Berlusconi non è un cittadino normale. Con tutte quelle cause è più pericoloso di Totò Riina e Al Capone
Ci sono numeri che parlano da soli. Centonove processi, 2.500 udienze, 530 perquisizioni e acquisizioni di documenti da parte della Guardia di Finanza. Oltre duecentomilioni di euro spesi per la propria difesa. Questi numeri non raccontano la storia giudiziaria di Totò Riina e della cupola della mafia. Sono la fotografia dell’assedio giudiziario a Silvio Berlusconi fra il 1994 ed oggi. Non esiste un paragone possibile nella storia giudiziaria di Italia. Non esiste un cittadino finito come l’attuale presidente del Consiglio nel mirino della magistratura. E non è solo storia italiana: a 102 processi non sono stati sottoposti né i criminali nazisti né Al Capone. Ecco a cosa serviva il lodo Alfano: a rendere- almeno per un po’ di tempo- il cittadino Berlusconi un po’ più simile a tutti gli altri cittadini italiani. Per altro c’è una sola indagine sulle 109 che hanno coinvolto Berlusconi legata alla sua attività politica: quella sulla presunta compravendita dei senatori nel 2007 per fare cadere il governo di Romano Prodi. Quella indagine si è fermata in udienza preliminare proprio per il lodo Alfano. E ha danneggiato Berlusconi, perché forse per la prima volta la stessa pubblica accusa aveva chiesto l’archiviazione della pratica, non ravvisandone alcun fondamento. Gli altri 108 procedimenti sono relativi all’imprenditore Berlusconi, al ruolo da lui ricoperto in Fininvest. La maggiore parte è nata durante Mani pulite, quando molti imprenditori sono finiti nel mirino della magistratura. Accadde a Cesare Romiti in Fiat (ed era un manager operativo), a Carlo De Benedetti, a Salvatore Ligresti, a decine e decine di costruttori e imprenditori. Qualcuno fu indagato, qualcuno altro arrestato. De Benedetti trascorse qualche ora- il tempo necessario per un lungo interrogatorio- nel carcere di Regina Coeli dove fu portato dopo qualche giorno di latitanza. A Raul Gardini costò la vita, distrutto dal timore di un arresto dopo essere stato distrutto come imprenditore da altri poteri forti dell’epoca (in testa Enrico Cuccia e la sua Mediobanca) che gli avevano sfilato il secondo gruppo industriale e finanziario del paese. Ma in tutti gli altri non si ricorda un accanimento giudiziario paragonabile a quello subito dall’imprenditore Berlusconi. Che a differenza degli altri il Cavaliere sia sceso in politica non dovrebbe pesare nulla per magistrati che hanno il solo compito di accertare i fatti ed individuare possibili reati. Se si confrontano i fascicoli giudiziari di tutti i grandi imprenditori dell’epoca, non c’è paragone possibile. La maggiore parte dei procedimenti avviati nei confronti di Berlusconi per altro si basa su uno dei teoremi classici di Mani pulite: non poteva non sapere. Anche quando singoli reati compiuti all’interno del gruppo Fininvest sono stati accertati, non si è trovata prova diretta di un coinvolgimento di chi ne era prima presidente e poi solo azionista di maggioranza. Quell’apodittico “Non poteva non sapere” fu invece scartato per altri grandi protagonisti dell’impresa pubblica e privata dell’epoca. Due esempi su tutti: il gruppo Fiat dove la magistratura non osò mai coinvolgere l’avvocato Gianni Agnelli nelle numerose inchieste che portarono ad indagare e processare numeri due e tre come Romiti e Francesco Paolo Mattioli. E il gruppo Iri, dove le inchieste portarono via a carrettate manager di lungo corso, sostenendo che ovunque si pagavano tangenti, e l’unico ad esserne all’oscuro era il presidente dell’epoca, Romano Prodi. Il futuro capo dell’Ulivo incappò una sola notte in un faccia a faccia con Antonio Di Pietro, di cui non uscì mai verbale. Qualcuno nei corridoi ascoltò le grida dei pm, e non se ne seppe più nulla. Lì tutto terminò.
Centonove procedimenti che spesso nascono l’uno dalle ceneri dell’altro. Quando si teme la prescrizione, le procure definiscono nuove ipotesi di reato sugli stessi identici fatti. La vicenda dei diritti televisivi pagati da Fininvest alle major all’estero ne ha già generato almeno una decina. L’ultimo procedimento è ancora in culla, e tramontate decine di altre ipotesi, è stato rivelato alla vigilia della decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano: gli stessi fatti già non accertati (in regolari processi senza scudo penale) negli anni 2004-2007 oggi si sono trasformati in una fantomatica accusa di appropriazione indebita. Non ancora formulata “per non fare pressioni sulla Corte”.
Dalla Rai a Della Valle tutti incappati nel cracl Lehman
La lista è lunghissima, gli importi spesso a sei cifre- anche se in dollari. E’ un piccolo esercito quello degli italiani in fila con il cappello in mano per il fallimento della Lehman Brothers. Sono in tutto 678 quelli che entro la tgerza settimana di settembre hanno presentato domanda di risarcimento diretta o indiretta ai curatori fallimentari della banca americana che ha suonato il gong per la crisi finanziaria internazionale. Ci sono società, singole persone, manager e dipendenti della filiale italiana della Lehman. Quasi tutte le banche italiane, Banca Intesa, Monte dei Paschi, Unicredit, Ubi , Mediobanca e Banca popolare di Milano in testa. Lo Stato, in primis il ministero dell’Economia e le sue società controllate. Praticamente tutti i grandi gruppi imprenditoriali italiani: Fiat, De Benedetti, Berlusconi, Benetton, Ligresti, Pesenti, Telecom Italia, Ferrero, De Longhi, Della Valle e decine di altri. Il record ce l’ha il ramo italiano della Zurich life, con 194 milioni di dollari di crediti verso Lehman. Ma non scherzano nemmeno la Cassa depositi e prestiti con i suoi 133 milioni, Carimonte con 113 e Telecom Italia con 68 milioni. E’ già un caso politico l’esposizione della Regione Marche che chiede al fallimento 72,4 milioni di dollari dopo avere assicurato all’indomani del crack di avere una esposizione ridicola e rischiare al massimo due milioni di euro. E’ in buona compagnia, perché nella lista dei creditori ci sono anche altre due regioni, il Lazio e la Sicilia, che hanno presentato domanda tenendo riservato l’importo richiesto. Con una cifra non particolarmente alta, 526 mila dollari, c’è anche la Rai che è stata fra le prime società italiane a insinuarsi nel fallimento già nel gennaio 2009. A suscitare qualche perplessità più che l’importo è la documentazione allegata. A parte una lettera per rivendicare il dovujto firmata dal direttore degli affari legali dell’azienda di viale Mazzini, Rubens Esposito, una tabella elenca le 21 operazioni intercorse fra la tv pubblica italiana finanziata dal canone di tutti i cittadini e la Lehman brothers: alcune (11) riguardano finanziamenti- anche derivati- alla capogruppo, altre (10) la controllata Rai cinema. E’ quasi andata bene alla fine se sui 56 e oltre milioni di dollari di rapporti con Lehman Rai rischia di rimetterci solo una mezza milionata.
Certo, anche personaggi che con la finanza ci sanno fare da una vita si sono bruciati le dita con Lehman. Ci è cascato Carlo De Benedetti con la sua Cir International sa, qualche guaio hanno subito perfino i suoi banchieri e commercialisti di fiducia, quei Segre che controllano la Bim di Torino. Fra le persone fisiche la più famosa ad avere presentato il conto è Andrea Della Valle- fratello di Diego e presidente uscente della Fiorentina- che con Lehman ha rimesso 3,5 milioni di dollari di investimenti personali. Mancano all’appello delle sue tasche sei strumenti finanziari sottoscritti fra il 2003 e il 2008, l’ultimo proprio alla vigilia del naufragio della banca americana. Ma anche questo non è un caso isolato. E d’altra parte al tribunale fallimentare di Milano la Lehman era stata inserita nel novembre 2007 dal presidente della sezione, Bartolomeo Quatraro, fra le società che potevano offrire i loro servizi ai creditori. Titoli e strumenti finanziari erano ritenuti dagli esperti altamente affidabili e quasi privi di rischio. Nell’elenco c’è più di un singolo investitore italiano che allega anche la lettera-beffa (una è di Banca Aletti, che ci ha rimesso non poco del suo) che all’improvviso comunicava al cliente che milioni di risparmi erano passati a valutazione di alto rischio. La settimana dopo quei soldi erano semplicemente svaniti insieme alle casse che i dipendenti della Lehman portavano in strada.
Un capitolo a parte meritano le richieste di risarcimento presentate dagli stessi top manager e dirigenti del gruppo Lehman. In un un lungo elenco di poveri dipendenti che reclamano il dovuto: liquidazione e pagamento degli ultimi stipendi,. Svettano i 15 milioni di dollari chiesti da Ruggero Magnoni e le decine e decine di milioni vantati come crediti dai suoi colleghi. Vogliono perfino il pagamento dei bonus legati a maxi-operazioni con cui hanno piazzato derivati a banche, società ed enti pubblici in Italia. Bonus per avere messo nei guai più di un ente locale del loro paese.
