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Sei di Libero? Allora io non ti curo

Venerdì scorso sono scivolato in moto su un tratto ghiacciato di strada. Mi ha raccolto l’ambulanza e portato nell’ospedale più vicino. Al pronto soccorso, fatti i primi esami un medico di turno mi ha imbragato la gamba destra. Finendo la fasciatura a un ginocchio assai malridotto, mi ha chiesto che mestiere facevo. “Giornalista? A Libero? Doveva dirmelo prima, non l’avrei medicata”. Non era una battuta, tanto che poi ha filosofeggiato pure sul perché. Tornato dopo l’operazione al ginocchio, ho aperto il mio blog che tengo da qualche anno mettendovi tutti gli articoli che scrivo. Faccio il giornalista da 28 anni, ho lavorato in più testate. Cerco notizie, quando le trovo le offro ai lettori. E ho avuto la fortuna di potere dire anche quel che penso. Da settembre- cioè da quando sono venuto a lavorare a Libero- i commenti sono assai simili. L’ultimo è esemplificativo: “Sparati” e l’invito è esteso ad altri colleghi di questo giornale, compreso il suo direttore, Maurizio Belpietro, e chi lo aveva diretto prima, Vittorio Feltri. “Sparatevi”, ed è una carineria rispetto al solito. Su facebook ho circa 6 mila “amici” e non pochi se ne sono andati: “ah, la stimavo. Ma da quando è a Libero non più”. Insulti e sberleffi, gruppi che nascono per eliminare il politico o il giornalista che non piace sono pane quotidiano in quel mondo virtuale dove pochi per altro si presentano a volto scoperto, rubando identità altrui o indossando maschere di fantasia. Sì, c’è un odio montante in giro che non ricordavo dai tempi della scuola e dell’università, che ho fatto fra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta. Una differenza c’è, ed è che mai l’odio è stato tanto stupido come quello che gira adesso. C’è sempre stata una componente di stupidità enorme dietro odio e violenza politica. Ma si accompagnavano a qualcosa di reale: una frattura fra generazioni, una distanza siderale del potere dalla realtà, una serie di disagi realmente e largamente vissuti. Quello di oggi è solo stupido e basta. Nuota nel nulla, corre attraverso le reti virtuali, trova per strada leader vuoti e inconsistenti come raramente è accaduto. Non è meno pericoloso, perché guardate cosa ha combinato negli anni la stupidità negli stadi italiani. Ma è odio di quel genere lì, che in fondo gira tutto esclusivamente intorno a una persona, quella di Silvio Berlusconi. Ed essendo stupido e impolitico, si sparge su qualsiasi tentativo di ragionare sui fatti e sulle cose al di fuori di quello schema pro o contro Silvio. Così può perfino capitare che con quello schema l’odio prenda nel mirino di volta in volta un Pierluigi Bersani o un Enrico Letta o un Antonio Polito che semplicemente da sinistra provano a ragionare. E al contrario santifichi nel modo più impolitico e strumentale possibile un Gianfranco Fini solo finchè si immagina lui possa essere la leva ideale con cui rovesciare Berlusconi. C’è stata leggerezza che purtroppo ha accompagnato questa stupidità coccolandola e facendola crescere per un piccolo tornaconto personale. Lo ha fatto Antonio Di Pietro, politico dalla mono-idea (il partito della fedina penale) non in grado di andare al di là di quell’orizzonte, e insieme a lui ha provato a mettersi alla testa del movimento degli stupidi organizzati anche qualche leader più fragile culturalmente e politicamente della sinistra, come Dario Franceschini e Rosy Bindi. Poi si è infilato in mezzo qualche regista, attore, conduttore, scrittore e giornalista che semplicemente sulla stupidità organizzata ha trovato il modo di campare meglio, magari facendosi una villa in più al mare. Ma è solo business, oggi spreme gli stupidi, domani spremerà qualcun altro. Poi c’è qualcosa di più serio e meno stupido, ed è quella parte di elite italiana che per via democratica mai è riuscita a raggiungere il potere (al massimo ha piazzato qualche suo esponente) e che da sempre cerca di farlo in modo illegittimo: è la vera cupola d’Italia, e dentro ha il cosiddetto partito di Repubblica, qualche manipolo di intellettuali, un po’ di finanza, un po’ di magistratura deviata, gli utili idioti del momento che alla bisogna vengono scaricati. Non c’è dubbio che le fila di questo nuovo clima che ha portato al fattaccio domenicale di piazza del Duomo, alla caccia al ciellino all’università di Milano, alla violenza e all’odio che qua e là stanno esplodendo, da quella cupola siano state tirate. Fecero così con i Forlani i Craxi e gli Andreotti, risparmiarono De Mita e Prodi ritenendoli utili ai loro disegni, dal primo giorno hanno ripuntato i cannoni su Berlusconi e chiunque gli si avvicini. E’ il nulla che riempe questo odio che sgomenta, non la contrapposizione, non la diversità di idee, lo scontro anche aperto sui problemi che toccano la nostra vita quotidiana. Non credo che si esca da questo clima con appelli alla pacificazione che sembrano tanto per bene ma sono falsi e traditori. Se ne esce riempendo di contenuti veri la diversità, con una politica che si riappropri dei suoi spazi reali e abbandoni quelli virtuali. Ci si scontri, ma sul senso della vita e su come costruire un modello di società. Non su questo o quell’uomo, ma sul significato della realtà. E se ne uscirà.

C'è un processo che ha Di Pietro contro Berlusconi. Il pm è Santoro. Le carte sono in mano a Fini. E non è fiction

C’è un processo che prevede un presunto colpevole, e qui non si fatica ad immaginare: è Silvio Berlusconi. Ha una parte offesa che ha denunciato il premier, e anche qui sembra tutto scontato: si tratta di Antonio Di Pietro. Ha naturalmente un pm che accusa, che si chiama Santoro. E qui la novità è solo che non si tratta di docu-fiction: non è un processo televisivo, ma un processo vero. E per il pm Santoro si tratta di banale omonimia: non c’è parentela con il Torquemada della tv di Stato. Il processo si sta svolgendo a Bergamo, tribunale presso cui Di Pietro circa un anno fa ha querelato Berlusconi dopo una puntata di Porta a Porta in piena campagna elettorale 2008 in cui il leader del Pdl aveva apostrofato così l’ex pm: “E’ un emerito bugiardo che non ha nemmeno la laurea valida”. Da lì appunto querela e processo. Che è già stato congelato in conseguenza del lodo Alfano, ma è ripreso il 18 novembre scorso in una breve udienza preliminare davanti al gip Patrizia Ingrascì in cui non si sono presentati né querelante né querelato (entrambi per legittimo impedimento) e a dire il vero nemmeno i due avvocati di fiducia (Sergio Schicchitano per Di Pietro, Niccolò Ghedini per Berlusconi), che si sono fatti sostituire da due giovani corrispondenti del foro locale. Pochi minuti d’udienza, per accogliere la richiesta della difesa, e cioè verificare con la Camera se Berlusconi dava del bugiardo a Di Pietro coperto o meno da immunità parlamentare. E poi intero fascicolo messo in busta e spedito il 25 novembre scorso con destinazione Camera dei deputati. La posta fra istituzioni non deve essere un modello di efficienza, perché per amara ironia del caso quel fascicolo giudiziario, quello con Di Pietro parte offesa, Berlusconi presunto colpevole e Santoro pubblico ministero, è arrivato nelle mani del presidente della Camera, Gianfranco Fini lunedì 14 dicembre, il giorno dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo a Milano. Nel bel mezzo della bagarre parlamentare fra Pdl e lo stesso Di Pietro che con toni da querela e controquerela stavano appunto commentando i fatti della domenica milanese. Per altro al “bugiardo” dato da Di Pietro a Berlusconi era subito arrivato come contro-risposta un “bugiardo” di Di Pietro a Berlusconi, ed era stata immediatamente annunciata una contro-querela che però mai è stata presentata. Più volte Di Pietro ha presentato in questi anni querele a Silvio Berlusconi perfino di fronte a giudizi generici sulla magistratura che non lo citavano direttamente. Al contrario, pur essendosi sentito dare del “bugiardo”, del “corruttore”, del “criminale” e anche del “mafioso”, Berlusconi ha annunciato querela a Di Pietro ma poi l’ha presentata in una sola occasione, assai recente, quando durante la campagna per le europee il leader dell’Italia dei Valori definì il premier “un magnaccia di veline”. Il processo è a Campobasso, dove il gip in prima battuta ha ritenuto subito non meritevole di alcuna considerazione la querela di Berlusconi (“magnaccia di veline” non sarebbe stata offesa politica). Ghedini però è riuscito a opporsi alla archiviazione del fascicolo e a tenere in piedi un procedimento che probabilmente mai si farà. Per altro se non ci sono molte querele contro Di Pietro- nonostante il linguaggio colorito più volte usato che certamente porterebbe un giornalista diritto a supercondanna- è perché si sa già in partenza che le azioni giudiziarie sarebbero inefficaci. Difficile trovare un collegio di magistrati che dia torto a un ex magistrato a capo del partito dei magistrati. Non solo: l’unica volta che per Di Pietro qualche rischio ci sarebbe stato, perché a querelare era un altro magistrato come Filippo Verde, il leader dell’Italia dei valori ha alzato immediatamente zitto zitto lo scudo che aveva a disposizione in quel momento: quello dell’immunità da parlamentare europeo, che lo ha tolto dalle pesti nella primavera scorsa. L’unica volta in cui avrebbe potuto dimostrare di razzolare come predicava, rifiutando l’immunità parlamentare e diventando davanti alla legge un cittadino come tutti gli altri, Di Pietro ha scelto la comoda pelliccia dell’immunità. E chissenfrega dei suoi di pietrini delusi.

Pronto? Sono Bagnasco. E Tremonti restituisce i soldi alla scuola cattolica. Messo all'angolo anche da Lupi & c

