora provvisorio fornirebbe all’azionista elementi anche seri sulla conoscenza a livello apicale di tutto il business operato dalla controllata nel periodo 2003-2007. Non c’è al momento la smoking gun, la prova regina di una conoscenza da parte del vertice apicale di Telecom Italia all’epoca anche delle operazioni fittizie servite ad aggiustare i bilanci di Sparkle. Ma gli indizi non sono pochi, e comunque gli elementi essenziali delle operazioni Sparkle sarebbero stati forniti anno per anno alla capogruppo sia in occasione della presentazione dei budget che come pre-informativa all’approvazione dei bilanci. Ipotesi questa che era stata presa in considerazione anche dalla stessa magistratura, vista l’entità delle somme poste sotto sequestro cautelativo in occasione dell’applicazione delle ordinanze di custodia cautelare: 298 milioni di euro. Una cifra consistente anche per un gruppo grande come Telecom, tanto più che non erano stati appostate riserve ad hoc nel fondo rischi della controllata, che da quanto è venuta a conoscenza dell’inchiesta (fra la fine del 2006 e l’inizio del 2007) ha sempre difeso la propria linea di condotta. Gli elementi raccolti dal Deloitte legal team, su cui viene mantenuto il più rigoroso riserbo, secondo le indiscrezioni che Libero è riuscito a raccogliere, porrebbero al nuovo management di Telecom Italia, e quindi a Bernabè e al presidente Gabriele Galateri di Genola, anche l’ipotesi di un’azione di responsabilità nei confronti del management precedente. Il tema è naturalmente molto delicato, ma sono ormai molti gli elementi raccolti anche su altre vicende (non ultima quelle relative al Tiger team e alle intercettazioni illegali di cui è accusata la vecchia struttura di security capeggiata da Giuliano Tavaroli) che secondo i consulenti di Bernabè imporrebbero oggi l’avvio di una azione di responsabilità nei confronti del consiglio di amministrazione di cui era presidente Marco Tronchetti Provera con Carlo Buora amministratore delegato. Sarebbe- secondo quanto risulta a Libero che non ha però trovato conferma ufficiale dalla società- anche il dossier “azione di responsabilità” ad avere consigliato a Bernabè e Galateri il rinvio del consiglio di amministrazione della capogruppo che ieri avrebbe dovuto approvare i conti 2009. Dal gruppo si ricorda solo come l’attuale management Telecom avesse reso chiaro fin dal 25 febbraio scorso come si sarebbe fatto nel più breve tempo possibile e con assoluta determinazione luce sullo scandalo Sparkle che aveva portato all’inchiesta della magistratura. E in breve tempo sono stati sospesi altri dirigenti coinvolti che non erano ancora usciti dal gruppo. Ma ora lo scontro è destinato a salire sensibilmente di livello.

Ingrassato con la Rai, Santoro non si può mai mettere a dieta

Articolo 27 del contratto di lavoro giornalistico: “il direttore, il condirettore, il vicedirettore può essere licenziato anche in assenza di giustificata causa o di giustificato motivo”. Vale per tutti i giornalisti italiani meno uno: Michele Santoro. Per lui e per la Rai che sarebbe il suo editore, non vale il contratto di lavoro giornalistico. E’ direttore a prescindere e a vita, per editto (italiano, ma assai più bulgaro di quello celebre) di un magistrato. Non è licenziabile, non è contestabile, non è sostituibile. Si trattasse di un qualsiasi altro giornalista, di quelli che a differenza sua sono sottoposti a regole e contratti, domani sera andando in onda da Bologna dovrebbe dire addio alla Rai per evidente violazione dell’esclusiva contrattuale. E invece non accadrà, perché Santoro è protetto da un lodo assai superiore a quello ideato da Angelino Alfano: per lui immunità assoluta, e non per via costituzionale. Nemmeno ha dovuto scomodare una legge. E’ bastato un editto di un giudice. Da ore gli avvocati della Rai sono al lavoro per verificare la violazione del contratto di esclusiva che Santoro ha firmato in cambio di oltre 700 mila euro, ma è tempo buttato via. Come con una certa amarezza sosteneva ieri un alto dirigente: “tanto esiste in Italia un giudice disposto a dare ragione alla Rai contro di lui? Possiamo avere tutte le ragioni del mondo. Nessuno ce le riconoscerà”. E’ vero: come si può pensare che ci sia un giudice disposto a dare torto al nuovo leader del partito delle procure? Lui è fuori dalla legge. Vi è sopra. In più è pure un incantatore di serpenti, talmente abile da avere schierato a propria difesa proprio quei babbioni del sindacato unico dei giornalisti. Che c’entra la Fnsi a protezione di Santoro? E’ come se la Caritas si mobilitasse a garantire un pasto caldo a Silvio Berlusconi. Michele chi? Occupa militarmente una serata tv Rai dal 1987. Lì si è fatto blindare dall’editto italo-bulgaro, come un tappo sul prime time della tv di Stato. Per colpa sua non avranno chance nuovi talenti, non potrà crescere un giovane, qualche precario resterà precario a vita. Basta guardare quel che è accaduto in queste settimane. Con una decisione più che discutibile la Rai ha sospeso in campagna elettorale tutti i talk show. Meno puntate significa anche meno lavoro. Meno stipendio per tutti quelli che lì lavoravano e non essendo vip non godevano di un minimo garantito. Che hanno fatto Fnsi e Usigrai? Bracci di ferro, manifestazioni, comizi di fuoco per ottenere che a parte i contratti che durano pochi mesi e pochi euro, ai poveri precari non fosse tolto un mese di stipendio così? Figurarsi! Se ne preoccupa Santoro di quei poverelli? No, lui è impegnato a tenere alto il suo peso politico, che vale oro. E quindi, se il conduttore principe se ne frega dei suoi precari, ci deve pensare il sindacato? Quello come sempre è alla corte del vero potente, mica lì a curarsi dei poveracci. Cari signori della Rai, ritirate allora i vostri avvocati e giuristi. Inutile aggiungere al danno anche lo sberleffo di Santoro e dei suoi amichetti in tribunale. Arrendetevi, lui non è un dipendente. Da tempo le parti sono invertite. E’ un capo di partito, il più forte che c’è. Lo volevano fare fuori ai tempi di dc e psi. Ma è ancora lì, nello stesso posto. Sono democristiani e socialisti a non esserci più. Quella di domani sera sarà solo una manifestazione di partito. Lo ha certificato Sky Tg24 che la trasmetterà in diretta: “l’abbiamo fatto anche con il Pdl a San Giovanni”. E allora beccatevi l’onorevole Santoro. Non si nega una piazza per un comizio in campagna elettorale. Poi ci dirà la questura quanti l’avranno seguito…