Quel giudice ha buon cuore: fa uno sconto di 200 milioni a Berlusconi. Senza motivo
Ci sono almeno 26 pagine di troppo nelle 146 scritte dal giudice monocratico Raimondo Mesiano per condannare la Fininvest di Silvio Berlusconi a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 749 milioni di euro per avere perso la chance di nominare oltre a quello del L’Espresso anche il direttore di Panorama. Sono di troppo perché sono ripetute due volte. La prima quando si spiegano le richieste dell’Ingegnere. La seconda volta quando ascoltate le parti il giudice monocratico spiega che cosa ha deciso e perché lo ha fatto. La tesi di una parte è diventata sentenza. E’ qui il tallone di Achille principale di questo processo che ha portato fra mille polemiche al più grande risarcimento mai concesso da un tribunale italiano. E’ un po’ come se in un processo penale il tribunale facesse copia e incolla della requisitoria del pm trasformandola in sentenza. Certo, può accadere ed è accaduto, quando nelle aule di giustizia il diritto alla difesa, l’escussione di testi, le eccezioni, i fatti nuovi, i contesti, le controprove a nulla servono perché ci si è innamorati della tesi dell’accusa. In quei casi però se il pm chiede dieci anni di carcere, il tribunale dieci ne commina. Nel caso della sentenza per il risarcimento sul cosiddetto lodo Mondadori quel che non si capisce allora è proprio la pena finale. Il giudice Mesiano (che pure deve essere andato di fretta: in più pagine della sentenza sbaglia perfino il nome della casa editrice, chiamata “Mondatori”) non ne passa una agli avvocati della Fininvest. Spiega che la sentenza di corte d’appello che diede torto a De Benedetti costringendolo poi a trattare con Berlusconi la spartizione della grande Mondadori (aveva in pancia pure Espresso e Repubblica) fu solo effetto di corruzione del giudice che presiedeva un collegio, Vittorio Metta. Affermazione apodittica, che reinterpreta perfino il processo penale di cui manco si sono acquisite integralmente le carte. Corrotto il giudice, corrotta la sua sentenza che cassava il celebre lodo che avrebbe consegnato la Mondadori a De Benedetti. Ma se quel giudizio fu carta straccia- come sostiene il giudice Mesiano- perché mai concedere alla Cir solo il risarcimento per avere perso la chance di nominare insieme i direttori di Espresso, Repubblica, Panorama, Donna Moderna e tante altre testate di successo? Se la sentenza che ridiede la Mondadori a Berlusconi fu corrotta, bisognerebbe restituire tutto a De Benedetti senza tanti giri di parole. Invece Mesiano sceglie la strada della “chance” perduta dall’Ingegnere, che gli avvocati della Cir si erano immaginati solo nel caso le loro tesi principali fossero state rigettate (e non lo sono state). Detta in parole semplici: se quel giudice che diede ragione a Berlusconi non fosse stato corrotto da avvocati amici di Berlusconi, quante chance avrebbe avuto De Benedetti di vincere anche in appello e tenersi tutto? La risposta pratica ve la do io- ed è contenuta perfino nella sentenza-: nessuna. Eravamo ancora nella prima Repubblica. Comandavano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. E come riferisce lo stesso De Benedetti tutti e tre avevano fatto sapere ai due contendenti che Mondadori+Repubblica+Espresso a uno solo sarebbe stato impossibile. Avrebbero scritto una legge antitrust ad hoc per impedirlo. Ma il giudice Mesiano che anche questo ha letto nelle testimonianze processuali ha deciso del tutto a casaccio (non spiega perché) che De Benedetti avrebbe avuto l’80% delle chance di conquistare tutto. Così concede alla Fininvest uno sconto di circa 200 milioni di euro. Se De Benedetti avesse avuto il 100% delle chance il risarcimento sarebbe stato poco sotto il miliardo di euro, quel che secondo Mesiano vale la mancata conquista della Mondadori. Anche qui, valutazione del tutto a casaccio. Perché oggi l’intera Mondadori vale in borsa meno di quella cifra. E dentro ha cose che all’epoca non aveva: ad esempio la Silvio Berlusconi editore ( Chi, Sorrisi e Canzoni).
Ci sono ipotesi giuridiche un po’ spinte nella sentenza. Come quella di giustificare il ritardo con cui De Benedetti si è accorto del danno subito chiedendone il risarcimento, paragonando il povero ingegnere a un malato di Aids che solo dopo anni si è accorto di essersi beccato il virus in seguito a trasfusione (pagina 57). O quando si spiega che l’assegnazione di quel caso non doveva essere al giudice Metta, perché questo aveva troppo potere come diceva un volantino dell’epoca di Magistratura democratica (fatto dato per certo ma non provato perché lo stesso giudice Mesiano ammette di non avere reperito più quel volantino).
Voli grotteschi a parte la sentenza che accoglie in toto la tesi Cir pecca soprattutto di vuoto di memoria storica. Non si ricorda che azionisti della Amef e della Mondadori erano riuniti in un patto di sindacato comunicato al mercato e a tutti i piccoli azionisti. Che quel patto fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi ma anche i Merloni, i Rocca e Leonardo e Mimma Mondadori) e di tutti i piccoli azionisti Mondadori e Amef. Che presa la Mondadori violando il patto di sindacato Amef e gli accordi comunicati al mercato, De Benedetti la fuse con Repubblica ed Espresso, facendo pagare a tutti i soci – volenti o nolenti- della Mondadori- 410 miliardi di lire dell’epoca a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Anche quello potrebbe essere un danno patrimoniale subito dagli azionisti Mondadori dell’epoca. Si disse che i due – Scalfari e Carracciolo- avevano rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi vennero fuori carteggi segreti che regolavano assai diversamente la partita. Ed erano firmati da una parte dall’azionista del gruppo Espresso- Repubblica, Caracciolo, che vendeva. E dall’altra dall’acquirente: il nuovo presidente della Mondadori, Caracciolo.
( Da Libero- 7 ottobre 2009)
Ma che sciocchezza l'appello "io non userò lo scudo" firmato da Bersani e Franceschini
Domani metterò la mia firma sotto un bel manifesto impegnandomi a rifiutare fino alla fine dei miei giorni un parto cesareo. Che diamine! I figli devono nascere naturalmente. E se si soffre un po’ con il parto naturale, che importa a me? Sono un maschietto, non partorirò mai. Ecco, nella migliore delle ipotesi vale come la mia firma al manifesto anti-cesareo quella messa di gran carriera da Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino all’appello di un collega senatore del Pd “Non ci faremo scudo- Noi non utilizzeremo mai lo scudo fiscale”. Perché se non hanno in tutti questi anni tenuto all’estero i propri risparmi dando una fregatura al fisco italiano naturalmente non possono usare lo scudo fiscale, come io non potrei fare un parto cesareo. Se invece tutti loro sono evasori e all’improvviso hanno avuto un rigurgito di buona coscienza e sono disposti a rimpatriare i loro capitali pagando tutte le tasse, le more e le sanzioni dovute, giù il cappello. Ma non serve la firma a un appello. Sottoscrivano pubblicamente (davanti alle telecamere Rai, Paolo Garimberti e Sergio Zavoli obblighino anche il Tg1 di Augusto Minzolini ad essere presente) una liberatoria da concedere al direttore delle Agenzia delle Entrate. Franceschini, Bersani, Marino e tutti gli appellanti rinuncino all’anonimato concesso dallo scudo fiscale. Così se loro ne faranno uso, tutti i cittadini italiani sapranno che avranno predicato in un modo e razzolato in un altro. Finchè esiste l’anonimato siamo tutti buoni a dire “che schifo quello scudo fiscale, io non lo utilizzerò mai”. Tanto nessuno mai saprà se l’avremo usato o no.
La proposta era stata lanciata da una firma di punta del Corrierone della Sera, Salvatore Bragantini, che da quelle colonne si era rivolto a governo e parlamentari con un appello “a tutti gli uomini pubblici: impegnatevi a non usare lo scudo”. Siccome nel Pd c’è un po’ di confusione e la sindrome di Stoccolma è sempre in agguato, presa la prima copia in edicola del Corriere, sono corsi tutti ad aderire all’appello senza pensare nemmeno un secondo a cosa volesse dire. “E se lo fa Antonio Di Pietro prima di noi?”.E così il senatore Pd Francesco Sanna è stato il primo a sottoscrivere, inviandolo al leader della sua corrente, Pierluigi Bersani. Scudo fiscale? Quello per cui abbiamo fatto una figuraccia con tutte quelle assenze in parlamento? Azz, firmo subito. E se Bersani firma, può essere da meno Franceschini? Naturalmente no. Due candidati su tre alla segreteria han firmato. Che fa Ignazio Marino? Tris. Firma pure lui. E già che c’è firma pure Pierferdinando Casini, che non si dica che l’Udc non fa opposizione a questo governo. Malati di appellite acuta, senza nemmeno capire in che groviglio si ficcavano, hanno firmato Enrico Letta, Marco Follini, Bruno Tabacci, Arturo Parisi, Vannino Chiti, Marianna Madia, Giorgio Tonini, Enzo Carra e decine di altri. Perfino l’Udc Mauro Libè, che fu uno degli assenti al voto finale sullo scudo fiscale.
Possibile che decine di politici navigati non si rendano conto dell’assoluto non senso di un appello che dice “io non riporterò i miei soldi in Italia pagando una mini tassa”, se quei soldi fuori Italia non si sono tenuti frodando il fisco? Sembra impossibile, ma a parte il terrore per Di Pietro e per l’indignazione esplosa negli elettori del Pd per i comportamenti parlamentari dei loro rappresentanti, c’è forse un pizzico di cattiva coscienza in quella corsa alla firma inutile e addirittura controproducente.
Perché la vicenda dello scudo fiscale ricorda molto da vicino quella di qualche anno fa del condono tombale di Giulio Tremonti. Anche allora le opposizioni insorsero, Ds e Margherita (poi divenuti Pd) usarono toni forti: “un favore fatto agli evasori e ai mafiosi”. Poi si scoprì che quelli che urlavano di più fecero il condono tombale. Lo utilizzarono le società editrici del Popolo e de l’Unità, le librerie Rinascita, quattro società dei Ds, gli Editori Riuniti (quelli che pubblicavano i libri di Marco Travaglio), perfino i Caaf Cgil del Lazio e della Basilicata. Quel condono che scandalizzava Romano Prodi fu utilizzato dalla Aquitania srl, società della moglie Flavia e dalla Sircana & partners del portavoce dell’Ulivo, Silvio Sircana. Lo fecero e alcuni di loro non pagarono nemmeno il poco dovuto. Si fecero rateizzare il condono, pagarono la prima rata e per le altre buonanotte al secchio. Quando oggi emerge che mancano in cassa ancora 5 miliardi di euro di vecchi condoni fiscali, ci sono anche loro. Quelli che si fanno belli con gli appelli e prendono tutti un po’ in giro.