Alla fine Giulio Tremonti ha ceduto, non avendo per altro molte vie di fuga. Così, con il maxi-emendamento di ieri alla legge finanziaria le scuole paritarie hanno riottenuto quei 130 milioni di euro volati via con i tagli orizzontali del ministero dell’Economia alle tabelle che accompagnavano la manovra di bilancio triennale. Per sciogliere la resistenza del ministro è sceso in campo anche il presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco che prima con una telefonata al premier, Silvio Berlusconi poi in un colloquio diretto con Tremonti ha segnalato il rischio di chiusura di molti istituti con una taglio del 25% dei contributi pubblici alla libertà di educazione dei cittadini. L’intervento del cardinale in un momento in cui il governo è assai attento ai rapporti con la Chiesa cattolica (non pochi interpretano anche in questo modo la chiusura del caso Boffo), è giunto a raddoppiare l’assedio parlamentare al ministero dell’economia con una attività di lobbing coordinata dal vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi. Nei giorni scorsi a dire il vero erano stati presentati numerosi emendamenti per integrare il fondo per il finanziamento delle scuole paritarie, e il Pdl in commissione bilancio era convenuto sull’emendamento di Gabriele Toccafondi che restituiva al capitolo l’intera somma tagliata, appunto i 130 milioni di euro. Ma a sorpresa, sia pure per somme inferiori (fra gli 80 e i 100 milioni di euro) erano stati depositati emendamenti di reintegro anche da esponenti di tutti e tre i partiti di opposizione: Udc, Pd e Italia dei valori. Alla fine tutti hanno sostenuto l’emendamento Toccafondi. Il ministero dell’Economia aveva provato a trattare sull’entità del reintegro, vista la pioggia di richieste per ribaltare i tagli su decine di capitoli. Ma dopo la doppia telefonata del capo dei vescovi italiani Tremonti ha ceduto su tutta la linea, accettando anche di ridotare dei 400 milioni di euro saltati con i tagli lineari il fondo di finanziamento del 5 per mille. Su questo appunto era dato per scontato il via libera del ministero dell’Economia, visto che lo strumento non solo è stato inventato da Tremonti e dai suoi consulenti, ma è stato più volte difeso quando altri governi e ministri avevano immaginato di eliminarlo. Sulla scuola privata invece il braccio di ferro fra il ministro dell’Economia e i cattolici non è una novità. Già nel 2004 Tremonti operò un taglio triennale di 154 milioni di euro all’anno sui 530 milioni stanziati, scatenando le proteste della Conferenza episcopale italiana. Anche l’altro anno, tornato al governo, il taglio che infiammò la discussione sulla finanziaria 2009 fu proprio quello alle scuole paritarie, con una formale protesta della Cei che mise in qualche imbarazzo Berlusconi. Riuscì a metterci una pezza la lobby parlamentare trasversale sulla libertà di educazione, anche allora coordinata da Lupi. Ma 30 milioni di euro furono comunque tagliati rispetto alla dotazione. Così Bruno Stenco, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per l'educazione, la scuola e l'università, protestò anche sopra la righe con Tremonti: “Già tre anni ha tagliato e ora lo ripete. La scuola cattolica ha taciuto e quei fondi li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. La Chiesa adesso deve tirare le sue conseguenze perchè senza contributi le scuole dell'infanzia non vanno avanti e di certo rischiano di chiudere”. Altre polemiche sono sorte nella primavera scorsa per una circolare della Agenzia delle Entrate che identificava l’iscrizione alle scuole private come un indicatore di un tenore di vita alto meritevole di controlli e indagini fiscali. Fu considerato un modo per disincentivare l’iscrizione alle paritarie, proprio dopo avere limato i fondi pubblici. Se verrà approvato ora il calumet della pace del maxi-emendamento, il braccio di ferro fra cattolici e Tremonti sulla scuola è comunque solo rinviato di un anno. Lo stanziamento per la scuola paritaria nella tabella triennale per il 2011 indica ora un taglio ben più consistente di quelli ipotizzati negli ultimi due anni: 200 milioni di euro. Ma c’è ancora un anno davanti per accapigliarsi e telefonarsi…

Spatuzza? Non ne dice una giusta sulla Standa. Ma nessuno in un anno ha mai controllato

Per tutta la prima parte degli anni Novanta i magazzini Standa a Palermo sono stati nove. Sei in gestione diretta del gruppo allora controllato dalla Fininvest e tre che avevano solo in franchising il marchio di quella che veniva definita la “casa degli italiani”. La realtà che emerge dai bilanci pubblici Standa 1990-1994 è dunque assai diversa da quella (meglio dire quelle) raccontate dal mafioso pentito Gaspare Spatuzza. Ieri nell’aula bunker di Torino durante l’audizione più attesa dell’anno Spatuzza ha spiegato: “A Brancaccio nel 1990-1991 è stato aperto un supermercato affiliato Standa e la stessa parola Standa mi dice tutto oggi. E’ l'unica a Palermo e nel quartiere Brancaccio. Visto che il signor Berlusconi ha di proprietà della Standa ed è l’unica Standa a Palermo mi sembra un’anomalia". Il ricordo è sbagliato: non uno ma sei erano i magazzini Standa del capoluogo siciliano, e nessuno di questi nel quartiere di Brancaccio. Lì invece aveva sede uno dei tre negozi in franchising. Ma su quello che viene ritenuto l’argomento chiave per provare i rapporti fra il gruppo di Berlusconi e i boss palermitani qualche confusione Spatuzza deve avere. Perché in uno degli interrogatori precedenti depositati in istruttoria e rilasciati nei primi 180 giorni del suo pentimento, l’ex imbianchino pluriomicida di Brancaccio aveva offerto qualche particolare in più (sia pure contrastante con la versione fornita ieri). “Ricordo”, aveva detto, “che le Standa aperte in quel periodo erano tre e che facevano tutte capo a Michele Finocchio o alla sua famiglia. Michele era una persona vicinissima ai Graviano, così come lo era stato suo padre Gaspare, molto legato a Michele Graviano, il genitore di Filippo e Giuseppe. Di queste tre Standa una è a Brancaccio, in via Azzolino Hazon, una in via Duca della Verdura, mentre la terza è in corso Calatafimi che mi pare fare parte, così come la seconda, del mandamento mafioso di Porta Nuova”. Evidentemente l’attenzione processuale è stata distratta da altri elementi, perché su queste dichiarazioni non sono state compiute verifiche. In due dei tre indirizzi forniti non c’è mai stata alcuna Standa. Il terzo indirizzo, quello di via Calatafimi 380, è invece quello buono. Era uno dei sei grandi magazzini a gestione diretta della società controllata da Fininvest, ed esiste ancora oggi, sia pure con il marchio Oviesse-Coin. Allora non è vero che Berlusconi avesse una sola Standa a Palermo all’epoca, è vero solo che Spatuzza di una Standa sola azzecca l’indirizzo. Qualcuno probabilmente fra il primo e il secondo interrogatorio deve averglielo fatto presente. Ma anche su via Calatafimi il superpentito scivola su una buccia di banana. Ne attribuisce la proprietà a Michele Finocchio e alla sua famiglia. Le mura invece dal 1986 appartengono al Fondo pensioni per il personale della Cassa centrale di risparmio V.E. per le provincie siciliane, che ne è ancora oggi il padrone di casa. Quell’immobile- che un tempo fu della Standa- solo oggi è in corso di dismissione ed a occuparsi di quella vendita è niente meno che Mediobanca, advisor di un’operazione di cessione di 52 immobili in portafoglio al fondo pensioni. C’è quindi molta confusione e assoluta imprecisione nei ricordi di Spatuzza, in modo sorprendente perché molti abitanti di Palermo sanno invece ricordare con precisione le vie dove c’erano supermercati Standa. Quella dei supermercati è comunque sempre stata una passione assoluta dei mafiosi pentiti. Del caso Standa aveva parlato già in 86 pagine di interrogatorio davanti a Piero Grasso un pentito chiave del primo processo a Marcello Dell’Utri: Antonino Giuffrè. Fu lui a raccontare i motivi per cui la mafia all’inizio degli anni Novanta aveva dato fuoco a supermercati Standa e Upim a Catania e Palermo. “Quello che interessava”, sostenne Giuffrè, “non era soltanto il pagamento di tangenti o l’imposizione di forniture, bensì l’instaurarsi di un rapporto diretto con Silvio Berlusconi e con Gianni Agnelli che se non sbaglio erano proprietari di queste strutture”. Insomma dare fuoco ai grandi magazzini era un modo per i boss mafiosi per presentare con una certa rudezza (già, erano boss) il loro biglietto da visita convinti così di potersi dopo sedersi al tavolo con il Cavaliere e con l’Avvocato. Da potere forte volevano conoscere gli altri poteri forti. Lo disse senza tanti giri di parole un altro pentito, Angelo Siino, spiegando come la cupola morisse dalla curiosità a inizio anni Novanta di conoscere un altro big dell’imprenditoria, Raul Gardini, anche lui in passato proprietario della Standa. In Sicilia all’epoca aveva la Calcestruzzi e il biglietto da visita lo mandò direttamente Totò Riina con attentato a un cementificio…

Fini? Fa così perchè Berlusconi non se l'è più filato. Parola di Laboccetta

Missione che sembra impossibile. Ma c’è chi ci lavora da tempo ed è sicuro che presto accadrà: Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi l’uno di fronte all’altro chiusi in una stanza. “Liberi di gridarsi di tutto, finalmente di tirare fuori quel che l’uno ha dentro verso l’altro. Ma guardandosi negli occhi”, pregusta già il match uno dei pontieri che quell’incontro certamente sogna e spera di combinare. Amedeo Laboccetta, napoletano sanguigno ed ex missino di lunga militanza, conosce Fini da quando “portava i calzoni corti” ed è fra i pochi davvero a fianco del presidente della Camera, con cui l’altro giorno ha festeggiato il secondo compleanno della figlioletta avuta da Elisabetta Tulliani con soli altri due politici amici: Giulia Bongiorno e Ignazio La Russa (solo più tardi ha fatto un salto di cortesia Italo Bocchino). Con La Russa sta tentando la missione che sembra impossibile. Cercando di agganciare gli unici pontieri interessati allo stesso risultato sul fronte opposto: “e cioè Marcello dell’Utri, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Consiglieri veri di Berlusconi, un po’ sopra la corte che gira intorno e che alla fine getta solo zizzania per farsi belli con il leader”, spiega Laboccetta, che ammette: “Stesso problema c’è intorno a Fini. Lui è molto generoso e vola alto. Ma essendo generoso ha lasciato le chiavi delle sue macchine nel cruscotto. Così oggi la prende uno e si fa un giro senza che lui lo sappia, poi la prende un altro e magari non ha la patente ed è al volante di una Ferrari. Finisce che si sfascia lui e alla fine ci sfasciamo tutti”. Il riferimento è naturalmente alla nuova generazione dei colonnelli cui ogni tanto capita qualche uscita di troppo che aggiunge guaio a guaio. Se ne è accorto anche Fini se- come si dice- qualche giorno fa il presidente della Camera ha operato il più classico degli shampoo a Fabio Granata per qualche dichiarazione oltre misura. “Mah… il fatto è che Berlusconi la mattina si sveglia e pensa come è giusto al modello Obama. Fini si sveglia e pensa al modello Sarkozy. Meraviglioso. Grandi temi, grandi aspirazioni. Poi arriva qualcuno, mette lì sotto il naso la dichiarazione di tizio o sempronio, butta benzina sul fuoco e scoppia il finimondo. Finchè lavorano gli estremisti le cose peggiorano. Così ci si chiude nel bunker e si pensa di vivere in assedio e a come uscirne. No, ora servono proprio i pontieri”. Certo, non aiutano la fumata del calumet della pace video- sia pure “rubati”- come quelli che hanno ritratto Gianfranco Fini al premio Borsellino sbertucciare Berlusconi con il procuratore capo di Pescara… “Vero”, ammette Laboccetta, “e ha tutte le ragioni Berlusconi di incazzarsi. Perché un conto è sentire le cose di bocca in bocca, un conto sentirle così in presa diretta. Non ho parlato con Fini di quel video, ma certo bisogna archiviarlo il più presto possibile. Anche perché l’ultimo dei pensieri di Fini è che il presidente del Consiglio o Marcello dell’Utri siano mafiosi. E certo non crede alle rivelazioni di un Spatuzza…”. Così è sembrato ieri, con il comunicato di Fini sulla inutilità di quelle dichiarazioni senza nemmeno un riscontro. Ma non è stata l’unica occasione di attrito fra Fini e Berlusconi. E quasi sempre il casus belli pubblico è stato suscitato dal presidente della Camera. Che cosa è accaduto fra i due? C’è un fatto all’origine di questa freddezza personale? “Sì, c’è, è evidente. Perché di una cosa Berlusconi può essere certo: un uomo di destra è sempre leale. Fedele no, perché fedeli sono i cani. Ma leale sì. E Fini gli è sempre stato leale. Ma la lealtà chiede rispetto da entrambe le parti. E io non vedo rispetto verso il Fini politico”. Perché, Berlusconi gli ha mancato di rispetto? “Fini dopo avere a lungo riflettuto gli ha portato in dono An. Gli ha donato la sua storia e quella di tutti noi senza condizioni. E’ evidente che dopo non ha ottenuto il rispetto che si deve a un dono così. Non mi sembra che il ruolo politico di Fini e dei suoi amici nel Pdl sia così rilevante. E Berlusconi non può trattare Fini da politico qualsiasi, uno in mezzo agli altri nel Pdl. Un conto è magari discutere idee di cui Gianfranco si innamora troppo (e che io non capisco, e glielo dico, come nel caso immigrati o sulle questioni etiche), un conto ignorarlo del tutto, o avere atteggiamenti del tipo: se pensa così, fuori. Questo lo può fare un Papa, non un leader politico. In politica non esistono eresie”. E allora? “Allora bisogna che il presidente del Consiglio presti appunto orecchio a chi sa parlargli senza convenienza personale come Dell’Utri, Confalonieri o Letta. Gente di qualità, che ha dato spessore alla politica. Sono certo che con loro in campo il ponte fra i due si costruirà. Ma non può bastare una volta sola. Quei due debbono incontrarsi regolarmente. Una o due volte al mese, e vedrà che la buriana finisce e il governo si rafforza”.