Per non pagare un euro il pm Spataro invoca il suo lodo Alfano

Il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, invoca per sé una sorta di lodo Alfano per proteggersi dall’azione giudiziaria di un collega. Il pm che è stato uno dei più fieri oppositori del lodo Alfano e dell’immunità parlamentare in genere (il prossimo 24 marzo spiegherà la sua avversità in un convegno a Napoli), condannato dopo una lunga battaglia legale in appello a risarcire simbolicamente con un euro la diffamazione di un collega, Angelo Di Salvo, ha appena presentato ricorso in Cassazione invocando l’immunità riservata ai consiglieri del Csm. I fatti oggetto della controversia fra magistrati che ha visto capitolare Spataro risalgono infatti al 2002, quando il procuratore aggiunto di Milano era membro togato del Csm. E la legge sull’immunità per tutte le espressioni di pensiero e gli atti compiuti durante la permanenza del Csm esiste davvero: è la numero 1 del 31 gennaio 1981. Pochi magistrati hanno fatto ricorso a quello scudo previsto dall’articolo 5 della legge. E nessuno l’ha mai impugnata davanti alla Corte Costituzionale, anche se nel dibattito scientifico quella norma è stata assai criticata. E’ praticamente identica al lodo Alfano: una legge ordinaria (che secondo la recente pronuncia della Corte Costituzionale sarebbe dunque illegittima) che introduce una immunità identica a quella prevista dall’articolo 68 della Costituzione per i parlamentari anche per tutti i membri del Csm che è un organo solo di rilevanza costituzionale. La contesa fra i due magistrati da cui Spataro oggi vorrebbe essere protetto grazie a quel Lodo Alfano ad hoc per il Csm risale al 2002. Fu allora che il giudice campano Angelo Di Salvo si iscrisse alla maling list “Civilnet” di cui era fondatore e amministratore l’attuale procuratore aggiunto di Milano. A Di Salvo qualche collega aveva spiegato che grazie a quello strumento via e-mail avrebbe potuto leggere in anteprima circolari e interpretazioni giurisprudenziali utili al suo lavoro. Dopo qualche settimana il magistrato campano si accorse che quella mailing list era assai poco tecnica. Era invece una sorta di manifesto politico di giudici assai schierati. In una delle mail arrivò una lunga dissertazione di un magistrato di Lecce sul “riconglionimento” (testuale) degli italiani che avevano votato per Silvio Berlusconi. Di Salvo raccolse il materiale ricevuto, lo inviò al Csm ponendo un quesito: “è così che si può difendere l’imparzialità e l’obiettività della nostra categoria?”. Invece di essere ringraziato dal supremo organo della magistratura, fu lui ad essere messo sotto processo. A intentarglielo, in seduta pubblica e trasmessa da Radio radicale, proprio Spataro. Che lo accusò di violazione della privacy e – per farla breve- annunciò di volere proporre l’apertura di un fascicolo sul collega, descrivendolo come inattendibile e già coinvolto in procedimenti penali e disciplinari. Quei fatti a cui Spataro alludeva risalivano a 11 anni prima, e per altro si erano chiusi con la piena assoluzione di Di Salvo. Questi, ascoltando la seduta, si risentì e querelò Spataro per diffamazione. In primo grado il procuratore aggiunto di Milano è stato assolto, e anzi ha ottenuto lui un risarcimento di 12 mila euro subito richiesto con atto ingiuntivo e pignoramento di un quinto dello stipendio del collega che lo aveva querelato. In secondo grado la sentenza è stata ribaltata, e Spataro condannato al risarcimento simbolico del collega per un euro, oltre alla restituzione di quanto pignorato e al pagamento di parte delle spese processuali. Ora il caso approda in Cassazione, di fronte a cui è stato invocato quel lodo Alfano per i giudici del Csm che se applicato d’ora in avanti potrà essere ribattezzato “lodo Spataro”. A meno che sia il ministro Angelino Alfano questa volta a impugnarlo per ripicca di fronte alla Corte Costituzionale.

