A noi mai giù le tasse. A se stessi i partiti si graziano 500 milioni

I partiti politici stanno per regalarsi un maxi condono. Proprio nel momento in cui negano agli italiani un taglio delle tasse, grazie a un emendamentino alla legge mille proroghe vogliono approvare un colpo di spugna da 500 milioni di euro perdonando peccati passati e perfino futuri grazie a un nuovo condono sulle multe per avere affisso manifesti abusivi. L’idea è venuta a due ex tesorieri (Pontone, An e Lusi, Margherita) che hanno firmato una modifica al decreto legge mille proroghe per sanare ogni affissione abusiva dal 10 marzo 2009 fino alla prima parte della campagna elettorale in corso con il semplice pagamento di mille euro in ogni provincia. Lo sconto è analogo a quello previsto dal mille proroghe di un anno fa, che stabiliva un condono tombale per gli anni 2005-2009. Non è gran pagare, perché secondo stime attendibili in un anno elettorale le multe complessivamente comminate dai comuni ai partiti valgono 150 milioni di euro. Cifra a cui va aggiunto il costo per rimuovere i manifesti abusivi:circa 20 milioni all’anno. Grazie al condono invece di pagare 170 milioni ciascun partito se la può cavare con poco più di 100 mila euro all’anno. Tutti insieme poco più di un milione di euro. Roba da stappare spumante e festeggiare, come farebbe qualsiasi cittadino se il comune facesse uno sconto simile sulle multe per sosta vietata: un euro ogni 170 dovuti. Eppure nemmeno il clamoroso regalo offerto a Pd-Pdl e tutti gli altri all’inizio del 2009 li ha resi contenti. La possibilità di chiudere con 4 milioni di euro in tutto un contenzioso superiore ai 400 milioni non ha fatto felici i tesorieri né del centro destra né del centro-sinistra: nessuno ha colto la super-promozione. Semplicemente hanno fatto spallucce e non hanno pagato sperando che tutto finisse come sempre nel dimenticatoio. Invece molti comuni che almeno a quegli spiccioli non vogliono proprio rinunciare, hanno fatto recapitare a Pd, Pdl e compagnia bella delle minacciose cartelle esattoriali. Ma niente paura, ci pensa appunto il nuovo emendamento Lusi-Pontone, che sembra piacere proprio a tutti i partiti. Non solo arriva il nuovo condono 2009-2010, ma si allungano perfino i termini draconiani per aderire al condono precedente, quello 2005-2009. Bisognava versare quei mille euro a provincia entro il 31 marzo 2009. Bene, ora quel colpo di spugna è prorogato al 31 marzo 2010 e per la prima volta nella storia parlamentare comprende perfino le violazioni ancora non commesse, e che gli stessi partiti sanno bene che commetteranno. La rinuncia a incassare quasi 500 milioni di euro dovuti, per quanto il condono sui manifesti abusivi dei partiti sia ormai triste tradizione italiana, fa impressione nel momento in cui il governo in carica dice di non potere concedere sconti fiscali di alcuna natura ai contribuenti italiani, pur riconoscendo che la pressione tributaria sia alta. Se si potesse incassare quella somma, ad esempio si potrebbe scontare se non proprio eliminare uno dei tributi locali più odiati dai contribuenti italiani: la tassa sui rifiuti. C’è poi una grande differenza rispetto al passato, ed è che i partiti hanno i forzieri pieni grazie a un finanziamento ottenuto dai contribuenti italiani che con buona dose di ipocrisia si continua a chiamare rimborso elettorale. Lo Stato continua a rimborsare ai partiti più di quanto loro non spendano nelle campagne elettorali, stampa di manifesti inclusa. Ma se nel 1994 di fronte a una spesa di 36 milioni di euro ai partiti sono stati “rimborsati” 47 milioni di euro, nell’ultima campagna elettorale la sproporzione è stata ben più evidente: spesi 136 milioni, “rimborsati” 503 milioni di euro. Pd, Pdl, Udc e Idv avrebbero quindi tutte le risorse in cassa (hanno poi incassato anche il generosissimo rimborso delle europee) per pagare le multe che invece si condonano. Se proprio nel governo la vocazione al condono è insopprimibile, meglio regalarlo a tutti i contribuenti, con la prospettiva di incassare assai di più. Chissà, anche quei mille euro all’anno per le multe future potrebbero rivelarsi un affare per migliaia di cittadini: un forfettone sulla sosta vietata. Resterebbe da spiegare un’ultima cosa a tutti: perché mai si fanno tante leggi e si stabiliscono punizioni draconiane se poi si sa dal primo giorno che non verranno rispettate? A questo punto meglio libero manifesto in libero Stato.