Magistrati 2/ Il giudice nel pallone che si gestisce Spatuzza

Non è un “quisque de populo”, Gaspare Spatuzza, il pentito di mafia più atteso degli ultimi anni che oggi deporrà a Torino al processo a Marcello dell’Utri. E “quisque de populo” non è nemmeno Giuseppe Quattrocchi, procuratore capo di Firenze, che quella definizione su Spatuzza ha coniato. Si sbaglia il deputato del Pd che la scorsa settimana con vis polemica ha ironizzato sulle preoccupazioni di Silvio Berlusconi: “questo magistrato qui non è mica un Antonio Ingroia o una toga rossa… L’avete visto in tv forse per la prima volta. E’ la mite procura di Firenze, non quella di Milano o Palermo”. Mite sarà anche mite, Quattrocchi. Ma un quisque de populo no. E neanche uno sconosciuto per taccuini dei cronisti e riflettori tv. Vero che fu lui, magistrato messinese (lì ha ereditato una parte della casa di famiglia), classe 1938, a indire una conferenza stampa dopo anni di Tangentopoli per chiedere di non citare più i nomi di pm e giudici della sua Lucca in cui ha esercitato per lustri “perché i magistrati non debbono essere divi e sentirsi protagonisti”. Così prese il coordinamento di decine di inchieste anche scottanti e in tv e sulla stampa finì sempre un nome solo: quello del procuratore capo Quattrocchi. A Firenze è arrivato solo nel 2008, promosso dal Csm. Ci abitava però dal 2003, quando acquistò la bella casa dove abita ancora in via Mossotti con la figlia Stefania dopo essere rimasto vedovo (frutto di una divisione con altra famiglia). Era procuratore capo di Lucca, ma come altri colleghi fortunati Quattrocchi aveva anche un secondo mestiere: giudice sportivo della serie C. Esercitava a Firenze, e non di rado le sue scelte “sportive” han fatto più notizia delle sue inchieste. Perché Quattrocchi ovunque si sia trovato mai ha dato l’impressione di essere un “quisque de populo”. In poco più di un anno a Firenze è riuscito a fare tremare ogni palazzo pubblico con l’inchiesta su Sai-Fondiaria. Non è una toga rossa: a spaventarsi è stato lo stato maggiore del Pd, sindaco Leonardo Domenici in testa (lo ha indagato anche per un incidente capitato a Forte Belvedere durante uno spettacolo estivo). Poi ha preso in mano le stragi del ’93 in via dei Georgofili riaprendo il processo e gestendo il pentimento di Spatuzza. Quando ci fu il tragico incidente ferroviario di Viareggio, anche se fuori terriotorio, il procuratore capo di Firenze causò più di un maldipancia ai vertici delle Ferrovie aprendo un fascicolo su tutti gli incidenti ferroviari degli ultimi tre anni. E giù titoloni sulla stampa locale. Come a maggio di quest’anno, quando Quattrocchi guidò l’operazione “Botero” grazie a cui arrestò esponenti di una organizzazione camorristica per riciclaggio. Ci riuscì scoprendo un deposito da un milione di euro in una banca di Prato. Ma il procuratore capo di Firenze volle dare un avviso a tutto il sistema creditizio italiano, lanciando quello che lui stesso definì con linguaggio dell’aviazione un “mayday” alle banche: “tutte le operazioni sospette vanno segnalate. Le banche non possono chiudere un occhio”. Agenda fittissima, procedimenti clamorosi, ma Quattrocchi ha trovato il tempo anche di occuparsi di temi politici nazionali. Sul processo breve ha spiegato ai giornalisti che “il 60% dei processi a Firenze sarebbe stato estinto”. Qualche tempo prima giù critiche anche al reato di immigrazione clandestina, su cui Quattrocchi voleva perfino sollevare questione di legittimità costituzionale. Prima ancora, di fronte alla bozza di legge sulle intercettazioni protestò spiegando che si volevano favorire mafia e camorra. Non è un procuratore che le manda a dire, Quattrocchi. E lavora come un matto: quando nel giugno scorso una giovane collega fu punta in ufficio da una zecca, fu proprio Quattrocchi a dirigere e coordinare le operazioni di disinfestazione. Pronto a dirigere perfino il tempo libero dei suoi: si è messo a capo del Fiorentina fan club della procura di Firenze. A Lucca non è stato da meno: ha fatto lui il processo al televenditore Giorgio Mendella, ha inquisito e fatto rinviare a giudizio Donatella Dini per corruzione, si è infilato con attgi giudiziari nella querelle politica fra il sindaco di Lucca e l’allora presidente del Senato, Marcello Pera. Ha indagato sulle minacce ricevute dall’arbitro Pierluigi Collina e sull’attentato alla villa di Chiara Beria d’Argentine. Si è occupato di doping nel ciclismo, ha indagato Mario Cipollini per minacce. Ha accusato di tentata estorsione un calciatore, Stefano Bettarini che era marito di Simona Ventura. Condotto una inchiesta sulle firme false per le liste di Alessandra Mussolini alle regionali 2005. Ha sequestrato e sigillato La Bussola, locale dove esordì Mina perché la musica era troppo alta. Ha fatto qualsiasi tipo di indagine: pedofilia, eutanasia, calcio scommesse. Ogni indagine, una conferenza stampa e poi titoloni su giornali e servizi tv. Come i casi di cui si è occupato da giudice sportivo nella spenta serie C. Tutti unici, tutti da ottimo titolo sui giornali nazionali: due tifosi che si tirano giù le mutande e mostrano i glutei a Foggia (2002); un tifoso che fa pipì in testa al guardialinee (2004). Uno che ha offeso la memoria di Papa Giovanni Paolo II a Prato (2005) e via così… Attenti a Quattrocchi, non sarà un Ingroia ma non è un pm “quisque de populo”.

Magistrati 1/ Quello con cui Fini si confessava

Il magistrato con cui Gianfranco Fini si è sfogato nel fuori-onda contro il premier- imperatore è da 25 anni la bestia nera di Silvio Berlusconi. Nicola Trifuoggi, attuale procuratore capo della Repubblia a Pescara, il magistrato che ha decapitato la giunta regionale dell’Abruzzo arrestando il suo presidente, Ottaviano Del Turco, è stato anche protagonista della storia delle tv private in Italia. Trifuoggi fu infatti uno dei tre pretori d’assalto che il 16 ottobre 1984 spensero le tre reti tv Fininvest da poco nate: Canale 5, Italia Uno e Rete 4. Con un’azione concertata Trifuoggi a Pescara, Giuseppe Casalbore a Torino ed Eugenio Bettiol a Roma esattamente 25 anni fa inviarono alle nove del mattino agenti della Guardia di Finanza e funzionari della Escopost nelle sedi delle emittenti locali che trasmettevano su tutto il territorio nazionale grazie al sistema ingegnoso della interconnessione. Fininvest non era infatti autorizzata alla diretta su tutto il territorio nazionale e aveva aggirato il limite producendo programmi che venivano consegnati alle varie sedi locali per la trasmissione sul territorio più o meno alla stessa ora. Solo grazie a quel sistema Publitalia riusciva infatti a raccogliere la pubblicità su tutto il territorio nazionale. All’oscuramento deciso dai tre pretori di assalto Berlusconi reagì facendo comparire sugli schermi di tutta Italia una sola scritta “Tutte le trasmissioni sono temporaneamente sospese per motivi politici”. Arrivarono migliaia di telefonate di protesta sia al ministero delle Poste che ai telefoni delle tre preture che avevano proceduto. Qualcuno individuò anche i numeri telefonici di casa dei magistrati e per loro furono giorni di passione. Fu il primo vero braccio di ferro di Berlusconi con la magistratura, poi risolto dal presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi, che con un decreto legge autorizzò Fininvest temporaneamente alla trasmissione su tutto il territorio nazionale. Qualcuno dei tre pretori provò ancora ad oscurare i ripetitori quando decadde il decreto senza essere trasformato in legge, ma Fininvest ricorse e il buio durò poco. Anni dopo allo stesso Trifuoggi fu chiesto da qualcuno di oscurare Rete 4, che la Corte Costituzionale aveva deciso di mandare sul satellite, ma lui a onore del vero si rifiutò sostenendo che quello non sarebbe più potuto essere il metodo con cui procedere e anzi, dichiarando pubblicamente che tornando indietro non avrebbe nemmeno ripetuto quel che aveva deciso nel lontano 1984. Il magistrato pescarese è poi finito nell’occhio del ciclone proprio per l’arresto di Del Turco nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità abruzzese. Una misura cautelare che anche ad alcuni osservatori era parsa spropositata e che naturalmente ha scetenato polemiche politiche, visto che si trattava di un presidente di Regione eletto direttamente dal popolo. Ma non è raro che decisioni dei magistrati vengano criticate e scatenino polemiche. Non sarebbe stata quella né la prima né l’ultima volta. A Trifuoggi in ogni caso non sembra portare fortuna il premio Borsellino per la legalità. Questa volta il magistrato era solo ospite, pizzicato in imbarazzante colloquio con il presidente della Camera, Fini. Due anni fa invece fu proprio lui il premiato. Qualcuno lo vide lì., lesse le motivazioni e tirò fuori una vicenda destinata a provocare un certo imbarazzo. Con interrogazione parlamentare di Emerenzo Barbieri si rivelò come qualche mese prima del premio Trifuoggi avesse acquistato a Montesilvano una villetta da un costruttore proprio da lui inquisito qualche anno prima (lo aveva perfino arrestato nel 2003). Più di una polemica ne è seguita, ma lui alla fine si è difeso: “al momento del compromesso non conoscevo né il nome del costruttore né la sua situazione giudiziaria. In ogni caso ho pagato il prezzo di mercato”

