La Corte Costituzionale fa vincere ai radicali il referendum che fallì

La Corte Costituzionale ha accolto due dei tre ricorsi presentati per bocciare la legge 40 sulla fecondazione artificiale facendo così passare quel referendum che nel 2005 era fallito perchè tre italiani su quattro disertarono le urne non ritenendo il quesito loro proposto dai radicali degno di attenzione. Con questa decisione, che giudica incostituzionali i commi due e tre dell’articolo 14 della legge sull’impianto di tre embrioni, si è immediatamente riacceso con toni forti il dibattito politico con il rischio di trasformare il Parlamento nello stadio di una continua guerra di religione. Proprio alla vigilia di un tormentato iter alla Camera della legge sul testamento biologico. I sintomi di quel che può accadere si sono colti ieri nei toni forti delle opposte tifoserie. C’è stato chi ha messo in discussione la leggitimità della Corte costituzionale e la sua rappresentatività del paese (cui non è tenuta). Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della decisione, anche se già nel brevissimo dispositivo reso pubblico si comprende come la Corte abbia ritenuto prevalente il diritto alla salute della madre sul diritto dell’embrione. Ed è chiaro che la decisione di rendree incostituzionali quei due articoli fa cadere il pilastro di quella legge, che è l’intangibilità dell’embrione. Il referendum del 2005 per altro fallì per assenza di votanti e non perché furono bocciati i quesiti dei radicali (autori sia pure attraverso associazioni di area degli stessi ricorsi alla Corte), e quindi non si può dire formalmente che sia stata ribaltata una volontà popolare. Forse poco opportuno in questo momento dare fuoco alla materia e costringere il Parlamento a una sorta di sessione dedicata alla bioetica (testamento biologico e nuova fecondazione assistita), ma comunque legittimo. Quel che è accaduto però mostra con certezza come sui temi dell’inizio e della fine della vita la politica non può uscire lavandosene le mani, sfruttando le opportunità del momento e sventolando la falsa bandiera della libertà di coscienza. Primo perché si tratta di temi decisivi e non secondari per tutti (lo dimostra anche il fatto che questo sia stato l’unico tema politico ad agitare il congresso Pdl dividendo Silvio Berlusconi da Gianfranco Fini). Secondo perchè sui principi i partiti devono esprimersi con chiarezza. Terzo perché nelle aule questa discussione ha senso, ma le norme di legge bisogna poi farle con gli esperti della materia (che stanno solo nelle commissioni di merito). Altrimenti si fanno pasticci e si ricomincia ogni volta da capo... Franco Bechis

Berlusconi lancia la bomba Minzolini sul Tg1

Dopo mesi di incertezza, da oggi la Rai avrà finalmente il suo nuovo vertice. Il consiglio di amministrazione presieduto da Paolo Garimberti indicherà d’accordo con l’azionista che domani ratificherà tutto in un’assemblea totalitaria il nome del nuovo direttore generale. Sarà Mauro Masi, gran commis di lunga esperienza, già dirigente in Banca d’Italia, poi una carriera in parte da manager pubblico (è stato commissario straordinario alla Siae) e ai massimi livelli nella dirigenza di Stato, dove ha collaborato con Lamberto Dini, Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi fino a diventare segretario generale a palazzo Chigi. A Masi, ha spiegato ieri sera il premier ai suoi, verranno affidati pieni poteri anche sulle nomine. Proprio ieri sera infatti a palazzo Grazioli si è svolta una riunione di maggioranza che nel tam-tam subito corso per la capitale avrebbe dovuto disegnare l’intero organigramma della nuova tv di Stato. Così invece non è avvenuto, con qualche sorpresa dei convenuti, fra i quali c’erano i capigruppo di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri (accompagnato dall’ormai inseparabile vicecapogruppo, Gaetano Quagliariello), alcuni neo consiglieri di amministrazione dell’azienda come Antonio Verro (già deputato di Forza Italia), ministri come Roberto Maroni (Interno) e Andrea Ronchi (politiche Ue) e viceministri come Paolo Romani (Comunicazioni), che ha proprio la delega sulla Rai. A tutti, desiderosi di entrare nel vivo della discussione, pronti a buttare sul piatto le candidature per la vicedirezione generale e per la guida di reti e di testate, Berlusconi ha spiegato che ogni dossier potrà essere affrontato istituzionalmente solo con Masi, che avrà ampia autonomia. Unico tema affrontato dal premier prima dell’arrivo di Gasparri e Ronchi è stato quello della direzione del Tg1, che si renderà vacante dopo la nomina di Gianni Riotta al Sole 24 Ore. L’interim sarà affidato al vicedirettore Andrea Giubilo. Per la direzione, a sorpresa, Berlusconi ha buttato lì una sorta di mini-sondaggio: “Che ne pensate di Augusto Minzolini?”, rendendo per la prima volta ufficiale la candidatura del notista politico de La Stampa. Poi il premier ha spiegato che “certo, ci sono altri nomi come quello di Mario Orfeo, che potrebbe andare bene o male sia per il Tg1 che per il Tg2”. Ma fra i suoi c’è stato qualche mugugno: “Orfeo? Ma viene dal partito di Repubblica, che già ha conquistato la presidenza Rai. E non era legato a Casini e D’Alema?”. Berlusconi ha tagliato corto: “io parto, ci si vedrà dopo Pasqua. A reti e tg ci pensa Masi”. Franco Bechis

