E chi si ricorda più del programma Pdl? Berlusconi riscuote 360 milioni di tassa sul caro estinto che voleva abolire

Pagina 7 del programma elettorale 2008 del Popolo della libertà, primo obiettivo sulla famiglia: “Meno tasse”. Punto numero tre: “Abolizione delle tasse sulle successioni e sulle donazioni reintrodotte dal governo Prodi”. Anno 2010, quello in cui Silvio Berlusconi con il suo governo entra nel giro di boa della legislatura. Previsione di entrata del capitolo 1239 del ministero dell’Economia e delle Finanze, incasso stabilito in euro 360 milioni alla voce “imposta sulle successioni e le donazioni”. L’odiosa tassa sul caro estinto che il cavaliere stracciò nel 2001 e il centro sinistra rispolverò nel 2006 decidendo perfino di mettere le mani nelle tasche dei morti, è tutt’oggi al suo posto. Non l’ha toccata nessuno. Fa parte delle quasi duemila gabelle che il fisco-monstre italiano negli anni ha accumulato a livello centrale e locale e che occupano ogni istante di vita degli italiani. Sono così numerose che alla fine in questo paese nessuno può essere un evasore totale: non pagherà il dovuto di Ire o di Ires, magari. Ma non può sfuggire all’accisa o all’imposta sul valore aggiunto in agguato, a meno di vivere davvero da nullatenente: senza mangiare, bere, dormire, consumare, respirare. Perché su ogni cosa c’è la sua bella tassa in agguato. Tutte naturalmente fondamentali e non cancellabili. Prima bisogna ragionare su modelli e macrosistemi, poi magari si potrà trovare una soluzione alternativa a coprire i proventi governativi per il “diritto erariale dovuto per il rilascio urgente dei certificati del casellario giudiziale”. Giulio Tremonti prevede di incassare a quella voce ben 15.493 euro durante l’anno in corso: poco più di mille euro al mese in tutta Italia. E possiamo essere certi che il costo di riscossione sia almeno dieci volte tanto. Comunque a diritti e bolli sul certificato del casellario giudiziale il governo in carica sembra tenere assai. Tanto da avere sì infilato le mani in tasca a quello spartissimo gruppo di italiani che ne aveva bisogno. Fino al 7 gennaio 2009 per avere quel documento bisognava pagare una marca da bollo (a proposito, non si erano abolite tutte ?) da 3,10 euro. Con decreto ministeriale dell’8 gennaio 2009 andato in Gazzetta Ufficiale il 6 febbraio 2009 e da allora divenuto operativo, il costo di quella marca da bollo è salito del 14,2%, e ora è di 3,54 euro. Ne valeva proprio la pena? La giustizia ad esempio non riesce a riscuotere, e spesso perde somme milionarie sequestrate e depositate su conti destinati a divenire dormienti per assoluta incuria, eppure ogni tribunale è una specie di monumento alla micro tassa. Non c’è documento o diritto del cittadino che non abbia sopra la bella zampata dell’erario. Perché per avere giustizia bisogna comunque pagare. Carte e marche da bollo, diritti di concessione, tributi di ogni genere. La tabella del ministero dell’Economia alla voce entrata si vergogna pure di citare i riferimenti, ma elenca “tributi speciali e diritti di origine giudiziaria” che nel 2010 daranno il loro bell’incasso da 50 mila euro. Identica piccola somma che si ottiene con i tributi pagati per i concorsi per la nomina ad amministratore giudiziario. Comunque il doppio dei 30.471 euro riscossi come quota di tributo erariale per l’iscrizione all’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. Una delle centinaia di imposte che costano più allo Stato di quel che possa mai incassare. Ma questo è il fisco italiano, signori… (2- continua.

Berlusconi,mi consenta! Può levare almeno la tassa sull'aria. Su 1843 imposte, ce ne sarà una tagliabile in tempo di crisi?