De Benedetti ha scoperto il suo cimicione

Anche Carlo De Benedetti ha il suo cimicione, tredici anni dopo quello di Silvio Berlusconi. L’ingegnere e i suoi collaboratori hanno infatti trovato manomessa la Bmw 750 IL grigio metallizzato utilizzata tutte le settimane per gli spostamenti dell’imprenditore nella capitale. Secondo la denuncia contro ignoti presentata immediatamente alla procura della Repubblica di Roma, dove l’ha avocata a sé il procuratore capo Giovanni Ferrrara, ci sarebbe stata “una intrusiva e dolosa manomissione rilevata all’interno dell’autovettura”. Secondo le indiscrezioni fatte circolare sarebbe stato trovato all’interno dell’auto un vano dove sarebbe stato possibile nascondere un apparecchio per le intercettazioni. La manomissione avrebbe riguardato anche uno dei fanali anteriori. Secondo le ricostruzioni ufficiali il cimicione non sarebbe stato trovato, o almeno la sua eventuale presenza fino a ieri sera era top secret. Ma che quella sia la strada che le indagini hanno intenzione di percorrere è emerso dopo che dalla procura è trapelata l’intenzione di affidare l’indagine a un pm del pool sui reati informatici. Qualche scetticismo è però emerso da esperti del settore consultati ieri da Libero, perché raramente una manomissione così evidente può essere opera di veri professionisti. Certo la Bmw 750 non era particolarmente tutelata. Intestata a una società del gruppo Espresso, era tenuta in autorimessa incustodita la maggiore parte del tempo. L’unico autorizzato alla guida era l’autista personale dell’ingegnere, cugino di un sindacalista dei Beni culturali. Più o meno una volta alla settimana veniva ritirata per andare ad accogliere a Ciampino De Benedetti, che è residente in Svizzera ma che svolge buona parte della sua attività lavorativa fra Milano, Torino e Roma. L’autista lo accompagna regolarmente agli appuntamenti di lavoro, si occupa di piccole spese e poi accompagna l’ingegnere nella sua abitazione romana di via Monserrato, a due passi da piazza Farnese. De Benedetti se non ci sono appuntamenti particolari cena nell’attico e superattico che acquistò nel dicembre del lontano 1979 per 200 milioni di lire da Bruno Visentini attraverso la Finco spa, antenata dell’attuale Cofide (in quella casa in piena Tangentopoli fu messo agli arresti domiciliari dal gip Augusta Iannini, consorte di Bruno Vespa che indagava sulle forniture di telescriventi Olivetti alle poste). Spesso a Roma l’ingegnere è solo, raramente viene accompagnato dalla moglie Silvia Cornacchia più nota con il cognome di Monti. In genere si ferma una notte sola, viaggiando con un piccolo trolley e una borsa con i documenti di lavoro. Il 16 luglio scorso non era sfuggito agli abitanti della zona il suo arrivo in piazza Farnese e la decisione con cui aveva impedito all’autista di prendergli il trolley, lasciandogli invece caricare due borsoni blu dell’Ikea con alcune suppellettili per l’abitazione romana. Due anziane signore romane che lo avevano riconosciuto, colpite proprio da quei sacchi portati dall’autista, sospirarono: “Ah, se De Benedetti per risparmiare è costretto a comprare all’Ikea, vuole dire che la crisi finanziaria è più grave di come ci racconta il governo”. La Bmw 750 è lasciata incustodita appunto in quelle occasioni, ma non per molto tempo e quasi sempre davanti alle fontane di piazza Farnese (le possibilità di parcheggio in zona non sono altissime) che a qualsiasi ora del giorno e della notte è affollatissima. A pochi metri per altro c’è palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, sempre vigilata. Difficile immaginare una intrusione nell’auto e una manomissione in quelle condizioni. Quasi impossibile sia avvenuto durante gli spostamenti, perché l’autista la abbandona raramente, al massimo per un caffè. Le indagini quindi punteranno sull’autorimessa del gruppo Espresso, luogo più probabile in cui possa essere avvenuta l’intrusione. Non ci sono però segni evidenti di scasso o manomissione ad altre strutture o auto. Non sarebbe per altro la prima volta che De Benedetti viene intercettato: il suo nome era inserito nella lista degli spiati dalla Polis d’Istinto che lavorava con il capo della sicurezza Telecom Giuliano Tavaroli. E nel 1996 De Benedetti fu intercettato legalmente mentre faceva gli auguri ad Antonio Di Pietro per lo sbarco in politica del pm, discutendo con lui in modo assai colorito di una possibile discesa in politica anche dell’ex nemico di una vita: Cesare Romiti.

Veronica? Vuole solo un quarto dello stipendio mensile di Silvio

Il clamoroso assegno di mantenimento annuo, 43 milioni di euro, chiesto da Veronica Lario, al marito Silvio Berlusconi dopo la separazione vale circa un quarto dei dividendi incassati nell’ultimo anno dal presidente del Consiglio italiano. Il Cavaliere infatti fra febbraio e fine aprile si è fatto versare dalle società da lui direttamente controllate 166 milioni e 723 mila euro. Quindi se Veronica ha chiesto 3 milioni e 583 mila euro al mese per il suo mantenimento base (vale a dire quanto un top manager di grandi banche o di gruppi come Enel o Eni guadagna in un anno), è vero che grazie al buon andamento delle sue società, Berlusconi nel 2009 ha contato su una paghetta mensile di 13 milioni e 893 mila euro. Il presidente del Consiglio per altro è assai più ricco di quanto non dica questo ragguardevolissimo stipendio mensile. Complessivamente ad oggi avrebbe a disposizione poco meno di 800 milioni di euro: 166,7 sono appunto i dividendi già incassati dalle 4 holding di controllo di Fininvest da lui possedute (la prima, la seconda, la terza e l’ottava), dalla piccola quota di Fininvest a lui riportabile (2,06%) e dalla partecipazione di maggioranza assoluta (99,5%) in Dolcedrago. Dalle holding che controllano Fininvest il premier nella primavera scorsa si è fatto distribuire sotto forma di dividendi quasi tutti gli utili. Negli anni precedenti invece spesso li ha fatti accantonare a riserva. Così oltre ai dividendi Silvio Berlusconi può contare su una liquidità rilevante, pari a 177,8 milioni di euro, su investimenti in titoli (in gestione a banca Arner) per 19,6 milioni di euro e su utili di anni precedenti portati a riserva e distribuibili senza intaccare la solidità delle holding per 420,3 milioni di euro. Il cavaliere ha quindi a disposizione 784,6 milioni di euro. Altri 353, 4 milioni sono immobilizzati nel mattone attraverso la Idra (proprietaria di Villa Certosa e di quelle di Arcore e di Macherio) e ancora 6 milioni investiti in villette attraverso la Immobiliare due ville. Una somma complessivamente superiore a quella che Cir ha chiesto a Fininvest nella contesa giudiziaria sul lodo Mondadori. A questa potrebbe aggiungersi anche parte pro quota del patrimonio Fininvest, la finanziaria che nel bilancio consolidato 2008 registrava disponibilità liquide per un miliardo e 111 milioni e titoli detenuti per la negoziazione per un controvalore di 186,4 milioni di euro. Ma queste cifre non sono state considerate da Libero per calcolare la ricchezza personale della famiglia Berlusconi perché in Fininvest la liquidità serve al funzionamento e allo sviluppo del gruppo. Diversa la situazione dei cinque figli, che attraverso altre tre holding (la quarta, la quinta e la quattordicesima) controllano ognuno poco più del 7 per cento del capitale Fininvest. Piersilvio e Marina hanno la stessa quota, il 7,652%. I tre figli di secondo letto, Barbara, Eleonora e Luigi controllano invece indirettamente il 7,13%. Dei cinque oggi il più ricco è Piersilvio. Non tanto per i dividendi incassati: lui come Marina ha ricevuto solo i 5.614,17 euro spettanti per la propria partecipazione del 0,25% nella Dolcedrago. Il primogenito è più ricco pertchè ha risparmiato di più in questi anni: la sua holding (la quinta) ha disponibilità liquide per 60,4 milioni di euro, investimenti in titoli per 28,7 milioni di euro e utili accantonati negli anni e oggi distribuibili per 94 milioni di euro: in tutto fanno 183,3 milioni di euro. Marina invece i dividendi li ha goduti negli anni e investiti o spesi. Nella sua holding (la quarta) ci sono 19,4 milioni di euro liquidi, altri 11,1 milioni di euro investiti in titoli e 35,1 milioni di vecchi utili distribuibili. Infini i tre figli di secondo letto, che insieme possono contare su 305,7 milioni di euro (più di cento a testa). Eleonora, Barbara e Luigi hanno ricevuto a marzo dalla loro holding (la quattordicesima) una argente du poche da 1,4 milioni di euro a testa. In tutto 4,2 milioni di euro, piccola quota dei dividendi annuali percepiti e accantonati in gran parte a riserva. Sui conti correnti i tre insieme hanno disponibilità liquide per 111,6 milioni di euro, altri 5 milioni dati in gestione alla Sator di Matteo Arpe e ancora circa 185 milioni di euro di utili accantonati in precedenza e distribuibili senza sciogliere la società. Altri 35 milioni li hanno investiti nel mattone, comprando un palazzo nel centro di Milano.

C'è una tenaglia che si stringe intorno a Berlusconi. Milano-Firenze-Palermo e in due mosse il cav sarà ko

Le procure italiane stanno cercando con una manovra a tenaglia di mettere in mutande Silvio Berlusconi. Scacco al re in due mosse. Prima mossa, a Milano: processo rapido, più rapido della legge sul processo breve. E già a gennaio l’attuale premier potrebbe trovarsi condannato per corruzione nel caso Mills. Pena accessoria, immediatamente esecutiva: sospensione dai pubblici uffici per anni cinque. Non indultabile in automatico, perché ci sono in corso altri procedimenti. Un missile su palazzo Chigi in grado di mettere fine alla carriera politica del cavaliere. Seconda mossa: Palermo, Caltanissetta o Firenze. Non è ancora chiaro da dove partirà la cannonata decisiva. A Palermo tutto è già pronto: riaperto dopo 15 anni il fascicolo di indagine n.6031/94, pronta la nuova iscrizione per concorso esterno in associazione mafiosa per Berlusconi Silvio+ 13. E in qualsiasi momento può partire la richiesta del pm di sequestro preventivo del patrimonio del Cavaliere. Tanto la tesi giudiziaria è quella scritta e riscritta mille volte nei libelli anti-cav, da Mario Guarino a Marco Travaglio: all’origine della Fininvest ci sono capitali oscuri. Mafiosi. Attenzione: non è fantagiustizia. E’ quel che si sta preparando, anche se la caccia grossa come è evidente non troverà la preda immobile paralizzata dalla paura. Ma la partita è iniziata. Con un solo obiettivo: lasciare in mutande Berlusconi, e consegnargli solo la magra soddisfazione di rendere del tutto inutili un paio di procedimenti civili che proprio in queste ore si stanno incardinando: quello sulla immediata esecutività della sentenza Mesiano a favore di Cir (sui 750 milioni di euro, il cui pagamento è temporaneamente sospeso, si deciderà a dicembre), e naturalmente quello sulla separazione per colpa del coniuge innescato da Veronica Lario. Quella delle procure è ormai una tenaglia che si sta stringendo intorno all’inquilino di palazzo Chigi. Verbali di pentiti di mafia stanno facendo il giro di un numero consistente di procure italiane, ogni volta aggiornati con particolari succulenti. Presunte rivelazioni di Gaspare Spatuzza in viaggio da mesi sulla Firenze-Palermo-Firenze e già approdate al processo a Marcello dell’Utri, appena aggiornate da un ultimo paragrafo, quello sul presidente del Senato, Renato Schifani (cui aveva appena mandato l’avviso di garanzia Il Fatto quotidiano). Verbalini di un altro personaggio a cui alla bisogna torna sempre la memoria utile al momento, come Pietro Romeo, quello che di tanto in tanto rivela qual cosina sul Berlusconi mafioso e stragista. Anche loro in viaggio sulla direttissima Firenze-Palermo. Materiale che oltre ad affacciarsi nel processo a Dell’Utri per dare il colpo di grazia sta riempendo di nuovi contenuti quel “contenitore di sistemi criminali” che è il fascicolo 6031/94, inventato nella notte dei tempi da Roberto Scarpinato e Giancarlo Caselli. Lì furono già iscritti per concorso esterno Berlusconi e Dell’Utri per poi finirne archiviati. Ma il fascicolo non si chiude mai, pronto a rinascere come le teste dell’Idra grazie alle leggio speciali anti-mafia che tutto consentono di riaprire. Siamo ai primi passi della caccia, e ci vuole un po’ di coraggio. Perché intorno non c’è più il popolo plaudente e assetato di vendetta di quegli anni lontani e manco c’è più a Palermo un mastino alla Caselli. Chissà che quei verbali, verbalini e fascicoli non riprendano insieme alla richiesta di sequestro preventivo dei beni del Cavaliere la strada per Firenze, dove la procura da tempo sta lavorando ai fianchi il boss decisivo, quel Filippo Graviano nercessarissimo per confermare le accuse a Berlusconi dei pentiti. L’altra tenaglia, quella milanese, si sta stringendo con assai meno misteri. Ha un solo nemico da infilzare prima che le sbarri la strada, e non è manco così difficile, visto che si tratta di quel disegno di legge sul processo breve che già molti alleati del presidente del Consiglio stanno lavorando ai fianchi. Tolto di messo quello, è sostanzialmente scontata la condanna in primo grado per il caso Mills. Lodo Alfano o meno il processo è già stato istruito condannando l’avvocato inglese e indicando nelle motivazioni non solo il reato (corruzione), ma anche il corruttore: Berlusconi. Ma c’è un passaggio contenuto nella sentenza di primo grado che già scrive la parte più insidiosa per il cavaliere. E’ all’inizio della pagina 368 della decisione giudiziaria: “Ai sensi dell’articolo 29 c.p. deve applicarsi all’imputato la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni. Appare opportuno rimettere alla fase esecutiva del giudizio, anche in relazione alla pendenza a carico dell’odierno imputato di altri procedimenti giudiziari, l’eventuale applicazione del beneficio dell’indulto ex l. n. 241 del 2006, pur astrattamente applicabile nel caso di specie”. Un periodo destinato al “copia e incolla” in caso di condanna di Berlusconi. Il più velenoso, perché anche se impugnato in appello renderebbe più difficile la permanenza del cavaliere a palazzo Chigi e assai imbarazzante sul punto il rapporto con il Quirinale.