Bonino's e Bresso, lo scontro prima dell'alleanza

L’atto è depositato ancora più che davanti al notaio: fra i documenti ufficiali del Senato della Repubblica, di cui Emma Bonino è vicepresidente. “Non desidero assistenza religiosa, desidero un funerale non religioso”, spiega la leader radicale nel suo testamento biologico, e aggiunge: “Qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, nomino mio rappresentante fiduciario che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente carta, la signora Bonino Domenica, residente a Bra (Cn), via Principi di Piemonte (…). Nel caso in cui il mio rappresentante fiduciario sia nell’impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a sostituirlo in questo compito il signor Bonino Giovanni, nato a Bra (Cn), residente a Bra, in via G Piumati…”. Giovanni e Domenica sono i fratelli del candidato alla presidenza della Regione Lazio, e con Emma condividono la proprietà di un appartamento ad Alassio e un box auto a Bra, paese natale della famiglia (la leader radicale ha anche casa e bottega a Trastevere a Roma, e la bottega l’affitta a un esercizio commerciale). Giovanni fa l’amministratore di alcune immobiliari in quel di Bra. Ma è Domenica la leader di famiglia, e non a caso Emma si affida per prima a lei. Fa l’imprenditrice, e con un certo successo. Controlla la Santa Rita srl di Bra e attraverso quella anche la Tlp di Cherasco, specializzata in Laminati. Ha le amicizie giuste, tanto da avere una quota nei Roveri, la cittadella nel verde alle porte di Torino dove vivono i piemontesi bene. Domenica Bonino e il marito hanno le stesse quote azionarie, tanto per capirci, di Andrea Nasi e Andrea Agnelli, rampolli dell’impero Fiat. E’ grazie alla sua attività imprenditoriale che la sorella della Bonino ha incrociato la spada con il presidente della Regione Piemonte, quella Mercedes Bresso che ha appena siglato un patto di ferro con Emma. La Bresso infatti fra il 2007 e il 2008 aveva chiuso un accordo di programma con la Grassetto costruzioni, un tempo di Salvatore Ligresti e poi passata a Marcellino Gavio, recentemente scomparso. Si trattava di costruire la nuova Bra con un programma straordinario di edilizia residenziale e pubblica che stava particolarmente a cuore alla Bresso. Ma l’accordo che era a un passo dalla firma dopo avere superato la conferenza di servizi è stato impugnato proprio dall’altra Bonino, l’imprenditrice che insieme a un’altra impresa ha contestato l’aderenza del progetto Gavio alla viabilità prevista dal piano regolatore di Bra. La spada però è stata rinfoderata in fretta: le obiezioni della Bonino sono state subito accolte e inserite nell’accordo della conferenza dei servizi, con soddisfazione di tutti. E alla fine, vinta l’opposizione dell’imprenditrice di Bra, la Bresso ha messo la firma sul piano per cui ha stanziato 69,8 milioni di euro,parte come contributo pubblico e parte come mutuo fondiario agevolato, la metà del quale (31 milioni di euro) è destinato ad edilizia non residenziale. La santa Rita srl e la sua legale rappresentante, Domenica Bonino, hanno accettato la correzione e la soluzione e sono andati avanti con i loro lavori. La società, che ha proprio sede nell’indirizzo fornito dal vicepresidente del Senato per l’esecuzione del suo testamento biologico, ha un patrimonio netto di circa 6 milioni di euro e un utile 2008 di poco inferiore agli 80 mila euro. Nell’ultimo quinquennio è riuscita a non chiudere mai i bilanci in rosso, anche grazie agli ottimi dividendi ottenuti dalla controllata Tlp di Cherasco, che nell’ultimo anno ha chiuso il bilancio con un utile di 543.491 euro e negli anni passati è riuscita a fare anche assai meglio. Avesse saputo prima dell’alleanza di Emma con la Bresso probabilmente la sorella Bonino imprenditrice avrebbe trovato altre strade alternative al braccio di ferro con il presidente della Regione Piemonte. A meno che proprio quell’occasione di lite risolta alla fine abbia favorito il buon clima sbocciato fra le due leader di casa Pd.

Dove stanno gli evasori? Sorpresa: tutti in Calabria e al Sud

Non è il cumenda, ma il picciotto il vero campione dell’evasione fiscale in Italia. Anche se per anni si è disegnato l’identikit del furbetto del fisco con l’imprenditore del Nord- Nord Est pronto a nascondere capitali in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, il vero serbatoio dell’economia sottratta al fisco è il Sud Italia. Lo rivela la documentazione depositata da Banca d’Italia, Agenzia delle Entrate e Istat presso la commissione Lavoro del Senato che sta conducendo una indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2008. I dati , e in particolare un lavoro dell’ufficio studi della Agenzia delle Entrate sulla evasione Irap sono stati analizzati in un documento pubblicato lunedì scorso integralmente dal professore Paolo Feltrin, titolare della cattedra di scienza dell’amministrazione all’Università di Trieste. Feltrin ha spiegato che l’evasione Irap è “una delle forme di evasione che si possono quantificare meglio. Sulle altre ci possono essere indizi più o meno indiretti, ma su questa siamo abbastanza certi”. E ha citato l’indagine dell’Agenzia delle Entrate per rivelare che “l’intensità della evasione Irap nelle regioni del Sud è da 3 a 5 volte superiore a quella delle regioni del Nord, raggiungendo il massimo del 94 per cento in Calabria (vuole dire che circa il 50% è evaso)”. Sempre secondo i dati della Agenzia delle Entrate, rivela Feltrin, “nel Sud e nelle isole l’evasione fiscale è medio-alta per il 70 per cento delle province contro il 24-26 per cento delle province del centro-nord. Secondo la stessa ricerca per il Sud si arriva ad oltre l’80 per cento di propensione all’evasione fiscale”. I dati su chi fa fesso il fisco, secondo il professore triestino, rischiano di fare traballare la veridicità di altri dati ufficiali, soprattutto quelli su reddito medio e livelli di povertà che nel quadro macroeconomico si riflettono anche sulla consistenza del Pil italiano. Feltrin cita una indagine della Banca d’Italia “che segnala qualche problema sulle dichiarazioni delle regioni meridionali. Nel 2006 ad esempi ci sarebbe un 30 per cento di popolazione con reddito pro capite basso, ma se vado a vedere i consumi questo 30 per cento si dimezza e diventa 15 per cento. Se guardo ai redditi ho il 30 per cento delle famiglie povere, ma se guardo ai consumi questa percentuale si dimezza al 15 per cento. Anche qui la differenza fra redditi e consumi è una spia”. Il professore non lo dice, ma è evidente che è un altro indicatore del formidabile livello di evasione nel Mezzogiorno. Ma non si tratta della vecchia economia sommersa: “tutti i dati anzi dimostrano che l’evasione fiscale da lavoro nero, mancati contributi etc… è in radicale diminuzione: queste sono le stime Istat dagli anni ’90 in poi (…). In questi anni sembra essere aumentato un altro tipo di evasione/elusione fiscale, prevalentemente concentrata nei settori manifatturieri e collegata all’import-export”. E’ in questa massa di evasione fiscale che si spiega perché sia sopportabile nel Sud un altro dato ufficiale, quello sulla presenza del 61,8 per cento di famiglie povere: “perché”, sostiene Feltrin, “non ci sono movimenti di contestazione o tensioni sociali con dati così? Perché questi dati non sono veri”. Esiste secondo il professore triestino anche un altro dato non veridico: quello sul Pil: “Con ogni probabilità stiamo sottostimando il Pil nazionale perché non teniamo in adeguato conto non tanto l’evasione classica, tradizionale, quella che abbiamo avuto per 50 anni, ma quella che può essere esplosa negli anni ’90 e negli anni 2000, legata a transazioni estere, spesso legali”. Lo sa l’Istat, lo sa la Banca di Italia “e perché non si corregge la sottostima del Pil? Io credo che qualsiasi aggiustamento del Pil renderebbe meno cogente qualunque politica di contenimento del debito pubblico. Quindi, tutto sommato, conviene a tutti per un po’ dire che il Pil è così come è e non fare troppe discussioni”.

