Il Csm si fa la legge ad personam per graziare Borraccetti (Md) che vuole fare carriera in età da pensione

Zitto zitto il Consiglio superiore della magistratura si è fatto mercoledì scorso una bella legge ad personam. La persona è quella di Vittorio Borraccetti, ex segretario di Magistratura democratica, che ha guidato la procura generale di Venezia e che oggi avrebbe ambito alla successione di Manlio Minale alla guida della procura di Milano. Avrebbe ambito, ma a rigore di legge non avrebbe potuto. Perché Borraccetti ha 69 anni e prossimo 5 ottobre ne compirà 70, età in cui i magistrati debbono andare in pensione. A meno che non chiedano ufficialmente per tempo di essere trattenuti in servizio. E’ consentito dall’articolo 72 della legge 133 del 6 agosto 2008, successivamente recepita dal Csm nella “Circolare sul trattenimento in servizio dei magistrati oltre il 70° anno di età”, approvata il 4 novembre 2008. Legge e circolare pongono però una condizione chiara: per potere prolungare l’età pensionabile i magistrati debbono presentare domanda di trattenimento in servizio dai 24 ai 12 mesi precedenti il compimento dei 70 anni. E il punto è proprio questo, perché Borraccetti ha avanzato la sua candidatura alla guida della procura di Milano, ma si è dimenticato della sua carta di identità. Non ha presentato in tempo la domanda per restare in servizio oltre i 70 anni. Se ne è accorto qualche amico al Csm, che deve avergli detto: “tu fai lo stesso quella domanda, poi ci pensiamo noi”. Così Borraccetti il 18 gennaio scorso, fuori tempo massimo (a 9 mesi e mezzo dal 70° compleanno) ha presentato la sua domanda per restare in servizio. E con una magia due giorni dopo il Csm ha approvato la leggina ad personam, una delibera per sanare transitoriamente tutte le situazioni alla Borraccetti fino al prossimo 4 novembre 2010. E visto che sembrava brutto farlo per un solo magistrato, al nome dell’aspirante capo della procura di Milano ne sono stati aggiunti altri nove: quelli che avevano presentato dalla fine del 2008 ad oggi domanda di post-pensionamento fuori tempo massimo. Quasi tutti magistrati molto noti, come Mario Almerighi, Francesco P. Amura, Vittorio Frascherelli, Mario Natalino Iapaolo, Franco Morano, Aldo Petrucci, Bartolomeo Quatraro, Claudio Rodà e Salvatore Sinagra. Due di loro, Morano e Petrucci i 70 anni li avevano addirittura già compiuti nella prima settimana del 2010. Un terzo, Sinagra (che presiede il processo sui fatti del G8), li compirà il prossimo 29 gennaio. Ma per tutti e nove, come per Borraccetti, la pensione sta per allontanarsi: sono infatti compresi nella sanatoria appena approvata dal Csm. Con il vantaggio che la legge pensata ad personam come si accusa Silvio Berlusconi di fare, ha allargato un pizzico la platea dei beneficiari, trasformandosi in legge ad personas. Un minuto dopo avere varato la sanatoria che ha mandato gambe all’aria una legge della Repubblica e una delibera dello stesso Csm, il supremo organo di controllo della magistratura ha già sanato secondo le nuove regole due posizioni, quella di Amura (giudice del tribunale di Torre Annunziata) e quella di Sinagra, che andando in pensione secondo la legge esistente avrebbe costretto il tribunale di Genova a riformare corte e azzerare processo sul G8. Trattandosi di magistrati, naturalmente il plenum del Csm ha provato a dare anche un minimo di fondamento giuridico a una decisione che se altri organi istituzionali (perfino le Camere) avessero preso, sarebbe sorto un pandemonio. Così hanno