Non è una battuta. In Italia anche l’aria è tassata. Perché fra le 1.843 tasse che ogni anno in piccoli rivoli affluiscono nei forzieri del ministero dell’Economia e nelle casse degli enti locali, ci sono anche le accise particolari sui “gas di petrolio liquefatto anche miscelato ad aria” e sul metano miscelato ad aria. La miscela serve così a rendere più facilmente combustibili petrolio e metano, ma il risultato finale è da guinness dei primati: ad essere tassata in Italia c’è pure l’aria. Piccola accisa, certo. Piccola goccia nel mare dei 1.269 tributi ancora riscossi a livello nazionale e delle 574 fra tasse, imposte e vari orpelli fiscali che si aggiungono a livello locale. In tutto poco meno di due mila prelievi annuali diretti o indiretti nelle tasche dei contribuenti, che hanno ormai creato una giungla di aliquote e norme destinata a fare impazzire qualsiasi ragioniere o commercialista. Non a caso proprio ieri il presidente dell’ordine ormai unificato, Claudio Siciliotti, dopo avere appeso alò chiodo la speranza di un abbassamento generale delle tasse, ha implorato Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi almeno di “semplificare un sistema fiscale” che ai commercialisti “fa mettere le mani nei capelli per la complessità. Proprio per questo ci auguriamo che dopo l’ennesimo rinvio sine die del taglio delle tasse, rimanga però alta l’attenzione sul tema, non più differibile, di una grande riforma fiscale nel nostro Paese. Noi ci scontriamo quotidianamente con un livello di complessità inutile e ridondante che determina mille rivoli di micro-adempimenti e autentiche perdite di tempo nemmeno valorizzabili in termini di parcella ai clienti”. Come dire, se proprio non si vuole imboccare la strada della riduzione dell’imposta sulle persone fisiche a due sole aliquote, almeno si levi di torno qualcuna delle quasi duemila tasse con cui bisogna fare i conti. A ruolo ci sono ancora tributi che risalgono a quasi un secolo fa o all’immediato dopoguerra, che di introiti danno sì e no qualche spicciolo e che spesso costringono l’Agenzia delle Entrate a spendere assai di più per recuperarli di quanto alla fine non si possa poi incassare. Tanto che la tabella compilata dalla ragioneria generale dello Stato per riclassificare il bilancio pubblico 2010 cita numerose imposte solo “per memoria” senza indicare la previsione di introito. Accade ad esempio anche nella prima parte della tabella sulle Entrate di cui oggi iniziamo a pubblicare le prime cento voci di incasso. Fra le voci citate ma qui non incluse perché non è possibile prevederne l’incasso grazie agli accertamenti, ci sono i dazi sulle merci destinate al territorio della Repubblica di San Marino o le accise e imposte erariali di consumo sulle armi da sparo, sulle munizioni e sugli esplosivi, così come l’imposta di consumo su prodotti di registrazione e riproduzione del suono e dell’immagine prevista da una legge approvata nei suoi primissimi mesi dal governo di quel Bettino Craxi di cui fra qualche giorno si celebrerà il decennale della scomparsa. Si accertano ancora gli incassi (riportati per memoria in tabella) della imposta sul consumo del caffè e di quella sul consumo del cacao naturale o comunque lavorato. Tassate anche le bucce e le pellicole di cacao e ovviamente il celebre burro di cacao. Ma hanno la loro bella accisa da versare allo stato i surrogati del caffè: non si usano come ricordano ancora i nonni in tempi di guerra, ma offrono i loro 13 milioni di euro alla causa del fisco. Si tassa ogni tipo di cibo e ogni suo contenitore, con