Le sentenze sono sacre! Ma il Csm non le rispetta

Le sentenze non si discutono, si rispettano e si applicano. Questa massima, ripetuta come una cantilena da magistrati, giuristi e legulei, vale per tutti. Beh, non proprio per tutti. Per tutti i comuni mortali. Meno i magistrati. Già, perché la sentenza riguarda loro, mica la debbono per forza rispettare. La buttano nel cestino. Come ha fatto nell’ultimo anno e mezzo per ben due volte il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Due volte infatti il Consiglio di Stato ha annullato per irregolarità la nomina di Giovanni Palombarini a procuratore generale aggiunto della Corte di Cassazione. Due volte il Csm ha fatto finta di nulla e buttato nel cestino la decisione del massimo organo della giustizia amministrativa. E mercoledì scorso ha rinominato Palombarini procuratore generale aggiunto della Cassazione con la stessa procedura (una chiacchierata in commissione, stretta di mano e pacche sulle spalle) già annullata due volte per irregolarità. Palombarini era stato nominato a quell’incarico il 18 ottobre 2007. Tre magistrati che ritenevano di avere più titoli di lui hanno fatto ricorso. E vinto con decisione del Consiglio di Stato numero 3513 del 2008. Solo uno di loro, Vitaliano Esposito, ha ritirato poi l’azione giudiziaria. Non perché si sia convinto che Palombarini avesse più titoli di lui. Solo perché Esposito è stato nominato dal Csm a un grado più alto, quello di procuratore generale di Cassazione, e non avrebbe avuto senso continuare a battagliare per essere retrocesso. Davanti all’annullamento della nomina, il Csm non ha nemmeno lontanamente pensato di fare autocritica. Qualcosa tipo riguardare bene i curricula, esaminare tutti i candidati e poi scegliere con profonde motivazioni quello più adatto all’incarico, come stabiliva il Consiglio di Stato. Macchè, quelli Palombarini volevano e Palombarini hanno rinominato semplicemente riconvocandolo in commissione per una brillantissima audizione e stabilendo che sì, lui era l’uomo giusto. Inutile dire che di fronte a quello che loro sembrava un sopruso bello e buono, i due esclusi che attendevano giustizia, e cioè Carmelo Renato Calderone e Antonio Siniscalchi, hanno ripresentato ricorso al Csm. I supremi giudici amministrativi il 31 dicembre 2009, un po’ spazientiti per il comportamento dei colleghi del Consiglio superiore della magistratura, hanno bocciato con sentenza il loro comportamento e in più licenziato dall’incarico lo stesso Palombarini. Il Consiglio di Stato spiega che “non vi era adeguata motivazione in ordine alla ritenuta prevalenza del dott. Palombarini sugli altri candidati a fronte di quanto risultante dai fascicoli personali degli stessi: imn particolare emergeva dagli atti che il dott. Esposito vantava una più lunga e variegata esperienza presso gli uffici di legittimità e che sia il dott. Calderone che il dott. Siniscalchi potevano vantare maggiore esperienza dirigenziale specifica”. Di più: “illegittimo era il ruolo determinante che era stato assegnato, quanto al requisito delle attitudini e capacità organizzative, all’audizione del dotto. Palombarini, atteso il carattere integrativo e sussidiario che per, consolidata giurisprudenza, l’audizione personale riveste rispetto alle risultanze documentali relative ai precedenti in carriera dei candidati”. Come dire che uno studia per anni da mattino a sera, lavora come una bestia, macina titoli su titoli e poi a un concorso gli preferiscono un altro solo perché è più brillante e simpatico nella conversazione. Agli esclusi secchioni girano le scatole. Al Consiglio di Stato hanno bollato questa decisione con il timbro che dovrebbe essere più infamante per il Csm: “illogica e illegittima”. E così il 31 dicembre il Consiglio di Stato ha concluso: “Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di accoglimento delle domande di parte ricorrente. Alle amministrazioni intimate, pertanto, va ordinato di porre in essere tutti gli atti necessari per la corretta ottemperanza al giudicato in questione, attraverso una ulteriore rinnovazione della valutazione comparativa”. Il 20 gennaio il Csm si è riunito e ha semplicemente rinominato Palombarini al suo posto, facendo spallucce al consiglio di Stato. Palombarini, il candidato per cui si buttano nel cestino le sentenze, non è di primissimo pelo. Nato a Gorizia nel 1936, va per i 74 anni. Nel 1981 è stato eletto segretario generale di Magistratura democratica e successivamente presidente della stessa corrente dei magistrati. Grazie a Md fra il 1990 e il 1994 è stato eletto nel consiglio superiore della magistratura. Ai suoi contendenti beffati per la seconda volta dal Csm resta ancora una possibilità: quella della causa civile per avere almeno il riconoscimento economico dei loro diritti. Ogni anno decine di magistrati, perfino quelli in pensione, scelgono quella strada per avere riparazione dalle ingiustizie del Csm. E ottengono il dovuto senza incontrare resistenza: tanto il loro aumento di stipendio e lo scatto di pensione viene pagato da Giulio Tremonti, mica da Nicola Mancino e dai suoi colleghi.