C'è il regime, Eugenio e Pippo confinati alla prima di Baaria
Qualche sera fa due anziani signori, uno con la barba bianca- e per questo assai saggio- l’altro con un noto toupè che da lustri ferma l’inesorabile incedere del tempo si sono trovati in fondo a una sala cinematografica a Roma. Si sono guardati in faccia preoccupati e hanno sentenziato: “Siamo in un regime”. Uno dei due anziani signori era il fondatore di un giornale che è diventato ormai un partito: Eugenio Scalfari. L’altro era il volto del conduttore vivente più noto nella storia della tv pubblica italiana: Pippo Baudo. Il racconto di quella memorabile sera vissuta al confino di una prima cinematografica nell’anno secondo della terza presa del potere di Silvio Berlusconi, era la chicca – un po’ nascosta- dell’editoriale domenicale di Scalfari su Repubblica: “Sono stato all’anteprima di Baaria di Giuseppe Tornatore dedicata a Giorgio Napolitano. La sala era gremita e gli onori di casa li facevano i dirigenti di Medusa e di Mediaset com’era giusto che fosse perché il film l’hanno prodotto loro. E chi altri avrebbe potuto in Italia? Un film di sinistra senza ammiccamenti.Entrando ho visto al mio fianco Pippo Baudo. Mi ha detto: “C’è il regime al completo”. Era vero, ma quando il regime è costretto ad applaudire il talento culturale di chi gli si oppone, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo”.
Il regime, già. E in effetti quella sera in sala oltre ai due anziani carbonari c’erano (secondo le cronache mondane) a parte il Capo dello Stato nelle prime fila: Massimo D’Alema con la moglie Linda Giuva, Fausto e Lella Bertinotti, Luca Cordero di Montenzemolo con la moglie Ludovica, Walter Veltroni, Nicola Zingaretti, Piero Marrazzo, Achille Occhetto, Bianca Berlinguer, Antonio Di Bella, Giuliano Ferrara, Clemente Mimun, Gianni Riotta, Ettore Bernabè… e poi sì, anche Gianni Letta e la sua signora Maddalena e Fedele Confalonieri. “C’è il regime al completo”.
Detta così potrebbe sembrare una barzelletta. Ancora più divertente perché se la sono raccontata un signore come Scalfari che ha provato- spesso senza successo- per lustri a fare e disfare governi, vertici delle partecipazioni statali, accordi finanziari e industriali usando il gruppo editoriale che ha contribuito a fondare come un vero e improprio soggetto politico. E davanti a lui quel Baudo che per 47 anni ha occupato i teleschermi della tv di Stato (salvo qualche scorribanda- profumatamente pagata- sui teleschermi del Biscione), per 13 volte condotto il Festival di Sanremo, per anni ha dominato la domenica pomeriggio tv e ogni volta che gli dicevano “dai, Pippo, proviamo uno più giovane. Fai una pausa?”, la buttava in politica e urlava “sono arrivate le epurazioni, c’è la pulizia etnica”. Fa ridere vedere i due uomini che più hanno rappresentato il regime della stampa e della tv andare in ghingheri a una cerimonia di regime e dirsi appunto “ma qui c’è tutto il regime!”.
Ma non fa ridere affatto, perché la questione è assai seria. E’ identica a quella tassa “Michele Santoro” che la tv di Stato e tutti i cittadini debbono pagare da venti anni. Lui occupa i teleschermi ogni anno, fa quel che vuole in barba a regole, editti, aziende, governi e il regime siamo noi che non possiamo sfuggirgli e pure siamo costretti a finanziarlo. Nove giornali su dieci pubblicano da decenni gli stessi pensieri, le stesse idee, difendono lo stesso identico diritto di espressione e se provi altrove a dire una cosa contraria- magari alzando la voce perché è difficile farsi sentire lì in mezzo- il regime sei tu.
Il prossimo tre ottobre il sindacato unico dei giornalisti porterà in piazza i nove decimi delle testate giornalistiche e televisive italiane. Una grande manifestazione di libertà. Contro quell’altro decimo che naturalmente è “il regime”. Sì, il regime. Quello che fa buttare un libro di testo che non sia in linea con il 99 per cento degli altri adottati e imposti in scuole e università. E se qualcuno si alza in piedi e prova a dire “ma se rivedessimo i criteri dei libri di testo?”, eccolo il fascista, l’uomo del regime. Quello che soffoca il libero pensiero, così libero che ha impedito in un’università italiana perfino il diritto di parola a un Papa. Sì, c’è davvero un regime in Italia. Ed è quello che non solo non permette ad alcun altro diritto di parola. Ma che punta il suo dito contro te se provi con coraggio a prendertelo
Ma sì, mandiamo un vaffa alla Rai
Ma sì, mandiamolo questo vaffa alla Rai e al suo canone. Paolo Garimberti si indignerà, ma il modo per smettere legalmente di pagare il canone è spiegato perfino da lui sul sito ufficiale dell'azienda di viale Mazzini (http://www.abbonamenti.rai.it/Ordinari/IlCanoneOrdinari.aspx#DisdAbb) ed è un diritto di tutti i cittadini farlo. E credo sia giunto il momento per un segnale da inviare da più di una parte. C'è un caso Michele Santoro- Marco Travaglio, ma anche un caso Bruno Vespa, e di casi ormai ce ne sono a decine. Qui non è più questione di banale lottizzazione: in fondo quella in malo modo e con una forma per cui bisognava turarsi il naso, garantiva diritti di molti, quasi tutti. Rappresentava idee diverse, ma largamente diffuse. Ma oggi i veri partiti che hanno occupato la Rai non sono quelli palesemente rappresentati in Parlamento. L'informazione della tv di Stato e la sua programmazione di punta sono in mano al Partito dei magistrati, al Partito di Repubblica, al Partito di Mediaset e al Partito di questo o quel conduttore. Che cosa ha più di interesse pubblico una televisione così? Sì, è giunto il momento di dare davvero un segnale sul canone. Che faccia capire la lezione. La disdetta legale è un'arma politica finora poco utilizzata (ci ha pensato solo Beppe Grillo in passato), e che a parte i 5, 16 euro da versare per chiedere di sigillare il proprio televisore, comporta pochi disagi al cittadino che la fa: il giorno che mai davvero qualcuno venisse a mettere quei sigilli, basta andare a ripagare il canone per farseli togliere e tornare a guardare la tv come si vuole. Ma e qualche brivido freddo sarà corso sulla schiena dei tanti e tanti militanti e dirigenti e beneficiari del partitone Rai, magari l'andazzo attuale finirà. E allora mandiamolo questo vaffa alla Rai!
E due. Altro giallo a Malpensa sui titoli di Stato americani
L’operazione è avvenuta in gran segreto la settimana dopo Ferragosto. All’aeroporto di Malpensa la guardia di Finanza ha fermato due cittadini filippini sequestrando il loro bagaglio. E’ bastato aprire una sola valigia per sgranare gli occhi: al suo interno c’erano buoni del Tesoro Usa di due tagli, da un miliardo e da 500 milioni di dollari. In tutto 180 miliardi di dollari di controvalore, pari a poco meno di 123 miliardi di euro. Una somma stratosferica, pari a più di 6 leggi finanziarie italiane. Se i titoli fossero autentici e il loro utilizzo spregiudicato sarebbero in grado di terremotare i mercati finanziari internazionali e di mettere in ginocchio gli Stati Uniti di Barack Obama. I due cittadini filippini sono stati immediatamente arrestati su ordine del pm della procura di Busto Arsizio, Valentina Margio. E in carcere sono tutt’ora in attesa della perizia ufficiale dei titoli chiesta attraverso i canali diplomatici al governo Usa che ha inviato esperti della Fed e del Fbi. La Margio si è messa subito in contatto con i colleghi di Como, che il 3 giugno scorso avevano fermato su un treno diretto a Chiasso due cittadini giapponesi e un terzo orientale (pare vietnamita) in possesso di passaporto diplomatico. I tre avevano con sé titoli del Tesoro Usa del 1939 per un controvalore di 134,5 miliardi di dollari (pari a 91,2 miliardi di euro al cambio di ieri). Dieci erano Treasury notes da un miliardo l’uno, gli altri 124,5 miliardi erano costituiti da 249 Federal reserve notes da 500 milioni di dollari ciascuno. Anche in quel caso la Guardia di Finanza si era posta subito il tema dell’autenticità dei titoli. Secondo fonti ufficiose si è poi saputo qualche settimana dopo che una perizia americana ne avrebbe accertato la contraffazione. Ma su disposizione della procura di Como sia i due giapponesi che il misterioso terzo asiatico, fermati e identificati sono stati denunciati a piede libero. Non si poteva fare altrimenti per chi era in possesso di un passaporto diplomatico, si è scelto di non arrestare nemmeno i due giapponesi, forse anche dopo avere verificato l’identità di uno di loro: Tuneo Yamauchi, cognato dell’ex vicepresidente della Banca centrale giapponese, Toshiro Muto. La procura di Busto Arsizio a un primo esame sommario ha potuto accertare che i titoli sequestrati ai due filippini sono identici a quelli in mano alla procura di Como e sequestrati ai giapponesi. Oltre alle somme stratosferiche detenute c’è un altro parallelo fra le due vicende: i corrieri di quei miliardi non sono persone qualsiasi. Se uno dei due giapponesi aveva legami di alto livello con la Banca centrale di Tokyo, uno dei due filippini ha legami altrettanto stretti con un vescovo della Chiesa di Manila e nella documentazione sequestrata insieme ai titoli Usa ci sarebbe anche un lasciapassare a firma dell’alto prelato.
Se i titoli fossero stati autentici in entrambi i casi l’Italia avrebbe risolto in un sol colpo i contraccolpi della crisi e i suoi problemi di finanza pubblica. Ai portatori verrebbe contestata la mancata dichiarazione valutaria e comminata una ammenda amministrativa pari al 40 per cento delle somme detenute: nelle casse del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti finirebbero così circa 86 miliardi di euro. Sette volte la cifra impegnata per tamponare la crisi 2009 finanziando la cassa integrazione allargata a tutte le imprese italiane.