Giù le mani dalle nostre indennità! Basta toccare la loro tasca e perfino l'Idv si trasforma in casta

Riformate tutto, ma non tagliateci lo stipendio. A sorpresa in Senato è risorta fra le fila dell’opposizione la casta, che sta facendo fuoco e fiamme per garantire superstipendi ai prossimi eletti nei consigli regionali. Pd e Idv hanno infatti sollevato eccezione di costituzionalità nei confronti dell’articolo 3 del decreto legge a firma Silvio Berlusconi, Roberto Calderoli ed altri, che punta a calmierare fra le altre anche le spese delle Regioni per il funzionamento dei propri organi istituzionali: consiglio e giunta. A dire il vero non è che avesse calato la mannaia sugli stipendi. Ha solo proposto una norma quadro di buon senso, lasciando piena autonomia a ciascuno: “Ciascuna Regione”, stabilisce l’articolo, “a decorrere dal primo rinnovo del consiglio regionale successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto, definisce l’importo degli emolumenti e delle utilità, comunque denominati, ivi compresi l’indennità di funzione, l’indennità di carica, la diaria, il rimborso spese, a qualunque titolo percepiti dai consiglieri regionali in virtù del loro mandato, in modo tale che non accedano complessivamente, in alcun caso, l’indennità spettante ai membri del Parlamento”. Insomma: superstipendi sì, ma non più di quelli che si concedono a deputati e senatori. Sembrava filare liscia, e invece, apriti cielo! Quando hanno visto quel taglio per i loro beniamini, coro di proteste nelle fila del Pd e perfino dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. “E’ incostituzionale, è incostituzionale!”, hanno tuonato all’unisono scoprendosi improvvisamente superfederalisti, e a poco è servita la spiegazione della maggioranza di non volere prevaricare le Regioni: ognuna deciderà autonomamente, nel limite però di un tetto di spesa che anche i cittadini dovrebbero apprezzare. Il braccio di ferro è in corso, e per ripicca Pd e Idv hanno inondato le commissioni riunite (Affari costituzionali e Bilancio) di palazzo Madama di centinaia di emendamenti. Che non solo puntano a sventare il calmiere governativo sugli stipendi della casta, ma a fare allargare i cordoni della borsa nei confronti dei loro beniamini e affiliati, tutti professionisti della politica che non saprebbero come sbarcare il lunario senza le generosità pubblica. Nelle fila del Pd pioggia di proposte per fare risorgere dopo il taglio governativo (già ammorbidito dalla Camera)le comunità montane anche quando sono a livello del mare. Clamoroso fra i tanti un emendamento dell’Italia dei valori, primo firmatario Pancho Pardi (ma ci sono anche altri pezzi grossi come Felice Belisario e Stefano Pedica) che getta nel cestino anni di prediche inutili (ed evidentemente un po’ false) sui costi della politica e la necessità di tirare la cinghia. I valorosi dipietristi (emendamento 4.53) chiedono infatti di restituire ad amministratori e consiglieri di enti locali dalle mani bucate quel taglio del 30% dei loro stipendi che nel 2009 aveva loro comminato Giulio Tremonti come punizione per non avere rispettato l’equilibrio dei conti previsto dal patto di stabilità. La nuova casta è dunque tornata.

L'ultima dei pm sul cav: condannatelo, perchè delinque solo a parole. Ma poi non fa nulla...

Di cosa è accusato Silvio Berlusconi dai magistrati di Trani? Di avere fatto pressioni e tentato di punire un mezzo di comunicazione, la Rai. Questo a Trani. Perché anche a Milano Berlusconi è accusato. E questo certo non farebbe notizia. Non fosse che l’accusa poggia sull’assunto diametralmente opposto: quella di non avere mai manifestato “intenti punitivi nei confronti dei mezzi di comunicazione”. Lo sostiene il giudice milanese Alda M. Vanoni in un documento inviato alla Camera il 13 febbraio scorso. Detta così sembrerebbe una cosa da pazzi. Ma non lo è. Perché a Milano come a Trani l’obiettivo è lo stesso: incastrare Berlusconi. Per farlo in Puglia bisogna dimostrare quella tesi, del Berlusconi che minaccia la libertà di comunicare. Per farlo a Milano bisogna dimostrare la tesi opposta. Lì infatti il giudice si è trovato una causa civile del gruppo Espresso contro il premier, che pubblicamente davanti a imprenditori si era lamentato dell’atteggiamento critico di quei giornali dicendo “non dovreste dargli più pubblicità”. A processo Berlusconi ha sollevato lo scudo costituzionale dell’immunità: “era una battuta politica, insindacabile”: E ai giudici, che altrimenti dovevano fermarsi, non è restata altra arma che accusarlo di essere quasi un santo: “Non sembra potersi collegare ad alcuna attività parlamentare svolta dall’onorevole Berlusconi, dato che le sue iniziative non hanno mai manifestato intenti punitivi nei confronti dei mezzi di comunicazione”. Morale della favola di Berlusconi imputato: “Sei colpevole? Ti condanno”. “Non sei colpevole? Male. Allora ti condanno per la tua intollerabile innocenza”.

