Ci sono ancora 61 tasse di Bersani del 2006 che Berlusconi ha conservato e perfino aumentato

Una l’ha cancellata Silvio Berlusconi: l’Ici sulla prima casa. Cinque sono cadute per esaurimento naturale. Ma a 37 mesi dal loro varo sono ancora in vigore, qualcuna addirittura rinvigorita, 61 delle celebri 67 nuove tasse inventate nel 2006 dal governo di Romano Prodi, Vincenzo Visco e Pierluigi Bersani. Le mise l’Ulivo, non le ha tolte più nessuno (perché introdurle è facilissimo, per il centro sinistra quasi una gioia, ma poi trovare le coperture per abolirle è sempre complicato e ci vuole coraggio). Anche se contro quelle 67 nuove tasse il 2 dicembre 2006 l’allora Casa delle Libertà portò in piazza a Roma due milioni di persone. Forse Bersani ha pensato di chiudere il problema facendo fuori dai vertici del suo partito e mettendo per un po’ in quarantena l’amico Visco (che lo ha comunque appoggiato nella corsa alla segreteria). Forse Berlusconi ha immaginato che fatta quella manifestazione e tornato al governo tutte sparissero di incanto. Forse i contribuenti italiani si sono perfino abituati e con i tempi che corrono pensano più a coprirsi le spalle dal rischio di nuove gabelle: non averne avute è già un piccolo successo. Ma le 61 tasse del 2006 sono tutte ancora lì a sfilare risorse preziose dal portafoglio degli italiani. Quel lontanissimo 2 dicembre non pochi dei simpatizzanti berlusconiani indossarono uno dei tanti gadget predisposti per l’occasione: una t-shirt con sopra scritto: “ 67 nuove tasse. Padoa… Schioppa. E io pure!”. Tremonti euforico pronosticò: “Ha ragione Berlusconi. Ci sarà molta gente. E' una Finanziaria che scontenta tanta, tanta, tanta gente, anche fra quelli che hanno votato a sinistra”. E davanti ai due milioni di persone anche il compassato futuro ministro dell’Economia sbottò euforico: “Solo un demente, come quello che sta adesso al governo, poteva pensare di fare più spesa pubblica con più tasse”. Poi si scusò: “Ho esagerato, ma siccome lui in passato mi ha dato del delinquente politico, me lo posso permettere”. Quello stessa euforia tre anni fa che sembrano più di una vita contagiava anche il leader numero due del centro destra, Gianfranco Fini, convinto che arringava la folla contro le supertasse pronosticando: “così la Cdl è destinata a vincere e a dimostrare che la sinistra sarà battuta, ne siamo certi”. Ma 37 mesi dopo le 61 tasse sono lì come un macigno, e nemmeno tutte come allora. Qualcuna è perfino peggiorata con il centro destra al governo, divenuta più pesante di quel che era grazie ad automatismi di cui tutti pèaiono essersi dimenticati, e non è certo bandiera da sventolare. L’Irpef più cara voluta da Vincenzo Visco è con le stesse aliquote introdotte nel 2006. Voleva aiutare i contribuenti con meno reddito, ma le menti del Nens (il centro studi di Visco e Bersani) e i tecnici dell’Ulivo sbagliarono tutti i calcoli. Così il fisco portò via una parte di stipendio perfino a chi guadagnava mille euro al mese e certo non poteva essere considerato un ricco da fare piangere. Le detrazioni che sostituirono il sistema di deduzioni introdotto da Tremonti non sono state più modificate. Il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte allora avversato è restato in vigore fino alla sua scadenza naturale, a fine 2009. La possibilità per i comuni di aumentare l’addizionale Irpef non è stata revocata. La criticatissima tassa di scopo (Iscop) concessa agli enti locali per piccole opere pubbliche non è stata mai abolita (e viene oggi usata, sia pure da piccoli comuni: il più grande è Rimini). Tuoni e fulmini accompagnarono la decisione di Prodi & c di introdurre una addizionale di 50 centesimi a passeggero sui diritti di imbarco sugli aeromobili. Con il Pdl al governo non solo non è stata abolita, ma è aumentata di un ulteriore euro a passeggero per pagare la crisi Alitalia. Nulla è cambiato in meglio su rendite catastali, tariffe per il rilascio del visto di soggiorno, tassazione sui tabacchi lavorati, tasse ipotecarie che Prodi introdusse e aggravò e che i tecnici di Berlusconi inserirono nella lista dei 67 misfatti fiscali contro cui manifestare. Sono restate immutate le norme introdotte sul Tfr, mentre l’aumento della pressione contributiva che fece gridare allo scandalo il centro destra non solo non è stato abrogato, ma è stato addirittura aggravato e in modo sensibile. Proprio grazie a una norma contenuta nella legge Visco-Bersani nel 2006 l’aliquota per le gestioni degli artigiani e dei commercianti era del 19%. Oggi è del 20 per cento. Fu fatta salire al 23% l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps per i lavoratori autonomi che esercitano attività professionale o di collaborazione e al 16% per gli altri iscritti. Nel 2009 la prima è schizzata al 25% (e al 26% dal primo gennaio 2010), la seconda al 17%. Un aumento secco della pressione contributiva, contro il popolo delle partite Iva, considerato da Bersani e Visco un nemico di classe, ma dimenticato anche dal centrodestra. Non l’unico caso. Perché l’elenco delle nuove tasse dimenticate da Berlusconi & c in questi primi 20 mesi di governo è lungo, e potrebbe simbolicamente culminare con quella nuova tassazione Visco sulle donazioni e le successioni che solo pochi anni prima il Cavaliere no tax (ormai un pallido ricordo) aveva inutilmente disintegrato: oggi però a comandare è il fisco- vampiro della sinistra, non quello liberal del centrodestra restato solo nell’inchiostro dei pamphlet e dei programmi elettorali. I 61 fantasmi di Prodi però ogni giorno continuano ad infilarsi nelle tasche degli italiani e a ricordare agli elettori di Berlusconi che di tempo non ne resta molto: il 2010 non può essere l’anno dei grandi disegni di riforma, ma finalmente l’anno delle forbici fiscali. Non inchiostro, ma meno tasse per tutti finalmente.