Se invece i titoli fossero davvero tutti falsi, resterebbe un giallo internazionale tutto da sciogliere. Cosa andavano a fare prima i giapponesi e poi i filippini in Svizzera con una quantità immensa di titoli del Tesoro americani contraffatti? Con quale banca o istituzione finanziaria avevano appuntamento e chi mai oltre confine sarebbe stato complice di una truffa di proporzioni così vaste? Quali complicità ad alto livello c’erano sia nei paesi di provenienza (vista l’identità dei fermati/arrestati) sia assai probabilmente a livello internazionale? E’ a queste domande che sta tentando di dare risposta sia la guardia di Finanza che il caparbio pubblico ministero di Busto Arsizio.
franco.bechis@libero-news.eu
La libertà di stampa si difende scrivendo e stampando
Che eroe, che senso della responsabilità, che statista! Erano passate da poco le 12 e 25 di ieri quando Roberto Natale, segretario della Federazione nazionale della stampa (Fnsi) è entrato con aria severa nello studio di “Cominciamo bene”, la trasmissione condotta da Michele Mirabella e Arianna Ciampoli su Rai Tre. Dopo avere abbandonato con il cuore sanguinante il fedele blackberry con cui aveva terminato la ventesima intervista telefonica e da poco dettato un comunicato stampa, Natale ha annunciato finalmente dai teleschermi che la manifestazione in difesa della libertà di stampa è stata rinviata dopo la carneficina di Kabul. “L’attenzione degli italiani è concentrata da questi tragici fatti”, ha sentenziato il segretario del sindacato unico dei giornalisti. Applausi dal pubblico e incenso da parte di entrambi i conduttori, “anche noi non ce la saremmo sentita di manifestare. Saggia decisione”. Ero stato invitato anche io a dibattere di questa libertà messa a rischio da un paio di querele del premier e da quell’attentato che è sembrato spostare una puntata di Ballarò di un paio di giorni (Giovanni Floris è andato in onda ieri sera). E visto che c’ero ho pensato bene di prendermi subito qualche fischio: “Scusate, vi sembra eroica questa decisione? A me sembra che evitare una scampagnata e tornare in redazione a dare notizie in un momento così sia l’unico modo per difendere la libertà di stampa e di espressione”. Giù fischi e rimbrotto di Mirabella: “scampagnata?!!!”. Ma sì, il corteo era previsto nel cuore di Roma: non scampagnata, una stracittadina. Chi vive nella capitale ci è abituato: ce ne è uno ogni giorno. E per motivi ben più seri e gravi. Proprio ieri mattina sotto la redazione di Libero sono sfilati due mila lavoratori di quel che un tempo si chiamava Olivetti, la creatura di Carlo De Benedetti. Passati di mano in mano e di disastro in disastro, da qualche mese sono senza stipendio e ora vivono la minaccia di chiudere baracca e burattini. Campeggiava fra loro uno striscione “Traditi da Monte dei Paschi”, e quasi non se ne capacitavano: messi sulla strada dalla “banca rossa”, che ha revocato gli ultimi fidi. Cose serie, non i quattro maldipancia ad orologeria di noi giornalisti.
Bisognava vederla quella trasmissione di Mirabella ieri. Lui e la Ciampoli a declamare in apertura di dibattito i toni gravi della lettera scritta a Giorgio Napolitano dai futuri (forse) manifestanti, poi a condurre il dibattito premettendo la preoccupazione per quel che era accaduto a Ballarò e per il nuovo clima di epurazioni che sarebbe stato preannunciato dal premier in carica. Via al filmato sulla dichiarazione di Silvio Berlusconi che dà dei “farabutti” ai giornalisti. Mirabella che chiosa: “io non mi sento farabutto. E lei?”. Ecco a voi Rai Tre, l’ultima isola della libertà di stampa in Italia. Due conduttori che fanno anche gli ospiti e si allineano alle tesi di uno dei due ospiti. Tre con la stessa idea espressa durante tutto il dibattito. E poi l’utile idiota- il sottoscritto- chiamato per par condicio a dire qualcosa di diverso. E’ questa l’idea di libertà di espressione che dovremmo difendere? Su quattro persone tre la pensavano allo stesso modo, il quarto no. E sapete cosa dicevano? Che bisogna sfilare in piazza contro il pensiero unico. Quello del quarto.
Sembra una commedia dell’arte questa piece sulla libertà di stampa messa a rischio. Comica ma anche grottesca. Quindici giorni fa Roberto Benigni fece due comunicati stampa. Uno per rivelare la sua adesione all’appello di Repubblica e offrire la sua solidarietà contro il tentativo di intimidazione alla libera stampa rappresentato dalle cause civili e penali intentate al quotidiano di Ezio Mauro da Berlusconi. L’altro comunicato era rivolto a me. E annunciava l’intenzione di farmi causa civile e penale per un articolo secondo lui diffamatorio, in cui informavo sui conti e i problemi di alcune società controllate dal comico toscano e dalla di lui consorte, Nicoletta Braschi. Con la mano destra Benigni grondava di indignazione per le cause intimidatorie a Mauro e con la sinistra minacciava causa a un altro giornalista.
Ma sì. Libertà per tutti! Di scrivere, condurre, pensare e perfino querelare. Querelino quanto vogliono, tanto poi in tribunale la verità viene quasi sempre fuori. Vero che chi comanda vorrebbe sempre essere adulato e incensato. Vero che le notizie fastidiose fanno andare di traverso il boccone a chi ne è protagonista. Vero che Berlusconi dà dei “farabutti” ai giornalisti e che prima di lui Massimo D’Alema aveva deliziato la categoria di complimenti come “iene dattilografe” o del più grazioso “canaglie” ricordato ieri dal direttore di Libero, Maurizio Belpietro. Dicano quel che vogliano, non mi sembra che in questi anni sia mancata libertà di scrivere e pubblicare. Chi vuole difende il mestiere di informare rovinando le suole delle scarpe nell’unico modo utile: alla ricerca di notizie. Vedrete che non saranno quelli a farsi la scampagnata o la stracittadina che dir si voglia in uno dei prossimi sabati, che auguro a tutti allietato dal sole delle celebri ottobrate romane.
Conservateci Berlusconi,che per noi sono soldoni
Non ci fosse Silvio Berlusconi, dovrebbero inventarselo. Perché magari il tipo non andrà giù a loro, che dell’antiberlusconismo hanno fatto una ragione di vita. Ma sicuramente i loro cari faranno il tifo per tenere il Cavaliere più a lungo in vita. Perché grazie ai dividendi di lunghi anni passati in trincea contro Berlusconi, è sicuramente cambiata in meglio la vita dei vari Beppe Grillo, Michele Santoro, Marco Travaglio, Serena Dandini, Fabio Fazio, Vauro Senesi, Nanni Moretti, Sabina Guzzanti. A guardare la crescita del tutto anticiclica dei loro contratti, dei loro 730 e perfino dei beni dichiarati al catasto, poche professioni sono così redditizie come quella dell’antiberlusconismo in servizio permanente ed effettivo. Chissà se privo della trama principale dei suoi saggi Marco Travaglio riuscirebbe a scalare la vetta delle classifiche e dei diritti d’autore facendo felici Editori Riuniti, Chiare Lettere e Garzanti. Chissà se Michele Santoro sarebbe riuscito comunque ad approdare nella sua amata Amalfi e conquistare il buen retiro sognato da una vita, come ha fatto il 26 giugno scorso acquistando il rustico isolato (6,5 vani), con annessi due agrumeti e un vigneto da sogno. E senza mettere Berlusconi al centro della sua satira, Sabina Guzzanti ce l’avrebbe fatta a sbarcare a Favignana e conquistare lì con l’aiuto di Banca nuova la terra e le mura per godersi il meritato risposo? Sono tutti più ricchi e famosi da quando il Cavaliere è in campo. Ecco come.
Beppe GRILLO- Prima o seconda Repubblica, Grillo è fra i pochi a non dovere quasi tutto al politico da lui ribattezzato “psiconano”. Ma sulla breccia anche in quel campo non si resiste decenni ai massimi livelli. Berlusconi gli è servito per evitare il declino e restare sulla breccia cambiando abito e un po’ mestiere. Non ci sono dati ufficiali recentissimi, ma la sua dichiarazione dei redditi ha sfiorato i 5 milioni di euro. Guadagna con gli spettacoli e con il blog, oltre a qualche diritto di autore. Ha fatto la fortuna di uno studio grafico, il Casaleggio e associati, che gli cura il sito Internet e che ormai fattura circa 2 milioni di euro all’anno. Grillo ha una società immobiliare, la Gestimar, amministrata dal fratello. E direttamente o indirettamente ha la proprietà di 19 fabbricati e un terreno in tutta Italia: 10 a Genova, 4 a Olbia (Porto Cervo e Golfo Aranci), 3 in provincia di Livorno, due a Rimini e uno a Valtournanche, in Valle d’Aosta.
Michele SANTORO- La sua principale entrata viene dalla Rai e dal contratto che gli ha rifirmato il direttore generale, Mauro Masi: circa 700 mila euro all’anno suddivisi fra stipendio base e conduzione delle varie puntate. Anche lui ha puntato i suoi risparmi sul mattone: risulta proprietario di tre fabbricati a Roma , di uno a Salerno, città natale, e di un fabbricato e tre terreni (due agrumeti e un vigneto) ad Amalfi, acquistati appunto all’inizio dell’estate durante le pause televisive
Marco TRAVAGLIO- La sua ultima dichiarazione dei redditi ufficiale risale al 2005 ed era inferiore ai 300 mila euro annui. Oggi quella cifra la fa con i diritti di autore di un solo libro. Secondo l’ultimo bilancio ufficiale di una delle case editrici che lo pubblicano, Chiare Lettere, in gran parte si deve a Travaglio il monte.-diritti del 2008, circa 800 mila euro. Il suo successo spesso è diviso con altri colleghi che non sempre riescono a scalare le vette delle classifiche, come Pietro Gomez. Gestisce un blog (ma i ricavi lì sono pochini) e ora è diventato azionista del nuovo quotidiano Il Fatto. La sua partecipazione al programma di Santoro viene retribuita con un gettone da 1.700 euro a puntata per 35 puntate. Non è certo la sua attività più redditizia.