differenza fra materia e materia. Si tassa naturalmente l’acqua minerale e la bottiglia che la contiene. Mangiare, bere, respirare, vestirsi, riscaldarsi e in qualche modo perfino amare: nessuno dei bisogni primari dell’uomo riesce a sfuggire alla voracità dell’erario italiano. Figurarsi se poteva mancare nell’armamentario incredibile delle leggi succedutesi nel tempo o nei vari commi del Tuir (il testo unico delle imposte sui redditi) anche ogni freccia all’arco di quel che viene chiamato fisco etico. Quando il legislatore ha trovato impopolare e talvolta controproducente l’adozione della linea proibizionista, altra soluzione non è riuscito a trovare che mettere una nuova imposta o aumentare un’accisa o un tributo già esistente. Accade così in ogni finanziaria sul fumo, che non è vietato, ma disincentivato con l’aumento ripetuto della accisa sui tabacchi. Accade così con i superalcolici, con la birra e un po’ meno con i semplici alcolici (il vino è risorsa importante per il sistema economico italiano). Pochi sapranno però che in questa campagna strisciante contro i danni da alcol condotta con le armi del fisco italiano si è sfoderata una accisa ad hoc per colpire anche tutti i “recipienti dei prodotti alcolici”. La classica bottiglia è quindi tassata di più se dentro ha vino, bourbon o whisky invece di coca-cola o aranciata. Ma a pieno titolo come freccia nell’arco del fisco etico c’è una raffica di super-imposte che si abbattono su altri tipi di consumi che qualcuno avrebbe più facilmente proibito. C’è una addizionale alle imposte sul reddito destinata alla “produzione, distribuzione e rappresentazione di materiale e programmi televisivi di contenuto pornografico”. C’è una addizionale sullo stesso materiale in caso di “incitamento alla violenza” che forse più che tassato andrebbe meglio vietato. E c’è una addizionale anche sulle “trasmissioni televisive volte a sollecitare la credulità popolare”. Una vera e propria giungla- altro che cedolari secche- è il sistema di tassazione dei redditi finanziari di varia natura che occupa gran parte della tabella pubblicata qui sopra con le prime cento tasse di un lungo elenco. Per ogni tipologia al di là delle aliquote c’è un sistema diverso di riscossione e una norma ad hoc a regolare ogni cosa. Piccolo esempio? Uno si fa l’assicurazione sulla vita pagando anche belle sommette ogni anno pensando di proteggere in caso di disgrazia i suoi famigliari. E’ un investimento, perfino triste. Ma in grado di rendere allegro, proprio ilare, il ministro dell’Economia pro tempore: sulle assicurazioni vita, considerate un prodotto finanziario come tanti altri, ci sono tre diverse imposizioni dirette o indirette che assicureranno allo Stato quasi un miliardo di euro di incassi nell’annoin corso. Ritenute alla fonte, inclusione nel reddito delle persone fisiche, tassazione separata, diversità fra residenti e non residenti in Italia (ed è comprensibile), ma anche fra residenti in una regione o in un’altra. Hanno regimi agevolati anche sui redditi finanziari regioni a statuto speciale come Sicilia, Sardegna o Valle D’Aosta. Ma la tassa cambia a seconda se colpisca gli investimenti di imprese residenti in attività fuori o dentro il territorio regionale. Regime fiscale differenziato anche per le imprese non residenti in quella regione che però i loro investimenti finanziari effettuano in Sardegna, Sicilia o nella Vallèe. Un guazzabuglio senza capo né coda che già oggi anticipa nei fatti e nel caos tutto quello che si sarebbe voluto evitare con il varo del federalismo fiscale.