Claudio Bisio, il comico che ha più naso per gli affari

Come il Leonard Zelig di Woody Allen Claudio Bisio soffre di camaleontismo. Ma per lui non è una malattia. Di notte accarezza il suo cuore da sempre a sinistra, cavalcando con battute al fulmicotone i cabaret che lo hanno reso celebre fino a farlo diventare il mattatore di Zelig su Canale 5. Di giorno cura il suo portafoglio a destra, per cui deve ringraziare le tv di Silvio Berlusconi. Un superportafoglio, perché Bisio guadagna più di 2 milioni di euro all’anno ed è il comico più ricco, anzi, straricco, di tutta la banda Zelig. Lascia a distanza siderale perfino Luciana Littizzetto, la comica più ricca. Lei lo supera solo sul mercato immobiliare: ha 13 case fra Torino e Milano. Bisio si è fermato a 12. Alla banca dati del catasto il compagno Zelig di Novi Ligure (dove è nato il 19 marzo 1957) risulta proprietario di 5 fabbricati a Milano, due in provincia di Savona, tre a Firenze e due in provincia di Genova (ad Arenzano). In più ci sono cinque terreni nell’alessandrino e tre nel fiorentino. Ma a differenza della Littizzetto Bisio viene da famiglia benestante, e buona parte del patrimonio di immobili e terreni lo ha ereditato dal padre insieme alla sorella Marilena, di tre anni più giovane. Sugli immobili vale di più lei. Ma sul vile denaro Bisio sbaraglia la collega, grazie soprattutto agli ottimi contratti ottenuti con Mediaset e con Seat-Pagine gialle per cui da anni è testimonial di un fortunatissimo spot. Quando la Littizzetto ha iniziato a lavorare con Fabio Fazio in Rai, al fisco ha dichiarato 1,8 milioni di euro, cifra che la inserisce di diritto fra le donne più ricche di Italia. Bisio però le ha bagnato il naso, lasciandola a grande distanza. Con il suo reddito di 2.299.611 euro dal 2005 è entrato nell’empireo dei milionari italiani, 384° in classifica. Tanto per capirci al 385° posto figurava Andrea Della Valle, presidente della Fiorentina, che guadagnava 9 mila euro meno di lui. Sopra i due milioni di euro, ma alle spalle di Bisio c’erano anche Donatella Versace, l’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti (che da domani secondo un emendamento alla legge comunitaria passato ieri in Senato dovrà ridursi lo stipendio sotto i 200 mila euro lordi, parificato ai parlamentari), l’ex manager della Juventus, Antonio Giraudo, il calciatore-allenatore ancora per poco della stessa squadra, Ciro Ferrara, e perfino uno scrittore-intellettuale che campa di diritti di autore d’oro come Umberto Eco (2 milioni e 128 mila euro). A costruire il super-reddito di Bisio oltre ai cachet cinematografici e per le serate, ci sono anche le partecipazioni in società. Il comico ha il 2 per cento della Bananas srl, creata da Gino e Michele proprio per dare forma societaria alle fortune di Zelig. Ma è intestata a lui anche l’80 per cento di una immobiliare, la Solea srl, di cui è amministratore unico. Nel 2008 ha fatturato poco più di un milione di euro con un utile di 469.277 euro. Non ha immobili di proprietà, ma ha preso in leasing un ufficio con autorimessa (valore 1,3 milioni) e una abitazione (valore 602 mila euro) che gestisce e riaffitta a terzi. Bisio ha una quota anche di una società di promozione pubblicitaria (la Moviement srl) che fattura circa 2 milioni di euro all’anno e ha chiuso il 2008 in utile per 33.093 euro. Meno fortunata un’altra avventura imprenditoriale in cui si è tuffato insieme ad altri colleghi di Zelig: quella della Steek Hutzee srl, azienda di abbigliamento in corso di trasformazione. Dopo qualche anno in cui si è barcamenata, ha dedicato l’intero 2008 a cercare di riscuotere i crediti dai clienti che non pagavano. Risultato: 13 mila euro di perdita. Per Bisio non è un dramma: ha solo l’8 per cento. Per gli affari (e non solo quelli), Claudio ha davvero naso.