Serena DANDINI- Conduttrice e autrice simbolo di Rai Tre, inventata da Angelo Guglielmi e difesa con le unghie da Paolo Ruffini, vale per la Rai 710 mila euro all’anno, un po’ più di Santoro: 300 mila come conduttrice e 410 mila come autrice. Ma se li guadagna: il compenso è legato a ben 118 puntate. I risparmi della coordinatrice della satira antiberlusconiana sono finiti anche qui nel mattone: La Dandini,dopo avere donato a figlia e marito una casa di famiglia, risulta intestataria di due fabbricati a Roma (uno acquistato da Nicola Caracciolo, fratello del compianto Carlo, editore di Repubblica e dell’Espresso) e di tre fabbricati e due terreni in provincia di Lecce, nel comune di Disio. Li ha acquistati nel 2007: imponente il rustico su cui ha fatto lavori di ampliamento (13 vani) e l’annesso ficheto. La Dandini ha anche una sua società di produzione, la Goa production, che nel 2008 ha fatturato 292.249 euro con un utile netto di 36.707 euro
Sabina GUZZANTI- La figlia prediletta di Paolo Guzzanti non vive certo di quei mille euro a presenza che offre Santoro per le sue apparizioni tv spesso facendo la caricatura del cavaliere. Ma quei flash servono a Sabina per fare lievitare il fatturato della sua attività principale: spettacoli, libri, film. Anche la Guzzanti si è trasformata in imprenditrice e controlla la maggioranza assoluta del capitale della Sss produzioni srl dove la sigla sta per “secol superbo e sciocco”. Nel 2008 ha fatturato 266.840 euro con un utile di 45.114 euro. Anche per lei risparmi nel mattone: ha acquistato nell’isola di Favignana (famosa per il tonno) quattro fabbricati e quattro terreni, in parte ad uso pascolo e in parte seminativo.
Nanni MORETTI- Dopo essere diventato ricco sui guai della sinistra (celebre il suo “D’Alema dì qualcosa di sinistra”), il regista ha fatto boom con il suo Caimano, il film che fa di Berlusconi una macchietta terribile. Una decina di milioni il risultato ottenuto dalle sue Sacher film e Sacher distribuzione grazie agli incassi al botteghino e ai diritti pay tv. Come tutta la squadra anti-berlusconiana investimenti sicuri nel mattone: 5 fabbricati a Roma, anche se in parte provenienti dall’asse ereditario.
Fabio FAZIO- L’antiberlusconiano versione oratorio. Il più caro di tutti per la Rai, visto che il sujo contratto vale circa 2 milioni di euro all’anno. Un vero e proprio re del mercato immobiliare: ha 4 fabbricati a Milano, 5 fabbricati e 12 terreni in prov incia di Savona, fra Celle ligure e Albisola. E questo dopo avere venduto a Celle solo un anno fa una delle case di famiglia per 1,5 milioni di euro.
franco.bechis@libero-news.eu
L’Ocse boccia Boeri, il cocco di De Benedetti
Il direttore della Fondazione Rodolfo De Benedetti, nonché fondatore del sito Internet più in voga tra gli economisti italiani, Tito Boeri, è stato bocciato dall’Ocse dove aveva presentato la sua candidatura al ruolo di economista capo. Il bocconiano più amato dall’ingegnere Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo Espresso, aveva infatti presentato le sue credenziali per la successione di Klaus Schmidt-Hebbel, il chief economist uscente dall’Ocse di doppia nazionalità, cileno-tedesca. Lunedì scorso Boeri si è presentato a Parigi per il colloquio di rito che ha sostenuto con i responsabili dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che già lo avevano avuto in forze nel passato come senior economist. Ma i titoli non sono stati ritenuti all’altezza dell’incarico che è di assoluto prestigio e che nel passato più recente è già stato ricoperto con successo da un economista italiano. Dal 1997 al 2002 è stato infatti capo economista dell’Ocse Ignazio Visco, attuale vicedirettore generale della Banca d’Italia (nessun tipo di parentela con l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco). Già all’indomani del colloquio a Boeri è stato comunicato che la candidatura sarebbe stata scartata e che sarebbero proseguiti i colloqui formali per trovare un degno successore di Schmidt-Hebbel, economista specializzato nella riforma delle pensioni. A Boeri mancava l’esperienza necessaria, anche se il curriculum inviato elencava prestigiose istituzioni internazionali in cui il bocconiano avrebbe lavorato in questi anni: dal Fondo monetario internazionale alla Banca mondiale, dall’Ufficio internazionale del lavoro alla Commissione europea. Ma si è trattato di una esperienza assai limitata, perché come spiegato durante il colloquio di Parigi in tutti i casi si è trattato di occasionali consulenze. Il titolo principale di Boeri resta dunque la cattedra da professore ordinario alla Bocconi, perché non fa titolo all’estero avere organizzato numerosi convegni e dibattiti per l’editore di Repubblica dirigendo la fondazione intitolata al compianto padre. Né è particolarmente conosciuta nel giro delle istituzioni internazionali l’attività della Voce.info, che pure ha un suo seguito non trascurabile nella stampa italiana (anche perché citandone la fonte gli articoli sono riproducibili gratuitamente). Come non ha fatto impressione ai vertici dell’Ocse la serie di performance del bocconiano nei salotti tv, come la celebre apparizione da Serena Dandini che lo invitò a “ spiegare alle masse del ceto medio riflessivo gli insondabili misteri della crisi finanziaria”.
A Boeri resta così oltre all’attività universitaria e a quella di organizzatore dei think thank di De Benedetti anche la doppia collaborazione editoriale come economista-polemista. Con la sua sola firma scrive su La Stampa di Torino e in coppia con un altro economista, Pietro Garibaldi, pubblica commenti periodici su Repubblica, il quotidiano diretto da Ezio Mauro. Qui con qualche imbarazzo in più: se Boeri è assai amato dall’Ingegnere, non è particolarmente apprezzato dal fondatore del quotidiano del gruppo, Eugenio Scalfari, che in qualche occasione ha anche polemizzato direttamente.
Boeri è stato- suo malgrado nell’ultimo anno protagonista di due accese polemiche. Una - più politica- sui costi del referendum del giugno scorso e del suo mancato inserimento nell’election day. In quel caso Boeri insieme ai suoi ragazzi di bottega era semplicemente scivolato sulla calcolatrice sbagliando addizioni e moltiplicazioni e imputando al governo costi extra stratosferici di finanza pubblica (400 milioni di euro), poi rivelatisi del tutto infondati e corretti in corsa facendo nuovi errori di calcolo. Inciampato nella matematica, Boeri è scivolato anche sulla attività più classica (quella sì avrebbe fatto titolo all’Ocse): la previsione degli andamenti macroeconomici. L’economista bocconiano infatti è stato fra i primi a gettare acqua sul fuoco della crisi economica internazionale, sminuendone la portata. E nell’agosto 2007, sottolineando che “l’economia mondiale che continua a crescere a tassi molto sostenuti e con le banche centrali che hanno finora assolto al loro ruolo”, esortava: “non gettiamo oggi, come tante volte in passato, i semi della crisi futura con una reazione eccessiva alla crisi corrente”. Semmai, scrisse in quell’occasione, la colpa di quel che stava già avvenendo sui mercati era “un insieme di cattiva informazione, inesperienza finanziaria e miopia dei consumatori/investitori che si sono lasciati attrarre dalla prospettiva di ottenere mutui a tassi mai visti prima”. Proprio grazie a perle come queste e in assoluta buona compagnia (quella di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina) Boeri è diventato suo malgrado protagonista di un recente saggio scritto con successo da Marco Cobianchi, dal titolo più che esaustivo “Bluff – Perché gli economisti non hanno previsto la crisi e continuano a non capirci niente”. Forse all’Ocse più che il curriculum avevano prestato attenzione a quel saggio…
franco.bechis@libero-news.eu
Berlusconi che piange per l'informazione che lo distorce è uguale a chi scende in piazza contro il suo regime
Dopo che il consueto caravanserraglio di comici, intellettuali, giornalisti e politici senza altro palcoscenico hanno annunciato la solita manifestazione per la libertà di stampa messa rischio, Silvio Berlusconi prova a recitare la stessa parte dei suoi accusatori, con un piagnisteo non proprio nuovo di zecca sulla «povera Italia, con un sistema informativo come questo». Il premier ieri ce l’aveva con qualche virgolettato attribuitogli a tradimento da un paio di quotidiani sulla sua intenzione (negata) di fare fuori i vertici dei servizi segreti. Si è tirato naturalmente fuori dal caso di Dino Boffo: «fino a qualche giorno fa non sapevo nemmeno chi fosse» e si è indignato per chi ha sospettato la sua regia dietro la campagna di Vittorio Feltri... Il Berlusconi proprietario di Mediaset, temporaneamente azionista politico di riferimento della Rai, proprietario diretto o indiretto di Mondadori e Giornale che si atteggia a vittima del sistema informativo e il gruppone di quelli che dipingono il Berlusconi- capo del regime che soffoca la libertà di stampa sono due facce della stessa moneta. Merce falsa, buona per una politica che altro non sa dire e ormai fuori corso. Non è un vizio solo italiano. L’altra sera ho partecipato su Sky tg24 a un dibattito sul caso Boffo dove c’era un giornalista inglese che recitava la solita litania dell’Italietta che con i suoi giornali guarda dal buco della serratura, violenta la vita privata e la privacy dei cittadini e porta in prima pagina temi insulsi come le tendenze sessuali di tizio o caio. Pensavo di non avere capito bene, ma il collega parlava un ottimo italiano. E allora non ci ho visto più: chi deve dare lezioni ai giornali italiani? La stampa inglese? Quella che ha vivisezionato ogni pelo della famiglia reale? Quella che ha sbattuto le relazioni gay dei propri ministri costringendoli alle dimissioni? Beh, il mondo è fatto così. Lo stesso collega si diceva scandalizzato dell’ammissione di Berlusconi di avere rapporti quotidiani con il Vaticano: “ingerenza clamorosa della Chiesa nello Stato”. Per fortuna con me c’era Sandro Magister che in stile molto british ha osservato: “hai ragione, In Gran Bretagna questo scandalo non accade: la Regina è capo della Chiesa anglicana...”. Quella sulla libertà di stampa è una commedia. L’Italia non corre rischi: è un paese libero ed esercita questa libertà, piaccia o no. A decidere siete voi lettori ogni giorno in edicola o davanti alla tv.Ps. Questo è l’ultimo dialogo fra noi. Cambio lavoro. Ho ringraziato in privato editore e colleghi. Ma il grazie più di cuore è a voi lettori. Che siete e sarete sempre la forza più grande di Italia Oggi.
