Tanto loro ne pagano pochissime. Ecco perché i mandarini di palazzo snobbano il taglio delle tasse
L’unica cosa importante l’hanno già ottenuta da tempo: il fisco non mette le mani nelle loro tasche. Sarà per questo che Pierluigi Bersani, Antonio Di Pietro ed Enrico Letta fanno spallucce alla riforma fiscale proposta da Silvio Berlusconi. Due sole aliquote, una del 23 per cento e una al 33 per cento oltre quei centomila euro che sono circa la metà di quel che guadagnano i Bersani, Di Pietro e Letta jr? Il magnifico trio appena sceso in campo contro l’abbassamento delle tasse se ne può allegramente infischiare: tutti e tre dovrebbero versare al fisco il 43% del loro reddito, più i contributi per assistenza e previdenza. Ma facendo parte della casta dei mandarini che le leggi le impone agli altri lasciando per sé un trattamento di lusso, i Bersani- Di Pietro e Letta jr all’erario girano il 17,36% di quel che davvero finisce nelle loro tasche, come capita per altro a chi è stato eletto alla Camera (e al Senato il fisco è ancora più leggero: 15,32%). Chi ha un reddito imponibile di 9 mila euro lordi all’anno, pari a 692 euro lordi al mese, paga in proporzione più tasse del segretario del Pd, del suo vicesegretario e dal padre-padrone dell’Italia dei valori: il 23 per cento. E’ per questo che i mandarini del centrosinistra, nati e cresciuti a palazzo dove vigono sempre regole speciali, non riescono a capire perché ci si lamenta delle tasse troppo alte. Non le devono pagare loro, non le devono pagare i loro amici, i collaboratori di una vita: in quel mondo le tasse un tempo non si pagavano del tutto, poi si è fatto finta di pagarle come tutti i comuni mortali. Così oggi i deputati si intascano netti ogni mese 5.486,58 euro, dopo avere pagato ritenute previdenziali di 784,14 euro, assistenziali di 526,66 euro, un contributo per l’assegno vitalizio di 1006,51 euro e Irpef per 3.899,75 euro. Così sembrerebbero come tutti gli altri. Ma poi si mettono in tasca ogni mese esentasse 4.003,11 euro di diaria, 4.190 euro netti “a titolo di rimborso forfetario per le spese inerenti il rapporto fra eletto ed elettore”, circa 1.100 euro al mese di rimborso per taxi che né Bersani né Letta né Di Pietro di solito prendono, e poco meno di 300 euro al mese netti a titolo di rimborso spese telefoniche. I senatori si intascano invece qualcosina in più, perché durante una delle varie auto-riduzioni della indennità sotto il pressing della protesta popolare, hanno girato la testa dall’altra parte lasciando che fossero solo i deputati a tirare un pochino la cinghia: prendono quindi 150 euro al mese più dei colleghi di base e rimborsi assai più generosi. E’ per questo che i mandarini della riforma fiscale non sentono proprio alcun bisogno...
Ci sono ancora 61 tasse di Bersani del 2006 che Berlusconi ha conservato e perfino aumentato
Una l’ha cancellata Silvio Berlusconi: l’Ici sulla prima casa. Cinque sono cadute per esaurimento naturale. Ma a 37 mesi dal loro varo sono ancora in vigore, qualcuna addirittura rinvigorita, 61 delle celebri 67 nuove tasse inventate nel 2006 dal governo di Romano Prodi, Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani. Le mise l’Ulivo, non le ha tolte più nessuno (perché introdurle è facilissimo, per il centro sinistra quasi una gioia, ma poi trovare le coperture per abolirle è sempre complicato e ci vuole coraggio). Anche se contro quelle 67 nuove tasse il 2 dicembre 2006 l’allora Casa delle Libertà portò in piazza a Roma due milioni di persone. Forse Bersani ha pensato di chiudere il problema facendo fuori dai vertici del suo partito e mettendo per un po’ in quarantena l’amico Visco (che lo ha comunque appoggiato nella corsa alla segreteria). Forse Berlusconi ha immaginato che fatta quella manifestazione e tornato al governo tutte sparissero di incanto. Forse i contribuenti italiani si sono perfino abituati e con i tempi che corrono pensano più a coprirsi le spalle dal rischio di nuove gabelle: non averne avute è già un piccolo successo. Ma le 61 tasse del 2006 sono tutte ancora lì a sfilare risorse preziose dal portafoglio degli italiani.
Quel lontanissimo 2 dicembre non pochi dei simpatizzanti berlusconiani indossarono uno dei tanti gadget predisposti per l’occasione: una t-shirt con sopra scritto: “ 67 nuove tasse. Padoa… Schioppa. E io pure!”. Tremonti euforico pronosticò: “Ha ragione Berlusconi. Ci sarà molta gente. E' una Finanziaria che scontenta tanta, tanta, tanta gente, anche fra quelli che hanno votato a sinistra”. E davanti ai due milioni di persone anche il compassato futuro ministro dell’Economia sbottò euforico: “Solo un demente, come quello che sta adesso al governo, poteva pensare di fare più spesa pubblica con più tasse”. Poi si scusò: “Ho esagerato, ma siccome lui in passato mi ha dato del delinquente politico, me lo posso permettere”.
Quello stessa euforia tre anni fa che sembrano più di una vita contagiava anche il leader numero due del centro destra, Gianfranco Fini, convinto che arringava la folla contro le supertasse pronosticando: “così la Cdl è destinata a vincere e a dimostrare che la sinistra sarà battuta, ne siamo certi”.
Ma 37 mesi dopo le 61 tasse sono lì come un macigno, e nemmeno tutte come allora. Qualcuna è perfino peggiorata con il centro destra al governo, divenuta più pesante di quel che era grazie ad automatismi di cui tutti pèaiono essersi dimenticati, e non è certo bandiera da sventolare. L’Irpef più cara voluta da Vincenzo Visco è con le stesse aliquote introdotte nel 2006. Voleva aiutare i contribuenti con meno reddito, ma le menti del Nens (il centro studi di Visco e Bersani) e i tecnici dell’Ulivo sbagliarono tutti i calcoli. Così il fisco portò via una parte di stipendio perfino a chi guadagnava mille euro al mese e certo non poteva essere considerato un ricco da fare piangere. Le detrazioni che sostituirono il sistema di deduzioni introdotto da Tremonti non sono state più modificate. Il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte allora avversato è restato in vigore fino alla sua scadenza naturale, a fine 2009. La possibilità per i comuni di aumentare l’addizionale Irpef non è stata revocata. La criticatissima tassa di scopo (Iscop) concessa agli enti locali per piccole opere pubbliche non è stata mai abolita (e viene oggi usata, sia pure da piccoli comuni: il più grande è Rimini).
Tuoni e fulmini accompagnarono la decisione di Prodi & c di introdurre una addizionale di 50 centesimi a passeggero sui diritti di imbarco sugli aeromobili. Con il Pdl al governo non solo non è stata abolita, ma è aumentata di un ulteriore euro a passeggero per pagare la crisi Alitalia. Nulla è cambiato in meglio su rendite catastali, tariffe per il rilascio del visto di soggiorno, tassazione sui tabacchi lavorati, tasse ipotecarie che Prodi introdusse e aggravò e che i tecnici di Berlusconi inserirono nella lista dei 67 misfatti fiscali contro cui manifestare.
Sono restate immutate le norme introdotte sul Tfr, mentre l’aumento della pressione contributiva che fece gridare allo scandalo il centro destra non solo non è stato abrogato, ma è stato addirittura aggravato e in modo sensibile. Proprio grazie a una norma contenuta nella legge Visco-Bersani nel 2006 l’aliquota per le gestioni degli artigiani e dei commercianti era del 19%. Oggi è del 20 per cento. Fu fatta salire al 23% l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps per i lavoratori autonomi che esercitano attività professionale o di collaborazione e al 16% per gli altri iscritti. Nel 2009 la prima è schizzata al 25% (e al 26% dal primo gennaio 2010), la seconda al 17%. Un aumento secco della pressione contributiva, contro il popolo delle partite Iva, considerato da Bersani e Visco un nemico di classe, ma dimenticato anche dal centrodestra. Non l’unico caso.
Perché l’elenco delle nuove tasse dimenticate da Berlusconi & c in questi primi 20 mesi di governo è lungo, e potrebbe simbolicamente culminare con quella nuova tassazione Visco sulle donazioni e le successioni che solo pochi anni prima il Cavaliere no tax (ormai un pallido ricordo) aveva inutilmente disintegrato: oggi però a comandare è il fisco- vampiro della sinistra, non quello liberal del centrodestra restato solo nell’inchiostro dei pamphlet e dei programmi elettorali.
I 61 fantasmi di Prodi però ogni giorno continuano ad infilarsi nelle tasche degli italiani e a ricordare agli elettori di Berlusconi che di tempo non ne resta molto: il 2010 non può essere l’anno dei grandi disegni di riforma, ma finalmente l’anno delle forbici fiscali. Non inchiostro, ma meno tasse per tutti finalmente.
Colpo dei boiardini da 100 milioni contro Tremonti. Sventato in extremis
Ci hanno provato. In barba alla crisi economica, migliaia di professori e piccoli boiardi di Stato insieme ai loro sponsor politici hanno tentato un colpo da circa 100 milioni di euro ai danni di Giulio Tremonti e delle casse pubbliche. Zitti zitti infatti boiardini e consulenti nel 2009 hanno tentato di riprendersi quel 10 per cento di compenso che era stato loro tagliato fra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, proprio in mezzo alle prime polemiche sui costi della Casta. Il colpo dell’anno è stato probabilmente sventato – con grande ritardo e sicuri danni- dalla Ragioneria generale dello Stato che ha messo uno stop a quell’esercito di professori, manager politici e professionisti abituato ad arrotondare il proprio stipendio con una attività extra per la pubblica amministrazione, che aveva deciso di aumentarsi lo stipendio bis con un blitz dal primo gennaio 2009.
Era stato il governo di Silvio Berlusconi con la legge finanziaria 2006 e poi quello di Romano Prodi a decidere ampliando via via la platea di tagliare del 10 per cento gli importi delle consulenze pubbliche: indennità, compensi, gettoni di presenza, retribuzioni o “altre utilità comunque denominate”. Quella stessa legge finanziaria che aveva costretto a tirare la cinghia l’esercito dei consulenti pubblici (censito da Renato Brunetta in 251.921 unità per un costo annuo di un miliardo e 323 milioni di euro), scriveva che i risparmi ottenuti per un triennio sarebbero dovuti confluire nel Fondo nazionale delle politiche sociali.
I tre anni sono appunto finiti all’inizio del 2009, e il passa parola è subito partito all’interno della amministrazione pubblica: finite le ristrettezze, si torna a guadagnare come un tempo e chissenfrega dei guai dell’economia nazionale e internazionale.