Intercettare e incastrare è così bello che è addirittura meglio di salvare la vittima di un delitto. Il manifesto dei pm secondo Antonio Di Pietro

La difesa era scontata. Per uno come Antonio Di Pietro qualsiasi inchiesta possa mettere nel mirino “quel piduista di Silvio Berlusconi”- come ha detto ieri nel morbido salotto di Repubblica tv- è ottima a prescindere. E per difendere appunto a prescindere i magistrati di Trani l’ex pm divenuto leader politico ieri ha spiegato che quando lui era al loro posto faceva nello stesso modo: “non è che se io facevo inchieste a Milano e poi sentivo al telefono qualcuno che pagava tangenti a Napoli, Canicattì o Mondovì dicevo alt, non mi riguarda. Intercettavo tutto e poi alla fine decidevo di inviare gli atti a Napoli, Canicattì o Mondovì”. Quindi vero che i pm di Trani stavano indagando e intercettando sullo “scandalo dell’usura sulle carte di credito” (un clamoroso affaire del valore di 560 euro), ma se intercettando per quello hanno scoperto reati ben più grossi che riguardano – ha detto testualmente Di Pietro- “il presidente del Consiglio e il presidente della Rai, Minzolini”, benissimo hanno fatto a continuare a intercettare. Ed ecco l’asso sfoderato dal leader dell’Italia dei Valori per convincere qualche dubbio degli astanti: “ dimenticatevi questi fatti. Facciamo finta che ad essere intercettati a Trani fossero un gruppo di spacciatori di cocaina e si procedesse per quel reato. Mentre sono intercettati entra un’altra persona che dice ‘Ho saputo che domani Giuseppe va ad ammazzare sua moglie’. Il pm che deve fare? Fare finta di non sentire perché si sta occupando di un altro reato? No. Naturalmente intercetta anche il telefono di Giuseppe così capisce se si trattava di una battuta o se davvero quello lì fa anche l’omcidio e così si poi lo si incastra”. Ecco, con il suo discorso in parole povere fra mille strafalcioni in italiano, Di Pietro ha proprio centrato l’argomento chiave per cui non solo quelle di Trani, ma gran parte delle intercettazioni fatte dalle procure italiane sono inutili. Perché nella testa Di Pietro, che per fortuna non fa più il magistrato, e molti suoi amici pm che purtroppo sono in servizio hanno proprio solo quello: incastrare colpevoli su colpevoli con il giochino facile delle intercettazioni. Una persona normale che ha la fortuna di sentire uno annunciare “Giuseppe domani ammazza sua moglie”, che fa? Cerca subito Giuseppe e prova in ogni modo a sventare un uxoricidio, salvando la vita della povera donna. A Di Pietro e ai suoi amici pm una soluzione così evidente non salta nemmeno nell’anticamera del cervello: loro intercettano e incastrano. Se prendono Giuseppe con l’arma in mano dopo il delitto, sono felicissimi. E magari aspettano un po’ prima di farlo. Perché se continuano a intercettare Giuseppe a lungo, chissà mai che non commetta altri delitti e così alla fine si imbastisce un bel processone sicuro per strage. Questo manifesto politico del partito delle procure con lo slogan “intercettate, intercettate, qualcosa resterà” non è stato l’unico riferimento alla vicenda di Trani dell’intervista a Di Pietro. Il leader dell’Italia dei Valori sbagliando nomi e cariche (“l presidente della Rai, Minzolini” è in realtà il direttore del Tg1) ha protestato contro l’attentato alla libertà di stampa che Silvio Berlusconi avrebbe commesso al telefono lamentandosi sia di giornalisti di Repubblica che di Michele Santoro. Ha sostenuto che erano sacrosante le puntate di Annozero sul “racconto di Mills” e sul “racconto del pentito Spatola” (lapsus: si trattava del racconto di Spatuzza. Spatola era invece un pentito del processo a Giulio Andreotti). Ha tuonato contro Berlusconi indagato che manda gli ispettori: “Vuole fare il prete e il sacrestano” (paragone incomprensibile, che vorrebbe sottolineare l’antinomia dei ruoli). E si è morso la lingua a proposito della nota di Giorgio Napolitano che frenava gli ardori del Csm: “ha detto le cose che potrebbe dire il mio vicino di casa. Un colpo al cerchio e uno alla botte”. Di Pietro quella lingua se l’è morsa meno poi affrontando temi politici e commentando le alleanze di Pierferdinando Casini un po’ a destra e un po’ a sinistra: “Casini fa il mestiere più antico del mondo…”.

Ma quanto minacciano la Rai questi politici! Bersani l'ha fatto tante volte da sembrare un terrorista