Franco Bechis
Madre e figlia Agnelli faccia a faccia davanti al fisco italiano
Entro il 28 settembre sia Marella Agnelli che la figlia Margherita in lite per l’eredità dovranno comparire davanti all’Agenzia delle Entrate per rispondere alle prime domande del fisco sul presunto tesoretto da due miliardi di euro con cui oltreconfine si sarebbe distribuito parte del patrimonio dell’Avvocato. Non è quindi più solo un fascicolo quello aperto dal direttore dell’Agenzia, Attilio Befera, ma un formale invito al contraddittorio che è stato notificato ad entrambe le parti in lite il 28 agosto scorso: direttamente a Margherita, che ha residenza fiscale in Italia, e allo studio legale che assiste Marella, che ha residenza fiscale in Svizzera. Con quell’atto si sospende ogni prescrizione. La vicenda che infatti ha suscitato tanto clamore questa estate (l’accusa di Margherita e dei suoi legali di sottrazione di parte dell’asse ereditario per un valore di due miliardi di euro) sarebbe infatti caduta in prescrizione entro il 31 dicembre di quest’anno. L’invito al contraddittorio- che è un invito a comparire per le prime spiegazioni entro un mese dal ricevimento- è il primo atto formale che sospende quella prescrizione. E ha un valore non solo sostanziale di un certo peso. La stessa famiglia Agnelli, secondo fonti accreditate, aveva pensato che l’annunciata apertura di un fascicolo sulla base di ritagli di stampa fosse più che altro un atto di grande evidenza mediatica che con il suo clamore sarebbe stato utile al governo italiano per mettere le ali al rimpatrio dei capitali con lo scudo fiscale che partirà il prossimo 15 settembre. Qualche consulente aveva addirittura immaginato di potere utilizzare proprio quel provvedimento per regolarizzare eventuali poste contestabili da parte delle Agenzia delle Entrate italiana. La formalizzazione del procedimento sottrae invece qualsiasi somma alla possibilità del rimpatrio: quindi ogni deposito legato a quella eredità al di fuori dei confini italiani dovrà restare dove si trova in attesa delle indagini degli 007 fiscali di Giulio Tremonti. E l’indagine a questo punto ci sarà, partendo anche dalla documentazione che potrà essere portata nel contraddittorio dai consulenti di Marella e Margherita. Nell’occasione si verificherà anche l’effettiva residenza svizzera di Marella, chiedendo spiegazioni su quel documento dello studio di commercialisti torinesi Ferrero in cui si sconsigliava di tenere la proprietà dei cani husky e di assumere i domestici proprio per evitare contestazioni sul punto. Il braccio di ferro fisco-Agnelli è dunque iniziato.
Franco Bechis
Benigni e signora in piazza. Contro le ruspe di Matteoli
Roberto Benigni e la sua gentile consorte-manager, Nicoletta Braschi, sono furiosi con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli e con il supermanager dell’Anas, Pietro Ciucci. Da un anno e più, appena arrivato a palazzo Chigi Silvio Berlusconi, infatti il ministero ha adottato e velocizzato fra le poche un’opera pubblica importante per il centro-Italia: il completamento della superstrada Orte-Terni-Rieti. Ma il problema è che per gli affari del comico toscano l’opera si è trasformata in un inferno che mette a rischio anche i guadagni provenienti da quello dantesco: l’Anas infatti sta scavando una galleria di fianco agli studios di Benigni. Rendendo impossibile ogni registrazione. Il problema è emerso fra le righe dell’ultimo bilancio degli studios del gruppo Melampo, che un tempo si chiamava Spitfire e ora Cinecittà Papigno, grazie all’alleanza con Cinecittà studios cui i coniugi Benigni hanno piano piano trasferito la maggioranza del capitale, mantenendo comunque il 40%. Alle porte di Terni, grazie a un accordo con il Comune e a un affitto di assoluta affezione (22.568 euro l’anno) la società gestisce per proprie produzioni o per locazione a terzi gli Stabilimenti di Papigno. Il piano industriale prevedeva una notevole redditività da dividere fra i soci. Ma alla fine del 2008, che doveva essere l’anno della svolta, da dividersi sono restati appena 3.660 euro. Spiccioli per due come il cavaliere di gran Croce Benigni che nel 2005 ha dichiarato un reddito da 3.580.995 e come la consorte-manager Nicoletta Braschi che lo stesso anno ha dichiarato 1.699.365 euro. E una certa rabbia, perchè se quegli studios (che custodiscono ancora le scenografie-premio Oscar di Pinocchio) non rendono il dovuto, la colpa non è della gestione. Come scrive nella relazione al bilancio 2008 il presidente di Cinecittà Papigno, Lamberto Mancini, la responsabilità è dello «svolgimento dei lavori di realizzazione, a ridosso degli studi, del viadotto sulla Valnerina e della relativa galleria di collegamento nell’ambito del completamento della superstrada Orte-Rieti che, causa il rumore prodotto dai mezzi d’opera, hanno praticamente reso impossibile l’uso proprio degli studi». Non è servito fare sollevare un po’ di politici locali preoccupati per la caduta della manodopera: Matteoli e Ciucci sono stati inflessibili e nel febbraio 2009 hanno perfino celebrato la caduta del primo diaframma della galleria lì di fianco. Chissà se è anche con questa rabbia che i coniugi Benigni hanno promesso di sfilare in piazza contro Berlusconi...
Franco Bechis
E alla fine Feltri fa un favore al vescovo anti-Berlusconi
Con un pò di approssimazione ieri pomeriggio alcune agenzie di stampa hanno battutto la notizia: «La Cei chiede un passo indietro al direttore di Avvenire, Dino Boffo». Ad avanzare la richiesta (facendo poi mezza rettifica) non è stata in realtà l’assemblea dei vescovi, ma un autorevole esponente come mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli Affari giuridici, che ha ipotizzato un «passo indietro» di Boffo, «pur incolpevole», per «il bene del giornale e della Chiesa». Mogavero è il leader dell’ala anti-berlusconiana dei vescovi italiani. Ironia della sorte è proprio lui- che accusava Boffo di eccessiva morbidezza nei confronti del premier- a schiacciare la palla alzata da Vittorio Feltri.
(...) Perché la sostanza di questa italianissima storia è proprio questa. Di cosa Feltri e il suo Giornale hanno accusato il direttore di Avvenire? Di avere criticato i costumi anche sessuali del premier in un paio di occasioni, una volta proprio a firma Boffo che rispondeva a una lettera assai critica di un lettore (e in quella redazione probabilmente l’effetto-escort ne ha originata più di una). Critica legittima, ma per fare la morale ad altri bisognerebbe avere una vita privata in ordine: altrimenti- sostiene Feltri- bisognerebbe tacere. Tesi a cui è stato allegata copia di un certificato penale di antico patteggiamento di Boffo per il reato previsto dall’articolo 660 del codice penale (molestie). E il contenuto di una informativa che lo accompagnava, scritta in linguaggio da questurino e assai simile a una di quelle veline che i servizi hanno in abbondanza prodotto nella storia italiana per dire che lo stesso Boffo era stato “attenzionato” per presunta inclinazione omosessuale. Centinaia di veline simili contenevano pure balle utilizzate per le guerre fra bande di cui è piena la politica italiana, altre contenevano vox populi spesso vicina alla realtà. Ma insomma, il contenuto degli editoriali del Giornale di questi giorni era pressapoco questo: Boffo non dovrebbe permettersi commenti sulla moralità di Berlusconi. La campagna è stata appunto sposata dall’arcivescovo di Mazara del Vallo, che da mesi ha la linea diametralmente opposta: Avvenire e il suo direttore sarebbero stati troppo teneri nei confronti sia del premier che del suo governo. Mons. Mogavero non è uno che manca di chiarezza: si felicita pure che la vicenda Boffo abbia mandato gambe all’aria lo scandaloso (per lui) incontro fra Berlusconi e il cardinale Tarcisio Bertone a l’Aquila: Berlusconi è peccatore, di quelli che manco si debbono perdonare. Ilo 24 giugno scorso sempre Mogavero chiedeva al premier italiano le dimissioni che oggi ventila per Boffo. Anche allora disse, come uno che la sa lunga: “non escludo un passo indietro del presidente del Consiglio”, che tutti come oggi interpretarono come un attacco diretto della chiesa italiana al governo. Insomma, il povero Boffo viene attaccato per avere criticato Berlusconi come per non averlo attaccato abbastanza. Probabilmente oggi il direttore di Avvenire si difenderà anche dall’accusa principale, quella contenuta in quel patteggiamento. L’articolo 660 del codice penale all’epoca puniva con ammenda reati assai diversi fra loro. In quelle molestie rientravano il cane che abbaiava troppo, sms e telefonate indesiderate, schiamazzi e disturbi della quiete pubblica. In cassazione nel 2008 è arrivata una vicenda di una proprietaria di cani e gatti che non le loro flatulenze ammorbavano i vicini. Reati non proprio da galera. Nel caso- ma nessuno parla- probabilmente si trattava di telefonate indesiderate. L’utenza era intestata al direttore di Avvenire, ma negli atti secretati è contenuta l’ipotesi che ad usare l’apparecchio non fosse l’intestatario: si trattava di terza persona cui era stato prestato il telefonino. Secondo la ricostruzione fatta da fonti attendibili questa vicenda sembra intrinsecamente legata a un’altra drammatica storia di tentato recupero dalla tossicodipendenza, purtroppo tragicamente fallito. Il riserbo adottato e quel patteggiamento, necessario ad evitare ogni tipo di clamore a protezione di più persone avrebbero questa motivazione. Per come si sono messe le cose e per il linciaggio messo in atto credo che oggi sia impossibile tenere secretato il contenuto di quel patteggiamento...