Qualche amministrazione ha interpretato da sé le norme e restituito quel 10 per cento ai propri consulenti, qualche altra si è fatta uno scrupolo di coscienza, provando almeno a chiedere conferma della novità al ministero dell’Economia prima di riallargare i cordoni della borsa. La burocrazia però ha i suoi tempi infiniti e le leggi sono così confuse che la Ragioneria generale dello Stato a cui era stata demandata la risposta ufficiale, ci ha messo i suoi bei mesi per fornirla. E solo alla vigilia di Natale, il 17 dicembre scorso, quando probabilmente molti buoi (in questo caso molti euro) erano già scappati dalla stalla, dall’Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, è partita la circolare 32 indirizzata con la massima urgenza a tutti i ministeri, le amministrazioni autonome, gli istituti pubblici, gli enti economici e non economici e gli enti locali per spiegare che no, quell’aumento del 10 per cento ai consulenti non poteva essere erogato. “Alcune amministrazioni”, scrive la Ragioneria, “ritengono che decorso, dal primo gennaio 2009, il termine triennale di vigenza delle sopraindicate disposizioni possa essere ripristinata, nella sua originaria entità, la misura dei compensi sopra indicati”. E invece si sbagliano e di grosso tutti quelli che avevano immaginato di ridare quel 10 per cento in più almeno a tutti i “componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali comunque denominati presenti nelle amministrazioni pubbliche”, per i quali la riduzione dei compensi era scattata già dal gennaio 2006. Un po’ in burocratese, e con 11 mesi di ritardo, la ragioneria ha spiegato che “nel contesto sistematico di una serie di misure dirette ad assicurare il contenimento strutturale della spesa per gli organismi collegiali, si ritiene che non sussistano i presupposti per rideterminare, in aumento, le misure dei compensi stabiliti al 30 settembre 2005 e ridotti del 10%”. L’esercito di professori, professorini e piccoli boiardi che affollano consigli di amministrazioni e comitati pubblici, dovrà accontentarsi quando bene di avere mantenuto l’incarico, e probabilmente anche restituire l’eventuale aumento indebitamente ricevuto nel 2009 prima della risposta ufficiale del ministero
Duecentomila euro per evitare lo tsunami Gabanelli
Una società pubblica, appartenente al gruppo Enel, la Sogin spa, ha investito 200 mila euro per proteggere il proprio amministratore delegato, Massimo Romano, da un’inchiesta di Report e della sua conduttrice, Milena Gabanelli. Una cifra che vale circa 5 volte il costo medio di una puntata di Report (42.600 euro) e che comunque ha raggiunto il suo obiettivo: grazie all’intensa attività di lobbing dei consulenti arruolati per arginare e ammorbidire la Gabannelli, Romano e la sua gestione Sogin sono rimasti fuori dall’inchiesta andata in onda il 2 novembre 2008. L’incredibile vicenda emerge fra le pieghe di un procedimento giudiziario in fase istruttoria ancora nel dicembre 2009, intentato a Report e alla stessa Gabanelli (perfino con esposto all’ordine dei giornalisti, subito archiviato) da una delle vittime di quella puntata sul ritorno del nucleare, un deputato della Lega Nord, Massimo Polledri. Sentendosi diffamato da un passaggio di quella trasmissione, Polledri ha prodotto in giudizio faldoni di materiale sui contatti fra Report e Sogin e altrettanto ha fatto a sua difesa la Gabanelli, che ha contestato anche il testo di una mail che poteva sembrare imbarazzante per l’autonomia della conduttrice (testo che invece sembrerebbe artefatto). Ma le carte processuali raccontano comunque una vicenda assai interessante.
La puntata di Report andata in onda il 2 novembre 2008 a cura del giornalista Sigfrido Ranucci con il titolo “L’eredità”, è stata preparata lungamente prima dell’estate. E ha rischiato di fare dormire sonni poco tranquilli al povero Massimo Romano, amministratore della Sogin nominato a quell’incarico nel 2007 durante il governo di Romano Prodi. Per evitare rischi, Romano è andato a contattare un pool di consulenti di immagine e comunicazione, firmando alla fine un contratto da 200 mila euro più 20 mila euro di rimborsi spese con uno dei massimi professionisti del settore: la Ad hoc communications di Mario Pellegatta. Il contratto formalmente aveva ad oggetto una consulenza generica, ma nel rapporto fatto arrivare a Romano dopo lo scampato pericolo del 2 novembre è risultato chiaro come la sostanziale missione fosse proprio quella di annullare il rischio Gabanelli. Ad hoc, che già aveva avuto rapporti professionali precedenti con Romano e Sogin, firmò il nuovo contratto con validità dal primo luglio 2008, proprio mentre Report stava girando l’inchiesta sulla gestione delle scorie nucleari avanzando rilevanti dubbi proprio sul ruolo di Sogin e su eventuali violazioni della legge esistente da parte della società pubblica. Grazie alla capacità dei consulenti, per evitare un danno di immagine a Romano e alla società, si riesce a combinare un incontro faccia a faccia con la Gabanelli, probabilmente conviviale, comunque fissato per le ore 13,30 del 17 luglio 2008 all’hotel de Russie, uno dei più esclusivi di Roma, a pochi metri da piazza del Popolo.
A 24 ore dal faccia a faccia con la Gabanelli il consulente di Sogin, Mario Pellegatta, inviò una mail a Romano con un dettagliato rapporto sull’inchiesta che stava conducendo la trasmissione Rai e l’annotazione “in preparazione incontro di domani”.
Il rapporto, comprensibilmente, era più che altro un elogio sul lavoro compiuto da Ad Hoc per allenare i dipendenti e dirigenti Sogin a rispondere alle domande del giornalista di Report. Allenamento che sembrava avere dato i risultati voluti: “alle domande critiche”, sosteneva la relazione a Romano, “gli intervistati hanno risposto senza offrire appigli o elementi deboli”. Si elencavano poi le domande fatte arrivare per iscritto alla società pubblica dal giornalista di Report, e i suggerimenti ulteriori forniti dai consulenti, tipo: “Sono da evitare frasi con espressioni improprie. La telecamera è sempre accesa (…) “. Fornita anche un’avvertenza strategica: mai fidarsi della correttezza professionale della Gabanelli e dei suoi collaboratori: “Il giornalista utilizza i cosiddetti tempi morti fra una ripresa e l’altra o durante le pause per rifocillarci, per trattare temi critici che avrebbe intenzione di approfondire. Non abbiamo la certezza che nelle sue borse (in particolare nello zainetto che ha sempre con sé) non vi sia un microfono nascosto. Occorre quindi limitare le conversazioni con il giornalista allo stretto necessario o a temi di conversazione banali e quotidiani…”.
L’incontro al De Russie probabilmente ha avuto l’effetto sperato da Romano. Tanto che prima di andare in onda con l’inchiesta, la Gabanelli offre all’amministratore delegato della Sogin la possibilità di una intervista, che viene però (su consiglio dei consulenti) cortesemente rifiutata, inviando una breve dichiarazione alla conduttrice che per mail assicurò “ne daremo conto”.
Il 2 novembre andò in onda la puntata tanto temuta. Dura, e non poco, con Sogin, che viene infilzata sia da studio che durante l’inchiesta condotta sul campo, sempre riferendosi però a presunte colpe dei manager che precedettero Romano, in testa il generale Carlo Jean nominato da Silvio Berlusconi qualche anno prima. Anche quando vengono rilevate criticità contemporanee, non una parola di Report è spesa a critica della gestione Romano: contro la società sì, ma contro il manager mai. Successo quindi raggiunto: con quei 200 mila euro messa alla berlina Sogin ma salvato il suo capo azienda, che a quello puntava. Inutile dire che il giorno dopo il trionfo sarebbe stato celebrato in un carteggio fra Sogin e i consulenti di Ad Hoc, dove questi ultimi tripudiavano: “alla luce della puntata di Report andata in onda ieri, 2 novembre 2008, è evidente che la strategia e i processi di comunicazione hanno raggiunto gli obiettivi che si proponevano, ovvero: proteggere la grande professionalità dei tecnici, sottolineare la discontinuità fra le gestioni precedenti e l’attuale, limitare gli errori di comunicazione che erano emersi nelle passate puntate”. Insomma con soldi pubblici una società pubblica ha pagato una somma consistente per ammorbidire (riuscendovi) l’inchiesta di una trasmissione della tv pubblica, pagata con soldi pubblici, per difendere la sola questione privata esistente: il buon nome di un manager nominato dal centro sinistra che pur di salvare se stesso ha accettato di fare andare a fondo la società che avrebbe dovuto difendere. Una storia davvero tutta italiana.
Tremonti fa il Babbo Natale del Csm
La vera sorpresa è arrivata l’ultima settimana a palazzo dei Marescialli. Ai membri del Consiglio superiore della Magistratura, a poche ore dal Natale, è stato il segretario generale dell’organo a rilevanza costituzionale, Carlo Visconti, a portare la buona novella: “Giulio Tremonti ha cambiato idea. Arrivano due milioni di euro in più in cassa”. Un vero e proprio regalo di Natale in anticipo per Nicola Mancino & c, che ormai vi disperavano: nonostante i tagli draconiani imposti fin dal suo primo giro davanti alle Camere dalle tabelle di bilancio allegate alla finanziaria, il durissimo Tremonti si è fatto commuovere dai magistrati. Loro chiedevano una integrazione di bilancio di 5 milioni di euro, le porte sembravano chiuse, ma alla fine la notizia dei due milioni di euro in arrivo ha fatto sorridere tutti. Forse almeno per Natale i magistrati saranno un po’ più buoni con il governo che tanta generosità ha mostrato nei loro confronti. Tanta, anche perché quella del Csm non è proprio una storia di povertà alla San Francesco di Assisi. Basti pensare che per fare funzionare il parlamentino dei giudici togati e non togati che con cuore assai tenero controllano e puniscono (praticamente mai) le malefatte della categoria nel 2001 bastavano 18,9 milioni di euro. La cifra è lievitata nel bilancio di previsione 2009 (solo contributo pubblico, perché di entrate ce ne sono altre) a
29,6 milioni di euro, con un aumento percentuale del 56,7%. Insomma, non erano gli alti papaveri della magistratura i primi a doversi lamentare per la rigidità della crisi, tanto più che per loro tirare un po’ la cinghia non sarebbe stato un dramma: il grosso del bilancio- a parte gli stipendi- se ne va a pagare spese di viaggio e “formazione” di componenti e dipendenti. Ma proprio il loro caso segnala la svolta natalizia del ministro Tremonti.
La trasformazione dell’arcigno custode dei conti e forzieri pubblici in un Babbo Giulio Natale è stata per altro più che evidente in Senato in occasione dell’approvazione in terza lettura della legge finanziaria. A palazzo Madama il governo non ha messo la fiducia nel testo, anche se non ha concesso alcun tipo di modifica per non dovere tornare alla Camera per la quarta lettura. Qualche maldipancia più nella maggioranza che nell’opposizione è sbucato fuori qua e là. In commissione difesa anche più di un maldipancia, con un intervento assai pesante da parte del relatore Luigi Ramponi (Pdl- ex An) molto critico sulla decisione di spostare fondi dei militari a tamponare i problemi di bilancio di Gianni Alemanno al comune di Roma. Ma in mezzo alle baruffe e pur dovendo spostare ogni decisione concreta all’anno prossimo, è arrivata la strenna natalizia del vice-Tremonti, Giuseppe Vegas. E’ stato l’uomo della finanziaria nella commissione Bilancio ad accettare- come mai era avvenuto in questi anni- tutti gli ordini del giorno di maggioranza e opposizione, perfino quelli bocciati in altre commissioni proprio per la perplessità del governo.