notato che la legge del 2008 scrive sì che per restare oltre i 70 anni i magistrati debbono chiederlo fra i 24 e i 12 mesi prima di compiere la fatidica età. Ma la legge non aggiunge che quel termine debba essere “perentorio”. Ora lo sarà. Ma solo dopo avere sanato la posizione dei magistrati che stavano tanto a cuore ai componenti del Csm. E visto che siamo in periodo di grande generosità, gli uffici dell’organo di autogoverno della magistratura hanno allegato alla documentazione sulla sanatoria anche un elenco di altri 20 magistrati meno noti che stanno per compiere i 70 anni, ma non hanno al momento presentato domanda di trattenimento in servizio, senza inoltrare al Csm nemmeno regolare istanza di cessazione del servizio, necessaria per andare a godersi la meritata pensione. Si tratta di Salvatore Bognanni, Leonardo Bonsignore, Adriano D’Ottavio, Alberto De Palma, Antonio Giuseppe Giannuzzi, Francantonio Granero, Francesco Lacoppola, Giuseppe Vito Antonio Magno, Sergio Maxia, E. Armando Mori, Francesco Nuzzo, Giuseppe Pellettieri, Giuliano Perpetua, Luigi Persico, Michele Piantadosi, Giacomo Rodighiero, Giovanni Russo, Giacomo Sartea, Giovanni Strozzi e Guido Vidiri. Un plotoncino di sbadati che però ora verrà avvertito dai colleghi del Csm. Se sono interessati e si sbrigano, il colpetto di spugna sulle norme in vigore potrà valere anche per loro. A patto naturalmente di ringraziare Borraccetti: non ci fosse stato il suo caso, per tutti all’orizzonte resterebbe solo la panchina del giardinetto comunale e un po’ di pane secco da distribuire ai piccioni.

Ecco la tassa per cui ogni bebè è un rifiuto

In Italia c’è perfino una tassa che considera ogni nuovo nato come un rifiuto da buttare. Si chiama Tia, tariffa di igiene ambientale, e in moltissimi comuni ha ormai sostituito fra il 2002 e il 2007 una delle imposte meno amate dagli italiani: la Tarsu, tassa sui rifiuti solidi urbani. A differenza della Tarsu la Tia si paga non solo per i rifiuti portati via da casa, ma anche per la pulizia della città. Così c’è una quota fissa che ogni cittadino deve pagare, e una quota variabile che dipende come la Tarsu dalla metratura dell’abitazione, ma anche dall’ampiezza del nucleo familiare. Ogni figlio che nasce consumerà e butterà via, ha pensato il legislatore. Così per ogni neonato il capofamiglia dovrà pagare 15-25 euro in più di tassa rifiuti all’anno a seconda della città di residenza. E la vecchia Tarsu ha conquistato con la nuova veste un assoluto primato: in attesa dei più volte annunciati e mai realizzati provvedimenti fiscali a favore della famiglia, questa è l’unica tassa che punisce le famiglie numerose. Chissà, forse cambiando il nome decine di sindaci hanno pensato di ingentilire il tributo. Di più: se ne sono anche politicamente liberati, perché a riscuoterlo non è più il comune, ma un’azienda municipalizzata. Il travestimento in realtà è stato diabolico, perché così si è pensato di trasformare la tassa nel più ordinario pagamento di un servizio. Così è aumentato l’esborso in modo esponenziale. Perché se nessuno vi ha mai fatto pagare l’Iva sulle tasse che pagate, sui servizi è sembrato possibile chiedere. Centinaia di piccoli comuni hanno quindi applicato il 10% di Iva sulla Tia, ex tassa sui rifiuti. Fino a quando la Corte costituzionale l’estate scorsa ha fermato l’indecenza, rendendo possibile a sei milioni di italiani la richiesta del maltolto. Iva o non Iva comunque la Tia costa assai più della vecchia Tarsu che pure è rimasta in vigore ancora nella