Tanto loro ne pagano pochissime. Ecco perché i mandarini di palazzo snobbano il taglio delle tasse

L’unica cosa importante l’hanno già ottenuta da tempo: il fisco non mette le mani nelle loro tasche. Sarà per questo che Pierluigi Bersani, Antonio Di Pietro ed Enrico Letta fanno spallucce alla riforma fiscale proposta da Silvio Berlusconi. Due sole aliquote, una del 23 per cento e una al 33 per cento oltre quei centomila euro che sono circa la metà di quel che guadagnano i Bersani, Di Pietro e Letta jr? Il magnifico trio appena sceso in campo contro l’abbassamento delle tasse se ne può allegramente infischiare: tutti e tre dovrebbero versare al fisco il 43% del loro reddito, più i contributi per assistenza e previdenza. Ma facendo parte della casta dei mandarini che le leggi le impone agli altri lasciando per sé un trattamento di lusso, i Bersani- Di Pietro e Letta jr all’erario girano il 17,36% di quel che davvero finisce nelle loro tasche, come capita per altro a chi è stato eletto alla Camera (e al Senato il fisco è ancora più leggero: 15,32%). Chi ha un reddito imponibile di 9 mila euro lordi all’anno, pari a 692 euro lordi al mese, paga in proporzione più tasse del segretario del Pd, del suo vicesegretario e dal padre-padrone dell’Italia dei valori: il 23 per cento. E’ per questo che i mandarini del centrosinistra, nati e cresciuti a palazzo dove vigono sempre regole speciali, non riescono a capire perché ci si lamenta delle tasse troppo alte. Non le devono pagare loro, non le devono pagare i loro amici, i collaboratori di una vita: in quel mondo le tasse un tempo non si pagavano del tutto, poi si è fatto finta di pagarle come tutti i comuni mortali. Così oggi i deputati si intascano netti ogni mese 5.486,58 euro, dopo avere pagato ritenute previdenziali di 784,14 euro, assistenziali di 526,66 euro, un contributo per l’assegno vitalizio di 1006,51 euro e Irpef per 3.899,75 euro. Così sembrerebbero come tutti gli altri. Ma poi si mettono in tasca ogni mese esentasse 4.003,11 euro di diaria, 4.190 euro netti “a titolo di rimborso forfetario per le spese inerenti il rapporto fra eletto ed elettore”, circa 1.100 euro al mese di rimborso per taxi che né Bersani né Letta né Di Pietro di solito prendono, e poco meno di 300 euro al mese netti a titolo di rimborso spese telefoniche. I senatori si intascano invece qualcosina in più, perché durante una delle varie auto-riduzioni della indennità sotto il pressing della protesta popolare, hanno girato la testa dall’altra parte lasciando che fossero solo i deputati a tirare un pochino la cinghia: prendono quindi 150 euro al mese più dei colleghi di base e rimborsi assai più generosi. E’ per questo che i mandarini della riforma fiscale non sentono proprio alcun bisogno...

Ci sono ancora 61 tasse di Bersani del 2006 che Berlusconi ha conservato e perfino aumentato

Una l’ha cancellata Silvio Berlusconi: l’Ici sulla prima casa. Cinque sono cadute per esaurimento naturale. Ma a 37 mesi dal loro varo sono ancora in vigore, qualcuna addirittura rinvigorita, 61 delle celebri 67 nuove tasse inventate nel 2006 dal governo di Romano Prodi, Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani. Le mise l’Ulivo, non le ha tolte più nessuno (perché introdurle è facilissimo, per il centro sinistra quasi una gioia, ma poi trovare le coperture per abolirle è sempre complicato e ci vuole coraggio). Anche se contro quelle 67 nuove tasse il 2 dicembre 2006 l’allora Casa delle Libertà portò in piazza a Roma due milioni di persone. Forse Bersani ha pensato di chiudere il problema facendo fuori dai vertici del suo partito e mettendo per un po’ in quarantena l’amico Visco (che lo ha comunque appoggiato nella corsa alla segreteria). Forse Berlusconi ha immaginato che fatta quella manifestazione e tornato al governo tutte sparissero di incanto. Forse i contribuenti italiani si sono perfino abituati e con i tempi che corrono pensano più a coprirsi le spalle dal rischio di nuove gabelle: non averne avute è già un piccolo successo. Ma le 61 tasse del 2006 sono tutte ancora lì a sfilare risorse preziose dal portafoglio degli italiani. Quel lontanissimo 2 dicembre non pochi dei simpatizzanti berlusconiani indossarono uno dei tanti gadget predisposti per l’occasione: una t-shirt con sopra scritto: “ 67 nuove tasse. Padoa… Schioppa. E io pure!”