Un dono di Natale (gli ordini del giorno impegnano il governo formalmente se non sono accettati come seplice raccomandazione) inatteso ai più. Anche perché nella lista delle richieste che il governo ha detto “esaudirò, non subito, ma esaudirò”, c’è davvero di tutto, e non proprio di poco conto: riforma dell’Irpef, limatura dal 2010 di un po’ di Irap, revisione di quegli studi di settore che da anni sono diventati un incubo per le partite Iva, estensione della cedolare secca sugli affitti -che in finanziaria è prevista per la sola provincia de L’Aquila- in via sperimentale già nel 2010 su tutto il territorio nazionale con una prima possibilità di detrazione delle spese sostenute per il canone di locazione della prima casa. E come capita con i regali di Natale, il governo promettendo di esaudire non ha separato letterina da letterina, accettando davvero di tutto: dalla richiesta di rimettere qualche soldarello nel Fondo unico per lo spettacolo, a quella di finanziare la partecipazione delle scuole ai prossimi giochi della Gioventù, fino alla assicurazione che l’anno prossimo verranno integrati i fondi delle associazioni combattentistiche. Una rivoluzione copernicana per Tremonti. Che ha commosso tutti, con questo suo cuore improvvisamente grande come un melone. Ma chissà quanto durerà…
Sei di Libero? Allora io non ti curo
Venerdì scorso sono scivolato in moto su un tratto ghiacciato di strada. Mi ha raccolto l’ambulanza e portato nell’ospedale più vicino. Al pronto soccorso, fatti i primi esami un medico di turno mi ha imbragato la gamba destra. Finendo la fasciatura a un ginocchio assai malridotto, mi ha chiesto che mestiere facevo. “Giornalista? A Libero? Doveva dirmelo prima, non l’avrei medicata”. Non era una battuta, tanto che poi ha filosofeggiato pure sul perché. Tornato dopo l’operazione al ginocchio, ho aperto il mio blog che tengo da qualche anno mettendovi tutti gli articoli che scrivo. Faccio il giornalista da 28 anni, ho lavorato in più testate. Cerco notizie, quando le trovo le offro ai lettori. E ho avuto la fortuna di potere dire anche quel che penso. Da settembre- cioè da quando sono venuto a lavorare a Libero- i commenti sono assai simili. L’ultimo è esemplificativo: “Sparati” e l’invito è esteso ad altri colleghi di questo giornale, compreso il suo direttore, Maurizio Belpietro, e chi lo aveva diretto prima, Vittorio Feltri. “Sparatevi”, ed è una carineria rispetto al solito. Su facebook ho circa 6 mila “amici” e non pochi se ne sono andati: “ah, la stimavo. Ma da quando è a Libero non più”. Insulti e sberleffi, gruppi che nascono per eliminare il politico o il giornalista che non piace sono pane quotidiano in quel mondo virtuale dove pochi per altro si presentano a volto scoperto, rubando identità altrui o indossando maschere di fantasia.
Sì, c’è un odio montante in giro che non ricordavo dai tempi della scuola e dell’università, che ho fatto fra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta. Una differenza c’è, ed è che mai l’odio è stato tanto stupido come quello che gira adesso. C’è sempre stata una componente di stupidità enorme dietro odio e violenza politica. Ma si accompagnavano a qualcosa di reale: una frattura fra generazioni, una distanza siderale del potere dalla realtà, una serie di disagi realmente e largamente vissuti. Quello di oggi è solo stupido e basta. Nuota nel nulla, corre attraverso le reti virtuali, trova per strada leader vuoti e inconsistenti come raramente è accaduto. Non è meno pericoloso, perché guardate cosa ha combinato negli anni la stupidità negli stadi italiani. Ma è odio di quel genere lì, che in fondo gira tutto esclusivamente intorno a una persona, quella di Silvio Berlusconi. Ed essendo stupido e impolitico, si sparge su qualsiasi tentativo di ragionare sui fatti e sulle cose al di fuori di quello schema pro o contro Silvio. Così può perfino capitare che con quello schema l’odio prenda nel mirino di volta in volta un Pierluigi Bersani o un Enrico Letta o un Antonio Polito che semplicemente da sinistra provano a ragionare. E al contrario santifichi nel modo più impolitico e strumentale possibile un Gianfranco Fini solo finchè si immagina lui possa essere la leva ideale con cui rovesciare Berlusconi.
C’è stata leggerezza che purtroppo ha accompagnato questa stupidità coccolandola e facendola crescere per un piccolo tornaconto personale. Lo ha fatto Antonio Di Pietro, politico dalla mono-idea (il partito della fedina penale) non in grado di andare al di là di quell’orizzonte, e insieme a lui ha provato a mettersi alla testa del movimento degli stupidi organizzati anche qualche leader più fragile culturalmente e politicamente della sinistra, come Dario Franceschini e Rosy Bindi. Poi si è infilato in mezzo qualche regista, attore, conduttore, scrittore e giornalista che semplicemente sulla stupidità organizzata ha trovato il modo di campare meglio, magari facendosi una villa in più al mare. Ma è solo business, oggi spreme gli stupidi, domani spremerà qualcun altro.
Poi c’è qualcosa di più serio e meno stupido, ed è quella parte di elite italiana che per via democratica mai è riuscita a raggiungere il potere (al massimo ha piazzato qualche suo esponente) e che da sempre cerca di farlo in modo illegittimo: è la vera cupola d’Italia, e dentro ha il cosiddetto partito di Repubblica, qualche manipolo di intellettuali, un po’ di finanza, un po’ di magistratura deviata, gli utili idioti del momento che alla bisogna vengono scaricati. Non c’è dubbio che le fila di questo nuovo clima che ha portato al fattaccio domenicale di piazza del Duomo, alla caccia al ciellino all’università di Milano, alla violenza e all’odio che qua e là stanno esplodendo, da quella cupola siano state tirate. Fecero così con i Forlani i Craxi e gli Andreotti, risparmiarono De Mita e Prodi ritenendoli utili ai loro disegni, dal primo giorno hanno ripuntato i cannoni su Berlusconi e chiunque gli si avvicini.
E’ il nulla che riempe questo odio che sgomenta, non la contrapposizione, non la diversità di idee, lo scontro anche aperto sui problemi che toccano la nostra vita quotidiana. Non credo che si esca da questo clima con appelli alla pacificazione che sembrano tanto per bene ma sono falsi e traditori. Se ne esce riempendo di contenuti veri la diversità, con una politica che si riappropri dei suoi spazi reali e abbandoni quelli virtuali. Ci si scontri, ma sul senso della vita e su come costruire un modello di società. Non su questo o quell’uomo, ma sul significato della realtà. E se ne uscirà.
C'è un processo che ha Di Pietro contro Berlusconi. Il pm è Santoro. Le carte sono in mano a Fini. E non è fiction
C’è un processo che prevede un presunto colpevole, e qui non si fatica ad immaginare: è Silvio Berlusconi. Ha una parte offesa che ha denunciato il premier, e anche qui sembra tutto scontato: si tratta di Antonio Di Pietro. Ha naturalmente un pm che accusa, che si chiama Santoro. E qui la novità è solo che non si tratta di docu-fiction: non è un processo televisivo, ma un processo vero. E per il pm Santoro si tratta di banale omonimia: non c’è parentela con il Torquemada della tv di Stato. Il processo si sta svolgendo a Bergamo, tribunale presso cui Di Pietro circa un anno fa ha querelato Berlusconi dopo una puntata di Porta a Porta in piena campagna elettorale 2008 in cui il leader del Pdl aveva apostrofato così l’ex pm: “E’ un emerito bugiardo che non ha nemmeno la laurea valida”. Da lì appunto querela e processo. Che è già stato congelato in conseguenza del lodo Alfano, ma è ripreso il 18 novembre scorso in una breve udienza preliminare davanti al gip Patrizia Ingrascì in cui non si sono presentati né querelante né querelato (entrambi per legittimo impedimento) e a dire il vero nemmeno i due avvocati di fiducia (Sergio Schicchitano per Di Pietro, Niccolò Ghedini per Berlusconi), che si sono fatti sostituire da due giovani corrispondenti del foro locale. Pochi minuti d’udienza, per accogliere la richiesta della difesa, e cioè verificare con la Camera se Berlusconi dava del bugiardo a Di Pietro coperto o meno da immunità parlamentare. E poi intero fascicolo messo in busta e spedito il 25 novembre scorso con destinazione Camera dei deputati. La posta fra istituzioni non deve essere un modello di efficienza, perché per amara ironia del caso quel fascicolo giudiziario, quello con Di Pietro parte offesa, Berlusconi presunto colpevole e Santoro pubblico ministero, è arrivato nelle mani del presidente della Camera, Gianfranco Fini lunedì 14 dicembre, il giorno dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo a Milano. Nel bel mezzo della bagarre parlamentare fra Pdl e lo stesso Di Pietro che con toni da querela e controquerela stavano appunto commentando i fatti della domenica milanese.
Per altro al “bugiardo” dato da Di Pietro a Berlusconi era subito arrivato come contro-risposta un “bugiardo” di Di Pietro a Berlusconi, ed era stata immediatamente annunciata una contro-querela che però mai è stata presentata. Più volte Di Pietro ha presentato in questi anni querele a Silvio Berlusconi perfino di fronte a giudizi generici sulla magistratura che non lo citavano direttamente. Al contrario, pur essendosi sentito dare del “bugiardo”, del “corruttore”, del “criminale” e anche del “mafioso”, Berlusconi ha annunciato querela a Di Pietro ma poi l’ha presentata in una sola occasione, assai recente, quando durante la campagna per le europee il leader dell’Italia dei Valori definì il premier “un magnaccia di veline”. Il processo è a Campobasso, dove il gip in prima battuta ha ritenuto subito non meritevole di alcuna considerazione la querela di Berlusconi (“magnaccia di veline” non sarebbe stata offesa politica). Ghedini però è riuscito a opporsi alla archiviazione del fascicolo e a tenere in piedi un procedimento che probabilmente mai si farà.
Per altro se non ci sono molte querele contro Di Pietro- nonostante il linguaggio colorito più volte usato che certamente porterebbe un giornalista diritto a supercondanna- è perché si sa già in partenza che le azioni giudiziarie sarebbero inefficaci. Difficile trovare un collegio di magistrati che dia torto a un ex magistrato a capo del partito dei magistrati. Non solo: l’unica volta che per Di Pietro qualche rischio ci sarebbe stato, perché a querelare era un altro magistrato come Filippo Verde, il leader dell’Italia dei valori ha alzato immediatamente zitto zitto lo scudo che aveva a disposizione in quel momento: quello dell’immunità da parlamentare europeo, che lo ha tolto dalle pesti nella primavera scorsa. L’unica volta in cui avrebbe potuto dimostrare di razzolare come predicava, rifiutando l’immunità parlamentare e diventando davanti alla legge un cittadino come tutti gli altri, Di Pietro ha scelto la comoda pelliccia dell’immunità. E chissenfrega dei suoi di pietrini delusi.