maggiore parte dei comuni italiani. Un esempio? Roma. Una famiglia di quattro persone in cento metri quadrati pagava nel 2002 in tutto 196,90 euro di Tarsu all’anno. Poi la tassa sui rifiuti ha cambiato nome. Siccome la capitale è speciale, l’ha trasformata in Tia, ma non l’ha voluta chiamare così. Per distinguersi l’ha ribattezzata Tari. Per capire come funziona ci vuole un regolamento che solo qualche pazzo può avere ideato. La formula magica- l’algoritmo qui riprodotto in pagina- è così astrusa che nemmeno Einstein l’avrebbe mai compresa. Ma il risultato è ben visibile nelle tasche dei cittadini romani. Quella stessa famiglia di 4 persone che pagava 196,90 euro di Tarsu oggi paga 299.61 euro di Tari (fotocopia della Tia). Chi se la sente di raccontare la barzelletta che nessuno ha messo loro le mani in tasca? A parte i figli diventati rifiuti costosi, la tassa che non è più tassa è aumentata sensibilmente. Anche un single nello stesso appartamento paga più salato di prima: oggi 247,95 euro. A Milano invece sopravvive la Tarsu. Che sarà odiatissima, ma se la offrite a quella stessa famiglia romana con due figli è in grado di portare un sorriso: perché sotto la Madonnina pagherebbe “solo” 262,20 euro all’anno e in più si potrebbe regalare gratis un fratellino o una sorellina ai due figli già nati perché la tassa resterebbe identica. Nel capoluogo lombardo per altro a sorridere è anche la chiesa ambrosiana, cui non è chiesto per i luoghi di culto nemmeno un centesimo di Tarsu. A Roma ogni parrocchia deve pagare invece 3,93 euro al metro quadrato di tassa per lo smaltimento dei rifiuti, identica tariffa chiesta ai partiti politici (e nella capitale non mancano né chiese né sedi di partito). L’agevolazione milanese riguarda tutti i luoghi di culto riconosciuti, ed è concessa anche in uno sparuto gruppo di altre città, fra cui Bari e Trieste.

Epifani, che fiuto per il mattone. Tre case in un anno. Pronto per guidare il sindacato dei palazzinari

Tre case in meno di dodici mesi. Guglielmo Epifani può aspirare ora alla guida del sindacato degli immobiliaristi, grazie a una improvvisa passione per il mattone che ha fatto cogliere al volo al segretario della Cgil fra l’estate del 2008 e quella del 2009 tre affari immobiliari fra Roma e la Toscana insieme alla moglie Maria Giuseppina De Luca. Due i colpacci di mercato messi a segno dalla coppia: uno per un appartamento da 9,5 vani al settimo piano di un prestigioso immobile di viale Liegi, nell’esclusivo quartiere romano dei Parioli. E uno a Castelnuovo Berardenga, nel senese, dove la coppia è riuscita a conquistare una sorta di buen retiro nell’esclusivissimo Borgo di San Gusmè, un gioiello dell’architettura medioevale fresco di restauro. Tutto grazie ai propri risparmi (anche se il segretario della Cgil può contare su uno stipendio di circa 3.500 euro al mese, il più basso dei segretari dei sindacati) e a una girandola di mutui e finanziamenti il cui valore è cambiato sensibilmente nell’ultimo anno, ma che aveva toccato la punta di una esposizione ipotecaria per circa un milione e mezzo di euro. La gentile consorte per altro ha donato al marito Guglielmo Ettore proprio nell’aprile 2009 la sua quota in un’altra casa, posseduta nel quartiere africano a Roma, a due passi dalla circonvallazione Salaria. L’atto, firmato davanti al notaio Gennaro Mariconda, uno dei più noti professionisti della capitale. Seconda la cortese formula di rito depositata alla banca dati del catasto capitolino “la signora Maria Giuseppina De Luca