Ma è Mps (la banca rossa) la preferita da Silvio

E’ il Monte dei Paschi di Siena, quella che scherzosamente viene definita la “banca rossa” per eccellenza, l’istituto di credito prescelto da Silvio Berlusconi e da tutti i suoi figli per la gestione dei propri depositi. Presso l’istituto bancario che ha ancora come primo singolo azionista l’omonima fondazione (gestita da enti locali amministrati dal Pd, per questo banca rossa) la famiglia Berlusconi ha depositato indirettamente poco meno di 350 milioni di euro. Cifra assai superiore ai 19, 6 milioni di euro depositati presso Banca Arner, filiale italiana dell’istituto di credito svizzero, dei 28,6 milioni depositati presso banca Morgan Stanley e dei 28,7 milioni amministrati congiuntamente da Morgan Stanley ed Arner. E’ nel gruppo bancario guidato da Giuseppe Mussari che il premier e i suoi cinque figli hanno lasciato la liquidità che controllano più direttamente: quelle delle holding proprietarie del gruppo Fininvest. Quattro di queste (la prima, la seconda, la terza e l’ottava) sono controllate dal capo famiglia, una a testa (la quarta e la quinta) dai due figli più grandi, Marina e Piersilvio e l’ultima (la quattordicesima) è controllata congiuntamente dai tre figli più piccoli nati dal matrimonio con Veronica Lario: Eleonora, Barbara e Luigi. Non è una sorpresa in sé la predilezione per la banca senese, perché è proprio quella che ha affiancato Berlusconi nei suoi primi passi imprenditoriali, finanziandogli le attività da costruttore. Il dato però stride con le affermazioni contenute nella inchiesta (più annunciata che fatta) trasmessa domenica sera da Report condotto da Milena Gabanelli. Secondo la trasmissione (che conteneva più di una imprecisione) le holding di Berlusconi avrebbero tenuto depositi principalmente nella Arner Bank e la cifra rivelata ammontava a 60 milioni, 50 dei quali appartenenti a Marina e Piersilvio e 10 a Silvio Berlusconi. Non è questa la cifra desumibile dagli ultimi bilanci disponibili, quelli che si sono chiusi al 30 settembre 2008 e che sono stati approvati nelle assemblee delle holding fra fine gennaio e i primi del mese di marzo 2009. Presso Banca Arner i Berlusconi hanno esclusivamente gestioni patrimoniali e nei bilanci si riporta solo la movimentazione dei titoli. La holding quarta che fa capo a Marina non risulta avere più né gestione né deposito in Banca Arner, e probabilmente l’errore di Report deriva dalla consultazione dei bilanci dell’anno precedente (quando Arner era citata in co-gestione con Banca Morgan Stanley, oggi sola depositaria del patrimonio). In un caso, quello della holding quinta di Piersilvio la gestione patrimoniale- di una certa consistenza: 28,7 milioni di euro- è affidata congiuntamente a Morgan Stanley ed Arner, e nell’ultimo anno è riuscita a salvare quasi tutto il capitale amministrato, perdendo solo 197.456 euro di valore (-0,6%). E’ andata di lusso a Marina che con la sola Morgan Stanley è riuscita a guadagnare perfino nel primo anno di crisi dei mercati: 550.037 euro di capital gain (+6.3%). La primogenita di Berlusconi , che sicuramente ha un fiuto particolare per gli affari, è riuscita in questo modo a investire parte della liquidità azzeccando due colpacci nell’ottobre 2008: prima ha acquistato130 mila azioni Mediaset e poi 120 mila azioni Parmalat spa. Su Mediaset alla data di ieri aveva guadagnato 136.378,55 euro (e cioè il 27,47% di capital gain in un anno) . Su Parmalat Marina ha guadagnato 91.882,91 euro (una sorta di botto di questi tempi: il rendimento in soli 12 mesi è stato del 60,56%). Dovrebbe imparare da Marina papà Silvio che invece con Banca Arner ha perso in un anno più o meno la stessa somma in valore assoluto guadagnata dalla figlia (-3%). Più prudenti invece i tre figli più piccoli: hanno lasciato il grosso della liquidità (111,6 milioni) sul conto bancario Mps e hanno preferito evitare di fare scommesse sui mercati: 5 milioni li hanno affidati in gestione tranquilla al fondo Sator di Matteo Arpe, altri 4,3 milioni li hanno investiti nel capitale di una società di biotecnologie già controllata da Fininvest

su silvio la tenaglia pm- figli- Veronica

C’è un nome che sintetizza gran parte dei timori giudiziari di Silvio Berlusconi e che qualche cosa ha anche a che vedere con le vicende di famiglia. Non è il nome di un giudice, non è il nome di una persona. E’ il nome di una banca svizzera. Si chiama Arner bank, e questo marchio apparso già in passato nelle prime inchieste sul gruppo Fininvest-Mediaset, unisce due procure di quelle che al Cavaliere fanno accapponare la pelle. Perché sull’Arner bank indagano sia la procura di Milano (inchiesta sui diritti televisivi e Mediatrade) sia quella di Palermo, dove ufficialmente i due pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia si occupano di riciclaggio di soldi della mafia e per questo motivo hanno fatto arrestare nel 2008 un finanziere italo-svizzero, Nicola Bravetti. Ma le strade delle due indagini si sono più volte intersecate e la documentazione acquisita ha fatto capolino anche durante un processo che è giunto già a sentenza di secondo grado, quello nei confronti dell’avvocato britannico David Mills. E’ un po’ complesso addentrarsi nei particolari. La sostanza però è semplice: presso la Arner bank, per poi dirigersi verso altri porti, secondo i magistrati è passato un fiume di denaro proveniente da attività condotte fuori dai bilanci ufficiali, in nero. Parte di queste attività sarebbero arrivate dai vari business della criminalità organizzata- ed è il filone aperto da Ingroia e Scarpinato. Altra parte dal sistema dei conti esteri off-shore del gruppo Fininvest, ed è la matassa che da anni sta cercando di sbrogliare anche attraverso raffiche di rogatorie la procura di Milano. Con quel materiale sono già stati originati numerosi processi ufficiali in parte chiusi (All Iberian, falso in bilancio Fininvest e primo filone diritti tv) in parte aperti (Mills e Mediatrade). E sono le stesse carte di sempre ad essere utilizzate dalla procura di Milano per aprire nuove ipotesi processuali (appropriazione indebita è l’ultima ipotesi avanzata dal pm Fabio De Pasquale per il sottofilone Frank Agrama). Sono al momento solo voci e illazioni quelle secondo cui il materiale Arner Bank potrebbe essere utilizzato da una procura per unire i due filoni (fondi neri Fininvest e fondi neri mafia spa) trovando punti di contatto e ipotesi di accusa comuni. Nel mirino di queste inchieste c’è naturalmente Silvio Berlusconi, ma non è l’unico membro della famiglia ad essere lambito dalle ipotesi di accusa. Il malloppone giudiziario sui fondi neri Fininvest ha più volte lambito i due figli di primo letto del cavaliere, entrambi con responsabilità operative in aziende del gruppo Marina e Piersilvio. Nel 2004 nei loro confronti fu aperta una indagine con l’accusa di riciclaggio e ricettazione nell’ipotesi che Marina e Piersilvio fossero beneficiari di fondi neri depositati sue due conti bancari: il Century One e l’Universal One. Due anni dopo gli stessi magistrati hanno archiviato tutto, sostenendo che Piersilvio e Marina fossero troppo giovani e quindi dei semplici prestanome senza responsabilità dirette. Ma i nomi dei due figli di primo letto di Berlusconi sono riapparsi fra le carte del processo Mills e fra quelle del filone di inchiesta su Frank Agrama. L’ipotesi è sempre la stessa: che nel sistema estero del gruppo Fininvest e in particolare nella compravendita dei diritti televisivi con le major cinematografiche americane (il lavoro di Agrama) si fossero creati fondi neri in parte destinati a pagare i mediatori e in parte proprio a fare arrivare redditi esentasse a Berlusconi e ai suoi primi due suoi figli. Per ora è solo un filone nelle varie inchieste, ma è quello che più irrita e preoccupa il Cavaliere, che si indigna in pubblico e in privato per il coinvolgimento dei suoi figli. Anche perché sa dove portano queste ipotesi giudiziarie: a possibili condanne e pene accessorie in grado di togliere non a Berlusconi, ma ai Berlusconi quanto creato dal cavaliere nella sua vita.