. Tremonti euforico pronosticò: “Ha ragione Berlusconi. Ci sarà molta gente. E' una Finanziaria che scontenta tanta, tanta, tanta gente, anche fra quelli che hanno votato a sinistra”. E davanti ai due milioni di persone anche il compassato futuro ministro dell’Economia sbottò euforico: “Solo un demente, come quello che sta adesso al governo, poteva pensare di fare più spesa pubblica con più tasse”. Poi si scusò: “Ho esagerato, ma siccome lui in passato mi ha dato del delinquente politico, me lo posso permettere”. Quello stessa euforia tre anni fa che sembrano più di una vita contagiava anche il leader numero due del centro destra, Gianfranco Fini, convinto che arringava la folla contro le supertasse pronosticando: “così la Cdl è destinata a vincere e a dimostrare che la sinistra sarà battuta, ne siamo certi”. Ma 37 mesi dopo le 61 tasse sono lì come un macigno, e nemmeno tutte come allora. Qualcuna è perfino peggiorata con il centro destra al governo, divenuta più pesante di quel che era grazie ad automatismi di cui tutti pèaiono essersi dimenticati, e non è certo bandiera da sventolare. L’Irpef più cara voluta da Vincenzo Visco è con le stesse aliquote introdotte nel 2006. Voleva aiutare i contribuenti con meno reddito, ma le menti del Nens (il centro studi di Visco e Bersani) e i tecnici dell’Ulivo sbagliarono tutti i calcoli. Così il fisco portò via una parte di stipendio perfino a chi guadagnava mille euro al mese e certo non poteva essere considerato un ricco da fare piangere. Le detrazioni che sostituirono il sistema di deduzioni introdotto da Tremonti non sono state più modificate. Il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte allora avversato è restato in vigore fino alla sua scadenza naturale, a fine 2009. La possibilità per i comuni di aumentare l’addizionale Irpef non è stata revocata. La criticatissima tassa di scopo (Iscop) concessa agli enti locali per piccole opere pubbliche non è stata mai abolita (e viene oggi usata, sia pure da piccoli comuni: il più grande è Rimini). Tuoni e fulmini accompagnarono la decisione di Prodi & c di introdurre una addizionale di 50 centesimi a passeggero sui diritti di imbarco sugli aeromobili. Con il Pdl al governo non solo non è stata abolita, ma è aumentata di un ulteriore euro a passeggero per pagare la crisi Alitalia. Nulla è cambiato in meglio su rendite catastali, tariffe per il rilascio del visto di soggiorno, tassazione sui tabacchi lavorati, tasse ipotecarie che Prodi introdusse e aggravò e che i tecnici di Berlusconi inserirono nella lista dei 67 misfatti fiscali contro cui manifestare. Sono restate immutate le norme introdotte sul Tfr, mentre l’aumento della pressione contributiva che fece gridare allo scandalo il centro destra non solo non è stato abrogato, ma è stato addirittura aggravato e in modo sensibile. Proprio grazie a una norma contenuta nella legge Visco-Bersani nel 2006 l’aliquota per le gestioni degli artigiani e dei commercianti era del 19%. Oggi è del 20 per cento. Fu fatta salire al 23% l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps per i lavoratori autonomi che esercitano attività professionale o di collaborazione e al 16% per gli altri iscritti. Nel 2009 la prima è schizzata al 25% (e al 26% dal primo gennaio 2010), la seconda al 17%. Un aumento secco della pressione contributiva, contro il popolo delle partite Iva, considerato da Bersani e Visco un nemico di classe, ma dimenticato anche dal centrodestra. Non l’unico caso. Perché l’elenco delle nuove tasse dimenticate da Berlusconi & c in questi primi 20 mesi di governo è lungo, e potrebbe simbolicamente culminare con quella nuova tassazione Visco sulle donazioni e le successioni che solo pochi anni prima il Cavaliere no tax (ormai un pallido ricordo) aveva inutilmente disintegrato: oggi però a comandare è il fisco- vampiro della sinistra, non quello liberal del centrodestra restato solo nell’inchiostro dei pamphlet e dei programmi elettorali. I 61 fantasmi di Prodi però ogni giorno continuano ad infilarsi nelle tasche degli italiani e a ricordare agli elettori di Berlusconi che di tempo non ne resta molto: il 2010 non può essere l’anno dei grandi disegni di riforma, ma finalmente l’anno delle forbici fiscali. Non inchiostro, ma meno tasse per tutti finalmente.