Altro che lottizzazione! Il Pd Zingaretti a Roma si compra un pezzo di tg (con i soldi di tutti)
Il prezzo è tutto da valutare. Con 24 mila euro Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, si è comprato un servizio nel tg dell’ora di punta di una delle più importanti emittenti regionali del Lazio, Gold tv. Una ricetta che potrebbe aprire importanti strade anche a livello nazionale, senza bisogno di troppe leggi sulla par condicio. Invece che lamentarsi della scarsa o cattiva informazione dei vari tg è più efficace comprarsi un servizio al giorno, e così’ ci si toglie ogni problema di torno. Secondo la determinazione dirigenziale n. 6910/2009 che porta la data del 29 ottobre 2009 a firma del dirigente del servizio Ufficio stampa e informazione della provincia di Roma, Emanuele Maria Lanfranchi, con 24 mila euro versati un un’unica selezione a Gold Tv, sede di Terracina (peraltro provincia di Latina) Zingaretti e i suoi assessori hanno ottenuto “la messa a disposizione di una troupe, composta da un cameraman e un giornalista, per la realizzazione di un servizio televisivo al giorno sull’iniziativa giornaliera, segnalata dallo scrivente servizio, o, meglio, fra le tante iniziative, su quella ritenuta dalla Amministrazione provinciale più importante, che verrà montato e palinsestato all’interno del notiziario Gold Tg”. Non si era mai visto fin qui scrivere nero su bianco addirittura su una delibera di un organo istituzionale come la provincia di Roma un patto leonino del genere contro la libertà di informazione (quella stessa libertà contro cui il Pd di Zingaretti era sceso in piazza insieme a Fnsi e Cgil qualche settimana prima). Per i 24 mila euro Gold tv ha accettato in più l’obbligo di “rigraficare ed inserire, in coda ad ognuna delle quattro edizioni del Gold tg del sabato, il tg denominato Provinz, prodotto dalla amministrazione provinciale”. Almeno in questo caso è meno nascosto al pubblico il carattere di comunicazione istituzionale e non redazionale del notiziario. Ma per il servizio da inserire nei Gold tg nessun avviso viene dato al telespettatore sul carattere esclusivamente promozionale (pagato come una pubblicità) e non informativo del servizio che va in onda. Basta scorrerne qualcuno per comprendere per altro come non si sprechino nel servizio comprato da Zingaretti lodi e iperboli verso la buona amministrazione provinciale. Il pezzo di tg per altro è stato acquistato dalla provincia di Roma non solo in barba a qualsiasi regola deontologica e alle regole base dell’ordine dei giornalisti, ma anche in assenza di ogni tipo di gara. Nella determinazione dirigenziale sopra ricordata si spiega solo che Gold tv ha ricevuto nel 2007 un premio Corecom per il migliore tg del Lazio (chissà se sapevano che i servizi venivano venduti), che la rete copre la provincia di Roma e che “l’esclusività della proposta e la rilevante specificità del proponente negli ambiti peculiari di realizzazione delle attività progettuali, permettono di individuarlo come unico interlocutore idoneo a garantire lo svolgimento di tutte le attività predette”.
Nella delibera però non è indicata la durata del contratto: fosse annuale, almeno Zingaretti avrebbe comprato un servizio in un tg regionale a buon prezzo. Se invece l’unica indicazione che c’è, e cioè “liquidare la somma di euro 24 mila dietro presentazione di regolare fattura da parte della Gold tv srl” fosse indicativa di un contratto relativo al solo 2009, quell’acquisto di una dose giornaliere di pubblicità travestita da informazione per farsi belli con i soldi di tutti sarebbe anche assai caro.
Pronto? Sono Bagnasco. E Tremonti restituisce i soldi alla scuola cattolica. Messo all'angolo anche da Lupi & c
Alla fine Giulio Tremonti ha ceduto, non avendo per altro molte vie di fuga. Così, con il maxi-emendamento di ieri alla legge finanziaria le scuole paritarie hanno riottenuto quei 130 milioni di euro volati via con i tagli orizzontali del ministero dell’Economia alle tabelle che accompagnavano la manovra di bilancio triennale. Per sciogliere la resistenza del ministro è sceso in campo anche il presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco che prima con una telefonata al premier, Silvio Berlusconi poi in un colloquio diretto con Tremonti ha segnalato il rischio di chiusura di molti istituti con una taglio del 25% dei contributi pubblici alla libertà di educazione dei cittadini. L’intervento del cardinale in un momento in cui il governo è assai attento ai rapporti con la Chiesa cattolica (non pochi interpretano anche in questo modo la chiusura del caso Boffo), è giunto a raddoppiare l’assedio parlamentare al ministero dell’economia con una attività di lobbing coordinata dal vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi. Nei giorni scorsi a dire il vero erano stati presentati numerosi emendamenti per integrare il fondo per il finanziamento delle scuole paritarie, e il Pdl in commissione bilancio era convenuto sull’emendamento di Gabriele Toccafondi che restituiva al capitolo l’intera somma tagliata, appunto i 130 milioni di euro. Ma a sorpresa, sia pure per somme inferiori (fra gli 80 e i 100 milioni di euro) erano stati depositati emendamenti di reintegro anche da esponenti di tutti e tre i partiti di opposizione: Udc, Pd e Italia dei valori. Alla fine tutti hanno sostenuto l’emendamento Toccafondi. Il ministero dell’Economia aveva provato a trattare sull’entità del reintegro, vista la pioggia di richieste per ribaltare i tagli su decine di capitoli. Ma dopo la doppia telefonata del capo dei vescovi italiani Tremonti ha ceduto su tutta la linea, accettando anche di ridotare dei 400 milioni di euro saltati con i tagli lineari il fondo di finanziamento del 5 per mille. Su questo appunto era dato per scontato il via libera del ministero dell’Economia, visto che lo strumento non solo è stato inventato da Tremonti e dai suoi consulenti, ma è stato più volte difeso quando altri governi e ministri avevano immaginato di eliminarlo.
Sulla scuola privata invece il braccio di ferro fra il ministro dell’Economia e i cattolici non è una novità. Già nel 2004 Tremonti operò un taglio triennale di 154 milioni di euro all’anno sui 530 milioni stanziati, scatenando le proteste della Conferenza episcopale italiana. Anche l’altro anno, tornato al governo, il taglio che infiammò la discussione sulla finanziaria 2009 fu proprio quello alle scuole paritarie, con una formale protesta della Cei che mise in qualche imbarazzo Berlusconi. Riuscì a metterci una pezza la lobby parlamentare trasversale sulla libertà di educazione, anche allora coordinata da Lupi. Ma 30 milioni di euro furono comunque tagliati rispetto alla dotazione. Così
Bruno Stenco, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per l'educazione, la scuola e l'università, protestò anche sopra la righe con Tremonti: “Già tre anni ha tagliato e ora lo ripete. La scuola cattolica ha taciuto e quei fondi li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. La Chiesa adesso deve tirare le sue conseguenze perchè senza contributi le scuole dell'infanzia non vanno avanti e di certo rischiano di chiudere”.
Altre polemiche sono sorte nella primavera scorsa per una circolare della Agenzia delle Entrate che identificava l’iscrizione alle scuole private come un indicatore di un tenore di vita alto meritevole di controlli e indagini fiscali. Fu considerato un modo per disincentivare l’iscrizione alle paritarie, proprio dopo avere limato i fondi pubblici.
Se verrà approvato ora il calumet della pace del maxi-emendamento, il braccio di ferro fra cattolici e Tremonti sulla scuola è comunque solo rinviato di un anno. Lo stanziamento per la scuola paritaria nella tabella triennale per il 2011 indica ora un taglio ben più consistente di quelli ipotizzati negli ultimi due anni: 200 milioni di euro. Ma c’è ancora un anno davanti per accapigliarsi e telefonarsi…
Spatuzza? Non ne dice una giusta sulla Standa. Ma nessuno in un anno ha mai controllato
Per tutta la prima parte degli anni Novanta i magazzini Standa a Palermo sono stati nove. Sei in gestione diretta del gruppo allora controllato dalla Fininvest e tre che avevano solo in franchising il marchio di quella che veniva definita la “casa degli italiani”. La realtà che emerge dai bilanci pubblici Standa 1990-1994 è dunque assai diversa da quella (meglio dire quelle) raccontate dal mafioso pentito Gaspare Spatuzza. Ieri nell’aula bunker di Torino durante l’audizione più attesa dell’anno Spatuzza ha spiegato: “A Brancaccio nel 1990-1991 è stato aperto un supermercato affiliato Standa e la stessa parola Standa mi dice tutto oggi. E’ l'unica a Palermo e nel quartiere Brancaccio. Visto che il signor Berlusconi ha di proprietà della Standa ed è l’unica Standa a Palermo mi sembra un’anomalia". Il ricordo è sbagliato: non uno ma sei erano i magazzini Standa del capoluogo siciliano, e nessuno di questi nel quartiere di Brancaccio. Lì invece aveva sede uno dei tre negozi in franchising. Ma su quello che viene ritenuto l’argomento chiave per provare i rapporti fra il gruppo di Berlusconi e i boss palermitani qualche confusione Spatuzza deve avere. Perché in uno degli interrogatori precedenti depositati in istruttoria e rilasciati nei primi 180 giorni del suo pentimento, l’ex imbianchino pluriomicida di Brancaccio aveva offerto qualche particolare in più (sia pure contrastante con la versione fornita ieri). “Ricordo”, aveva detto, “che le Standa aperte in quel periodo erano tre e che facevano tutte capo a Michele Finocchio o alla sua famiglia. Michele era una persona vicinissima ai Graviano, così come lo era stato suo padre Gaspare, molto legato a Michele Graviano, il genitore di Filippo e Giuseppe. Di queste tre Standa una è a Brancaccio, in via Azzolino Hazon, una in via Duca della Verdura, mentre la terza è in corso Calatafimi che mi pare fare parte, così come la seconda, del mandamento mafioso di Porta Nuova”.
Evidentemente l’attenzione processuale è stata distratta da altri elementi, perché su queste dichiarazioni non sono state compiute verifiche. In due dei tre indirizzi forniti non c’è mai stata alcuna Standa. Il terzo indirizzo, quello di via Calatafimi 380, è invece quello buono. Era uno dei sei grandi magazzini a gestione diretta della società controllata da Fininvest, ed esiste ancora oggi, sia pure con il marchio Oviesse-Coin. Allora non è vero che Berlusconi avesse una sola Standa a Palermo all’epoca, è vero solo che Spatuzza di una Standa sola azzecca l’indirizzo. Qualcuno probabilmente fra il primo e il secondo interrogatorio deve averglielo fatto presente. Ma anche su via Calatafimi il superpentito scivola su una buccia di banana. Ne attribuisce la proprietà a Michele Finocchio e alla sua famiglia. Le mura invece dal 1986 appartengono al Fondo pensioni per il personale della Cassa centrale di risparmio V.E. per le provincie siciliane, che ne è ancora oggi il padrone di casa. Quell’immobile- che un tempo fu della Standa- solo oggi è in corso di dismissione ed a occuparsi di quella vendita è niente meno che Mediobanca, advisor di un’operazione di cessione di 52 immobili in portafoglio al fondo pensioni. C’è quindi molta confusione e assoluta imprecisione nei ricordi di Spatuzza, in modo sorprendente perché molti abitanti di Palermo sanno invece ricordare con precisione le vie dove c’erano supermercati Standa.