Il Cavaliere si sente circondato

Questa volta Silvio Berlusconi è davvero “circondato”. Il virgolettato è d’obbligo, perché a descrivere così la sua situazione è il diretto interessato. “Sono circondato”, ripete il premier da qualche mese ad ogni incontro con i suoi più diretti collaboratori e nei rari momenti che riesce a trascorrere con i vecchi amici. E circondato il cavaliere lo è davvero come mai gli era accaduto nei quindici anni della sua nuova vita politica. Non c’è parte dove voltarsi in cui Berlusconi non trovi davanti un nemico. In politica, perfino all’interno del partito che ha fondato. Nelle istituzioni, dove pochi gli sorridono. Nel rapporto con i magistrati che stringono la tenaglia delle inchieste non solo su lui (ci è abituato), ma anche sulle persone che ha più care. A casa, se di casa si può parlare nel giorno in cui Miriam Bartolini sposata Berlusconi (e più nota con il nome d’arte Veronica Lario) ha depositato in tribunale un ricorso individuale di separazione con addebito dal marito. Non è mai stato così sotto assedio. Non ha mai corso come ora il rischio di perdere tutto l’imprenditore che ha creato dal nulla il primo gruppo televisivo privato italiano, il politico che dal nulla ha fondato e portato al successo il primo partito italiano, il patriarca abituato ad essere venerato e rispettato senza discussioni dai cinque figli, dai generi, dai nipoti da una famiglia che amava riunire appena possibile con riti celebrati sempre uguali fino alla noia e sempre immutati negli anni. E’ sotto assedio, circondato, l’impero a cui Berlusconi tiene di più: quello delle aziende che ha costruito e fatto crescere in questi anni e che avrebbe voluto consegnare ai figli. Sono circondate dal fisco, che alla sola Mondadori contesta 250 milioni di euro e a Fininvest numerose altre poste (un salvagente era stato immaginato in Senato con un mini condono tributario rifiutato dal finiano Maurizio Saia, relatore della legge finanziaria). Fuori con i fucili puntati c’è Carlo De Benedetti, con in mano quella sentenza firmata dal giudice Raimondo Mesiano e al momento congelata, che rischia di portare via a Berlusconi e ai suoi figli 750 milioni di euro. Ci sono i bazooka delle procure che oltre a potere sbalzare il cavaliere dalla sella di palazzo Chigi, potrebbero avere l’effetto di sottrargli anche parte del patrimonio e delle aziende. E poi c’è Veronica, la madre di solo tre dei suoi figli, con la causa di separazione ostile che rischia di spezzare la famiglia e anche a possibilità di Berlusconi di scegliere liberamente l’asse ereditario. Non c’è bisogno di una regia preordinata, di un complotto che veda uniti negli intenti e coordinati nelle azioni tutti i protagonisti sopra citati. La regia potrebbe essere nei fatti, indipendentemente dalla volontà degli attori. Siamo su pure ipotesi, che nel quartiere generale del cavaliere però sono state prese seriamente in considerazione leggendo fra le pieghe delle mosse di chi lo cinge d’assedio. C’è una azione giudiziaria, quella di Veronica, che punta a castigare il marito soprattutto sotto il profilo patrimoniale e a ridurre il perimetro aziendale e patrimoniale dei due figli di primo letto, Marina e Piersilvio a favore dei tre di secondo letto: Eleonora, Barbara e Luigi. C’è una seconda azione giudiziaria, quella della procura di Milano che se ha al centro del suo mirino il presidente del Consiglio, potrebbe avere come conseguenza indiretta lo stesso obiettivo che ha Veronica. Quel che traspare dalle carte del processo Mills e delle varie inchieste sui diritti televisivi è infatti l’ipotesi di un tesoretto non ufficiale accumulato negli anni all’estero a favore di Berlusconi e dei suoi due figli impegnati direttamente in azienda, che sono appunto quelli di primo letto. Non c’è dubbio che quelle carte possano diventare interessanti anche per la causa di divorzio e per stabilire il perimetro dell’asse ereditario. Altro che assedio: diventerebbe un fuoco concentrico, per altro con evidenti parallelismi con quello che sta accadendo all’interno della famiglia Agnelli (fisco, giudici e Margherita sono saldati da un obiettivo comune). C’è anche il fronte politico, dove gli avvenimenti sono più palesi. E’ chiaro a tutti ad esempio come con grande difficoltà si possa parlare ancora di un’alleanza politica (il rapporto umano è compromesso da tempo) fra Berlusconi e l’attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma se questo è un caso alla luce del sole, sotto traccia non manca altro. Come ha confessato in privato il leader Udc Pierferdinando Casini dopo il faccia a faccia della riconciliazione con il premier :“figurarsi, fosse stato per Silvio eravamo già lì a discutere i particolari di una nuova alleanza. Perfino i ministeri. Ma io come faccio? Chiunque dei suoi abbia incontrato non ha fatto che parlarmi del dopo. Tutti, anche suoi ministri, ragionano del dopo-Berlusconi considerando questa epoca agli sgoccioli. E io vado a costruire un’alleanza con lui proprio ora?”.

C'è un pm che vuole ribaltare Berlusconi e tutto tace

Immigrati e intercettazioni telefoniche sono emergenze fittizie. “L’emergenza reale è quella democratica”. Parola di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo che sostiene- pur senza citare un nome, che chi oggi è al governo dell’Italia ha “demolito i pilastri dello Stato”, che prima ha “assediato, poi assaltato e occupato per i suoi interessi privati”. Di più, ha favorito per interessi privati l’invasione “di spazi della politica da parte di poteri criminali che hanno penetrato le istituzioni”. Così, secondo la ricetta espressa da Ingroia a un convegno di Magistratura democratica a Roma, oggi i magistrati debbono “riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica” per “ribaltare il corso degli eventi soltanto mettendo le premesse per la nascita e la crescita una politica con la P maiuscola”. Parole forti, con passaggi ancora più clamorosi, che Ingroia ha pronunciato a Roma al residence di Ripetta davanti allo stato maggiore di Md, a due membri del Csm e a Stefano Rodotà. Il magistrato di Palermo che ha condotto l’indagine su Marcello dell’Utri sostiene che era meglio il rapporto fra politica e mafia all’epoca di Giulio Andreotti: “Nella cosiddetta prima trattativa c’era una politica che- uno Stato, diciamo così, che intrecciava i rapporti con pezzi dei poteri criminali per finalità- diciamo così, di ordine pubblico (quindi politici e non privati). Nella cosiddetta seconda trattativa lo Stato è scomparso e ci sono interessi privati che si siedono al tavolo degli interessi criminali per contrattare privatamente i rispettivi obiettivi”. Ingroia ha esordito nel silenzio generale (e con qualche applauso) spiegando che “Noi abbiamo davanti una sistematica demolizione dei pilastri dello Stato. Cioè quello che rende le cose a mio parere particolarmente drammatiche è che noi non abbiamo una politica che vuole sottoporre la magistratura sotto il controllo della politica. Oggi non abbiamo politica. E non abbiamo Stato. Cioè il ruolo di mediazione, con tutti i difetti e le accentuazioni che la politica svolse nella prima repubblica. Semplicemente non c’è più. Lo Stato e la politica sono stati oggetto prima di un assedio, poi di un assalto, di interessi privati e quindi oggi lo Stato è occupato da interessi privati, che non fanno politica, ma realizzano soltanto i propri interessi”. E ancora, scagliandosi contro le ipotesi di riforme istituzionali appena tratteggiate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “noi siamo oggi senza politica, ma solo in mano di interessi privati che della politica si sono impossessati. I colpi subiti dallo stato di diritto con l’accentramento del potere dell’esecutivo non sono solo finalizzati a costruire uno Stato secondo un modello diverso da quello istituzionale costruito dalla Corte Costituzionale . Si tratta semplicemente di una scelta nella quale un nucleo di interessi personali e privati ha individuato il potere l’esecutivo come quello che gli consente di fare meglio i proprio interessi. E secondo questi interessi ha modellato un nuovo modello di Stato e un nuovo modello istituzionale.” Ed ecco la ricetta del magistrato anti-Berlusconi: “Dobbiamo riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica non c’è più, perché parte di questo disegno è distruggere l’opinione pubblica, trasformandola in soggetti sui quali viene riversato il pensiero unico, la verità unica. Il dispregio dell’opinione altrui, dei fatti: trasformare tutti i fatti in opinioni, in modo che tutto sia opinabile e nulla sia vero. Di fronte a questo quadro, che fare? Avere consapevolezza che si può ribaltare il corso degli eventi…”.

Tasse, gli industriali hanno già avuto troppi sconti. Tocca alle famiglie

La stragrande maggioranza degli italiani, circa il 68% dei lavoratori dipendenti, paga più tasse oggi di tre anni fa. La stragrande maggioranza delle imprese- tutti i grandi gruppi, la maggioranza assoluta di quelli medi e perfino una percentuale consistente di quelle piccole paga meno tasse oggi di tre anni fa. Forse è da questo dato che dovrebbe partire Silvio Berlusconi e con lui il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti prima di prendere una decisione su un eventuale programma di riduzione del carico fiscale. Se urgenza c’è- dati alla mano- non è quella di una riduzione dell’Irap, ma quella di una riduzione dell’Irpef su gran parte dei redditi. Il sistema fiscale oggi in vigore sulle persone fisiche è quello disegnato da Vincenzo Visco nella finanziaria 2007, stravolgendo quell’inizio di riduzione della pressione fiscale avviato da Berlusconi e Tremonti durante la legislatura precedente. Oggi l’Irpef è quella di Visco, nonostante un anno e mezzo di governo Berlusconi. Il sistema di tassazione sulle imprese invece è stato ritoccato al ribasso prima dal governo di centro destra e poi ulteriormente da quello di centrosinistra, che non si può proprio dire sia stato avaro con le imprese e particolarmente con le grandi imprese. Tre anni fa l’aliquota base Irap era del 4,25%. Oggi è al 3,90% che si applica oltretutto su un perimetro più ristretto grazie a nuove norme sulla parziale deducibilità di interessi passivi (deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi e l’eccedenza fino al 30% del risultato operativo lordo dell’impresa) e a quelle sulla riduzione del cuneo fiscale per le imprese stabilito con la finanziaria 2008 (si può dedurre 4.600 euro per ogni lavoratore dipendente impiegato a tempo indeterminato nel periodo di imposta- e prima non era consentito farlo). Il reddito di impresa era tassato con l’Irpeg, al 34,5%. Poi è stata introdotta l’Ires, con aliquota del 33%. Oggi l’aliquota Ires è del 27,5%. La tassazione media sugli utili dei primi 25 gruppi industriali italiani era nel 2004 del 42,6%, nel 2008 è stata del 26,6%. Un lavoratore dipendente non può raccontare lo stesso percorso in discesa. Nel 2001 la maggioranza degli italiani votò Berlusconi grazie allo slogan elettorale “Meno tasse per tutti”. Ci fu l’11 settembre, poi il crack Enron, la grande depressione dei mercati azionari e l’operazione fisco leggero non fu possibile così come era stata immaginata. Quando Tremonti vi mise mano, semplificando aliquote e procedendo alla prima riduzione, perse la poltrona su pressing proprio dei sostenitori del taglio all’Irap. Era il 2004, per un po’ non si fece né un taglio né l’altro, poi uno scaglione di riduzione dell’Irpef. Il tempo di assaporare quel caffè al giorno offerto dal fisco italiano, e Berlusconi ha perso le elezioni. Al comando è salito Romano Prodi che ha varato la sua finanziaria dalle cento tasse. Alle finanze comandava il viceministro Visco, che ha stracciato la riformina Irpef di Tremonti, e l’ha rifatta a modo suo intorcigliandosi fra un errore e l’altro. Rimise cinque aliquote Irpef, cancellò il sistema vigente di deduzioni (che abbassano il reddito imponibile) e reintrodusse quello delle detrazioni (togliendo cioè direttamente dalla imposta dovuta). La sua idea era di fare pagare meno tasse ai redditi sotto i 40 mila euro e più tasse a quelli sopra quella soglia. Già alla prima prova della busta paga di gennaio 2007 gli italiani scoprirono che i calcoli erano campati in aria. Il complesso di norme Visco era neutro per i redditi fra i 20 e i 25 mila euro lordi, peggiorativo per tutti i redditi sopra quella soglia. Mancava però ancora un elemento, quello delle addizionali Irpef comunali e regionali. Il servizio Bilancio della Camera aveva per altro già messo in guardia il governo dell’epoca: attenti, perché avendo eliminato le deduzioni, anche a parità di aliquota delle addizionali, queste aumenteranno di 406 milioni di euro, perché senza deduzioni verranno calcolate su un reddito imponibile più alto. Cifra generosa quella prevista, perché in realtà nel 2007 il 75% degli enti locali ha aumentato le proprie addizionali. Risultato? Per avere un beneficio certo dalla riforma Visco i lavoratori dipendenti non avrebbero dovuto guadagnare più di 10 mila euro lordi all’anno. Fra 10 e 15 mila rispetto al 2006 la condizione era neutra o peggiorativa a seconda dei carichi familiari avuti. Sopra i 15 mila nella stragrande maggioranza dei casi i lavoratori italiani dal 2007 pagano più tasse di prima. Come reagì il governo di centro sinistra? Prima dicendo che non era vero nulla. Poi, dopo mesi, riconoscendo l’errore e promettendo “ripareremo”. Ma nulla fu fatto nella finanziaria 2008, e l’errore contribuì alla vittoria elettorale di Berlusconi. Non fu ininfluente per quel successo la promessa di ridurre la pressione fiscale. Ma dopo pochi mesi è scoppiata la crisi dei mercati finanziari. Nella finanziaria 2009 non c’è stato spazio per correggere almeno quell’errore dell’Irpef di Visco. E’ arrivato il decreto anticrisi del novembre 2008: sull’Irpef nulla, ma sull’Irap sì. E’ stato concessa la deduzione del 10 per cento dell’Irap pagata dall’Ires, sulla quota imponibile relativa agli interessi passivi e oneri assimilati (al netto degli interessi attivi) e sulla quota di spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni già spettanti. Sono argomenti un po’ tecnici ma il risultato è semplice: le imprese che strepitano perché si riduca l’Irap pagano già meno tasse (e hanno già ottenuto in parte quello che chiedono). Le persone fisiche che lavorano (finchè un lavoro c’è) e tacciono, ne pagano di più. Anche un bambino capirebbe dove è più urgente mettere mano per riparare a un’ingiustizia fiscale. Vogliamo aggiungere un altro elemento? Quei capitali ora rimpatriati con lo scudo fiscale a una tassazione di assoluto favore (sulla carta il 5%, ma grazie al buon marketing degli intermediari sostanzialmente allo 0%), apparterranno più a chi chiede “giù l’Irap” o a quella massa silenziosa che guadagna 15, 20, 25 o 30 mila euro lordi l’anno e a cui il fisco ha ingiustamente portato via di più promettendo l’esatto contrario? E allora, non è il caso di pensare prima di tutto all’Irpef? Meditino Berlusconi e Tremonti. Perché l’equità fiscale non può partire da un gesto in questo momento iniquo.

