Nati dopo il 25 aprile

In Italia ci sono regolari 61.682.417 abitanti. Di questi 2.063.127 sono stranieri non residenti ma in possesso di regolare permesso di soggiorno. I residenti sono 59.619.290. Di questi 3.432.651 sono stranieri che vengono da ogni parte del mondo e hanno ottenuto la cittadinanza italiana. A tutti questi della storia di Italia importa relativamente, perchè per loro la storia ha altre radici. Restano dunque 56.186.639 italiani nati e cresciuti in Italia. Fra loro 46.416.637, pari all’82,61%, ha meno di 63 anni. E’ cioè nato dopo il giorno della liberazione, dopo il 25 aprile 1945. Considerando tutta la popolazione residente sul territorio solo il 15% ha vissuto quel giorno. Più o meno da protagonista. Perchè di quel 15% vivo e presente in Italia il 25 aprile 1945 uno su tre aveva fra zero e cinque anni, e presumibilmente ha ricordi un po’ confusi di quel giorno. Quindi l’assoluta stragrande maggioranza di questo paese non ha vissuto i giorni del fascismo nè quelli della seconda guerra mondiale, nè quelli della liberazione. Non ha sentito sulla propria pelle lo scontro fra l’una e l’altra fazione, e naturalmente non fa di quel giorno una bandiera o una religione per i motivi che vorrebbe chi organizza cortei, palchi e comizi in piazza. Per molti, quasi tutti, quello è soprattutto un giorno di festa. La festa di una nazione, il paese in cui si vive, la memoria del giorno natale dell’Italia libera, democratica e repubblicana. Queste parole hanno un senso, più o meno sentito per tutti. Non lo ha invece la contrapposizione, la divisione sul giorno della liberazione che di alcuni e non di altri. Non lo ha perchè quel giorno non rappresenta questo per nove italiani su dieci. Ci si contrappone? Sì, certo. Come quando la Cgil sfila in corteo davanti al circo Massimo. Come quando l’onda degli studenti occupa le scuole contro la riforma di Maristella Gelmini. Ma una contrapposizione che ha le ragioni dell’oggi, non quelle del 1945. Ci si divide fra l’Italia di Silvio Berlusconi e quella che non si riconosce in lui, anzi. Le polemiche sui cortei del 25 aprile nascono lì, non in una storia non vissuta sulla propria pelle. Ha senso allora porre oggi l’accento come ha fatto il capo dello Stato Giorgio Napolitano, sulla necessità di tenere «fermo un limite invalicabile rispetto a qualsiasi forma di denigrazione o svalutazione di quel moto di riscossa e riscatto nazionale cui dobbiamo la riconquista anche per forza nostra dell’indipendenza, dignità e libertà della Nazione italiana»? Ha senso invitare a celebrare «tutti uniti»? No, perchè diventa un modo per fare risaltare quella divisione che è più nella testa, nel ricordo e certo anche nel cuore di chi organizza le manifestazioni di ogni 25 aprile che nel vissuto e nella coscienza degli italiani. Certo, si fa memoria della storia, ed è sacrosanta la memoria delle proprie radici. Accade in tutti altri paesi. Ma è evidente che la presa della Bastiglia per i francesi è una festa che ha radici e valori che si sono trasformati dal 1789 ad oggi seguendo il vissuto di una nazione. Così il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana. Si fa memoria anche il giorno di Natale e di Pasqua per i cristiani, conservandone le radici autentiche. Ma non una storia che non ha più senso. C’è una barzelletta che ogni tanto si racconta. Anno 2009, un cristiano incontra un ebreo per strada. Lo ferma e comincia a riempirlo di pugni. Arriva un altro cristiano e gli urla “Ma che fai, sei impazzito?”. E lui: “ma è un ebreo!”. L’altro, fermandogli il braccio: “e allora?”. “Ha crocifisso Cristo!”. “Duemila anni fa!”. “Sì, ma io l’ho saputo solo ieri sera…”. Beh, il 25 aprile come è oggi vissuto in Italia da una parte e dall’altra sembra assai simile a questa barzelletta. I continui distinguo, la stucchevole radicalizzazione nelle due parti contrapposte, fomentata da chi ancora ha il ricordo di quello scontro (partigiani e fascisti), non è più anima di questa nazione. Bisognerebbe prenderne atto e smetterla una volta per tutte. Questo è l’anno buono, che sia una festa per tutti.