Quella dei supermercati è comunque sempre stata una passione assoluta dei mafiosi pentiti. Del caso Standa aveva parlato già in 86 pagine di interrogatorio davanti a Piero Grasso un pentito chiave del primo processo a Marcello Dell’Utri: Antonino Giuffrè. Fu lui a raccontare i motivi per cui la mafia all’inizio degli anni Novanta aveva dato fuoco a supermercati Standa e Upim a Catania e Palermo. “Quello che interessava”, sostenne Giuffrè, “non era soltanto il pagamento di tangenti o l’imposizione di forniture, bensì l’instaurarsi di un rapporto diretto con Silvio Berlusconi e con Gianni Agnelli che se non sbaglio erano proprietari di queste strutture”. Insomma dare fuoco ai grandi magazzini era un modo per i boss mafiosi per presentare con una certa rudezza (già, erano boss) il loro biglietto da visita convinti così di potersi dopo sedersi al tavolo con il Cavaliere e con l’Avvocato. Da potere forte volevano conoscere gli altri poteri forti. Lo disse senza tanti giri di parole un altro pentito, Angelo Siino, spiegando come la cupola morisse dalla curiosità a inizio anni Novanta di conoscere un altro big dell’imprenditoria, Raul Gardini, anche lui in passato proprietario della Standa. In Sicilia all’epoca aveva la Calcestruzzi e il biglietto da visita lo mandò direttamente Totò Riina con attentato a un cementificio…
Fini? Fa così perchè Berlusconi non se l'è più filato. Parola di Laboccetta
Missione che sembra impossibile. Ma c’è chi ci lavora da tempo ed è sicuro che presto accadrà: Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi l’uno di fronte all’altro chiusi in una stanza. “Liberi di gridarsi di tutto, finalmente di tirare fuori quel che l’uno ha dentro verso l’altro. Ma guardandosi negli occhi”, pregusta già il match uno dei pontieri che quell’incontro certamente sogna e spera di combinare. Amedeo Laboccetta, napoletano sanguigno ed ex missino di lunga militanza, conosce Fini da quando “portava i calzoni corti” ed è fra i pochi davvero a fianco del presidente della Camera, con cui l’altro giorno ha festeggiato il secondo compleanno della figlioletta avuta da Elisabetta Tulliani con soli altri due politici amici: Giulia Bongiorno e Ignazio La Russa (solo più tardi ha fatto un salto di cortesia Italo Bocchino). Con La Russa sta tentando la missione che sembra impossibile. Cercando di agganciare gli unici pontieri interessati allo stesso risultato sul fronte opposto: “e cioè Marcello dell’Utri, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Consiglieri veri di Berlusconi, un po’ sopra la corte che gira intorno e che alla fine getta solo zizzania per farsi belli con il leader”, spiega Laboccetta, che ammette: “Stesso problema c’è intorno a Fini. Lui è molto generoso e vola alto. Ma essendo generoso ha lasciato le chiavi delle sue macchine nel cruscotto. Così oggi la prende uno e si fa un giro senza che lui lo sappia, poi la prende un altro e magari non ha la patente ed è al volante di una Ferrari. Finisce che si sfascia lui e alla fine ci sfasciamo tutti”. Il riferimento è naturalmente alla nuova generazione dei colonnelli cui ogni tanto capita qualche uscita di troppo che aggiunge guaio a guaio. Se ne è accorto anche Fini se- come si dice- qualche giorno fa il presidente della Camera ha operato il più classico degli shampoo a Fabio Granata per qualche dichiarazione oltre misura. “Mah… il fatto è che Berlusconi la mattina si sveglia e pensa come è giusto al modello Obama. Fini si sveglia e pensa al modello Sarkozy. Meraviglioso. Grandi temi, grandi aspirazioni. Poi arriva qualcuno, mette lì sotto il naso la dichiarazione di tizio o sempronio, butta benzina sul fuoco e scoppia il finimondo. Finchè lavorano gli estremisti le cose peggiorano. Così ci si chiude nel bunker e si pensa di vivere in assedio e a come uscirne. No, ora servono proprio i pontieri”.
Certo, non aiutano la fumata del calumet della pace video- sia pure “rubati”- come quelli che hanno ritratto Gianfranco Fini al premio Borsellino sbertucciare Berlusconi con il procuratore capo di Pescara… “Vero”, ammette Laboccetta, “e ha tutte le ragioni Berlusconi di incazzarsi. Perché un conto è sentire le cose di bocca in bocca, un conto sentirle così in presa diretta. Non ho parlato con Fini di quel video, ma certo bisogna archiviarlo il più presto possibile. Anche perché l’ultimo dei pensieri di Fini è che il presidente del Consiglio o Marcello dell’Utri siano mafiosi. E certo non crede alle rivelazioni di un Spatuzza…”. Così è sembrato ieri, con il comunicato di Fini sulla inutilità di quelle dichiarazioni senza nemmeno un riscontro. Ma non è stata l’unica occasione di attrito fra Fini e Berlusconi. E quasi sempre il casus belli pubblico è stato suscitato dal presidente della Camera. Che cosa è accaduto fra i due? C’è un fatto all’origine di questa freddezza personale? “Sì, c’è, è evidente. Perché di una cosa Berlusconi può essere certo: un uomo di destra è sempre leale. Fedele no, perché fedeli sono i cani. Ma leale sì. E Fini gli è sempre stato leale. Ma la lealtà chiede rispetto da entrambe le parti. E io non vedo rispetto verso il Fini politico”. Perché, Berlusconi gli ha mancato di rispetto? “Fini dopo avere a lungo riflettuto gli ha portato in dono An. Gli ha donato la sua storia e quella di tutti noi senza condizioni. E’ evidente che dopo non ha ottenuto il rispetto che si deve a un dono così. Non mi sembra che il ruolo politico di Fini e dei suoi amici nel Pdl sia così rilevante. E Berlusconi non può trattare Fini da politico qualsiasi, uno in mezzo agli altri nel Pdl. Un conto è magari discutere idee di cui Gianfranco si innamora troppo (e che io non capisco, e glielo dico, come nel caso immigrati o sulle questioni etiche), un conto ignorarlo del tutto, o avere atteggiamenti del tipo: se pensa così, fuori. Questo lo può fare un Papa, non un leader politico. In politica non esistono eresie”. E allora? “Allora bisogna che il presidente del Consiglio presti appunto orecchio a chi sa parlargli senza convenienza personale come Dell’Utri, Confalonieri o Letta. Gente di qualità, che ha dato spessore alla politica. Sono certo che con loro in campo il ponte fra i due si costruirà. Ma non può bastare una volta sola. Quei due debbono incontrarsi regolarmente. Una o due volte al mese, e vedrà che la buriana finisce e il governo si rafforza”.
Magistrati 2/ Il giudice nel pallone che si gestisce Spatuzza
Non è un “quisque de populo”, Gaspare Spatuzza, il pentito di mafia più atteso degli ultimi anni che oggi deporrà a Torino al processo a Marcello dell’Utri. E “quisque de populo” non è nemmeno Giuseppe Quattrocchi, procuratore capo di Firenze, che quella definizione su Spatuzza ha coniato. Si sbaglia il deputato del Pd che la scorsa settimana con vis polemica ha ironizzato sulle preoccupazioni di Silvio Berlusconi: “questo magistrato qui non è mica un Antonio Ingroia o una toga rossa… L’avete visto in tv forse per la prima volta. E’ la mite procura di Firenze, non quella di Milano o Palermo”. Mite sarà anche mite, Quattrocchi. Ma un quisque de populo no. E neanche uno sconosciuto per taccuini dei cronisti e riflettori tv. Vero che fu lui, magistrato messinese (lì ha ereditato una parte della casa di famiglia), classe 1938, a indire una conferenza stampa dopo anni di Tangentopoli per chiedere di non citare più i nomi di pm e giudici della sua Lucca in cui ha esercitato per lustri “perché i magistrati non debbono essere divi e sentirsi protagonisti”. Così prese il coordinamento di decine di inchieste anche scottanti e in tv e sulla stampa finì sempre un nome solo: quello del procuratore capo Quattrocchi. A Firenze è arrivato solo nel 2008, promosso dal Csm. Ci abitava però dal 2003, quando acquistò la bella casa dove abita ancora in via Mossotti con la figlia Stefania dopo essere rimasto vedovo (frutto di una divisione con altra famiglia). Era procuratore capo di Lucca, ma come altri colleghi fortunati Quattrocchi aveva anche un secondo mestiere: giudice sportivo della serie C. Esercitava a Firenze, e non di rado le sue scelte “sportive” han fatto più notizia delle sue inchieste. Perché Quattrocchi ovunque si sia trovato mai ha dato l’impressione di essere un “quisque de populo”. In poco più di un anno a Firenze è riuscito a fare tremare ogni palazzo pubblico con l’inchiesta su Sai-Fondiaria. Non è una toga rossa: a spaventarsi è stato lo stato maggiore del Pd, sindaco Leonardo Domenici in testa (lo ha indagato anche per un incidente capitato a Forte Belvedere durante uno spettacolo estivo). Poi ha preso in mano le stragi del ’93 in via dei Georgofili riaprendo il processo e gestendo il pentimento di Spatuzza. Quando ci fu il tragico incidente ferroviario di Viareggio, anche se fuori terriotorio, il procuratore capo di Firenze causò più di un maldipancia ai vertici delle Ferrovie aprendo un fascicolo su tutti gli incidenti ferroviari degli ultimi tre anni. E giù titoloni sulla stampa locale. Come a maggio di quest’anno, quando Quattrocchi guidò l’operazione “Botero” grazie a cui arrestò esponenti di una organizzazione camorristica per riciclaggio. Ci riuscì scoprendo un deposito da un milione di euro in una banca di Prato. Ma il procuratore capo di Firenze volle dare un avviso a tutto il sistema creditizio italiano, lanciando quello che lui stesso definì con linguaggio dell’aviazione un “mayday” alle banche: “tutte le operazioni sospette vanno segnalate. Le banche non possono chiudere un occhio”.
Agenda fittissima, procedimenti clamorosi, ma Quattrocchi ha trovato il tempo anche di occuparsi di temi politici nazionali. Sul processo breve ha spiegato ai giornalisti che “il 60% dei processi a Firenze sarebbe stato estinto”. Qualche tempo prima giù critiche anche al reato di immigrazione clandestina, su cui Quattrocchi voleva perfino sollevare questione di legittimità costituzionale. Prima ancora, di fronte alla bozza di legge sulle intercettazioni protestò spiegando che si volevano favorire mafia e camorra. Non è un procuratore che le manda a dire, Quattrocchi. E lavora come un matto: quando nel giugno scorso una giovane collega fu punta in ufficio da una zecca, fu proprio Quattrocchi a dirigere e coordinare le operazioni di disinfestazione. Pronto a dirigere perfino il tempo libero dei suoi: si è messo a capo del Fiorentina fan club della procura di Firenze.
A Lucca non è stato da meno: ha fatto lui il processo al televenditore Giorgio Mendella, ha inquisito e fatto rinviare a giudizio Donatella Dini per corruzione, si è infilato con attgi giudiziari nella querelle politica fra il sindaco di Lucca e l’allora presidente del Senato, Marcello Pera. Ha indagato sulle minacce ricevute dall’arbitro Pierluigi Collina e sull’attentato alla villa di Chiara Beria d’Argentine. Si è occupato di doping nel ciclismo, ha indagato Mario Cipollini per minacce. Ha accusato di tentata estorsione un calciatore, Stefano Bettarini che era marito di Simona Ventura. Condotto una inchiesta sulle firme false per le liste di Alessandra Mussolini alle regionali 2005. Ha sequestrato e sigillato La Bussola, locale dove esordì Mina perché la musica era troppo alta. Ha fatto qualsiasi tipo di indagine: pedofilia, eutanasia, calcio scommesse. Ogni indagine, una conferenza stampa e poi titoloni su giornali e servizi tv. Come i casi di cui si è occupato da giudice sportivo nella spenta serie C. Tutti unici, tutti da ottimo titolo sui giornali nazionali: due tifosi che si tirano giù le mutande e mostrano i glutei a Foggia (2002); un tifoso che fa pipì in testa al guardialinee (2004). Uno che ha offeso la memoria di Papa Giovanni Paolo II a Prato (2005) e via così… Attenti a Quattrocchi, non sarà un Ingroia ma non è un pm “quisque de populo”.