Tremonti e il rigore, Draghi e il rigor mortis

Se c’è un numero da non pronunciare in presenza di Giulio Tremonti è il 47. “Morto che parla”, avrebbe scherzato Totò, ma quel 47 che agita i sonni del ministro dell’Economia è tutt’altro che un fantasma. Anzi, è vivo, vivissimo nonostante i 62 anni di età. Sessantadue anni come quelli portati magnificamente da Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia che nel ’47 è nato il giorno 3 settembre. Sessantadue anni e tre mesi in più di Draghi come quel decreto luogotenenziale del 4 giugno 1947, n.408 che mai nessuno ha abrogato e che stabilì che un Governatore della Banca d’Italia poteva autosospendersi dalle funzioni per assumere provvisoriamente l’incarico di ministro o sottosegretario di Stato. Sembra preistoria: l’Italia repubblicana era ai suoi primi passi, Enrico De Nicola ancora Capo provvisorio dello Stato e quel decreto luogotenenziale- come spesso accade in Italia, era assolutamente ad personam. Tanto che fu soprannominato “decreto Einaudi”. Fu Alcide De Gasperi a volere quella norma, per convincere il Governatore di via Nazionale ad entrare nel suo IV governo. E con l’idea della autosospensione e del possibile rientro nella carica, De Gasperi ci riuscì. Luigi Einaudi divenne ministro del Tesoro e delle Finanze del suo governo e qualche mese dopo anche titolare di quel Bilancio che fu creato apposta per lui. Come stabiliva il decreto luogotenenziale mentre Einaudi provvisoriamente faceva il ministro, le funzioni di Governatore della Banca d’Italia erano trasferite al direttore generale o in caso di suo impedimento al vicedirettore generale (all’epoca ce ne era solo uno, oggi sono tre). Il direttore generale c’era- eccome- e rispondeva al nome di Donato Menichella. Divenne il facente funzioni di Governatore mentre Einaudi provvisoriamente veniva prestato alla politica e siccome in Italia provvisorietà va rima con eternità, Menichella presto si trasformò in Governatore a tutto tondo: nel maggio 1948 infatti Einaudi fu eletto presidente della Repubblica e a quel punto si dimise dalla Banca d’Italia. Storia e non preistoria, perché a turbare Tremonti è proprio il fatto che quel decreto luogotenziale sia stato tirato fuori dai polverosi archivi dall’ufficio legislativo di palazzo Chigi e inserito in una delle cartelle di documentazione destinate al presidente del Consiglio dei ministri. Silvio Berlusconi l’ha letto, ne ha fatto verificare la corrispondenza ai tempi e l’eventuale contrasto con norme successive e ha così appreso che anche oggi il Governatore della Banca d’Italia potrebbe legalmente autosospendersi e assumere un incarico da ministro. Secondo il dossier di palazzo Chigi quel decreto luogotenenziale era già stato tirato fuori dai polverosi archivi nella primavera del 2000, all’indomani delle elezioni regionali e delle dimissioni da presidente del Consiglio di Massimo D’Alema. Molte forze politiche provarono a corteggiare per finire la legislatura un impegno diretto del Governatore di Banca d’Italia dell’epoca, Antonio Fazio. E perché il pressing fosse più convincente si ritirò fuori l’ipotesi di una autosospensione provvisoria dalle funzioni con successiva reintegrazione. Non se ne fece nulla, ma i giuristi concordarono: si può fare. Berlusconi ce l’ha così chiaro che giovedì scorso, telefonando verso la mezzanotte italiana a un parlamentare del Pdl dalla dacia di Vladimir Putin che lo ospitava, ha borbottato la sua irritazione per il “caso Tremonti” e buttato là l’ipotesi di un Mario Draghi superministro dell’Economia spiegando che manco erano necessarie le dimissioni dalla Banca d’Italia perché c’è “il precedente Einaudi”. Una battuta sibilata, certo, di quelle che con i fedelissimi scappano a Berlusconi quando perde la pazienza. E che con Tremonti il premier avesse perso la pazienza è chiaro da numerose testimonianze dei fedelissimi in questi giorni. C’è anche chi lo ha sentito sbottare facendo altre soluzioni: “si sente protetto dalla Lega? Voglio vedere che dice la Lega se al posto di Tremonti io nomino un Giancarlo Giorgetti…”. Ma appunto si tratta di frasi in libertà che segnalano soprattutto la tensione che si è vissuta intorno al caso Tremonti. Berlusconi sa bene che quel rischio Italia sui titoli pubblici si correrebbe davvero sostituendo un Tremonti con un Giorgetti. Cosa che naturalmente non avverrebbe- anzi- in caso di sostituzione di Tremonti con Draghi. Berlusconi apprezza non poco Draghi, e negli ultimi tempi ripete spesso una battuta che attribuisce al Governatore: “Anche io concordo con la politica di rigore, ma se il rigore non si accompagna allo sviluppo rischia di essere solo rigor mortis”. Ma l’apprezzamento al momento non si è trasformato in un’offerta concreta ( e nemmeno in un sondaggio sulla disponibilità di Draghi), con annessa decisione di spodestare Tremonti. Il dossier Einaudi resterà lì sulla scrivania del premier pronto ad essere riaperto alla bisogna. Meglio se dopo le prossime regionali.

Quei parrucconi costano 50 milioni

Giovedì all’ora di pranzo, a poche centinaia di metri dal Quirinale, un uomo grande e grosso dai capelli bianchissimi e con baffi grigio scuro in gran contrasto, si stava facendo piccolo piccolo in una piazzetta della capitale sotto il peso di voluminosi bagagli davanti a una donna assai più minuta. Lei, sguardo furioso sotto un paio di grandi occhiali, agitava la mano nell’aria quasi minacciando l’uomo che riprendeva a grandi gesti, forse irritata anche dall’attesa. Quell’uomo che annuiva con la testa cercando di calmare la moglie era Giuseppe Tesauro, giudice della Corte costituzionale. E forse in quel momento avrebbe voluto trovarsi davanti Silvio Berlusconi piuttosto che la madre dei suoi tre figli. La scenata sarebbe stata meno plateale. Per fortuna dopo pochi minuti è sbucato dal traffico l’autista, sollevando i coniugi Tesauro dal peso dei bagagli e riportando apparentemente la calma in famiglia. Chissà se l’autista sapeva di avere davanti a sé non solo uno dei protagonisti del momento, un giudice che con il suo no aveva appena bocciato il lodo Alfano infiammando la politica italiana. Ma un’uomo d’oro, che vale 3,5 milioni di euro. Sì, perché quella è la cifra che ogni anno gli italiani spendono per mantenere Tesauro come ogni altro giudice della Corte costituzionale. Tre milioni e mezzo, il costo record di una carica istituzionale in Italia. In quella cifra c’è lo stipendio di un giudice costituzionale (tutt’altro che disprezzabile: 552 mila euro l’anno), quello del suo staff e della intera macchina organizzativa per assicurare il funzionamento della suprema corte. E’ più del doppio di quanto costa ogni senatore della Repubblica italiana, inclusi quelli nominati a vita: 1,6 milioni di euro all’anno. E due volte e mezza il costo di un deputato: 1,5 milioni. La Corte Costituzionale è in proporzione alle sue dimensioni l’organo più costoso della Repubblica italiana, anche se dovrebbe essere il contrario. Il suo compito infatti è esaminare le leggi, talvolta cassarle, altre volte approvarle, ma in moltissimi casi costringere il potere legislativo a modificarle, facendo semmai lievitare i costi di Camera e Senato costrette a ripetere tutto l’iter da capo. E’ accaduto decine e decine di volte negli ultimi anni. Con una sorta di miracolo matematico: a lavorare di più grazie alle decisioni della Corte sono stati i parlamentari, ma a lievitare più di tutti sono stati proprio i costi dei giudizi costituzionali. Oggi il funzionamento della Corte costituzionale, secondo il bilancio di previsione dell’istituzione e anche secondo il recentissimo disegno di legge di assestamento dei conti pubblici costa agli italiani 52,7 milioni di euro. In assoluto più del doppio di un altro organo a rilevanza costituzionale come il Consiglio superiore della Magistratura. Ma è una cifra record anche per gli incrementi. Nell’ultimo anno la dotazione pubblica è cresciuta del 12,82%, e non c’è proprio paragone con l’aumento della dotazione di tutti gli altri organi di pari rango. Camera, Senato e Quirinale hanno cresciuto le loro dotazioni nei limiti dell’inflazione programmata, e cioè dell’1,50%. Csm, Consiglio di Stato, Tar, Corte dei Conti e Cnel hanno visto invece ridurre le proprie spese talvolta anche in maniera considerevole nell’anno della grande crisi finanziaria. A crescere un po’ di più è stato solo l’assegno personale del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, passato dai 226.561 euro del 2008 agli attuali 235.171 euro, con un aumento del 3,80%. Crescita comunque assai inferiore a quella della dotazione dei giudizi costituzionali. La spesa per fare funzionare la Corte suprema è lievitata in questi anni al pari delle polemiche anche roventi che hanno accompagnato le sue decisioni. Basti pensare che nel 2001 lo stesso organismo era costato 33,5 milioni di euro. In sette anni l’aumento è stato del 57,21 per cento. E l’unica crescita simile fra gli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale è stata quella della spesa per il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura: era di 18,9 milioni di euro nel 2001, è di 29,6 milioni di euro nel 2009, con un aumento percentuale del 56,7%. Sono cari evidentemente i giudici, perché una istituzione al centro delle polemiche di questi anni sulla casta, come la Camera dei deputati, ha visto lievitare le spese per il proprio funzionamento del 32,39 per cento. Più dell’inflazione reale, ma quasi la metà di quel che è avvenuto con i giudici. E sono proprio i supremi magistrati a rappresentare in proporzione il capitolo di spesa più cresciuto e rilevante anche rispetto al bilancio della stessa Corte costituzionale. Per i loro stipendi nel 2009 se ne sono andati 8,2 milioni di euro, di cui 6,6 solo di retribuzione. Per le loro pensioni altri 4,7 milioni di euro (per un importo medio di 263.888 euro annui). Quasi un quarto del bilancio della Corte se ne va per le esigenze dei giudizi costituzionali, un’altra metà per le spese dei 359 assunti o incaricati a termine che dovrebbero supportare le decisioni degli altissimi magistrati. La maggiore parte di loro- 216- sono di ruolo, 65 sono comandati, per la sicurezza sono distaccati lì altri 49 carabinieri e 3 vigili del fuoco, 5 sono con contratto a termine e 21 consulenti con incarichi conferiti la cui spesa è quasi raddoppiata nell’ultimo triennio. Lavoreranno tanto gli altissimi magistrati, ma quest’anno prima del lodo Alfano devono essere stati impegnati soprattutto fuori dalla Corte: la spesa per convegni, congressi e cerimonie è infatti quasi triplicata passando da 82 mila a 215 mila euro. Cresciuta notevolmente (forse legata proprio alla convegnistica) la spesa per l’insegnamento interno di lingue straniere: da 17.500 a 24 mila euro. Ma i corsi non devono avere prodotto grandi risultati, visto che contemporaneamente è raddoppiata la spesa per traduttori e interpreti: da 16 mila a 32 mila euro.