Il Pd deve ringraziare che nessun procuratore di provincia ha provato a mettere ai suoi dirigenti il telefono sotto controllo. Altrimenti il partito oggi sarebbe travolto dalle inchieste su concussione e minacce nei confronti dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni. Perché è proprio il partito di Pierluigi Bersani (e le formazioni politiche che hanno originato il Pd) quello che negli anni della par condicio più di tutti ha provato a fare mettere il bavaglio a trasmissioni televisive e perfino ad articoli di giornale che non ne tessevano le lodi. Per 98 volte il Pd o suoi singoli esponenti hanno presentato esposti all’Authority, ed è un record assoluto. Perché al secondo posto figurano i radicali (alleati del Pd) che per 70 volte hanno cercato di mettere il bavaglio a tv e giornali. Le attuali opposizioni da quando esiste la par condicio hanno tentato questa “minaccia” 190 volte, il Pdl (e in qualche caso Silvio Berlusconi come singolo firmatario) ci ha provato solo 27 volte, e visto che la Lega è caduta in tentazione altre 9 volte, l’attuale governo lo ha fatto 36 volte. A ragionare come i giudici di Trani, la maggioranza ha minacciato la libertà di stampa una volta ogni cinque minacce degli avversari. Vero che Michele Santoro è stato uno dei bersagli preferiti: 27 minacce politiche contro i programmi da lui condotti. Ma anche qui c’è una sorpresa: nove volte da Berlusconi & c e 13 volte dal centrosinistra che avrebbe dovuto incensarlo. Altra vittima eccellente della politica è stato Bruno Vespa: ha incassato in questi anni 21 minacce, 16 delle quali provenienti dal centrosinistra. Terzo posto per Emilio Fede, con 16 minacce, quasi tutte provenienti dalle fila di Pd, radicali e dintorni. Se si guardano invece le aziende, non c’è proprio par condicio: 147 volte minacciata la Rai, 90 volte Mediaset e 17 volte La7. Fra le principali vittime, grazie alla rilevanza avuta durante le amministrative, la TgR Rai, con 16 minacce rivolte, 7 dal centro destra e 6 dal centrosinistra. Nel mirino delle pressioni sulla par condicio anche la stampa quotidiana, minacciata ben 236 volte. In testa i quotidiani Finegil del gruppo Espresso a pari merito con Il Messaggero (21 minacce ciascuno), seguiti da Il Giornale (20 minacce), dal Resto del Carlino (19 minacce), dal Corriere della Sera (17 minacce) e da Repubblica (13 minacce). Ma se in tanti fanno la faccia feroce e mostrano i denti, il risultato non è poi diverso da quello emerso dalle telefonate di Trani fra Berlusconi e il commissario dell’Authority tlc, Giancarlo Innocenzi: un buco nell’acqua. Nel 75 per cento dei casi di minaccia l’autorità di garanzia nelle comunicazioni infatti se la cava con un’alzata di spalle: archivia o dichiara manifestamente infondati i rilievi. In un caso su quattro invece interviene, quasi sempre per chiedere al presunto colpevole di sanare autonomamente la possibile violazione di parità di condizioni fra le forze politiche. Anche qui di solito la riparazione avviene subito. In caso contrario l’Autorità dà una bella tiratina di orecchie al colpevole e tutto finisce a tarallucci e vino. In pochissimi casi arriva davvero la punizione voluta da chi aveva minacciato. Si contano 12 casi dal 1994 (quando l’autorità non esisteva e c’era ancora il Garante unico). Sette volte la sberla è arrivata a Mediaset e cinque volte alla Rai. Si strapperà i capelli, ma la vera vittima delle minacce, non è Michele Santoro. Il più colpito da frustate dei politici concessori è infatti Emilio Fede con il suo straordinario Tg4, che dal 1994 ad oggi si è visto comminare sanzioni per 850 mila euro (con decisioni talvolta ribaltate in pretura o davanti al Tar). Il povero Santoro vale come vittima tanto quanto Irene Pivetti: 150 mila euro a testa. L’ex deputato leghista si è presa la sanzione minacciata in unica soluzione: nel 2006 per un programma su Rete 4. Santoro invece per fare 150 mila euro ci ha messo otto anni. I primi centomila sono arrivati nel 2001 per una puntata del Raggio Verde in cui aveva linciato senza contraddittorio Marcello Dell’Utri. Gli altri sono stati aggiunti nel 2009 per una puntata di Annozero punita per la presenza di Beppe Grillo che insultava senza freno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il senatore Pd nonchè celebre oncologo Umberto Veronesi. Due uomini politici nati e cresciuti nel centro sinistra.

Santoro, da Servire il Popolo a Servire i pm...

