D'Alema? Comunista e filoterrorista. Parola di Veltroni agli Usa


Massimo D’Alema ha un limite più forte di lui: in fondo all’animo resta sempre un comunista e al momento buono questa sua formazione ideologica salta fuori. Parola di uno che lo conosce come le sue tasche: Walter Veltroni. E’ il 26 febbraio 2008, siamo all’inizio dell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento italiano. Romano Prodi è già ko insieme al suo governo, Silvio Berlusconi già marcia verso palazzo Chigi. Il suo avversario questa volta è proprio Veltroni. Sembra battuto in partenza, ma i primi sondaggi lo accreditano di una certa rimonta. Il politico è noto, ma nel governo ha sempre avuto ruoli di secondo piano. Non è così conosciuto a livello internazionale. Per questo il 26 febbraio l’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, invita a pranzo Veltroni. Insieme affrontano tutte le questioni internazionali che interesano gli Usa, comprese alcuni comportamenti di politica estera del governo Prodi che hanno allarmato il principale alleato italiano. Tutto il colloquio poi viene fedelmente trascritto dall’ambasciatore e inviato alla segreteria di Stato americana. E il rapporto Spogli nel silenzio generale ora è finito su Wikileaks.
Si parla di politica italiana, della campagna elettorale, di politica economica, di questioni energetiche e soprattutto dei dossier internazionali del momento. A un certo punto Spogli mostra a Veltroni una entusiastica dichiarazione del ministro degli Esteri uscente del governo Prodi, che era appunto D’Alema, con cui si congratulava per l’assunzione del potere a Cuba da parte di Raul Castro. “Veltroni”, scrive Spogli alla segreteria di Stato Usa, “è apparso imbarazzato e ha detto che spesso il retroterra ideologico di D’Alema salta fuori dalle sue dichiarazioni”. Una presa di distanza notevole, sia pure in un colloquio riservato che probabilmente Veltroni immaginava sarebbe restato fra le mura dell’ambasciata. Ma non è stata l’unica sciabolata del fondatore del Pd verso il rivale di partito da una vita. Quando si è passati ad affrontare il dossier sul Medio Oriente Veltroni è passato dalla sciabola al bazooka nei confronti di D’Alema. Ecco come ha annotato il colloquio Spogli: “Veltroni è stato aspramente critico sull’atteggiamento di D’Alema nei confronti di Israele, e in particolare ha aggiunto testualmente che ‘non si possono fare affari con organizzazioni terroristiche’ come Hamas e gli Hezbollah”.
Dunque per Veltroni D’Alema era un ex comunista che cercava di nasconderlo, ma poi inciampava sempre nel peccato originale ideologico, e da ministro degli Esteri aveva tanto pelo sullo stomaco da cercare di fare affari con i terroristi palestinesi. Bel ritratto offerto agli americani dell’uomo che in quel momento era ancora ufficialmente ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra.
Pur di accreditarsi con gli americani però Veltroni sembrava pronto a dire di tutto. Anche a prendere le distanze da Prodi, presidente del Consiglio in carica. Quando il pranzo è virato sulla questione iraniana infatti Spogli si è lamentato spiegando che l’atteggiamento di Prodi verso l’Iran è stato il dossier di politica estera italiana che più ha causato frizioni con gli Stati Uniti. L’ambasciatore “ha citato il caso delle sanzioni economiche verso l’Iran, criticando il governo Prodi per i suoi frequenti incontri ad alto livello con leader del governo iraniano”. Secondo il cablogramma inviato da Spogli a Washington Veltroni ha preso subito le distanze da Prodi: “e ha rimarcato che l’Iran rappresenta una ‘chiara minaccia’, sostenendo che la continuità delle sanzioni economiche è vitale e concordando sul fatto che incontri ufficiali ad alto livello con funzionari del governo iraniano (il riferimento è a Prodi, ndr) indeboliscono e insidiano il messaggio della comunità internazionale”. Per finire sulla politica internazionale- ma questo era più che scontato- Veltroni ha rassicurato gli Usa: “se vincerò io le elezioni, non potranno esserci incomprensioni e disaccordi”. Spiega Spogli: “Veltroni ha enfatizzato la sua decisione di non correre in una coalizione dove potesse ancora avere un ruolo la sinistra estrema, spiegando che così il suo governo avrebbe avuto una voce chiara sulle relazioni transatlantiche dell’Italia”. Così anche sull’Afghanistan “Veltroni ha riconosciuto i problemi incontrati dalla Nato sul territorio e ha assicurato che l’Italia potrà e vorrà impegnarsi di più lì”.
Nel colloquio anche fiumi di miele nei confronti di quello che avrebbe dovuto essere il suo vero avversario, Silvio Berlusconi. “Veltroni ha spiegato che la complicata legge elettorale italiana può forzare a politiche bipartisan, facendo mettere d’accordo lui e Berlusconi. Però ha aggiunto che l’accordo nelle sue intenzioni è limitato alle sole riforme istituzionali e alla legge elettorale”.
Infine il capitolo energia: Spogli si è lamentato del fatto che negli ultimi anni, proprio con il governo Prodi, l’Italia è divenuta troppo dipendente dalla Russia. “Veltroni ha rassicurato che questa dipendenza verrà corretta attraverso soluzioni di medio termine (4-7anni), con la costruzione di rigassificatori e altre infrastrutture”