Littizzetto, Luciana si inventa una seconda vita da palazzinara

Il suo primo mattone l’ha conquistato quattro giorni prima di compiere il ventesimo anno di età. Fu quel 25 ottobre 1984 che la signorina Luciana Littizzetto, “nubile, insegnante” firmando l’atto di acquisto dalla signora Antonietta Luigia Darbesio in Ceschi, casalinga, scoprì la sua vera vocazione: quella immobiliare. Era un semplice box auto, in via San Donato a Torino, a due passi dalla latteria gestita tutta la vita dia genitori. Ma era solo l’inizio. Otto anni dopo, nel 1992, altro box auto. E poi gli affari veri. Oggi la Littizzetto non insegna più. In compenso è proprietaria di 10 fabbricati a Torino, uno nella collina torinese in quel di Gassino (è l’ultimo suo acquisto, nel novembre 2009), uno nella natìa Bosconero, sempre provincia del capoluogo piemontese e uno a Milano. In tutto 14 fabbricati, ed è un patrimonio già da agenzia immobiliare. Certo, la spalla destra di Fabio Fazio in “Che tempo che fa”, la sua vocazione l’ha costruita anche grazie a un altro mestiere, assai più redditizio dell’insegnamento: quello di attrice comica. Grazie alla Rai che l’ha trasformata in una stellina del suo terzo canale, è diventata una delle principali protagoniste dello show business. Libri, spot pubblicitari, film, spettacoli tv. A differenza dei suoi colleghi e amici di Zelig (con cui iniziò) specialisti nel cuore a sinistra e portafoglio a destra, Luciana ha corretto la rotta: ora è cuore e portafoglio rigorosamente a sinistra. Rai Tre contribuisce non poco al suo reddito, ma soprattutto è stata il volano per farle avere contratti altrove (come quelli degli spot). Fatto sta che già nel primo anno di Che Tempo che fa la Littizzetto è arrivata fra i primi 500 contribuenti di Italia. Reddito da 1.824.084 euro, 11 mila più dell’allora manager di Mc Donald’s, Mario Resca, 13 mila più di Santo Versace e davanti perfino a il re delle carni Luigi Cremonini (22 mila euro meno di Luciana), all’industriale Vittorio Merloni (24 mila euro in meno) e al superprofessore Umberto Veronesi, che doveva accontentarsi di 1.784.502 euro. L’ex insegnante insomma ha fatto carriera, e si può capire come oggi sia blindato in Rai il suo contratto non intaccato (a differenza di quello di Fazio) nemmeno da uno spiffero. Con i soldi guadagnati Luciana si è potuta così dedicare alla passione che la prese così giovane: quella per gli investimenti sul mattone. A Torino, città a cui è restata legatissima, ha immobili un po’ dappertutto: in via Cavalcanti, in corso Quintino Sella, sulla collina. Ma il suo interesse principale è stato per la cosiddetta precollinare: in via Villa della Regina ha messo a segno anno dopo anno un colpo immobiliare dietro l’altro, comprando appartamenti in vari numeri civici sempre da privati. Trattative fatte in solitaria salvo in un caso, in via Colombini, dove l’acquisto dal proprietario precedente, la Operfin 90 srl è stato condiviso al 50% con Davide Graziano, autore della colonna sonora di “Ravanello pallido”, esordio di Luciana come sceneggiatrice. Nonostante la disponibilità economica, solo nel 2006 la Littizzetto ha voluto sbarcare come immobiliarista anche nel paese da cui proveniva la sua famiglia. E ha acquistato una casetta a Bosconero dalla Vibi costruzioni srl battagliando all’inizio perché fosse tolta l’ipoteca da 2 milioni dovuta a un precedente mutuo con Unipol banca. Ma poi tutto è filato liscio.

Gialappa's, mai dire no a Berlusca e il portafoglio si gonfia

Mai dire no. Chissà se mai quei tre ragazzi che un quarto di secolo fa, era il 1985, esordirono a Radio popolare, avrebbero pensato un giorno di entrare nella classifica fra i 5 mila uomini più ricchi di Italia. Loro, Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci ora come oggi sono conosciuti dal grande pubblico come la “Gialappa’s”. Nati nella radio cult della sinistra meneghina, commentando la sera delle partite la giornata calcistica, i tre si sono ben guardati di dire no al dirigente Fininvest che un giorno sentendoli li contattò e propose loro il grande salto. Così il trio è esploso professionalmente a Mediaset. Assunti a Rete4, passati a Italia Uno, finiti a Canale 5, hanno ormai un posto fisso fra le star delle tv di Silvio Berlusconi. E all’azienda sono restati più che fedeli in questi anni. Con un solo screzio, datato aprile 2004, quando in piena campagna elettorale per le europee, la mannaia della par condicio falcidiò i contenuti della loro “Mai dire domenica”, provocando la protesta di uno dei tre, Santin, che tuonò: “Perché noi censurati ed Emilio Fede che sbeffeggiava Lilly Gruber lasciato libero?”. Cinque anni dopo però è stato lo stesso Santin a divenire più realista del re prendendo le parti di Mediaset contro Enrico Mentana in quel caso Englaro che costò il posto di lavoro al conduttore di Matrix: “Lui si è nascosto dietro la foglia di fico dell’interesse per l’informazione. Ma a Mentana interessava solo l’auditel in questo caso”. Insomma, il trio della Gialappa’s non la pensa come il fondatore dell’azienda che dà loro lavoro, ma sta ben attento a non sputare nel piatto dove mangia. Anche perché grazie al biscione la loro vita è davvero cambiata. Nel 2005, l’anno in cui tutti i 740 degli italiani sono finiti su Internet per decisione di Vincenzo Visco, loro stavano nella parte alta della classifica. Carlo Taranto davanti a tutti con i suoi 616.761 euro che superavano perfino di 600 euro il reddito all’epoca di Fabio Fazio. A ruota Marco Santin, con 597.507 euro e fanalino di coda Giorgio Gherarducci, figlio d’arte del giornalista sportivo Mario, che aveva guadagnato 561.450 euro. Grazie ai buoni contratti ottenuti i tre si sono lanciati anche in un’altra avventura di successo: quel Zelig di cui sono autori, fondatori e mezzi padroni Gino e Michele. La Gialappa’s si è divisa in parti più o meno uguali il due per cento di Bananas srl, società che produce Zelig. E così ha uno zampino anche nell’altra gallina dalle uova d’oro della compagnia: Smemoranda. L’avventura con Gino e Michele è costata qualche migliaio di euro, e rende già benissimo. La quota della Gialappa’s vale, come porzione di fatturato 2008, qual cosina in più di 350 mila euro. Gialappa’s è anche il nome della società a responsabilità limitata che gestisce il marchio del successo artistico del trio ed è guidata da Taranto, che ha vocazioni più manageriali degli altri compagni di ventura. Fattura poco meno di un milione di euro con un utile di 80.074 euro. Sul conto corrente aperto presso la Cassa di risparmio di Parma e Piacenza sono depositati 124.155 euro secondo quanto riporta il bilancio di esercizio. Mentre Taranto cura gli affari del gruppo, i due colleghi della Gialappa’s hanno investito nel mattone. Santin a dire il vero ha due case a Milano, la più grande ereditata nel 2005 dal padre Federico, uno dei più celebri disegnatori e illustratori di libri per ragazzi. E una casetta ad Ostuni, vicino a Brindisi, dove rifugiarsi di tanto in tanto. Gherarducci ha invece un piccolo patrimonio immobiliare fra Milano e le province di Piacenza e Savona. Nel capoluogo lombardo, dove i tre lavorano, Gherarducci risulta comproprietario di una casetta sui Navigli acquistata nel 2000, e proprietario di un appartamento di sei vani non lontano da piazza 5 giornate, acquistato a fine 2004 e di un altro appartamento nella stessa zona con 5,5 vani in comproprietà. Sempre a Milano è di Gherarducci il 50% di un più ampio appartamento (10,5 vani) a due passi da porta Ticinese. Altri investimenti immobiliari in solitaria a Lugagnano Val D’Arda in provincia di Piacenza e insieme al più giovane fratello Giampaolo ad Albisola superiore, in provincia di Savona (4,5 vani di cui gode l’usufrutto la mamma, Maria Carmen).