Magistrati 1/ Quello con cui Fini si confessava
Il magistrato con cui Gianfranco Fini si è sfogato nel fuori-onda contro il premier- imperatore è da 25 anni la bestia nera di Silvio Berlusconi. Nicola Trifuoggi, attuale procuratore capo della Repubblia a Pescara, il magistrato che ha decapitato la giunta regionale dell’Abruzzo arrestando il suo presidente, Ottaviano Del Turco, è stato anche protagonista della storia delle tv private in Italia. Trifuoggi fu infatti uno dei tre pretori d’assalto che il 16 ottobre 1984 spensero le tre reti tv Fininvest da poco nate: Canale 5, Italia Uno e Rete 4. Con un’azione concertata Trifuoggi a Pescara, Giuseppe Casalbore a Torino ed Eugenio Bettiol a Roma esattamente 25 anni fa inviarono alle nove del mattino agenti della Guardia di Finanza e funzionari della Escopost nelle sedi delle emittenti locali che trasmettevano su tutto il territorio nazionale grazie al sistema ingegnoso della interconnessione. Fininvest non era infatti autorizzata alla diretta su tutto il territorio nazionale e aveva aggirato il limite producendo programmi che venivano consegnati alle varie sedi locali per la trasmissione sul territorio più o meno alla stessa ora. Solo grazie a quel sistema Publitalia riusciva infatti a raccogliere la pubblicità su tutto il territorio nazionale. All’oscuramento deciso dai tre pretori di assalto Berlusconi reagì facendo comparire sugli schermi di tutta Italia una sola scritta “Tutte le trasmissioni sono temporaneamente sospese per motivi politici”. Arrivarono migliaia di telefonate di protesta sia al ministero delle Poste che ai telefoni delle tre preture che avevano proceduto. Qualcuno individuò anche i numeri telefonici di casa dei magistrati e per loro furono giorni di passione. Fu il primo vero braccio di ferro di Berlusconi con la magistratura, poi risolto dal presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi, che con un decreto legge autorizzò Fininvest temporaneamente alla trasmissione su tutto il territorio nazionale. Qualcuno dei tre pretori provò ancora ad oscurare i ripetitori quando decadde il decreto senza essere trasformato in legge, ma Fininvest ricorse e il buio durò poco.
Anni dopo allo stesso Trifuoggi fu chiesto da qualcuno di oscurare Rete 4, che la Corte Costituzionale aveva deciso di mandare sul satellite, ma lui a onore del vero si rifiutò sostenendo che quello non sarebbe più potuto essere il metodo con cui procedere e anzi, dichiarando pubblicamente che tornando indietro non avrebbe nemmeno ripetuto quel che aveva deciso nel lontano 1984.
Il magistrato pescarese è poi finito nell’occhio del ciclone proprio per l’arresto di Del Turco nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità abruzzese. Una misura cautelare che anche ad alcuni osservatori era parsa spropositata e che naturalmente ha scetenato polemiche politiche, visto che si trattava di un presidente di Regione eletto direttamente dal popolo. Ma non è raro che decisioni dei magistrati vengano criticate e scatenino polemiche. Non sarebbe stata quella né la prima né l’ultima volta.
A Trifuoggi in ogni caso non sembra portare fortuna il premio Borsellino per la legalità. Questa volta il magistrato era solo ospite, pizzicato in imbarazzante colloquio con il presidente della Camera, Fini. Due anni fa invece fu proprio lui il premiato. Qualcuno lo vide lì., lesse le motivazioni e tirò fuori una vicenda destinata a provocare un certo imbarazzo. Con interrogazione parlamentare di Emerenzo Barbieri si rivelò come qualche mese prima del premio Trifuoggi avesse acquistato a Montesilvano una villetta da un costruttore proprio da lui inquisito qualche anno prima (lo aveva perfino arrestato nel 2003). Più di una polemica ne è seguita, ma lui alla fine si è difeso: “al momento del compromesso non conoscevo né il nome del costruttore né la sua situazione giudiziaria. In ogni caso ho pagato il prezzo di mercato”
De Benedetti ha scoperto il suo cimicione
Anche Carlo De Benedetti ha il suo cimicione, tredici anni dopo quello di Silvio Berlusconi. L’ingegnere e i suoi collaboratori hanno infatti trovato manomessa la Bmw 750 IL grigio metallizzato utilizzata tutte le settimane per gli spostamenti dell’imprenditore nella capitale. Secondo la denuncia contro ignoti presentata immediatamente alla procura della Repubblica di Roma, dove l’ha avocata a sé il procuratore capo Giovanni Ferrrara, ci sarebbe stata “una intrusiva e dolosa manomissione rilevata all’interno dell’autovettura”. Secondo le indiscrezioni fatte circolare sarebbe stato trovato all’interno dell’auto un vano dove sarebbe stato possibile nascondere un apparecchio per le intercettazioni. La manomissione avrebbe riguardato anche uno dei fanali anteriori. Secondo le ricostruzioni ufficiali il cimicione non sarebbe stato trovato, o almeno la sua eventuale presenza fino a ieri sera era top secret. Ma che quella sia la strada che le indagini hanno intenzione di percorrere è emerso dopo che dalla procura è trapelata l’intenzione di affidare l’indagine a un pm del pool sui reati informatici. Qualche scetticismo è però emerso da esperti del settore consultati ieri da Libero, perché raramente una manomissione così evidente può essere opera di veri professionisti. Certo la Bmw 750 non era particolarmente tutelata. Intestata a una società del gruppo Espresso, era tenuta in autorimessa incustodita la maggiore parte del tempo. L’unico autorizzato alla guida era l’autista personale dell’ingegnere, cugino di un sindacalista dei Beni culturali. Più o meno una volta alla settimana veniva ritirata per andare ad accogliere a Ciampino De Benedetti, che è residente in Svizzera ma che svolge buona parte della sua attività lavorativa fra Milano, Torino e Roma. L’autista lo accompagna regolarmente agli appuntamenti di lavoro, si occupa di piccole spese e poi accompagna l’ingegnere nella sua abitazione romana di via Monserrato, a due passi da piazza Farnese. De Benedetti se non ci sono appuntamenti particolari cena nell’attico e superattico che acquistò nel dicembre del lontano 1979 per 200 milioni di lire da Bruno Visentini attraverso la Finco spa, antenata dell’attuale Cofide (in quella casa in piena Tangentopoli fu messo agli arresti domiciliari dal gip Augusta Iannini, consorte di Bruno Vespa che indagava sulle forniture di telescriventi Olivetti alle poste).
Spesso a Roma l’ingegnere è solo, raramente viene accompagnato dalla moglie Silvia Cornacchia più nota con il cognome di Monti. In genere si ferma una notte sola, viaggiando con un piccolo trolley e una borsa con i documenti di lavoro. Il 16 luglio scorso non era sfuggito agli abitanti della zona il suo arrivo in piazza Farnese e la decisione con cui aveva impedito all’autista di prendergli il trolley, lasciandogli invece caricare due borsoni blu dell’Ikea con alcune suppellettili per l’abitazione romana. Due anziane signore romane che lo avevano riconosciuto, colpite proprio da quei sacchi portati dall’autista, sospirarono: “Ah, se De Benedetti per risparmiare è costretto a comprare all’Ikea, vuole dire che la crisi finanziaria è più grave di come ci racconta il governo”.
La Bmw 750 è lasciata incustodita appunto in quelle occasioni, ma non per molto tempo e quasi sempre davanti alle fontane di piazza Farnese (le possibilità di parcheggio in zona non sono altissime) che a qualsiasi ora del giorno e della notte è affollatissima. A pochi metri per altro c’è palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, sempre vigilata. Difficile immaginare una intrusione nell’auto e una manomissione in quelle condizioni. Quasi impossibile sia avvenuto durante gli spostamenti, perché l’autista la abbandona raramente, al massimo per un caffè. Le indagini quindi punteranno sull’autorimessa del gruppo Espresso, luogo più probabile in cui possa essere avvenuta l’intrusione. Non ci sono però segni evidenti di scasso o manomissione ad altre strutture o auto.
Non sarebbe per altro la prima volta che De Benedetti viene intercettato: il suo nome era inserito nella lista degli spiati dalla Polis d’Istinto che lavorava con il capo della sicurezza Telecom Giuliano Tavaroli. E nel 1996 De Benedetti fu intercettato legalmente mentre faceva gli auguri ad Antonio Di Pietro per lo sbarco in politica del pm, discutendo con lui in modo assai colorito di una possibile discesa in politica anche dell’ex nemico di una vita: Cesare Romiti.
Veronica? Vuole solo un quarto dello stipendio mensile di Silvio
Il clamoroso assegno di mantenimento annuo, 43 milioni di euro, chiesto da Veronica Lario, al marito Silvio Berlusconi dopo la separazione vale circa un quarto dei dividendi incassati nell’ultimo anno dal presidente del Consiglio italiano. Il Cavaliere infatti fra febbraio e fine aprile si è fatto versare dalle società da lui direttamente controllate 166 milioni e 723 mila euro. Quindi se Veronica ha chiesto 3 milioni e 583 mila euro al mese per il suo mantenimento base (vale a dire quanto un top manager di grandi banche o di gruppi come Enel o Eni guadagna in un anno), è vero che grazie al buon andamento delle sue società, Berlusconi nel 2009 ha contato su una paghetta mensile di 13 milioni e 893 mila euro. Il presidente del Consiglio per altro è assai più ricco di quanto non dica questo ragguardevolissimo stipendio mensile. Complessivamente ad oggi avrebbe a disposizione poco meno di 800 milioni di euro: 166,7 sono appunto i dividendi già incassati dalle 4 holding di controllo di Fininvest da lui possedute (la prima, la seconda, la terza e l’ottava), dalla piccola quota di Fininvest a lui riportabile (2,06%) e dalla partecipazione di maggioranza assoluta (99,5%) in Dolcedrago. Dalle holding che controllano Fininvest il premier nella primavera scorsa si è fatto distribuire sotto forma di dividendi quasi tutti gli utili. Negli anni precedenti invece spesso li ha fatti accantonare a riserva. Così oltre ai dividendi Silvio Berlusconi può contare su una liquidità rilevante, pari a 177,8 milioni di euro, su investimenti in titoli (in gestione a banca Arner) per 19,6 milioni di euro e su utili di anni precedenti portati a riserva e distribuibili senza intaccare la solidità delle holding per 420,3 milioni di euro. Il cavaliere ha quindi a disposizione 784,6 milioni di euro. Altri 353, 4 milioni sono immobilizzati nel mattone attraverso la Idra (proprietaria di Villa Certosa e di quelle di Arcore e di Macherio) e ancora 6 milioni investiti in villette attraverso la Immobiliare due ville. Una somma complessivamente superiore a quella che Cir ha chiesto a Fininvest nella contesa giudiziaria sul lodo Mondadori. A questa potrebbe aggiungersi anche parte pro quota del patrimonio Fininvest, la finanziaria che nel bilancio consolidato 2008 registrava disponibilità liquide per un miliardo e 111 milioni e titoli detenuti per la negoziazione per un controvalore di 186,4 milioni di euro. Ma queste cifre non sono state considerate da Libero per calcolare la ricchezza personale della famiglia Berlusconi perché in Fininvest la liquidità serve al funzionamento e allo sviluppo del gruppo.