I Tg Rai pensano solo al palazzo

Nell’informazione Rai esiste solo il palazzo, tutto il resto d’Italia non trova che una pallida rappresentazione. Tre quarti delle interviste e delle dichiarazioni riportate nel Tg1, Tg2 e Tg3 sono riservate a membri del governo ed esponenti di partito di maggioranza e opposizione. Due terzi nelle trasmissioni giornalistiche di approfondimento, dagli speciali dei telegiornali ai vari contenitori di Bruno Vespa, Michele Santoro e Giovanni Floris. Sono clamorosi i dati sul pluralismo sociale censiti dall’autorità di garanzia per le comunicazioni guidata da Corrado Calabrò e indicano l’assenza quasi assoluta della maggioranza sociale del Paese nell’informazione della tv di Stato... Nel tg1 di Gianni Riotta (che da ieri è stato indicato come nuovo direttore del Sole 24 Ore) quasi l’80% dell’informazione del mese di gennaio è stata appaltata a dichiarazioni e interviste ad uomini politici italiani. Perfino il Vaticano (ma nel censimento c’è anche l’Angelus domenicale del Papa trasmesso in diretta per convenzione) si è dovuto accontentare del 4,19% riservato dal principale tg di informazione pubblica e del settimo posto (5,06%) nelle trasmissioni di rete. Se così accade a un soggetto ritenuto potere forte, addirittura secondo il neo presidente della tv di Stato, Paolo Garimberti, in grado di influenzare i palinsesti di viale Mazzini, figuratevi quale destino è riservato agli altri soggetti sociali. I sindacati contano solo sul Tg3 (ma hanno il 4,09%) e su Rete Tre (9,95%). Al mondo delle professioni solo il decimo posto in classifica sul Tg3 (1,78%) e sulla Rete due (2,42%). Nemmeno in classifica su tutte le altre reti e testate. Esponenti del mondo della cultura sostanzialmente assenti. Mondo dell’economia inesistente: si conta solo qualche rapida comparsa di imprenditori e banchieri al Tg1 (1,09%) e su Rai 3 (2,76%). Unica altra categoria vezzeggiata e cullata dall’informazione della tv di Stato è quella dei giornalisti, in genere esperti di politica, perché li si invita a fare domande al politico di turno. Più che una televisione di Stato i dati dell’Authority disegnano una tv aziendale di palazzo, dove tutto quel che capita al di fuori di quelle quattro mura non ha rilievo informativo. Perfino la politica estera è ridotta al lumicino, e la gran parte di Italia non può avere voce. E’ un quadro desolante che dovrebbe fare da riferimento per le decisioni che dovranno prendere Garimberti e il prossimo direttore generale della Rai, Mauro Masi... Franco Bechis