Eccolo il leader che non c’era del partito che c’è più di tutti. Si sono trovati a Trani, Michele Santoro e il partito dei giudici. A “Michele chi?”, che in venti anni le ha provate tutte o quasi, mancava il partito della vita. Le toghe rosse erano prive di un vero leader. Sì, c’era Marco Travaglio, il giornalista più coccolato dalle procure, ma lì mancava la stoffa per l’avventura. Bravo ragazzo, solo che con la politica c’azzecca poco. Che meraviglioso incontro a Trani! Il tribuno televisivo insediato a vita nei palinsesti Rai per decisione giudiziaria di fronte all’ultima leva dei pm che impazziscono per la ribalta del piccolo schermo. Michele già calato nella parte, sotto braccio il faldone dei faldoni, quello che può fare aprire altre mille inchieste, centinaia di intercettazioni, mettere a soqquadro il Parlamento, fare ballare il settimo piano della Rai, rivoltare come calzini Autorità di garanzia, commissioni di vigilanza, maggioranze e opposizioni. Il matrimonio atteso da una vita. Perfino per uno come Santoro, svezzato dai maoisti di Servire il popolo che ai giudici avrebbero volentieri appiccato il fuoco. Poi cresciuto nella Telekabul di Alessandro Curzi e Angelo Guglilemi, da cui si è smarcato in fretta in cerca della piazza di cui diventare capopolo. Samarcanda, Il Rosso e il Nero, Temporeale, la fuga in braccio al nemico (Moby Dick su Mediaset), Il Raggio verde, Sciuscià, Annozero. Animale televisivo ma soprattutto politico in cerca della piazza della sua vita. Qualche giro di valzer ( e di Valter) con il pci-pds-ds-pd che lo ha portato perfino a Strasburgo. E l’attrazione per compagnia dell’antimafia, girotondi, bandiere arcobaleno, grillini dell’antipolitica, fazzoletti viola. Sempre inquieto, perché alla fine mai nessuno si è fidato di lui, l’ha voluto fino in fondo. Salvo il periodo dorato a Mediaset e – ironia della sorte- l’epoca gloriosa con i superpoteri affidatigli da Letizia Moratti nella prima Rai del centrodestra, Santoro non è riuscito a digerirlo mai nessuno dei manager delle aziende in cui lavorava. Qualcuno l’ha preso di petto, ed è andata male: toccare Michele chi? è come mettere le mani bagnate su fili scoperti della luce: si resta fulminati. E quando il poveretto se ne accorge troppo tardi, agonizzante a terra, manca ancora il colpo di teatro finale, quello che renderà chiaro a tutti come quello a terra sia il carnefice, e l’immacolato Santoro la povera vittima della prepotenza altrui. Uno così era proprio predestinato a diventare il leader naturale del partito dei giudici. Hanno lo stesso dna. Li sentite da anni? Hanno scagliato frecce, bombe a meno, scud sempre contro lo stesso bersaglio. E se quello prova a difendersi, ad alzare almeno uno scudo a protezione, le parti si invertono: diventa lui l’invasore e i poveri magistrati gli assediati. Certo a Trani avevano le idee un po’ confuse. In questi giorni anonime fonti giudiziarie dal sen sfuggite avevano sparacchiato un po’ di tutto. Berlusconi indagato anzi no. Berlusconi, Minzolini e Innocenzi indagati per concussione. Solo uno. No, due. Macchè, tutti e tre. Smentisco tutto, Minzolini non è indagato. Che avete capito? E’ indagato sì, ma in un altro contesto. Interdetto Berlusconi dai pubblici uffici. Ma no, interdetto Minzolini. O Innocenzi? O forse interdetto a tutti l’uso dell’American Express. Beh, un po’ di caos c’era laggiù. Forse il pm, Michele Ruggiero, era troppo giovane. Si era distratto pensando a villetta e terreni appena donati dai genitori a due passi dal lungomare di Bari. Ma ora niente paura. E’ arrivato a Trani il procuratore capo, anzi il capo dei procuratori. Ci pensa Santoro a dare una dritta all’inchiesta, a farle fare il salto di qualità. Con il suo faldone di carte subito segretate ha reso inutile il viaggio degli ispettori di Angelino Alfano, ormai un passo indietro rispetto agli eventi. Ha già ottenuto la generosa protezione del Csm, che ha blindato l’inchiesta contro i diritti assegnati dalla Costituzione al ministro della Giustizia. La rivoluzione è già iniziata. L’ex leader di “Servire il popolo”, neo fondatore di “Servire i pm” è già lì, sulle barricate.

Barzelletta sul Berlusca indagato in campagna elettorale? Sì, ma è vecchia, raccontatene un'altra