Franco Bechis
Fisco, ecco il trucco per dribblare Tremonti e Obama
Prima mossa, prendere su tutti i propri risparmi ovunque conservati e portarli in Lichtenstein. Sì, proprio nel paese che per primo ha tradito la fiducia dei propri depositanti vendendo i loro nomi alla Germania. A Vaduz, ma dai gestori giusti. Pronti a varcare l’Oceano, destinazione Panama, l’ultima terra libera dalla morsa del fisco internazionale, visto che di lei se ne è dimenticata pure l’Ocse. Lì costituire una fondazione a cui intestare capitali e conti detenuti in Lichtenstein, e non c’è Barack Obama o Giulio Tremonti che possa bussare a quella porta. Chi ha ideato il sistema e lo ha messo in vendita perfino su Internet assicura che funziona. Si tratta di un gruppo di specialisti nella gestione dell’offshore. Il sistema è stato ideato dalla Panama offshore Incorporation e propagandato dal sito www.doubleassetprotection.com in risposta sostanziale alla guerra santa verso i paradisi fiscali. Nessuno ovviamente sostiene che bisogna beffare o dribblare il proprio sistema fiscale nazionale, ma l’ingegnoso meccanismo viene utilizzato per sfuggire al pressing di creditori insistenti. Vero che agli americani i gestori di patrimoni panamensi spiegano che è difficile blindare i propri risparmi standosene seduti comodamente in poltrona, perché poi accade che perfino la Svizzera con la sua Ubs ti volta le spalle e arrivano i guai. Che funzioni davvero o no, certo il meccanismo non è alla portata di chiunque, e chissà se bisogna fidarsi dei professionisti di Panama. Ma non farei spallucce, prendendo la cosa come un banale tentativo di truffa ai risparmiatori. Quel che oggi viene senza pudicizia alcuna suggerito e addirittura messo in vendita attraverso la rete, è poi lo stesso mestiere che fior di consulenti e studi tributari internazionali con più o meno raffinatezza fanno da decenni ideando architetture complesse e sfruttando tutti i meandri della legislazione per fare più ricchi i loro clienti e assai meno le esattorie dei singoli Stati. Dalle operazioni finanziarie più ingegnose alla costruzione di catene di controllo esterovestite, la storia delle imprese italiane è piena dei frutti dell’ingegno dei migliori consulenti. Tutti legalissimi, finchè le maglie della legge non si sono ristrette. Ma con un solo scopo: non pagare quel che verrebbe chiesto dal fisco nazionale. Non lo si è pagato e non lo si paga in parte per colpe di chi scappa, in parte per responsabilità di chi fa scappare. E nè per le une nè per le altre può risolvere solo uno scudo fiscale...
Franco Bechis
Per l'eredità han dovuto resuscitare Caracciolo a giugno
L’atto porta del 19 giugno 2009, il numero di repertorio 80915/19467. E’ stato stilato dal notaio Antonio Mosca ed è stato trascritto nel registro del catasto il 20 luglio 2009. E’ un atto notarile pubblico di assegnazione a socio dei beni della società per scioglimento della stessa. Come riporta il documento è rubricato un po’ grottescamente come «atto fra vivi». Grottesco perchè la società sciolta si chiama «Tenuta di Torrecchia», ha sede a Cisterna di Latina e cede i suoi 120 beni fra porzioni di fabbricati e terreni al principe Carlo Caracciolo di Melito, nato a Firenze il 23 ottobre 1925. Ma il principe alla data dell’atto è passato a migliore vita da sei mesi: è morto il 15 dicembre 2008. Quell’atto però è necessario per l’eredità... La tenuta di Torrecchia era assai cara al principe, che ci ha vissuto gran parte del suo tempo. Lì dettò le sue ultime volontà il due agosto del 2006. L’unico testamento ritrovato al centro della contesa fra eredi sicuri (Jacaranda Falck) e presunti (figli illegittimi in causa). Fu aperto dal notaio Fabio Ricci di Aprilia alla presenza di testimoni due giorni dopo la morte del principe, il giorno successivo al rilascio del certificato di morte da parte dell’ufficio dello stato civile del comune di Roma. Una buona parte dell’eredità lasciata ad amici e conoscenti riguardava proprio terreni e fabbricati della amata tenuta di Torrecchia. Beni lasciati insieme a una consistente liquidità dallo stesso principe essenzialmente agli amici del gruppo Espresso che con lui avevano condiviso per decenni la passione per l’editoria. A Milva Fiorani ad esempio lasciò due milioni di euro, a Gianluigi Melega 500 mila euro. Somme consistenti. Ma poi il testamento continuava: “In merito alla società Torrecchia srl dispongo che le case attualemnte in uso, ovvero condotte in locazione dai signori Milvia Fiorani, Marco Benedetto, Donata Zanda ed Ettore Rosboch vengano agli stessi lasciate vita natural durante. Per tutto il resto del mio patrimonio, mobiliare e immobiliare, nomino mia erede universale Jacaranda Falck Caracciolo in Borghese”. Ma la società che aveva in carico la tenuta sarebbe da lì a poco satta messa in liquidazione e scioglimento, e il destino dei beni avrebbe dovuto essere l’assegnazione al socio per poi girare tutto ad eredi e usufruttuari secondo quanto stabilito. L’operazione non potè essere realizzata con Caracciolo in vita. E così si è fatta post mortem con quel grottesco “atto fra vivi” del giugno scorso che facilita il percorso ereditario...
Franco Bechis
Mr Husky spacca gli Agnelli- Famiglia divisa sul commercialista che ha consigliato Marella sui cani mettendola nei guai con il fisco
L’uomo che con il suo appunto rischia di mettere nei guai con il fisco Marella Agnelli, e cioè il commercialista torinese Gianluca Ferrero che suggerì all’indomani della morte dell’Avvocato di non intestarsi i cani husky posseduti a Torino per non fare sembrare fittizia la residenza in Svizzera, ha provocato una frattura finora inedita fra gli altri eredi. E’ proprio su Mr Husky che la famiglia si è spaccata all’interno della cassaforte societaria, la Giovanni Agnelli & c e per la prima volta nella sua storia non ha votato all’unanimità una proposta del presidente, rischiando di causare le dimissioni di un irritato Gianluigi Gabetti. Lo rivela il verbale integrale dell’assemblea straordinaria della accomandita depositato presso MF-Honeyvem...
L’autore di quel memorandum con i consigli alla vedova Agnelli che ora sono al centro della indagine del fisco italiano sull’eredità dell’Avvocato fu infatti nominato socio accomandatario della Giovanni Agnelli & c il 15 maggio 2008 per addirittura un trentennio, fino “all’assemblea di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2008”. La proposta arrivò da Gabetti, che di conseguenza sottopose all’assemblea della famiglia anche la modifica dell’articolo 10 dello statuto sociale con l’elenco dei soci accomandatari, convinto che per semplice alzata di mano la pratica sarebbe stata chiusa in un baleno. Mr Husky, il giovane Gianluca, era figlio di Cesare Ferrero, presidente del collegio sindacale della stessa Giovanni Agnelli & C. Come ricordò lo stesso Gabetti quel giorno, fu l’Avvocato prima di morire a raccomandarglielo: “si tenga stretto il dottor Ferrero”. Gianluca era pure nipote di un altro professionista di fiducia, Giorgio Giorgi, rappresentante comune degli azionisti. Tanto che con la nomina di Mr Husky a socio accomandatario quello stesso giorno si sono dovuti dimettere per incompatibilità padre e zio. Ma la rapida alzata di mano non ci fu. Per la prima volta nella storia della cassaforte degli Agnelli uno dei capostipite, la sorella dell’ Avvocato, Maria Sole Agnelli Teodorani Fabbri, alzò la mano per dire no. Nulla di personale verso Mr Husky, ma «lo spirito che ha sempre contraddistinto la società dalla sua costituzione è stato quello di circoscriverne la partecipazione ai componenti della famiglia. Ritengo che ciò trovi conferma nella norma che vuole in capo agli accomandatari il requisito di azionista. Si tratta pertanto non di semplici amministratori, ma di persone di famiglia. Vero che ci sono state le dovute eccezioni, di cui Gianluigi Gabetti è autorevole e ben voluto rappresentante, ma come è noto, l’eccezione conferma la regola e non la modifica». Maria Sole precisò con cortesia di non fare “alcuna valutazione sul candidato proposto, che anzi considera persona degna della massima stima”, e dopo una discussione anche accesa confermò la sua contrarietà alla nomina di Mr Husky decidendo però di astenersi nel voto per non provocare eccessiva frattura con un no, decisa comunque “ad attenersi allo spirito delle norme che governano la società”. Non la prese bene Gabetti, che replicò: “Ho sempre rispettato l’opinione degli azionisti, non sono mai venuto meno allo spirito che regola lo statuto della società e in questo spirito i fondatori, l’avvocato Giovanni Agnelli e l’ingegnere Giovanni Nasi, vollero che a fianco dei familiari vi fossero due amministratori indipendenti. Oggi io sono l’unico rimasto e la mia preoccupazione è che alla mia scomparsa possa non esserci più nessuno”. In effetti in passato altri due autorevoli esterni alla famiglia ebbero il ruolo proposto a Mr Husky: Cesare Romiti e Gabriele Galateri di Genola. Nessuno contestò le scelte. Ma il precedente non ha convinto Maria Sole. Provocando la frattura e il commento di Gabetti: «Prendo nota con tristezza che per la prima volta nella storia dell’accomandita una delibera non è stata assunta all’unanimità su tutto». Un precedente che non avrebbe potuto avere un bis: “altrimenti il mio impegno morale verso gli azionisti verrà riveduto perché è stato assunto alla condizione di potere sempre rappresentare l’opinione unanime degli azionisti stessi”. All’uscita dell’assemblea Gabetti fu avvicinato dalle agenzie di stampa: “Con il consenso di tutti Gianluca Ferrero è il nuovo accomandatario». Il caso Mr Husky è restato in famiglia...