ha donato con riserva al signor Ettore Guglielmo Epifani che, con animo grato, ha accettato, la propria quota pari alla metà indivisa sulle porzioni immobiliare site in (…) comune di Roma. La signora si riserva espressamente la facoltà di disporre dei diritti pari alla metà indivisa dell’appartamento e della soffitta in oggetto, con esclusione della metà indivisa del posto auto, che resta definitivamente acquisita nel patrimonio del donatario”. Insomma, casa e soffitta con diritti di entrambi i coniugi e quel box auto che insieme avevano acquistato nel 2005 da una anziana signora di Piacenza, ora è tutto del segretario generale della Cgil. Grazie alla donazione il 23 dicembre scorso i coniugi Epifani hanno deciso di estinguere con 13 anni di anticipo il mutuo ipotecario da 125 mila euro da poco concesso dal Monte dei Paschi di Siena con un tasso di interesse annuo del 5,27%. D’altra parte proprio nell’anno d’oro del mattone per il numero uno della Cgil, il 15 ottobre 2008, Ettore Guglielmo ha anche ereditato insieme al fratello Gianfranco dal compianto padre Giuseppe un quarto immobile a Roma, da 7 vani e ampia cantina. Pur conservando la casa nel quartiere africano, gli Epifani l’8 aprile 2009 hanno acquistato appunto ai Parioli di Roma un appartamento assai più prestigioso e grande, da 9,5 vani, ma sprovvisto di soffitta e box auto come nell’altra casa. A vendere l’appartamento uno dei nomi più noti della neurologia della capitale, Efrem Ferretti (classe 1917) che proprio nella nuova casa Epifani per lunghi anni ha esercitato la professione medica, scrivendo anche importanti saggi di psicanalisi. Il palazzo ha anche un ampio cortile trasformato in giardino lussureggiante con palme e vegetazione rara. Per l’acquisto gli Epifani, sei mesi prima di estinguere il mutuo in corso per l’altra proprietà, hanno bussato alla porta della banca di fiducia, il Monte dei Paschi di Siena. Che ha concesso al segretario Cgil (che compirà 60 anni il prossimo 24 marzo) un mutuo trentennale di 450 mila euro di capitale e un tasso di interesse annuo dello 3,01%, iscrivendo ipoteca sull’immobile per un valore di 900 mila euro. Il contratto prevede un tasso pari a quello Euribor di un mese maggiorato di un punto netto all’anno. Risale invece alla primavera del 2008 il compromesso firmato dai coniugi Epifani con la Borgo di San Gusmè srl per l’acquisto di un appartamento di 104 metri quadrati nell’esclusivo e omonimo borgo medioevale a pochi km dal comune di Castelnuovo Berardenga, provincia di Siena. Il borgo è diventato in questi anni di moda, tanto che molti vip di sono precipitati ad acquistare gli appartamenti appena restaurati. Appena fuori dalle mura anche per favorire l’arrivo dei nuovi cittadini onorari è stata realizzata una piccola pista per l’atterraggio degli elicotteri. Gli Epifani vivono nella piazza centrale, a fianco dell’ufficio del turismo e a pochi passi da un giornalista e conduttore televisivo con cui hanno stretto subito amicizia, Tiberio Timperi. Ottimi i rapporti anche con una celebre attrice protagonista delle pellicole sexy degli anni Settanta, l’ancora affascinante Barbara Bouchet con cui i rapporti sono diventati ormai di grande simpatia. Per altro la cittadina non si è fatta sfuggire l’occasione dei suoi inquilini vip premiando sia Epifani che la Bouchet l’estate scorsa con la coppa Silvio Gigli (noto conduttore toscano dei tempi pioneristici della radio). A consegnare ad Epifani l’ambito riconoscimento è stata un’altra inquilina vip del borgo:Iva Zanicchi.