Ravasi- Scola, i ballottaggi a Milano non finiscono qui


Questo ballottaggio avverrà di giovedì. Forse il prossimo, 2 giugno, nel silenzio di una giornata di festa. Forse quello dopo, il 9 giugno. Sarà allora che la Congregazione dei vescovi in seduta plenaria sceglierà l’uomo che dovrà guidare Milano. Una poltrona più importante di quella per cui si stanno battendo all’ultimo colpo Giuliano Pisapia e Letizia Moratti. Perché chi succederà al cardinale Dionigi Tettamanzi andrà a guidare la diocesi più grande del mondo e lascerà il segno sull’intera Chiesa italiana. I candidati non sono pochi, ma nella previsione dei più anche questo sarà un ballottaggio. Perché sono due i candidati che hanno più chance degli altri: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, e il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia. Anche se le logiche della Chiesa sono assai diverse da quelle della politica, per mille e una ragione questo ballottaggio sembra davvero parallelo a quello per la poltrona di primo cittadino di Milano. In qualche modo ne è strettamente intrecciato. Ci sono fra i cattolici e perfino fra le gerarchie schiere di tifoserie dell’uno e dell’altro. Forse i due non così distanti né avversi, ma i loro sostenitori sì.
Per capire bisognava essere sabato o domenica scorsa davanti a una delle tante parrocchie di Milano all’uscita della Santa Messa. Molti avrebbero trovato gruppetti di universitari o liceali di Comunione e liberazione che distribuivano un volantino sulle elezioni politiche. Non materiale classico di propaganda elettorale: un lungo testo sul “bene comune” e la possibilità di “costruire luoghi di vita” citando le opere di carità e non solo del movimento ecclesiale rese possibili in questi anni a Milano. Durante il week end sono stati distribuite 200 mila copie di quel volantino, che solo indirettamente rappresentava un endorsement a Letizia Moratti. Non sono stati pochi i fedeli che all’uscita delle parrocchie hanno reagito con violenza verbale e talvolta fisica a quel volantino. Per chi ha vissuto quell’esperienza, la memoria è andata al clima che c’era in università e in città nel pieno degli anni Settanta. E attenzione: in questo caso non si trattava di gruppi politici militanti, ma di fedeli. Uno spaccato di cosa è oggi la Chiesa milanese che ben è emerso dopo quella domenica da una lettera aperta scritta su Il Fatto quotidiano dalla professoressa cattolica (assai coccolata in Curia a Milano) Roberta De Monticelli a una ragazzina di Cl sorpresa all’uscita da messa con quel volantino. Parole di commiserazione, più che indignate, sprezzanti, come ci si rivolgesse a un essere inferiore culturalmente e mentalmente. Lo specchio di quale sia il vero atteggiamento verso la diversità degli altri da parte di chi un giorno sì e un altro pure predica l’accoglienza verso mussulmani, rom, lesbiche, gay e tutte le minoranze possibili. Tutte meno i cattolici che non si adeguano alla loro cultura. Questo spaccato è la fotografia più chiara della chiesa ambrosiana. Ed è su queste sponde che si svolgerà quel ballottaggio fra i cardinali Ravasi e Scola, certamente al di là delle intenzioni dei diretti interessati e dei loro grandi elettori.
Non è un caso se fino a due settimane fa a Milano si dava per scontata l’imminente nomina del patriarca di Venezia. Certo, Scola aveva il peccato originale di essere cresciuto a fianco di don Luigi Giussani, nel movimento di Comunione e Liberazione. Ma da cardinale e da pastore lui stesso si è definito ex ciellino, sottolineando come la missione avesse a cuore l’intera chiesa e non una sola parte. Da quando Pisapia è uscito trionfatore dal primo turno elettorale, molti maldipancia della chiesa milanese a stento trattenuti sono pubblicamente emersi. La cosa più carina che si sente dire dalle parti della curia ambrosiana è “adesso la nomina di Scola è improponibile”. Nello stesso istante sono cresciute vertiginosamente le chance di monsignor Ravasi, prelato assai gradito alla intellighenzia radical-chic meneghina per la sua capacità di coccolare artisti, letterati ed esponenti di culture varie. I vincitori del primo turno vedono in lui la possibilità di una chiesa a disposizione del nuovo potere che avanza. In Scola invece si immagina un possibile capo dell’opposizione a questo potere, da evitare come fosse il diavolo.
Se la Chiesa fosse una democrazia, quel ballottaggio sarebbe già segnato. Ma una democrazia nel senso classico non è. Perché più di ogni altra cosa conta la scelta del Papa. E non sono pochi a ritenere che Benedetto XVI propenda decisamente per Scola. Il Papa ha riempito Ravasi di elogi per il lavoro che sta facendo ora, e a molti questo fiorire di complimenti a Roma è sembrato un chiudere la porta alla strada che porta a Milano.
Proprio perché questo si sa, nelle segrete stanze vaticane da settimane arrivano dossier anonimi sul cardinale Scola, in particolare sulla gestione amministrativa legata ad incarichi coperti dal prelato ora e in passato. Insomma, è una campagna “elettorale” che si sta svolgendo attraverso colpi bassi simili a quelli della politica. Il Papa ha imposto una procedura insolita. Ha chiesto che sia la congregazione dei vescovi in seduta plenaria a discutere delle nomine. E alla vigilia della riunione ha firmato il decreto di nomina in congregazione di uno dei cardinali più vicini a papa Ratzinger: il fidato monsignor Mauro Piacenza. Con il suo arrivo gli italiani coinvolti nella decisione saranno una decina. La maggioranza però è composta da cardinali stranieri, assai fedeli alle indicazioni del Papa. Loro da un elenco di 15 nomi hanno già individuato una cinquina (oltre a Ravasi e Scola anche Aldo Giordano, Francesco Lambiasi e Pietro Parolin). Ma sanno che si andrà al ballottaggio fra due soli. E che l’ultima parola spetta al Papa.