Franco Bechis
I cani mettono nei guai Marella Agnelli con il fisco
L’Agenzia delle Entrate, che ha aperto un fascicolo sull’eredità di Gianni Agnelli per verificare eventuali profili di evasione fiscale, sta accertando anche l’effettiva residenza svizzera di Marella Caracciolo vedova Agnelli. A fare rischiare qualche brivido alla signora, secondo quanto risulta a Italia Oggi, sarebbe la passione di Marella per gli amati husky, i cani che prediligeva anche l’Avvocato, la cui permanenza sarebbe accertata in suolo italiano, principalmente a Torino per più dei fatidici sei mesi annui, data limite per considerare fittizia la residenza estera di un cittadino italiano. Ad avere attirato l’attenzione un appunto del commercialista torinese Gianluca Ferrero, con riferimento ai cani e ai domestici di casa Agnelli. Ad avere attirato l’attenzione degli ispettori del fisco italiano sono sostanzialmente due passaggi del memorandum firmato da Ferrero il 16 maggio 2003 con l’elenco dei beni posseduti dall’Avvocato al momento della morte, relativi all’assunzione dei 15 domestici in servizio nella residenza di famiglia sulla collina di Torino e all’intestazione dei cani. Il suggerimento dei commercialisti a Marella fu quello di non caricarsi nè dipendenti nè animali, intestando (così sta scritto nell’appunto) i domestici a John Elkann e i cani a un prestanome. L’avvertenza dei commercialisti di fiducia, scritta nel memorandum, fu infatti quella che con quei passaggi si poteva mettere a rischio l’effettiva residenza in Svizzera, «paese in cui l’amministrazione fiscale italiana non riconosce ai cittadini italiani lo status di residenti anche ai fini fiscali, salvo prova contraria da prodursi a cura del contribuente». Con il trasferimento a Marella di cani e domestici sarebbe divenuta secondo lo studio Ferrero «un domani molto complessa la possibilità di provare la propria residenza estera». Il testo di quel memorandum, reso noto per la pubblicazione sulla stampa italiana a fine luglio, è entrato ora nel fascicolo predisposto dalla Agenzia delle Entrate. Ufficialmente la struttura guidata da Attilio Befera non conferma e non smentisce l’indagine sulla effettiva residenza svizzera di Marella, ma spiega che gli ispettori del fisco “si stanno muovendo a 360 gradi”, partiti per il momento da ritagli di stampa, e che quindi tutti gli accertamenti del caso verranno effettuati “come prevede la procedura secondo routine”, anche se al momento nessuna contestazione formale è stata notificata. Naturalmente il tema della residenza della vedova Agnelli come di tutti gli eredi dell’Avvocato ha rilievo anche a proposito di eventuale liquidità che potrebbe emergere al di fuori dei confini italiani (la polpa di quell’indagine riguarderebbe infatti due miliardi di euro di fondi non ricompresi negli accordi ereditari e contestati dalla figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli).
Indagini come queste sono svolte ogni anno dal fisco italiano su centinaia di grandi contribuenti e su migliaia di sospetti evasori. Non c’è da scandalizzarsi dunque se tocca anche agli eredi della più importante famiglia italiana di questi decenni. Come spesso capita le liti sugli assi ereditari provocano guai collaterali, e quel che è accaduto in casa Agnelli non poteva sfuggire agli occhi nè del fisco nè della stampa. Nessuno è colpevole di nulla fino a quando non viene accertata quella che è solo un’ipotesi in via definitiva, e il fisco italiano non sempre ha brillato in rapidità in casi simili. Giusto quindi invocare prudenza e garantismo, che sono bandiere sventolate in Italia quasi sempre secondo le convenienze e gli schieramenti del momento. Chi fa spallucce sul caso Agnelli e magari si indigna pure accusando chi ne riferisce di macchiare la memoria di chi non può più difendersi, spesso ha trasformato ipotesi giudiziarie che riguardavano per esempio le aziende di Silvio Berlusconi in titoli simili a sentenze passate in giudicato. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che imprese e grandi patrimoni italiani abbiano cercato di evitare la mannaia del fisco per decenni secondo formule più o meno raffinate. Stuoli di consulenti hanno lavorato per questo. La confusione legislativa ha offerto più di una via di fuga, è vero. Ma la sostanza è che ricchezza prodotta in Italia è stata sottratta con più o meno furbizia al fisco, e cioè al bene collettivo. Poi magari chi lo ha fatto è stato in prima fila a fare predicozzi sullo Stato che non funziona, sulle infrastrutture che mancano, sui servizi sociali scadenti. E cioè sulle conseguenze di quella furbizia. Ci saremmo risparmiati almeno la beffa delle prediche inutili...
Franco Bechis
Il cavaliere inseguito dal Fisco. Anche sotto Tremonti
In un anno per ben tre volte il fisco ha bussato, con modi un po’ rudi, alla porta principale dell’impero di Silvio Berlusconi, quella del gruppo Fininvest. Per due volte, alla fine del 2007 e all’inizio del 2008, lo ha fatto regnante Romano Prodi e con Vincenzo Visco viceministro delle Finanze. La terza volta è capitata con lo stesso Berlusconi a palazzo Chigi e con Giulio Tremonti al ministero dell’Economia. Porta perfino una data simbolo di disgrazie, quella dell’11 settembre 2008, giorno in cui è stato consegnato a Fininvest un verbale di contestazione relativo a partite Ires, Irap e Iva dell’anno 2004. A rivelarlo è la nota integrativa al consolidato della capogruppo di Berlusconi da poco depositata al registro delle imprese. Con stile asciutto, la capogruppo guidata dalla primogenita del premier, Marina Berlusconi, spiega che “sul finire del 2007 e del 2008 alla società sono stati notificati due avvisi di accertamento- riferiti alle annualità 2002 e 2003- emessi dall’Ufficio delle Entrate- Roma I in esito alla verifica parziale condotta da personale della Direzione regionale della Lombardia». Per farla breve, nel primo si contesta la deduzione di una svalutazione della partecipazione in Trefinance sa, che è la finanziaria estera del gruppo, e nella seconda l’indebita fruizione del credito di imposta sui dividendi percepiti da un’altra partecipata, Euridea (la ex Standa) prima che questa venisse ceduta a terzi. Fininvest ha chiesto all’amministrazione, come fanno tutti, la formulazione di una proposta di accertamento con adesione. Ma è stata respinta: il regalino finale di Prodi e Visco. Alla società non è restata altra arma che avviare il contenzioso tributario “per vedere annullate entrambe le pretese dell’amministrazione finanziaria”. Ma ancora sotto il governo di centro sinistra è arrivata la richiesta di dare un’occhiata anche ai conti 2004. Da lì è partita l’indagine che si è concretizzata nel verbale di contestazione a Fininvest dell’11 settembre 2008. Per contestare “l’indebita deduzione di costi ai fini Ires e Irap e la mancata regolarizzazione ai fini Iva di movimenti finanziari ritenuti corrispettivi di prestazione di servizi”. Ritenendo di avere ragione, Fininvest non ha stanziato alcun fondo rischi, e quindi non si conosce l’entità delle tre contestazioni. Ma il gruppo è ormai abituato insieme a quello con i pm anche al braccio di ferro con il fisco. Avvenne anche in Spagna, dove nel 2008 dopo 10 anni un giudice ha dato ragione a Berlusconi, liberandogli 21,6 milioni...
Franco Bechis
Le pagelle del Vaticano sulla politica italiana: Napolitano super. Berlusconi? Il principe fa quel che vuole, ma non si deve sapere. Draghi sì
Colloquio a distanza per gli auguri di buone vacanze con alto esponente vaticano. Chiaccherata in libertà anche sulle questioni di politica italiana. Con una sorta di pagella sulla politica italiana che qualche interesse può avere per tutti. Per questo mi permetto di riportarne la sostanza. Per il Vaticano il punto di riferimento assoluto è il rapporto ottimo con il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Del tutto assorbito, dimenticato il disappunto per l'intervento nel caso Eluana. Napolitsno viene apprezzato per l'equilibrio e per l'attenzione anche alle questioni d'oltretevere. "Ha grandi doti umane e saggezza. Ottimo il rapporto con il Pontefice. Apprezzato il suo ruolo di controllo e di suggerimento pacato all'attività di governo". Più imbarazzo per le vicende pubbliche di Silvio Berlusconi, che certo risultano poco digeribili a gran parte dei cattolici. "Nulla da dire sul rapporto con il governo. Le premesse sono state buone, non a tutte sono seguiti fatti. Berlusconi? Il principe da sempre fa quel che vuole. Ms la regola aurea è che non si sappia mai quel che fa...". Assai meno apprezzato nel centrodestra Gianfranco Fini, ma è comprensibile e forse reciproco. Poco interesse alla gara nel Pd. Mreno entusiasmo di quel che ci si immaginerebbe nei confronti di Pierferdinando Casini "Brutta quella sua campagna elettorale utilizzando nei manifesti immagini dei figli piccoli e della seconda moglie. Scelta di dubbio gusto". Non scalda oltretevere la corsa per la guida del Pd, anche se non si è particolarmente entusiasti della candidatura di Ignazio Marino, anzi. Ma la vera sorpresa viene dalla stima che il Vaticano nutre nei confronti di chi viene ritenuto "riserva della Repubblica", e cioè quel governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi che non a caso è stato ospitato poco tempo addietro sull'Osservatore romano. La stima e la simpatia nei confronti del banchiere centrale sono assai elevate, e certo maggiori di quelle che suscita il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti di cui per altro sono apprezzati alcuni interventi. Draghi è d'altra parte assai stimato anche in altri autorevoli ambienti cattolici, da Sant'Egidio all'Opus Dei fino a Comunione e liberazione. Sarà il Governatore forse la presenza più significativa all'imminente meeting per l'amicizia dei popoli, cui è stato invitato dall'integruppo parlamentare per la sussidiarietà fondato da Maurizio Lupi e a cui aderiscono anche Enrico Letta, Pierluigi Bersani e Gianni Alemanno...
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