A raccontarla una sera fra gli amici, ti prenderebbero subito per rimbambito. “La sapete l’ultima? Quella su Silvio Berlusconi indagato a due settimane dal voto?”. Giù fischi: “Uh, è vecchia, vecchissima”. Eppure è la barzelletta che funziona meglio sotto elezioni. Anche questa volta: Silvio Berlusconi è indagato a Trani. Il reato è gravissimo: gli è scappato un vaffa (forse più di uno) al telefono nei confronti di Michele Santoro. Purtroppo nel codice penale si sono dimenticati un articolo in proposito, così i magistrati di Trani per sottolineare il peso di questa lesa maestà, hanno pensato bene di affibbiare al presidente del Consiglio ben due reati: concussione e minacce. La vittima di tanta ferocia istituzionale sarebbe Giancarlo Innocenzi, commissario dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni. Berlusconi si è lamentato con lui a proposito di due puntate di Annozero, quelle che hanno reso una star prima Patrizia D’Addario e poi il pentito-bluff di mafia Gaspare Spatuzza. E siccome l’autorità che si chiama di garanzia non riusciva a garantire nonostante le pubbliche proteste la vittima di questo linciaggio tv, che era appunto Berlusconi, lui si sarebbe sfogato al telefono con Innocenzi: “altro che autorità, siete ridicoli! Dovreste dimettervi tutti”. Nella barzelletta che si racconta a Trani questa sarebbe la terribile minaccia. Se in Italia dici a qualcuno “dovresti dimetterti”, puoi stare certo che il giorno dopo il poveretto impaurito lascia subito la poltrona. E infatti Innocenzi è lì al suo posto, dove per altro l’aveva nominato anni fa Forza Italia, partito guidato dal Cavaliere. Con l’iscrizione ufficiale del premier nel registro degli indagati, alla procura di Trani sta però per sfuggire il boccone più grosso dell’inchiesta: la competenza diventa di Roma, e gli incartamenti vanno spediti tutti nella capitale. Dove i magistrati rideranno assai poco: se i magistrati lì non infilzeranno subito Berlusconi, finiranno sbranati da colleghi e giornalisti che già preparano titoloni sul “Porto delle nebbie”. A questo punto la barzelletta non funziona più. Altro che ridere, non si capisce più nulla. Infatti i magistrati pugliesi hanno iscritto nel registro degli indagati anche l’oggetto delle minacce, Innocenzi, per favoreggiamento. Il poveretto così si trova nel duplice ruolo di vittima e di carnefice. Indagato c’è anche il direttore del Tg1, Augusto Minzolini, e finalmente si conosce l’ipotesi di reato: rivelazione del segreto istruttorio. Qui ancora ci sarebbe un po’ da ridere. Perché l’accusa viene proprio da quei magistrati che hanno così blindato a doppia mandata l’inchiesta segretissima, da trovarsela pubblicata in lungo e in largo sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. L’accusa a Minzolini è di avere divulgato a mezzo mondo di essere stato sentito come teste ai primi di dicembre nell’inchiesta sull’American Express. Gli avevano detto “mi raccomando, resti fra noi”, e invece lui è stato intercettato con mezzo mondo mentre raccontava l’esperienza vissuta. In questi giorni il direttore del Tg1 deve avere sensibilmente peggiorato la propria situazione: l’inchiesta era ancora segretissima per tutti quelli che non avevano ancora letto Travaglio, e lui ha nuovamente tradito il patto con i magistrati rivelando tutto prima ai lettori di Libero in un’intervista e ieri perfino ai fan di Enrico Mentana che lo ha ospitato nel suo programma sulla web-tv del Corriere della Sera. Se i pm di Trani avessero fatto prima un giro a Montecitorio, avrebbero trovato centinaia di politici della prima e della Seconda Repubblica in grado di metterli in guardia: “se volete mantenere un segreto, non raccontatelo mai a Minzolini. Quello non sa tenersi un cecio in bocca”. E’ un sorriso amaro però quello che si leva da Trani. Perché ormai questa vicenda è entrata a gamba tesa a pochi giorni dal voto in una campagna elettorale già imbrigliata come mai era accaduto dai tentacoli di procure, Tar, vicende giuridiche e giudiziarie. A dire il vero sono due le campagne elettorali che gli uffici giudiziari pugliesi ormai condizionano: quella dei politici per le regionali e quella tutta interna ai giudici togati per l’imminente elezione del prossimo consiglio superiore della Magistratura. Già che c’erano quei ferrei custodi del segreto istruttorio hanno fatto trapelare confuse notizie di telefonate fra Innocenzi e uno dei leader di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe: Cosimo Maria Ferri, attuale consigliere del Csm. Un po’ di fango fatto girare anche in quel ventilatore, senza che un fatto reale sia emerso e verificato. Riso amaro per tanti, dunque, e uno solo che in questa barzelletta triste riesce ancora a prendersi sul serio: Michele Santoro. Grazie a Trani può recitare la parte che da anni gli varrebbe l’Oscar come migliore attore protagonista: quella della vittima. Lo ha fatto anche ieri all’Infedele di Gad Lerner. Strana vittima quella che da più di 20 anni domina l’informazione televisiva (per tre anni addirittura, colpito insieme a Berlusconi dalla sindrome di Stoccolma: ha lavorato a Mediaset) e che pur di evitare lo sbocciare di nuovi talenti in grado di oscurarlo, si è fatto ibernare in prima serata Rai da una sentenza della magistratura che ce lo conserverà in eterno.