Per chi abita a Roma fisco incubo: si pagano 113 tasse

Sarà la vicinanza con il palazzo, sarà la particolare fantasia degli amministratori in loco, ma se c’è una città dove il fisco è davvero campione, è Roma. Fra tributi regionali, provinciali e comunali chi abita nella capitale non ha davvero il problema di come occupare il tempo libero. In tutto ci sono 113 tasse, imposte, tributi, percentuali su concessioni che magari non daranno enormi incassi, ma certo rappresentano un record in Italia e una fortuna per i commercialisti che operano nella città eterna. Nella tabella qui in pagina si può trovare solo un rapido esempio, sacrificato alla necessità di comparazione con altre grandi città. Ma le frecce all’arco del fisco romano sono cinque o sei volte più numerose degli esempi riportati. Non che brilli la trasparenza: la provincia di Roma guidata dal modernissimo e supermediatico Nicola Zingaretti è fra le poche in Italia a non avere inserito nel proprio sito Internet un bilancio analitico consuntivo o di previsione della propria istituzione. Ma alle tasse, per quanto si voglia nasconderle, i cittadini alla fine non possono sfuggire. Così non è difficile trovare nemmeno in casa Zingaretti, dove si celebrano le grandi opere in calendario e ci si bea dell’invarianza delle aliquote fiscali, quali e quante tasse alla fine bisogna pagare. Grazie a lui, ai sindaci che si sono susseguiti a Roma e soprattutto ai presidenti della Regione Lazio (un vero e proprio tassificio), nella capitale la mannaia del fisco non risparmia quasi nessuno. Tutto è tassa. Le quote locali di quelle grandi e note, come Irpef, Irap e Iva regionale, che scattano contemporaneamente al centro e in periferia. Quelle più note sui rifiuti o sull’auto (il bollo regionale). Ma anche una raffica di tasse che colpiscono ogni tipo di attività produttiva e perfino di hobby. In Lazio sono tassate tutte le concessioni: quelle per l’apertura e l’esercizio delle farmacie, quelle per aprire e mantenere ambulatori, case di cura, presidi medico-chirurgici o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, e perfino l’abilitazione alla ricerca e alla raccolta dei tartufi. In altre regioni, come il Piemonte (che ad Alba ha una tradizione), esiste la tassa sui tartufi, ma riguarda solo quelli raccolti che per altro vengono messi sul mercato a prezzi proibitivi. Sempre in Lazio l’elenco continua con il tributo speciale per il conferimento in discarica dei rifiuti solidi, il tributo regionale per l’abilitazione all’esercizio professionale, la tassa sugli apparecchi radiografici che varia a seconda dei volt. E’ più severa di quella sul canone Rai: se si posseggono più apparecchi, scatta integrale sul primo e al 50% sugli altri. E come il canone Rai viene rinnovata ogni anno. Sempre in campo sanitario sono tassati tutti i posti letto privati. Poi c’è una addizionale tutta laziale sulle acque di derivazione pubblica, che segue le più comuni addizionali energetiche. Si riscuotono come in ogni regione le accise su benzina e gasolio, ma anche l’assai più rara imposta regionale sulle concessioni demaniali marittime. C’è una tassa per la partecipazione alle procedure concorsuali, e una singolare tassa fitosanitaria, che costringe a pagare quattro diverse tariffe per avere a) l’autorizzazione alla produzione e al commercio dei vegetali; b) l’autorizzazione all’uso del passaporto delle piante; c) per l’import-export dei vegetali; d) per l’esercizio annuale delle ditte operanti nel settore. Più leggera a Milano la pressione fiscale sulle persone fisiche e le famiglie, che intanto possono godere della rinuncia alla addizionale Irpef comunale e su una raffica di agevolazioni fiscali. In Lombardia per altro le Entrate fanno il pieno grazie al business: è la Regione dove si incassa più Irap (il doppio del Lazio) e dove è più alta- con distanze siderali dagli altri- la compartecipazione al gettito Iva.