Gino e Michele, quando le formiche diventano ricchissime

Hanno la stessa quota in Zelig. La stessa in Smemoranda, l’agenda scolastica nata anche grazie a Mario Capanna e a Democrazia proletaria. Tutto uguale fino al centesimo. Se uno fa a Gino e Michele la radiografia patrimoniale sembrano quasi gemelli. I gemelli più ricchi di Italia. Insieme a Beppe Grillo e Roberto Benigni, i comici di sinistra che grazie a Silvio Berlusconi sono riusciti a guadagnare di più. Grillo e Benigni (un po’ meno) lavorando contro Berlusconi. I due gemelli lavorando per Berlusconi. Ma Gino e Michele gemelli fino in fondo non sono. Perché Michele Mozzati è più giovane di dieci mesi di Luigi Vignali (Gino) ed anche un pizzico più ricco di lui. Quindicimila euro lordi di differenza, lo stipendio di un operaio. Non una distanza siderale, quando si è milionari. Eppure quei 15 mila euro li separano di 36 posti nella classifica dei ricchissimi di Italia. Gino con i suoi 1.313.665 euro dichiarati nel 2005, l’anno in cui Vincenzo Visco mise in piazza tutti i 740 degli italiani, si piazza subito davanti Guido Maria Barilla, distanziato di mille euro lordi, e a gente come il calciatore David Suazo (un milione e 304 mila eiuro), il compianto Mike Bongiorno (un milione e 298 mila) e un supermanager pubblico come l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi. Michele riesce a fare di meglio: con il suo reddito di 1.328.285 euro riesce a distanziare anche Lucio Dalla ( un milione e 322 mila euro) e perfino Stefano Ricucci nell’anno chiave della sua scalata al successo insieme ai furbetti del quartierino (un milione e 320 mila euro). Uno dei filoni satirici più fortunati nelle raccolte pubblicate da Gino e Michele riguarda come sempre l’attuale presidente del Consiglio. Sempre attuale quella che faceva il verso a una fortunata battuta (“Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l'annunciatrice”) di Enzo Biagi: “Non è vero che se Berlusconi avesse le tette farebbe l'annunciatrice. E' vero invece che se l'annunciatrice avesse le tette se la farebbe Berlusconi”. Più cattivella quella “Quando Silvio Berlusconi salì alla guida del governo molti italiani si convinsero che le sorti del Paese fossero in mano ad un ‘serial Premier’”. Ma da vero hara-kiri la terza gettonatissima nella Gino and Michele story: “Berlusconi è così convinto che con i soldi si può fare tutto che, quando va a pescare, come esca usa l'American Express”. Il duo comico milionario infatti non ha bisogno della carta di credito. Usa contanti. Come nell’ultimo anno sia Gino che Michele hanno fatto per acquistarsi una seconda casa dove stabilire il proprio buen retiro. Rigorosamente separati di centinaia di chilometri. Gino si è comprato a settembre una casetta a Rimini, in viale Amerigo Vespucci. Gliela ha venduta l’Hotel Villa verde. Michele invece qualche mese prima ha acquistato da Laura Bruno Ventre un’ampia casa (9,5 vani con magazzini annessi) in mezzo al verde in quel di Orino, nel varesotto. L’uno e l’altro acquisto cash, senza bisogno di chiedere il mutuo alla banca di fiducia. D’altra parte né a Gino né a Michele la liquidità difetta. Vanno a gonfie vele tutti gli affari sia a Smemoranda (la società editrice, Gut edizioni, fattura più di 30 milioni di euro), sia a Bananas, la società che produce Zelig (oltre 14 milioni di fatturato). Con la quota di fatturato riconducibile all’uno e all’altro Gino e Michele potrebbero contare su poco meno di 7 milioni di euro all’anno. Ma il valore della partecipazione è assai più alto. Smemoranda nel 2009 aveva perfino fatto gola al blasonato fondo di private equità della Barclays. I comici hanno tirato per le lunghe le trattative, poi quando hanno avuto certezza di riavere in tasca per Zelig il contratto con Mediaset invece di firmare la cessione hanno detto “partiamo per le vacanze”. Tornati hanno deciso che non se ne faceva più nulla. Tanto nel capitale hanno dentro un amico cui i soldi non mancano: Massimo Moratti, presidente dell’Inter. Anche grazie a lui il duo comico ha intrapreso la sua nuova attività, quella edilizia. Fondando una società, la Red Brick (Mattone rosso) il cui nome è tutto un programma…