Se torna la sinistra al governo, che guaio per i dividendi di Padellaro e Travaglio


 Un incubo si aggira nell’open space de Il Fatto. Va bene i ballottaggi. Bene anche la spallata a Silvio Berlusconi. Ma non è che questi qui torneranno davvero a palazzo Chigi? Mica ce la farà a conquistare le leve del governo la gioiosa macchina da guerra di Pierluigi Bersani, Niki Vendola e Antonio Di Pietro? Il dubbio viene, e sta atterrendo i poveri Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Bruno Tinti, Marco Lillo e Peter Gomez, giornalisti-azionisti de Il Fatto quotidiano. Perché con la gioiosa macchina da guerra arriverà anche la stangata fiscale promessa e a rischio ci sono anche i 3 milioni di dividendi appena distribuiti agli azionisti de Il Fatto. Quelli vogliono tassare all’unisono le rendite finanziarie, e così quei dividendi oggi sottoposti a cedolare secca del 12,5% con Bersani & c al potere, sarebbero cumulati con il reddito e sottoposti a tassazione del 43%. Una bella differenza. E’ preoccupato il povero Padellaro, che ha da pochi giorni ricevuto un superpremio dai dividendi di circa 550 mila euro. Ma la prospettiva non entusiasma nemmeno Bruno Tinti (276 mila euro appena girati), Travaglio (165 mila euro), Gomez (110 mila euro) e Lillo (82 mila euro). Sono tutti dipendenti –azionisti della società editrice del Fatto quotidiano. Che a fine aprile, approvando il bilancio 2010 chiuso con un utile di 5,8 milioni di euro, ha deciso di distribuire 3,1 milioni di euro come dividendi ai soci. Qualche giorno dopo. con un eccesso di generosità, si è anche deciso di raddoppiare il capitale assegnando una azione gratuita ogni azione posseduta, e distribuendo così a tutti un altro milione e 230 mila euro.
Padellaro, Travaglio & c sono in possesso di azioni con diritti speciali, con diritto a percepire dividendi superiori del 15% a quelli degli altri soci. Un vantaggio che verrebbe totalmente annullato se al governo dovesse tornare la sinistra realizzando il suo programma. Il fisco si mangerebbe il premio e un po’ del capitale. Tanto per intenderci: tirare giù Berlusconi da palazzo Chigi e sostituirlo con la gioiosa macchina da guerra a Padellaro verrebbe a costare 168 mila euro. A Tinti 84 mila euro,a  Travaglio più di 50 mila euro, a Gomez 33 mila euro e a Lillo 25 mila euro. Belle sommette, e chissà se questa tassa può valere la soddisfazione.
Fisco a parte, Travaglio & c hanno anche un altro problema: se cade Berlusconi, riusciranno ancora a guadagnare tanti soldi grazie al successo del Fatto quotidiano? Perché finora più lui sta in piedi, più il giornale distribuisce milioncini ai giornalisti-azionisti. Se in tutto il 2010 l’utile è stato di 5,8 milioni nel solo primo trimestre 2011, grazie al caso Ruby, Il Fatto ha già registrato un utile superiore ai 2 milioni che farebbe immaginare su base annua un aumento del 30% del superpremio finale che potrà essere incassato con i dividendi.