Diversa la situazione dei cinque figli, che attraverso altre tre holding (la quarta, la quinta e la quattordicesima) controllano ognuno poco più del 7 per cento del capitale Fininvest. Piersilvio e Marina hanno la stessa quota, il 7,652%. I tre figli di secondo letto, Barbara, Eleonora e Luigi controllano invece indirettamente il 7,13%.
Dei cinque oggi il più ricco è Piersilvio. Non tanto per i dividendi incassati: lui come Marina ha ricevuto solo i 5.614,17 euro spettanti per la propria partecipazione del 0,25% nella Dolcedrago. Il primogenito è più ricco pertchè ha risparmiato di più in questi anni: la sua holding (la quinta) ha disponibilità liquide per 60,4 milioni di euro, investimenti in titoli per 28,7 milioni di euro e utili accantonati negli anni e oggi distribuibili per 94 milioni di euro: in tutto fanno 183,3 milioni di euro. Marina invece i dividendi li ha goduti negli anni e investiti o spesi. Nella sua holding (la quarta) ci sono 19,4 milioni di euro liquidi, altri 11,1 milioni di euro investiti in titoli e 35,1 milioni di vecchi utili distribuibili.
Infini i tre figli di secondo letto, che insieme possono contare su 305,7 milioni di euro (più di cento a testa). Eleonora, Barbara e Luigi hanno ricevuto a marzo dalla loro holding (la quattordicesima) una argente du poche da 1,4 milioni di euro a testa. In tutto 4,2 milioni di euro, piccola quota dei dividendi annuali percepiti e accantonati in gran parte a riserva. Sui conti correnti i tre insieme hanno disponibilità liquide per 111,6 milioni di euro, altri 5 milioni dati in gestione alla Sator di Matteo Arpe e ancora circa 185 milioni di euro di utili accantonati in precedenza e distribuibili senza sciogliere la società. Altri 35 milioni li hanno investiti nel mattone, comprando un palazzo nel centro di Milano.
Anche Tremonti assediava Brenda a casa- Il fisco voleva quel tugurio
Al catasto di Roma era registrata come “abitazione di tipo civile” di due vani. Il monolocale con soppalco dove è stata trovato il corpo di Brenda, il transessuale brasiliano del caso Marrazzo, apparteneva in realtà a una coppia di anziani signori che in quelle quattro pareti avevano investito in risparmi di una vita. E sull’immobile dalla scorsa primavera c’era anche un’ipoteca legale posta dal fisco italiano, sia pure per una piccola somma.
I proprietari risultano essere il signor Domenico B. (classe 1935) con la gentile consorte Franca P. (classe 1947) e per potere acquistare l’unica casa da loro mai posseduta avevano perfino chiesto un mutuo fondiario in banca. E l’11 maggio 2004, stessa data dell’acquisto dell’appartamentino di via Raffaele Stasi 16, interno 1F, da un giovane romano (Luca.S.), quel mutuo è arrivato. Lo ha fornito il Monte dei Paschi di Siena, stanziando 55 mila euro e iscrivendo ipoteca per il doppio della somma. Il mutuo che in partenza aveva un tasso di interesse annuo del 3,276%, scadrà nel maggio 2019. Ora quell’appartamento da cui Brenda- il cui vero nome era Wendell Mendes Paes - voleva andarsene prima di compiere il suo trentaduesimo compleanno (sarebbe accaduto sabato prossimo), è sotto sequestro giudiziario. La sua planimetria non è censita al catasto ma secondo i rilievi della polizia dopo il delitto il monolocale con bagno ed angolo cottura misurerebbe in tutto 18 metri quadrati, e quindi l’acquisto sarebbe avvenuto con una valutazione oscillante fra i 3 e i 4 mila euro a metro quadrato, e non si sa se nella valutazione della compravendita fosse già compreso quel soppalco un po’ rudimentale su cui è stato rinvenuto il corpo annerito della vittima. Secondo la versione data da altri transessuali che conoscevano Brenda i suoi rapporti con i padroni di casa non erano idilliaci, tanto che lei avrebbe rivelato di essere sotto sfratto. Tutti gli appartamenti ai piani terra, primo e seminterrati appartengono a persone fisiche che in numerosi casi li hanno affittati ai trans. Uno solo è di una società di uno dei più noti costruttori romani proprietaria per altro fin dalla costruzione anche di due palazzi interi nelle immediate vicinanze (uno nella stessa via, al numero 32).
Sulla casa di Brenda da qualche mese erano arrivate anche le ganasce del fisco. La società di riscossione dei tributi del ministero dell’Economia, guidato da Giulio Tremonti, e cioè Equitalia Gerit, aveva infatti iscritto sull’appartamento ipoteca legale il 25 marzo 2009, per una piccola somma: 1.643,92 euro contestata al proprietario, il signor Domenico B. Probabilmente una cartella esattoriale dimenticata che ha fatto scattare le classiche ganasce fiscali (che risultano tutt’ora vive).
C'è una tenaglia che si stringe intorno a Berlusconi. Milano-Firenze-Palermo e in due mosse il cav sarà ko
Le procure italiane stanno cercando con una manovra a tenaglia di mettere in mutande Silvio Berlusconi. Scacco al re in due mosse. Prima mossa, a Milano: processo rapido, più rapido della legge sul processo breve. E già a gennaio l’attuale premier potrebbe trovarsi condannato per corruzione nel caso Mills. Pena accessoria, immediatamente esecutiva: sospensione dai pubblici uffici per anni cinque. Non indultabile in automatico, perché ci sono in corso altri procedimenti. Un missile su palazzo Chigi in grado di mettere fine alla carriera politica del cavaliere. Seconda mossa: Palermo, Caltanissetta o Firenze. Non è ancora chiaro da dove partirà la cannonata decisiva. A Palermo tutto è già pronto: riaperto dopo 15 anni il fascicolo di indagine n.6031/94, pronta la nuova iscrizione per concorso esterno in associazione mafiosa per Berlusconi Silvio+ 13. E in qualsiasi momento può partire la richiesta del pm di sequestro preventivo del patrimonio del Cavaliere. Tanto la tesi giudiziaria è quella scritta e riscritta mille volte nei libelli anti-cav, da Mario Guarino a Marco Travaglio: all’origine della Fininvest ci sono capitali oscuri. Mafiosi.
Attenzione: non è fantagiustizia. E’ quel che si sta preparando, anche se la caccia grossa come è evidente non troverà la preda immobile paralizzata dalla paura. Ma la partita è iniziata. Con un solo obiettivo: lasciare in mutande Berlusconi, e consegnargli solo la magra soddisfazione di rendere del tutto inutili un paio di procedimenti civili che proprio in queste ore si stanno incardinando: quello sulla immediata esecutività della sentenza Mesiano a favore di Cir (sui 750 milioni di euro, il cui pagamento è temporaneamente sospeso, si deciderà a dicembre), e naturalmente quello sulla separazione per colpa del coniuge innescato da Veronica Lario.
Quella delle procure è ormai una tenaglia che si sta stringendo intorno all’inquilino di palazzo Chigi. Verbali di pentiti di mafia stanno facendo il giro di un numero consistente di procure italiane, ogni volta aggiornati con particolari succulenti. Presunte rivelazioni di Gaspare Spatuzza in viaggio da mesi sulla Firenze-Palermo-Firenze e già approdate al processo a Marcello dell’Utri, appena aggiornate da un ultimo paragrafo, quello sul presidente del Senato, Renato Schifani (cui aveva appena mandato l’avviso di garanzia Il Fatto quotidiano). Verbalini di un altro personaggio a cui alla bisogna torna sempre la memoria utile al momento, come Pietro Romeo, quello che di tanto in tanto rivela qual cosina sul Berlusconi mafioso e stragista. Anche loro in viaggio sulla direttissima Firenze-Palermo. Materiale che oltre ad affacciarsi nel processo a Dell’Utri per dare il colpo di grazia sta riempendo di nuovi contenuti quel “contenitore di sistemi criminali” che è il fascicolo 6031/94, inventato nella notte dei tempi da Roberto Scarpinato e Giancarlo Caselli. Lì furono già iscritti per concorso esterno Berlusconi e Dell’Utri per poi finirne archiviati. Ma il fascicolo non si chiude mai, pronto a rinascere come le teste dell’Idra grazie alle leggio speciali anti-mafia che tutto consentono di riaprire. Siamo ai primi passi della caccia, e ci vuole un po’ di coraggio. Perché intorno non c’è più il popolo plaudente e assetato di vendetta di quegli anni lontani e manco c’è più a Palermo un mastino alla Caselli. Chissà che quei verbali, verbalini e fascicoli non riprendano insieme alla richiesta di sequestro preventivo dei beni del Cavaliere la strada per Firenze, dove la procura da tempo sta lavorando ai fianchi il boss decisivo, quel Filippo Graviano nercessarissimo per confermare le accuse a Berlusconi dei pentiti.
L’altra tenaglia, quella milanese, si sta stringendo con assai meno misteri. Ha un solo nemico da infilzare prima che le sbarri la strada, e non è manco così difficile, visto che si tratta di quel disegno di legge sul processo breve che già molti alleati del presidente del Consiglio stanno lavorando ai fianchi. Tolto di messo quello, è sostanzialmente scontata la condanna in primo grado per il caso Mills. Lodo Alfano o meno il processo è già stato istruito condannando l’avvocato inglese e indicando nelle motivazioni non solo il reato (corruzione), ma anche il corruttore: Berlusconi. Ma c’è un passaggio contenuto nella sentenza di primo grado che già scrive la parte più insidiosa per il cavaliere. E’ all’inizio della pagina 368 della decisione giudiziaria: “Ai sensi dell’articolo 29 c.p. deve applicarsi all’imputato la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni. Appare opportuno rimettere alla fase esecutiva del giudizio, anche in relazione alla pendenza a carico dell’odierno imputato di altri procedimenti giudiziari, l’eventuale applicazione del beneficio dell’indulto ex l. n. 241 del 2006, pur astrattamente applicabile nel caso di specie”. Un periodo destinato al “copia e incolla” in caso di condanna di Berlusconi. Il più velenoso, perché anche se impugnato in appello renderebbe più difficile la permanenza del cavaliere a palazzo Chigi e assai imbarazzante sul punto il rapporto con il Quirinale.