Zelig fa ridere anche i conti correnti

Più di quattordici milioni di fatturato, oltre un milione di euro di utile all’anno. E nove milioni spesi per servizi, comprese le prestazioni professionali degli stessi soci. E’ la repubblica di Bananas, la società a responsabilità limitata che possiede il marchio di Zelig e che quei 14 milioni di euro all’anno incassa soprattutto da Mediaset, grazie al contratto per la trasmissione dello spettacolo di cabaret su Canale 5. Anche se vive essenzialmente per la linfa che esce dalle tasche di Silvio Berlusconi, Bananas (cioè Zelig) è una repubblica rossa. Sono quasi tutti di sinistra gli azionisti. A cominciare da Gino e Michele, quelli delle formiche che si incazzano (il libro che raccoglieva le loro battute è che è diventato una macchina da soldi dopo la pubblicazione per i tipi di Einaudi, casa editrice controllata da Berlusconi). Gino e Michele, che per l’anagrafe rispondono ai nomi di Luigi Vignali e Michele Mozzati, sono sia autori di Zelig che grandi azionisti della Bananas srl: insieme detengono il 23%. Stessa quota dei manager della società: Giancarlo Bozzo (direttore artistico di Zelig), il commercialista Salvatore Rino Messina (che è anche presidente del collegio sindacale della Banca popolare di Milano) e Nicola detto Nico Colonna, che è anche direttore di un’altra gallina dalle uova d’oro della compagnia (gli azionisti non sono molto diversi): la Gut edizioni, società editrice di Smemoranda (oltre 30 milioni di fatturato 2008). A dividersi i 9 milioni di cachet e anche gli utili sfornati ogni anno da Bananas ci sono anche i comici. I fondatori del cabaret: Paolo Rossi (9%), Giobbe Covatta (attraverso la sua Papero srl, che ha il 3%) e con quote ciasuno del 2% Antonio Albanese, Lella Costa, Enrico Bertolino, Claudio Bisio, Raul Cremona, Elio e le Storie Tese (attraverso la loro Hakapan spa), e la Gialappa’s (la quota è divisa fra i tre). Hanno l’uno per cento a testa di Bananas anche Dario Vergassola e Aldo, Giovanni e Giacomo. Una sfilza di comici e autori di satira tutta anti-berlusconiana, che curiosamente ha vissuto, è cresciuta professionalmente ed è divenuta ricca proprio grazie a Berlusconi e alle sue aziende. Grazie a Zelig, naturalmente (e i comici si lamentano pure del fatto che la trasmissione su Canale 5 pagata milioni di euro ha fatto contrarre i ricavi del locale in cui si fa cabaret per qualche centinaio di migliaia di euro). Ma anche grazie a nuove iniziative che si stanno sperimentando in base a quello che Bananas srl nel suo bilancio definisce “l’accordo con Mediaset-Rti per lo sviluppo di nuovi progetti per l’area digitale terrestre che hanno consentito alla nostra struttura la sperimentazione di differenti formule televisive ed un ulteriore coinvolgimento delle risorse artistiche e autorali che gravitano nell’orbita Zelig”. Bananas controlla a sua volta altre società. L’ultima è nata nel 2009, si chiama Zelanda, è stata fondata da Gino e Michele e poi parzialmente ceduta ai soliti soci, e vorrebbe sfruttare i marchi Zelig e Smemoranda sul web. C’è una partecipazione del 5% agli utili di Smemoranda, l’80 per cento della Deco srl (circa 2 milioni di fatturato), società di coproduzione tv e la maggioranza (51%) del capitale di Z&lig advertising, società di raccolta pubblicitaria (circa 400 mila euro di fatturato). In quest’ultima, sarà un destino, è sia consigliere di amministrazione che azionista (29,5%) un giovane avvocato milanese, Marta Buti. Il suo successo professionale più importante è stato come difensore di parte civile di un gruppo di assistenti sociali del comune di Milano. Ha ottenuto un risarcimento di 10 mila euro. Era un processo per diffamazione a mezzo stampa per due articoli usciti su Il Giornale di Berlusconi. Il gruppo di Zelig ha anche investito sul mattone, conquistando negli anni le mura dei locali della società in viale Monza a Milano. Milioni di euro di utili e pure la patrimonializzazione del loro investimento:per tutti Bananas è stato un grande affare visto che i comici ne sono diventati via via azionisti fra il 2000 e il 2001 acquistando per 5 milioni di vecchie lire ogni quota dell’uno per cento messa in vendita dai fondatori della srl. Due soli i passi falsi in questi anni. Il primo è stato di carattere editoriale: la partecipazione del 20 per cento in una casa editrice, la Kowalski che non solo non ha reso nulla ma di svalutazione in svalutazione ha costretto il gruppo di Zelig a rimettere totalmente i 60 mila euro investiti fino ad uscire l’anno scorso dal capitale. Certo, i titoli non erano da cassetta: qualche autore minore dello spettacolo di cabaret, qualche romanzo straniero di cui si erano acquistati i diritti. Eppure fra le primissime pubblicazioni c’era un accattivante “Se non avrei fatto il cantante” di Checco Zalone. Ma era il maggio 2006, solo qualche mese prima del boom (legato ai mondiali di calcio) del cantante- cabarettista e nemmeno i suoi colleghi si sono accorti della gallina dalle uova d’oro che avevano per le mani. Il secondo insuccesso è quello alimentare. Quelli di Zelig hanno aperto a fianco del cabaret anche un bistrot alla parigina, il Woody’s cafè. Siccome nessuno di loro era in grado di stare ai fornelli, hanno affittato la gestione del locale a Fiorenzo Bortolo Corona. Intanto che c’erano, hanno ceduto a lui pure due cuochi extracomunitari (inserendo la cosa in contratto): Nabih Abd El Aziz e Khalid Mohamed, entrambi egiziani. In cambio di 26 mila euro all’anno. Ma le perdite del ramo di azienda sono restate in mano ai comici, che nell’ultimo bilancio annotavano tristi: “la presenza della società, pur non diretta, nell’area della somministrazione non ha purtroppo prodotto i risultati sperati, si da determinare una fase di riflessione sull’opportunità di mantenere questa presenza e soprattutto sulle modalità dell’eventuale mantenimento”.