Ministeri? Tutto questo caos per spostare una classe di liceali!


 Un appello al sindaco di Roma, Gianni Alemanno e al presidente della Regione Lazio, Renata Polverini: possiamo smetterla con questa sceneggiata sullo spostamento dei ministeri da Roma? Sono giorni che entrambi alzate i toni su questa battaglia epica. “Giù le mani da Roma, i ministeri non si toccano…”, e facezie simili in piena campagna elettorale. Per carità, quando perfino un ex capo dello Stato come Carlo Azeglio Ciampi, grida alla secessione e mette in guardia per un “colpo all’unità di Italia”, tutto diventa possibile. Ciampi ha la sua età e dopo una vita gli si può perdonare tutto. Ma Alemanno e la Polverini sono giovani e intelligenti e al di là delle opportunità o meno in piena campagna elettorale di fare sgambetti ogni giorno nel centrodestra, dovrebbero conoscere le reali dimensioni del problema. La Lega- forse per motivi elettorali, forse anche con qualche ragione- vorrebbe trasferire a Milano i due ministeri simbolo della loro battaglia: quello sul federalismo-riforme istituzionali guidato da Umberto Bossi e quello sulla semplificazione normativa guidato da Roberto Calderoli. Si può condividere o meno la proposta, certo, ma farne un drammone non è da persone sensate. Quei due ministeri sono senza portafoglio, e quasi non esistono. La dimensione del problema è se trasferire o meno due classi di un liceo: 30 persone oggi guidate da Calderoli e 32 persone guidate da Bossi. La classe di Calderoli per altro è composta da 19 collaboratori di sua fiducia che si è portato il ministro e da 11 dipendenti veri e propri del ministero. Quella di Bossi da 15 collaboratori di fiducia e da 17 addetti del dipartimento. Quindi per la pianta organica il problema riguarda solo una classe: 28 dipendenti ministeriali. Una parte comunque dovrebbe restare a Roma per il coordinamento con la presidenza del Consiglio. Quindi tutto il problema sarebbe se spostare o meno da Roma a Milano venti ministeriali. Il budget complessivo gestito da Bossi e Calderoli è inferiore ai 3,5 milioni di euro: una goccia nel bilancio di palazzo Chigi. E’ un problema che sembrerebbe irrilevante per un consiglio circoscrizionale. E’ possibile che il sindaco della capitale di Italia e il presidente di una regione fra le più importanti facciano di queste venti persone un caso mondiale danneggiando apertamente il centrodestra nel ballottaggio a Milano? Vale davvero la pena per così poco? E se i cittadini vedono questa gran cagnara per problemi così piccoli, che idea mai possono farsi della politica? Sindaco e presidente della Regione, chiudiamola qui con la querelle sulla classe liceale da spostare o meno a Milano. Ci sono ben altri problemi in città da risolvere  e affrontare.