Il partito di Bersani è già vecchio. La politica deve staccare dalla Resistenza e dal risorgimento
Da un paio di mesi a questa parte Silvio Berlusconi ha un ambasciatore in più e probabilmente manco lo sa. Eppure è un fiore di ambasciatore, perché fa la spola fra la sua Perugia, dove Paolo Mancini, classe 1948, è Professore Ordinario di Sociologia delle Comunicazioni presso la Facoltà di Scienze Politiche, e Londra. Oxford University, Westminster università, London School of economics. Domani sarà al Reuter institute di Londra a fare da controparte a Carlo De Benedetti. “E mi ha chiamato già un altro conferenziere, John Loyd, credo preoccupato di riequilibrare quel che dirà l’ Ingegnere”. Conferenze, seminari, piccoli corsi universitari. Tutti su un solo tema: Berlusconi e la sua rivoluzione nella politica italiana e non solo. Ad Oxford ha appena tenuto un ciclo di seminari sul tema. Ad ottobre è stato l’ospite centrale in un lungo speciale della tv moscovita in lingua inglese (vista in tutto il mondo), Rt, dal titolo “Lo strano caso di Silvio Berlusconi”. Lo ha difeso con garbo e moderazione, anche sui temi più scivolosi, come la vicenda escort spiegando che questo in Italia è un problema per l’opinione pubblica e le gerarchie cattoliche, non per l’opinione pubblica in generale: perché semmai la maggiore parte degli italiani, ma anche dei russi, degli inglesi, dei francesi o degli spagnoli, vorrebbe essere al posto di Berlusconi Ed è curioso, perché il professore Mancini non è un tifoso del cavaliere. Anzi: in università raccontano venga dalle radici socialiste e sia un moderato di sinistra. Però studia, come racconta lui stesso a Libero il fenomeno politico del cavaliere. E lo esporta come materia davanti agli studenti britannici, spiegando come il modello Berlusconi, seguito da quello Blair e da quello Obama sia soprattutto una rivoluzione nel modo di fare politica e abbia travolto i partiti tradizionali su una via senza ritorno. “Vero”, spiega Mancini, “all’estero c’è un grande interesse verso il fenomeno politico Berlusconi. Ad Oxford il titolo del seminario che ho tenuto era “Behind of the common sense”, cioè al di là del senso comune. E infatti secondo me con il premier italiano c’è qualcosa di molto più importante del senso comune: ed è il mutamento radicale delle forme della politica”. Con lui, sostiene il professore perugino (che invero è nato a Foligno) si segna “la fine dei partiti tradizionali di massa, nel bene e nel male. Con Berlusconi ha preso una strada, con altri che sono seguiti ne ha preso diverse. Ma da lì è finito il modello del partito ideologico di massa”. Eppure quel modello in Italia è ancora forte, e vi pianta le sue radici anche il Pd di Pierluigi Bersani: “Non voglio attaccare dicendo questo”, si schermisce Mancini, “il nuovo partito della sinistra italiana., ma è certo che non avrà più spazio nelle forme che hanno ormai preso la democrazia e la politica. Forme che Berlusconi ha appunto riempito dei suoi contenuti e che Obama ha riempito di contenuti assai diversi. Ma non ha più futuro una forma ideologica di partito”. E cosa saranno allora i partiti del dopo Berlusconi? “Il fatto”, spiega Mancini, “è che ognuno vuole ritrovare se stesso, con la propria vita di ogni giorno, molto pragmatica, nella forma di un partito. Il valore ideologico c’è sempre di meno, è destinato a spegnersi”. Cioè? “Sono a Perugia, la famiglia di mia moglie viene dalle radici più consolidate della sinistra cattolica. Ma quando loro e quelli della loro generazione avranno terminato l’esperienza della resistenza, quando quella generazione sarà scomparsa, si porterà via con sé quelle radici. Mio figlio ad esempio vive una esperienza totalmente diversa, c’è poco da fare. Quei partiti, nonostante sforzi come quello di Bersani, sono assolutamente destinati a scomparire. Sopravviverà nell’area solo qualche esperienza totalmente diversa, pensi a cosa è stato ad esempio il Labour di Tony Blair…”
Ma è Mps (la banca rossa) la preferita da Silvio
E’ il Monte dei Paschi di Siena, quella che scherzosamente viene definita la “banca rossa” per eccellenza, l’istituto di credito prescelto da Silvio Berlusconi e da tutti i suoi figli per la gestione dei propri depositi. Presso l’istituto bancario che ha ancora come primo singolo azionista l’omonima fondazione (gestita da enti locali amministrati dal Pd, per questo banca rossa) la famiglia Berlusconi ha depositato indirettamente poco meno di 350 milioni di euro. Cifra assai superiore ai 19, 6 milioni di euro depositati presso Banca Arner, filiale italiana dell’istituto di credito svizzero, dei 28,6 milioni depositati presso banca Morgan Stanley e dei 28,7 milioni amministrati congiuntamente da Morgan Stanley ed Arner. E’ nel gruppo bancario guidato da Giuseppe Mussari che il premier e i suoi cinque figli hanno lasciato la liquidità che controllano più direttamente: quelle delle holding proprietarie del gruppo Fininvest. Quattro di queste (la prima, la seconda, la terza e l’ottava) sono controllate dal capo famiglia, una a testa (la quarta e la quinta) dai due figli più grandi, Marina e Piersilvio e l’ultima (la quattordicesima) è controllata congiuntamente dai tre figli più piccoli nati dal matrimonio con Veronica Lario: Eleonora, Barbara e Luigi. Non è una sorpresa in sé la predilezione per la banca senese, perché è proprio quella che ha affiancato Berlusconi nei suoi primi passi imprenditoriali, finanziandogli le attività da costruttore. Il dato però stride con le affermazioni contenute nella inchiesta (più annunciata che fatta) trasmessa domenica sera da Report condotto da Milena Gabanelli. Secondo la trasmissione (che conteneva più di una imprecisione) le holding di Berlusconi avrebbero tenuto depositi principalmente nella Arner Bank e la cifra rivelata ammontava a 60 milioni, 50 dei quali appartenenti a Marina e Piersilvio e 10 a Silvio Berlusconi. Non è questa la cifra desumibile dagli ultimi bilanci disponibili, quelli che si sono chiusi al 30 settembre 2008 e che sono stati approvati nelle assemblee delle holding fra fine gennaio e i primi del mese di marzo 2009. Presso Banca Arner i Berlusconi hanno esclusivamente gestioni patrimoniali e nei bilanci si riporta solo la movimentazione dei titoli. La holding quarta che fa capo a Marina non risulta avere più né gestione né deposito in Banca Arner, e probabilmente l’errore di Report deriva dalla consultazione dei bilanci dell’anno precedente (quando Arner era citata in co-gestione con Banca Morgan Stanley, oggi sola depositaria del patrimonio). In un caso, quello della holding quinta di Piersilvio la gestione patrimoniale- di una certa consistenza: 28,7 milioni di euro- è affidata congiuntamente a Morgan Stanley ed Arner, e nell’ultimo anno è riuscita a salvare quasi tutto il capitale amministrato, perdendo solo 197.456 euro di valore (-0,6%). E’ andata di lusso a Marina che con la sola Morgan Stanley è riuscita a guadagnare perfino nel primo anno di crisi dei mercati: 550.037 euro di capital gain (+6.3%). La primogenita di Berlusconi , che sicuramente ha un fiuto particolare per gli affari, è riuscita in questo modo a investire parte della liquidità azzeccando due colpacci nell’ottobre 2008: prima ha acquistato130 mila azioni Mediaset e poi 120 mila azioni Parmalat spa. Su Mediaset alla data di ieri aveva guadagnato 136.378,55 euro (e cioè il 27,47% di capital gain in un anno) . Su Parmalat Marina ha guadagnato 91.882,91 euro (una sorta di botto di questi tempi: il rendimento in soli 12 mesi è stato del 60,56%).
Dovrebbe imparare da Marina papà Silvio che invece con Banca Arner ha perso in un anno più o meno la stessa somma in valore assoluto guadagnata dalla figlia (-3%). Più prudenti invece i tre figli più piccoli: hanno lasciato il grosso della liquidità (111,6 milioni) sul conto bancario Mps e hanno preferito evitare di fare scommesse sui mercati: 5 milioni li hanno affidati in gestione tranquilla al fondo Sator di Matteo Arpe, altri 4,3 milioni li hanno investiti nel capitale di una società di biotecnologie già controllata da Fininvest
su silvio la tenaglia pm- figli- Veronica
C’è un nome che sintetizza gran parte dei timori giudiziari di Silvio Berlusconi e che qualche cosa ha anche a che vedere con le vicende di famiglia. Non è il nome di un giudice, non è il nome di una persona. E’ il nome di una banca svizzera. Si chiama Arner bank, e questo marchio apparso già in passato nelle prime inchieste sul gruppo Fininvest-Mediaset, unisce due procure di quelle che al Cavaliere fanno accapponare la pelle. Perché sull’Arner bank indagano sia la procura di Milano (inchiesta sui diritti televisivi e Mediatrade) sia quella di Palermo, dove ufficialmente i due pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia si occupano di riciclaggio di soldi della mafia e per questo motivo hanno fatto arrestare nel 2008 un finanziere italo-svizzero, Nicola Bravetti. Ma le strade delle due indagini si sono più volte intersecate e la documentazione acquisita ha fatto capolino anche durante un processo che è giunto già a sentenza di secondo grado, quello nei confronti dell’avvocato britannico David Mills. E’ un po’ complesso addentrarsi nei particolari. La sostanza però è semplice: presso la Arner bank, per poi dirigersi verso altri porti, secondo i magistrati è passato un fiume di denaro proveniente da attività condotte fuori dai bilanci ufficiali, in nero. Parte di queste attività sarebbero arrivate dai vari business della criminalità organizzata- ed è il filone aperto da Ingroia e Scarpinato. Altra parte dal sistema dei conti esteri off-shore del gruppo Fininvest, ed è la matassa che da anni sta cercando di sbrogliare anche attraverso raffiche di rogatorie la procura di Milano. Con quel materiale sono già stati originati numerosi processi ufficiali in parte chiusi (All Iberian, falso in bilancio Fininvest e primo filone diritti tv) in parte aperti (Mills e Mediatrade). E sono le stesse carte di sempre ad essere utilizzate dalla procura di Milano per aprire nuove ipotesi processuali (appropriazione indebita è l’ultima ipotesi avanzata dal pm Fabio De Pasquale per il sottofilone Frank Agrama). Sono al momento solo voci e illazioni quelle secondo cui il materiale Arner Bank potrebbe essere utilizzato da una procura per unire i due filoni (fondi neri Fininvest e fondi neri mafia spa) trovando punti di contatto e ipotesi di accusa comuni.
Nel mirino di queste inchieste c’è naturalmente Silvio Berlusconi, ma non è l’unico membro della famiglia ad essere lambito dalle ipotesi di accusa. Il malloppone giudiziario sui fondi neri Fininvest ha più volte lambito i due figli di primo letto del cavaliere, entrambi con responsabilità operative in aziende del gruppo Marina e Piersilvio. Nel 2004 nei loro confronti fu aperta una indagine con l’accusa di riciclaggio e ricettazione nell’ipotesi che Marina e Piersilvio fossero beneficiari di fondi neri depositati sue due conti bancari: il Century One e l’Universal One. Due anni dopo gli stessi magistrati hanno archiviato tutto, sostenendo che Piersilvio e Marina fossero troppo giovani e quindi dei semplici prestanome senza responsabilità dirette. Ma i nomi dei due figli di primo letto di Berlusconi sono riapparsi fra le carte del processo Mills e fra quelle del filone di inchiesta su Frank Agrama. L’ipotesi è sempre la stessa: che nel sistema estero del gruppo Fininvest e in particolare nella compravendita dei diritti televisivi con le major cinematografiche americane (il lavoro di Agrama) si fossero creati fondi neri in parte destinati a pagare i mediatori e in parte proprio a fare arrivare redditi esentasse a Berlusconi e ai suoi primi due suoi figli. Per ora è solo un filone nelle varie inchieste, ma è quello che più irrita e preoccupa il Cavaliere, che si indigna in pubblico e in privato per il coinvolgimento dei suoi figli. Anche perché sa dove portano queste ipotesi giudiziarie: a possibili condanne e pene accessorie in grado di togliere non a Berlusconi, ma ai Berlusconi quanto creato dal cavaliere nella sua vita.
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