Mani in tasca del fisco di casa. Altro che federalismo: +43% le tasse locali in 5 anni. Complice anche un vecchio errore di Visco

E’ il salasso della porta accanto. Mentre a Roma si discute di tanto in tanto di possibile taglio delle tasse, dalla periferia negli ultimi cinque anni è arrivata una vera e propria stangata fiscale. Le addizionali regionali e comunali, una degli oltre milleottocento travestimenti che lè’esattore delle tasse si è inventato in Italia per infilare i suoi tentacoli nelle tasche dei cittadini, sono aumentate negli ultimi cinque anni in media del 43%. In gran parte per un ritocco verso l’alto delle addizionali stesse, e per il resto grazie alla trovata del duo Romano Prodi- Vincenzo Visco che nella finanziaria 2007 sostituirono le deduzioni con le detrazioni aumentando la base imponibile di tutti i contribuenti. Il risultato fu che la stessa aliquota locale (ad esempio un’addizionale regionale dello 0,9%) invece di essere applicata come avveniva al 95% del reddito lordo, dal primo gennaio 2007 è stata applicata al 100% del reddito, con una tragica magia: si sono pagate più tasse anche se formalmente nessuno le aveva aumentate. Ma proprio nei due anni di governo dell’Unione la gran corsa alla tassazione sembra avere contagiato al di là degli schieramenti anche gli amministratori locali. Su 118 città capoluogo di provincia che Libero ha preso in considerazione grazie ai dati del Dipartimento Finanze del ministero dell’Economia, ben 91 hanno visto aumentare sensibilmente la tassazione addizionale Irpef, per ritocco verso l’alto o dell’addizionale regionale o di quella comunale. Una sola, la città di Lodi, ha visto diminuire la pressione fiscale locale dell’11,76% grazie al fatto che non è variata l’Irpef della Regione Lombardia e si è invece dimezzata quella comunale (passata da 0,4 a 0,2%). Per 26 città invece la pressione fiscale risulta oggi invariata rispetto al 2005 o perché non è stato effettuato alcun ritocco alle aliquote o perché comune e Regione si sono in qualche modo compensati con impatto zero sulle tasche dei cittadini. Sono nove le città capoluogo di provincia in cui la pressione fiscale locale ha raggiunto il tetto massimo del 2,2% previsto dalla legge (1,4% per l’addizionale Irpef regionale e 0,8% per quella comunale): Benevento, Campobasso, Catania, Cosenza, Imperia, Messina, Novara, Rieti e Siracusa. A inizio anno ce ne era anche un’altra, Palermo, che però da qualche giorno ha deciso con un decreto di dimezzare per il 2010 l’aliquota Irpef comunale (dallo 0,8 allo 0,4%), che resta comunque il doppio di quella in vigore nel non lontano 2005. Sono quattro le città in cui la pressione fiscale locale si è almeno raddoppiata. Tutte nel Mezzogiorno. Il record è di Caltanissetta (aumento del 122,22%), seguita da Lecce (116,66%), Catania e Ragusa (100%). Ma assai vicina al raddoppio è andata anche una città abruzzese come Pescara (98,88%). Oltre a queste cinque sono comunque 23 le città in cui la pressione fiscale territoriale è aumentata nel corso dei cinque anni più del 50%. Mentre sono solo quattro le città che hanno optato per un addizionale comunale zero. Tutte al Nord: Brescia, Milano, Trento e Venezia. Per chi abita lì si paga solo l’Irpef dovuta secondo scaglione nazionale di reddito e almeno la quota minima stabilita per legge sull’addizionale regionale: 0.90%. Scontano comunque una pressione fiscale locale sopra il 2% anche senza raggiungere il tetto massimo altre 16 città di provincia: Ancona, Ascoli Piceno, Bologna, Caltanissetta, Chieti, Crotone, Fermo, Genova, L’Aquila, La Spezia, Latina, Ragusa, Salerno, Sondrio, Varese e Vibo Valentia. Così è sulla carta, anche se per i comuni della provincia de L’Aquila compresi nel cratere del terremoto le tasse almeno ora non verranno pagate né a livello nazionale né a livello locale. Quando vuole il fisco riesce perfino ad avere cuore. Ma non ci riesce fino in fondo. Perfino nella regione terremotata si avvertono i cittadini con un avviso a caratteri microscopici che in effetti sì il pagamento delle tasse è al momento congelato. Ma si aggiunge in calce un’avvertenza grottesca: “Si precisa che, pur in presenza della proroga della sospensione, i pagamenti spontanei non sono inibiti e che, se effettuati, non sono rimborsabili”. Se qualcuno sbagliandosi quindi a L’Aquila e dintorni andrà a versare le tasse, in nessun ufficio delle imposte ci sarà qualcuno che gli dirà di no, che può fare con più comodo. E una volta intascati i soldini, il contribuente resterà beffato.