Inchieste piene di bufale. Così da un anno si tenta il placcaggio a Berlusconi

Tutto per uno scandalo da 560 euro. E’ per tre carte di credito American Express che si erano viste chiedere rimborsi di 689 euro invece dei 129 attesi che la procura di Trani ha messo sotto controllo il telefono del direttore del Tg1, Augusto Minzolini, del commissario dell’Authority Giancarlo Innocenzi e intercettato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il suo sottosegretario Paolo Bonaiuti, decine di ministri e viceministri, segretari di partito, leader politici di maggioranza e opposizione. Uno di quei tre che giustamente protestavano per gli interessi esorbitanti era un ufficiale della Guardia di Finanza. Ha fatto denuncia alla procura di Trani e dopo settimane di indagine il pm Michele Ruggiero ha trovato altri due clienti American Express nelle stesse condizioni. Ai tre probabilmente grazie a super interessi sono stati prelevati quei 560 euro di troppo. Il pm di Trani a quel punto ha sequestrato ad American Express tutti gli atti relativi alle carte “Blue” rateali, sperando di trovare altri interessi da usuraio. Messi sotto inchiesta tutti i vertici italiani della compagnia americana. Pur avendo tutta la documentazione in mano, un gip deve avere autorizzato incomprensibili intercettazioni telefoniche ai manager American Express. Uno di questi è stato ascoltato mentre diceva: “al tg 1 ci penso io”. Probabilmente il mestiere di quel manager era cercare di attutire la portata della notizia, e magari di non creare ad American Express un danno di immagine assai più rilevante di quei 560 euro. Avrà chiamato le principali testate giornalistiche. Anche il direttore del Tg1 per dire: “non amplificate la notizia”. Così i magistrati di Trani hanno deciso di tenere sotto controllo tutte le mosse e le telefonate del direttore del Tg1. E hanno scoperto l’acqua calda: lui (e perfino i manager di American Express) avevano rapporti con i potenti. Minzolini addirittura con il presidente del Consiglio e i ministri! I pm si sono ingolositi: guarda che roba capitava loro fra le mani. Brogliacci da titoli di prima pagina dei giornali! Cose che sulla spiaggia di Trani non capitavano da almeno 6 anni, quando un altro pm (caso fotocopia) pensò bene di avviare da lì una sfortunata “banco poli” poi finita nel nulla: inchiesta su Banca 121, bufera in borsa sul Monte dei Paschi di Siena, iscritto nel registro degli indagati il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Quest’atto che era segretato naturalmente finì dopo pochi giorni sulle prime pagine dei giornali. I politici chiesero le dimissioni di Fazio e da lì iniziò la parabola discendente del Governatore. Il procuratore capo si infuriò con il pm, ma ormai la frittata era fatta. E il danno non riparato dalla successiva assoluzione di tutti gli indagati: l’inchiesta non stava in piedi. Non sta in piedi, a leggere le prime ammissioni ufficiali dei fatti, nemmeno l’inchiesta di oggi. Sarebbe un sollievo pensare che tutto sia dovuto solo alla voglia di protagonismo di qualche inquirente. Ma siccome Trani arriva dopo Fastweb-Telecom, che arriva dopo il fango gettato sulla cervicale di Guido Bertolaso dalla procura di Firenze che solo poche settimane prima aveva contribuito a mettere nel ventilatore il fango del pentito Gaspare Spatuzza, e arriva dopo l’allegra gestione a Bari del caso Patrizia D’Addario, che arrivava dopo lo “scandalo Noemi”, beh, qualche cattivo pensiero comincia ad arrivare. Immaginatevi il Berlusconi di fine aprile 2009: al massimo della popolarità, calato nel dramma del terremoto de L’Aquila, con davanti il passaggio che sembrava trionfale delle elezioni europee e l’organizzazione del vertice del G8. L’opposizione quasi non esiste, Walter Veltroni è saltato, Dario Franceschini sta gestendo l’agonia del Pd, Francesco Rutelli sta preparando le valigie. Berlusconi rischia di fare bingo per anni. E’ lì che salta fuori il punto debole del Cavaliere: il gentile sesso. Spunta Noemi e si prova senza successo a imbastire una sorta di caso di pedofilia. Ma l’arma è spuntata e davvero abborracciata. Tiene qualche settimana, ma diventa un buco nell’acqua. Lo fa anche il Pd, con una campagna elettorale lontana dai guai veri dell’Italia e centrata sulle questioni familiari/sessuali di Berlusconi. Arriva il G8, un successo. E il cavaliere sembra più forte di prima. Così spunta fuori Patrizia D’Addario. La debolezza di una notte di Berlusconi. Si monta la panna all’inverosimile. Ma alla fine sembra una maionese: non funziona, si squaglia. Disperazione assoluta: Berlusconi è ancora lì, tutto il potere nelle mani. E i sondaggi sono feroci con l’opposizione. Comincia a stancare perfino Antonio Di Pietro, che fino a lì ha divorato centimetro dopo centimetro lo spazio vitale degli alleati. Così spunta un evergreen: Dell’Utri, Palermo, la mafia, l’origine oscura dei capitali di Berlusconi, lo scudo fiscale che serve ancora a coprirla e farne perdere le tracce. Si trova il pentito, Spatuzza. Ma è un vero disastro e il castello frana al primo tentativo di conferma. E’ un dramma. Siamo alle porte della campagna elettorale per le regionali, e in Lazio scoppia anche il caso di Piero Marrazzo. Berlusconi supera tutto, non si riesce ad abbatterlo né con i vecchi né con i nuovi metodi. Quante carte restano? Il Cavaliere ha dalla sua più di una brillante operazione: via i rifiuti da Napoli, consegna record delle case ai terremotati de L’Aquila, il successo del G8. Pierferdinando Casini scherza: questo non è un governo Berlusconi, mi sembra il governo di Guido Bertolaso. Già. Sembrava proprio così. E a febbraio scattano gli arresti alla cricca degli appalti. Ci sarà chi ne avrà combinate di tutti i colori. Ma fin dall’inzio l’inchiesta sembra puntare a Bertolaso. L’ordinanza di arresto firmata dal gup di Firenze si sofferma per pagine a pagine sui massaggi del capo della protezione civile. Sostiene che in un caso sicuramente c’è stato un rapporto sessuale. Negli altri non è chiaro, ma lui voleva sempre una “certa Francesca”. Lo scopriremo dopo leggendo tutti i rapporti dei Ros: quando il gup gira intorno alla “certa Francesca” sa benissimo chi è: i Ros da settimane l’hanno identificata e perfino interrogata. Sanno tutto anche dell’altra massaggiatrice. Ma si preferisce il dubbio e si lascia il mistero. Che diventa fango. L’Aquila? Terra di sciacalli, altro che ricostruzione. E poco importa che gli sciacalli lì non abbiano avuto nemmeno una commessa. Bertolaso? Un assatanato di sesso. Falso, ma intanto il fango gira. Il G8? Solo corruzione e favori, la cricca degli appalti. Prove nessuna: l’unica è arrivata l’altro giorno dal Tar del Lazio, che ha annullato un appalto della cricca. Quello dell’auditorium di Firenze che nell’inchiesta sembrava raccomandato da Walter Veltroni e vinto da un imprenditore romano. Per il Tar irregolare quello, regolari le gare per la Maddalena. Ma non importa: il biglietto da visita del Cavaliere è stato frantumato, distrutto in mille pezzi nell’immaginario collettivo. Ora arriva Trani. A guardarla di penale nulla davvero. Ma di effetto politico in piena campagna elettorale, tanto. Volete che un Di Pietro o un Bersani non agguantino al volo la pappa graziosamente preparata? Sembra già di sentirli nei comizi: “La gente va in cassa integrazione, diventa disoccupata, non arriva alla fine del mese e Berlusconi a chi pensava? A Santoro, a come farlo fuori”. Che meraviglioso assist da Trani. Sembra chiudere il cerchio. Si posa beato sul pasticcio dei Tar che hanno fatto fuori il Pdl da Roma e sconcertato gli elettori. Rischia di funzionare questa volta. Ma tutto questo è solo un cattivo pensiero. E bisogna rifarsi a una massima di Giulio Andreotti: a pensare male si fa peccato. E talvolta ci si azzecca.