Ma quale scandalo! Tutti hanno infilzato a modo loro la Corte Costituzionale

Il Francesco Rutelli che ieri invitava alla moderazione ammonendo “'E' il momento di tenere i nervi saldi: ciascuno rispetti le decisioni che vengono prese dalle istituzioni della Repubblica” deve essersi dimenticato del Rutelli Francesco che il 13 settembre 1984 sostava davanti alla sede della Corte Costituzionale coperto da cartelli e urlando “Via i piduisti dalla Corte!”. E si chiamava sempre Francesco Rutelli il capogruppo dell’allora partito radicale che un paio di anni dopo tuonava contro “l’ennesima gravissima prevaricazione partitocratica della Corte Costituzionale” che non gli aveva ammesso i referendum anti-caccia a lui così cari. Parolone grosse che hanno fatto la storia dei radicali, oggi costola (o meglio costoletta) del Partito democratico nelle cui fila è stato eletto un manipolo di parlamentari. Marco Pannella ha apostrofato lungo gli anni i giudici della Corte come esponenti della “partitocrazia”, addirittura “golpisti”. E divenuto un po’ più anziano ha moderato i toni (1999): “Non credo che la Corte abbia un' etica nè un' economia giuridico-costituzionale.Vota in base agli affaracci suoi, che in genere sono ignobilmente politici…”. Radicali ed ex radicali hanno sempre spinto sui toni, e via via nessuno si è più scandalizzato. Ma la critica anche accesa delle sentenze della Consulta è una costante anche nel centrosinistra che in queste ore veste i panni dell’indignato speciale di fronte alla rabbia del centrodestra. Mica tanto tempo fa… Era il 9 luglio scorso quando la Corte decise di annullare un rinvio a giudizio di Altero Matteoli per una vicenda di abusi edilizi a Livorno. Chi ci aveva costruito una mezza campagna politica contro ammutolì. Il pd Lanfranco Tenaglia- già ministro ombra della giustizia sotto la guida di Walter Veltroni- la giudica “sorprendente. Non si possono allargare in questo modo le prerogative ministeriali”. Antonio Di Pietro come sempre un po’ più duro: “Una decisione che fa insorgere. Ancora una volta vale il principio per cui la casta la farà sempre franca al contrario dei poveri cristi”. Pochi mesi prima si irritava per una sentenza della Corte sulla defenestrazione dalla Rai del consigliere Angelo Maria Petroni il responsabile Pd dell’informazione, Fabrizio Morri “mi sembra incredibile”. Ma poi si consolava. “ma non esulti il Pdl, mica da ragione a loro fino in fondo”. Le sentenze della Corte fanno infuriare, altro che silenzio, quando deludono le attese di un fronte politico. Proprio quell’Udc che oggi invita a non commentare la decisione sul Lodo Alfano, quando la Corte ha deciso sulla procreazione assistita in modo difforme alle attese, non è stata tenera. Il suo presidente, Rocco Buttiglione (2 aprile 2009), tuonò “Credo sia ora che qualcuno dica che la Corte sbaglia, ed è culturalmente vecchia. Invade competenze degli organi elettivi, invece di attenersi a un orientamento di self restraint”. Colpi di fioretto certo, da professore. Ma poi la considerazione non è tanto diversa da quella di Silvio Berlusconi sulla bocciatura del lodo Alfano. Per altro quando su temi simili la Consulta un anno prima aveva deciso in senso opposto cassando un provvedimento del governo Prodi, era insorto un altro radicale finito nel centro sinistra, Maurizio Turco. Tuonando: “Non so se arrivare ad evocare un nuovo golpe bianco della Consulta, ma certo posso richiamare le tante volte che nel giudicare l' ammissibilita' del referendum la Consulta è venuta meno ai propri doveri e si è data dei diritti che non aveva, stravolgendo il nostro sistema e sostituendosi al potere legislativo come fa con questa sentenza'' Anche i magistrati talvolta si sono fatti prendere la mano dopo una decisione non gradita della Corte. Se ieri tutti se la ridevano sotto i baffi a Milano procedendo impettiti per i corridoi di palazzo di giustizia, qualche mese prima, all’indomani di una decisione sgradita sul caso Abu Omar, i due pm milanesi Armando Spataro e Fernando Pomarici accusavano la Consulta di politicizzazione: “si sono appiattiti sul governo”. E meglio avrebbero detto “sui governi”, perché le tesi accolte erano quelle di due esecutivi, quello a guida Berlusconi e quello guidato da Romano Prodi. E così continuavano: “''Pur giudicando un fatto illecito il sequestro, condividendo l'opinione del parlamento europeo esclude che si tratti di fatto eversivo dell'ordine costituzionale, perchè è un fatto che è avvenuto una sola volta. Quante volte deve accadere perchè diventi un fatto eversivo dell'ordine costituzionale?”. Un anno prima- eravamo nel luglio 2007- la sola decisione della Consulta di esaminare la sospensione del giudizio della Corte dei conti della Sardegna sul bilancio della Regione aveva scatenato l’allora presidente Pd Renato Soru: “E’ solo un attacco politico nei miei confronti, frutto della volontà di protagonismo eccessiva dei magistrati”. Soru è l’editore della stessa Unità che il giorno della firma del lodo Alfano attaccò frontalmente Giorgio Napolitano. Cose consentite, solo se il fuoco è amico.

Quel giudice ha buon cuore: fa uno sconto di 200 milioni a Berlusconi. Senza motivo

Ci sono almeno 26 pagine di troppo nelle 146 scritte dal giudice monocratico Raimondo Mesiano per condannare la Fininvest di Silvio Berlusconi a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 749 milioni di euro per avere perso la chance di nominare oltre a quello del L’Espresso anche il direttore di Panorama. Sono di troppo perché sono ripetute due volte. La prima quando si spiegano le richieste dell’Ingegnere. La seconda volta quando ascoltate le parti il giudice monocratico spiega che cosa ha deciso e perché lo ha fatto. La tesi di una parte è diventata sentenza. E’ qui il tallone di Achille principale di questo processo che ha portato fra mille polemiche al più grande risarcimento mai concesso da un tribunale italiano. E’ un po’ come se in un processo penale il tribunale facesse copia e incolla della requisitoria del pm trasformandola in sentenza. Certo, può accadere ed è accaduto, quando nelle aule di giustizia il diritto alla difesa, l’escussione di testi, le eccezioni, i fatti nuovi, i contesti, le controprove a nulla servono perché ci si è innamorati della tesi dell’accusa. In quei casi però se il pm chiede dieci anni di carcere, il tribunale dieci ne commina. Nel caso della sentenza per il risarcimento sul cosiddetto lodo Mondadori quel che non si capisce allora è proprio la pena finale. Il giudice Mesiano (che pure deve essere andato di fretta: in più pagine della sentenza sbaglia perfino il nome della casa editrice, chiamata “Mondatori”) non ne passa una agli avvocati della Fininvest. Spiega che la sentenza di corte d’appello che diede torto a De Benedetti costringendolo poi a trattare con Berlusconi la spartizione della grande Mondadori (aveva in pancia pure Espresso e Repubblica) fu solo effetto di corruzione del giudice che presiedeva un collegio, Vittorio Metta. Affermazione apodittica, che reinterpreta perfino il processo penale di cui manco si sono acquisite integralmente le carte. Corrotto il giudice, corrotta la sua sentenza che cassava il celebre lodo che avrebbe consegnato la Mondadori a De Benedetti. Ma se quel giudizio fu carta straccia- come sostiene il giudice Mesiano- perché mai concedere alla Cir solo il risarcimento per avere perso la chance di nominare insieme i direttori di Espresso, Repubblica, Panorama, Donna Moderna e tante altre testate di successo? Se la sentenza che ridiede la Mondadori a Berlusconi fu corrotta, bisognerebbe restituire tutto a De Benedetti senza tanti giri di parole. Invece Mesiano sceglie la strada della “chance” perduta dall’Ingegnere, che gli avvocati della Cir si erano immaginati solo nel caso le loro tesi principali fossero state rigettate (e non lo sono state). Detta in parole semplici: se quel giudice che diede ragione a Berlusconi non fosse stato corrotto da avvocati amici di Berlusconi, quante chance avrebbe avuto De Benedetti di vincere anche in appello e tenersi tutto? La risposta pratica ve la do io- ed è contenuta perfino nella sentenza-: nessuna. Eravamo ancora nella prima Repubblica. Comandavano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. E come riferisce lo stesso De Benedetti tutti e tre avevano fatto sapere ai due contendenti che Mondadori+Repubblica+Espresso a uno solo sarebbe stato impossibile. Avrebbero scritto una legge antitrust ad hoc per impedirlo. Ma il giudice Mesiano che anche questo ha letto nelle testimonianze processuali ha deciso del tutto a casaccio (non spiega perché) che De Benedetti avrebbe avuto l’80% delle chance di conquistare tutto. Così concede alla Fininvest uno sconto di circa 200 milioni di euro. Se De Benedetti avesse avuto il 100% delle chance il risarcimento sarebbe stato poco sotto il miliardo di euro, quel che secondo Mesiano vale la mancata conquista della Mondadori. Anche qui, valutazione del tutto a casaccio. Perché oggi l’intera Mondadori vale in borsa meno di quella cifra. E dentro ha cose che all’epoca non aveva: ad esempio la Silvio Berlusconi editore ( Chi, Sorrisi e Canzoni). Ci sono ipotesi giuridiche un po’ spinte nella sentenza. Come quella di giustificare il ritardo con cui De Benedetti si è accorto del danno subito chiedendone il risarcimento, paragonando il povero ingegnere a un malato di Aids che solo dopo anni si è accorto di essersi beccato il virus in seguito a trasfusione (pagina 57). O quando si spiega che l’assegnazione di quel caso non doveva essere al giudice Metta, perché questo aveva troppo potere come diceva un volantino dell’epoca di Magistratura democratica (fatto dato per certo ma non provato perché lo stesso giudice Mesiano ammette di non avere reperito più quel volantino). Voli grotteschi a parte la sentenza che accoglie in toto la tesi Cir pecca soprattutto di vuoto di memoria storica. Non si ricorda che azionisti della Amef e della Mondadori erano riuniti in un patto di sindacato comunicato al mercato e a tutti i piccoli azionisti. Che quel patto fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi ma anche i Merloni, i Rocca e Leonardo e Mimma Mondadori) e di tutti i piccoli azionisti Mondadori e Amef. Che presa la Mondadori violando il patto di sindacato Amef e gli accordi comunicati al mercato, De Benedetti la fuse con Repubblica ed Espresso, facendo pagare a tutti i soci – volenti o nolenti- della Mondadori- 410 miliardi di lire dell’epoca a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Anche quello potrebbe essere un danno patrimoniale subito dagli azionisti Mondadori dell’epoca. Si disse che i due – Scalfari e Carracciolo- avevano rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi vennero fuori carteggi segreti che regolavano assai diversamente la partita. Ed erano firmati da una parte dall’azionista del gruppo Espresso- Repubblica, Caracciolo, che vendeva. E dall’altra dall’acquirente: il nuovo presidente della Mondadori, Caracciolo. ( Da Libero- 7 ottobre 2009)