C'è ancora Mussolini in 62 imposte del fisco italiano

Rifondazione comunista al governo c’è arrivata due volte con Romano Prodi e in compagnia di tutti gli eredi del vecchio partito comunista. Ma nemmeno a loro è venuto in mente di togliere almeno una delle 62 tasse fasciste che gli italiani pagheranno ancora nel prossimo 2010. Sono altrettante infatti le imposte che alla loro base hanno ancora (talvolta con modificazione successiva) il testo di un provvedimento legislativo con sotto la firma di Benito Mussolini capo del governo. Basta scorrere il nomenclatore degli atti che accompagna la tabella delle Entrate 2010 che si accompagna all’ultima finanziaria di Giulio Tremonti entrata in vigore il primo gennaio scorso per sgranare davvero gli occhi. Sono 129 le tasse, imposte e gabelle concepite più di 50 anni fa, varate quindi prima degli anni Sessanta. Un bel pacchetto, e di queste più della metà portano ancora l’indicazione “regio decreto” e in calce la firma di un Savoia. I due riferimenti legislativi più antichi sono del 1910, e quindi ben 13 tasse ancora in vigore sono di impronta giolittiana. Nove appartengono a quel primo scampolo di Repubblica alla fine degli anni ’40 e le restanti 45 imposte appartengono agli anni ’50 e all’inizio della cavalcata democristiana. Risalgono al periodo fascista gran parte delle imposte direttamente o indirettamente legate all’acqua. Ad esempio sono tutt’oggi in vigore (anche se poco pagate) quelle collegate ad opere di bonifica dei territori. Tasse fasciste, che però hanno avuto come unica coda recente quella varata da un governo di sinistra, l’ultimo a guida Prodi: la tassa sulle bottiglie di plastica dell’acqua minerale, fatta inserire dai verdi nel 2007 per ottenere risorse da girare ai paesi in via di sviluppo. A proposito, sono 27 fra livello centrale e periferico i sistemi di tassazione legati all’acqua. Molte regioni hanno prelievi fiscali sull’imbottigliamento delle acque minerali, la vera stangata era in Veneto che dal dicembre scorso però l’ha attenuata (mentre l’Abruzzo l’ha appena abolita per tutti i cittadini anche non residenti nell’area del cratere del terremoto). Esiste anche la tassa sulla pioggia: così è stata ribattezzata nel 2008 l’idea venuta al primo cittadino di Ravenna di inserire nella bolletta della municipalizzata anche una sorta di accisa sulla gestione delle acque meteroriche, appunto quelle piovane. Nella tabella di oggi proprio le prime voci illustrano un campione di tutto rispetto del diluvio fiscale a cui siamo sottoposti. Si inizia proprio con quella sovratassa di 0,5 centesimi per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola varata da Prodi: porterà nelle casse di Tremonti 5,5 milioni di euro anche quest’anno. Pochi spiccioli a livello centrale ormai per la quota erariale sulla addizionale per canoni di concessione delle acque pubbliche (800 mila euro all’anno) o per i servizi resi dal consiglio superiore delle acque (702 mila euro), ancora meno per la concessione delle acque pubbliche per i servizi di piscicultura (257 mila euro) o per il dazio erariale sui proventi del canale Cavour (111 mila euro). Piccole somme, nemmeno rivoli all’interno del bilancio dello Stato. Non tanto perché il cittadino non paghi, ma perché il grosso delle imposte ormai non è più diretto a livello nazionale, ma confluisce nelle casse di comuni, province e regioni per cui il federalismo fiscale da tempo è realtà anche senza le leggi ora fatte approvare dalla Lega Nord. La legge Mussolini sulle bonifiche in ogni caso garantisce ancora a Tremonti 2,6 milioni di euro di incassi all’anno, e non sono proprio da buttare via. Resiste ancora solo in parte quella nata sempre sotto il fascismo e che fu ribattezzata “tassa sul ghiaccio”. Bisogna pagarla per piste di pattinaggio e utilizzi vari a fine turistico-spettacolare, e solo da qualche anno non più per fare una granita o conservare prodotti al fresco. Per anni però la tassa sul ghiaccio è stata la disperazione degli albergatori, che si vedevano arrivare una vera e propria stangata per tutte le camere provviste di frigo-bar immediatamente sottoposti all’imposta.