Diritti tv, ma quell'inchiesta è come il maiale. Sempre la stessa, non si butta via mai nulla

C’è un nuovo Berlusconi nel mirino della procura di Milano. Grazie al pm Fabio De Pasquale, che ha chiuso l’indagine Mediatrade sui diritti tv, Piersilvio Berlusconi potrà imparare dal padre anche un secondo mestiere, quello di imputato. Il primogenito del premier infatti è iscritto nel registro degli indagati per frode fiscale insieme al padre, a Fedele Confalonieri e una sfilza di altri personaggi ex manager o fornitori di Mediaset per cui a seconda dei casi è stata aggiunta anche l’ipotesi penale di appropriazione indebita e di riciclaggio. L’accusa non è proprio nuova di giornata. L’anticipò Repubblica a fine settembre, pochi giorni prima della decisione della Corte Costituzionale sul lodo Alfano. Venne scritto che un nuovo reato (quello di appropriazione indebita) era stato scovato dai pm milanesi nel canovaccio giudiziario che per altro era restato immutato, dando origine a una lunga serie di processi in parte conclusi con il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, in parte bloccati dal lodo Alfano. Il quotidiano di Carlo De Benedetti raccontò con toni melodrammatici il tormento del povero pm De Pasquale: lui l’indagine l’aveva praticamente conclusa, ma che fare? Se avesse depositato la richiesta alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano, sarebbe sembrata una pressione sulla Corte. L’avesse fatto all’indomani, qualcuno avrebbe interpretato la scelta come una vendetta su Berlusconi. Così sono passati quattro mesi, e la chiusura delle indagini è stata formalizzata ieri. L’unica cosa ignota perfino a Repubblica era la decisione del battesimo giudiziario per Piersilvio. Questa notizia era stata ipotizzata a dire il vero proprio da Libero il 13 novembre scorso, in un articolo dove citando le ultime mosse dei pm e il dispositivo della sentenza di condanna di David Mills, si sosteneva che dopo Silvio la procura sembrava volere attaccare anche i figli. Il giorno successivo però è giunta in redazione una lettera di smentita dell’avvocato del premier, Nicolò Ghedini. Assai secca: “le prospettazioni contenute nell’articolo di Libero non trovano alcun riscontro nella realtà. Marina e Piersilvio Berlusconi sono già stati ritenuti ampiamente estranei a qualsiasi fattispecie penalmente rilevante”. Ottimista l’avvocato, ma così sicuro e tranchant che anche noi ne dovemmo prendere atto. Si capisce come quella di ieri per lui sia divenuta doccia fredda se non ghiacciata. Tanto da tuonare: “estendere l’incolpazione a Piersilvio Berlusconi, colpevole evidentemente di essere figlio di Silvio, è sconnesso da qualsiasi logica e da qualsiasi realtà fattuale”. Non essendoci molto di inedito nel nuovo procedimento, perché gran parte del materiale di indagine è già stato fatto filtrare di mese in mese sulla stampa, c’è una cosa che colpisce in quest’ultima offensiva giudiziaria nei confronti del premier e ormai della sua famiglia. Una cosa che accomuna il filone dei diritti tv al processo Mills: la procura non ha grandi novità fra le carte di indagine. Sostanzialmente sono le stesse per cui si sono già imbastiti e conclusi processi nel 2005 e nel 2006. Sulla base dello stesso canovaccio giudiziario (l’acquisto dei diritti tv attraverso Frank Agrama dagli Usa passando per numerosi paesi europei) con cui la preda (il cavaliere) è sfuggita ai suoi cacciatori (la procura di Milano) per intervenuta prescrizione si ipotizza un reato diverso non prescritto e si imbastisce un secondo processo con lo stesso menù. Non più falso in bilancio o evasione fiscale, ma appropriazione indebita. Così come nel processo Mills si è escogitata sulla stessa materia processuale la formula assai innovativa della corruzione successiva: uno corrompe un professionista, e quello si fa corrompere sulla base di una semplice promessa. E siccome il cavaliere è uomo di parola, anni dopo quella promessa (che non aveva nemmeno cambiali firmate prima) viene onorata. Oramai quella fra i Berlusconi e i giudici di Milano è guerra senza esclusione di colpi. Il premier sfugge a un processo con una leggina? E i pm non buttano via nulla. Si tengono i faldoni e scovano all’interno un nuovo reato. Altro processo, altra leggina a fare da scudo. All’infinito.