Colpo dei boiardini da 100 milioni contro Tremonti. Sventato in extremis

Ci hanno provato. In barba alla crisi economica, migliaia di professori e piccoli boiardi di Stato insieme ai loro sponsor politici hanno tentato un colpo da circa 100 milioni di euro ai danni di Giulio Tremonti e delle casse pubbliche. Zitti zitti infatti boiardini e consulenti nel 2009 hanno tentato di riprendersi quel 10 per cento di compenso che era stato loro tagliato fra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, proprio in mezzo alle prime polemiche sui costi della Casta. Il colpo dell’anno è stato probabilmente sventato – con grande ritardo e sicuri danni- dalla Ragioneria generale dello Stato che ha messo uno stop a quell’esercito di professori, manager politici e professionisti abituato ad arrotondare il proprio stipendio con una attività extra per la pubblica amministrazione, che aveva deciso di aumentarsi lo stipendio bis con un blitz dal primo gennaio 2009. Era stato il governo di Silvio Berlusconi con la legge finanziaria 2006 e poi quello di Romano Prodi a decidere ampliando via via la platea di tagliare del 10 per cento gli importi delle consulenze pubbliche: indennità, compensi, gettoni di presenza, retribuzioni o “altre utilità comunque denominate”. Quella stessa legge finanziaria che aveva costretto a tirare la cinghia l’esercito dei consulenti pubblici (censito da Renato Brunetta in 251.921 unità per un costo annuo di un miliardo e 323 milioni di euro), scriveva che i risparmi ottenuti per un triennio sarebbero dovuti confluire nel Fondo nazionale delle politiche sociali. I tre anni sono appunto finiti all’inizio del 2009, e il passa parola è subito partito all’interno della amministrazione pubblica: finite le ristrettezze, si torna a guadagnare come un tempo e chissenfrega dei guai dell’economia nazionale e internazionale. Qualche amministrazione ha interpretato da sé le norme e restituito quel 10 per cento ai propri consulenti, qualche altra si è fatta uno scrupolo di coscienza, provando almeno a chiedere conferma della novità al ministero dell’Economia prima di riallargare i cordoni della borsa. La burocrazia però ha i suoi tempi infiniti e le leggi sono così confuse che la Ragioneria generale dello Stato a cui era stata demandata la risposta ufficiale, ci ha messo i suoi bei mesi per fornirla. E solo alla vigilia di Natale, il 17 dicembre scorso, quando probabilmente molti buoi (in questo caso molti euro) erano già scappati dalla stalla, dall’Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, è partita la circolare 32 indirizzata con la massima urgenza a tutti i ministeri, le amministrazioni autonome, gli istituti pubblici, gli enti economici e non economici e gli enti locali per spiegare che no, quell’aumento del 10 per cento ai consulenti non poteva essere erogato. “Alcune amministrazioni”, scrive la Ragioneria, “ritengono che decorso, dal primo gennaio 2009, il termine triennale di vigenza delle sopraindicate disposizioni possa essere ripristinata, nella sua originaria entità, la misura dei compensi sopra indicati”. E invece si sbagliano e di grosso tutti quelli che avevano immaginato di ridare quel 10 per cento in più almeno a tutti i “componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali comunque denominati presenti nelle amministrazioni pubbliche”, per i quali la riduzione dei compensi era scattata già dal gennaio 2006. Un po’ in burocratese, e con 11 mesi di ritardo, la ragioneria ha spiegato che “nel contesto sistematico di una serie di misure dirette ad assicurare il contenimento strutturale della spesa per gli organismi collegiali, si ritiene che non sussistano i presupposti per rideterminare, in aumento, le misure dei compensi stabiliti al 30 settembre 2005 e ridotti del 10%”. L’esercito di professori, professorini e piccoli boiardi che affollano consigli di amministrazioni e comitati pubblici, dovrà accontentarsi quando bene di avere mantenuto l’incarico, e probabilmente anche restituire l’eventuale aumento indebitamente ricevuto nel 2009 prima della risposta ufficiale del ministero