Colpo dei boiardini da 100 milioni contro Tremonti. Sventato in extremis

Ci hanno provato. In barba alla crisi economica, migliaia di professori e piccoli boiardi di Stato insieme ai loro sponsor politici hanno tentato un colpo da circa 100 milioni di euro ai danni di Giulio Tremonti e delle casse pubbliche. Zitti zitti infatti boiardini e consulenti nel 2009 hanno tentato di riprendersi quel 10 per cento di compenso che era stato loro tagliato fra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, proprio in mezzo alle prime polemiche sui costi della Casta. Il colpo dell’anno è stato probabilmente sventato – con grande ritardo e sicuri danni- dalla Ragioneria generale dello Stato che ha messo uno stop a quell’esercito di professori, manager politici e professionisti abituato ad arrotondare il proprio stipendio con una attività extra per la pubblica amministrazione, che aveva deciso di aumentarsi lo stipendio bis con un blitz dal primo gennaio 2009. Era stato il governo di Silvio Berlusconi con la legge finanziaria 2006 e poi quello di Romano Prodi a decidere ampliando via via la platea di tagliare del 10 per cento gli importi delle consulenze pubbliche: indennità, compensi, gettoni di presenza, retribuzioni o “altre utilità comunque denominate”. Quella stessa legge finanziaria che aveva costretto a tirare la cinghia l’esercito dei consulenti pubblici (censito da Renato Brunetta in 251.921 unità per un costo annuo di un miliardo e 323 milioni di euro), scriveva che i risparmi ottenuti per un triennio sarebbero dovuti confluire nel Fondo nazionale delle politiche sociali. I tre anni sono appunto finiti all’inizio del 2009, e il passa parola è subito partito all’interno della amministrazione pubblica: finite le ristrettezze, si torna a guadagnare come un tempo e chissenfrega dei guai dell’economia nazionale e internazionale. Qualche amministrazione ha interpretato da sé le norme e restituito quel 10 per cento ai propri consulenti, qualche altra si è fatta uno scrupolo di coscienza, provando almeno a chiedere conferma della novità al ministero dell’Economia prima di riallargare i cordoni della borsa. La burocrazia però ha i suoi tempi infiniti e le leggi sono così confuse che la Ragioneria generale dello Stato a cui era stata demandata la risposta ufficiale, ci ha messo i suoi bei mesi per fornirla. E solo alla vigilia di Natale, il 17 dicembre scorso, quando probabilmente molti buoi (in questo caso molti euro) erano già scappati dalla stalla, dall’Ispettorato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, è partita la circolare 32 indirizzata con la massima urgenza a tutti i ministeri, le amministrazioni autonome, gli istituti pubblici, gli enti economici e non economici e gli enti locali per spiegare che no, quell’aumento del 10 per cento ai consulenti non poteva essere erogato. “Alcune amministrazioni”, scrive la Ragioneria, “ritengono che decorso, dal primo gennaio 2009, il termine triennale di vigenza delle sopraindicate disposizioni possa essere ripristinata, nella sua originaria entità, la misura dei compensi sopra indicati”. E invece si sbagliano e di grosso tutti quelli che avevano immaginato di ridare quel 10 per cento in più almeno a tutti i “componenti di organi di indirizzo, direzione e controllo, consigli di amministrazione e organi collegiali comunque denominati presenti nelle amministrazioni pubbliche”, per i quali la riduzione dei compensi era scattata già dal gennaio 2006. Un po’ in burocratese, e con 11 mesi di ritardo, la ragioneria ha spiegato che “nel contesto sistematico di una serie di misure dirette ad assicurare il contenimento strutturale della spesa per gli organismi collegiali, si ritiene che non sussistano i presupposti per rideterminare, in aumento, le misure dei compensi stabiliti al 30 settembre 2005 e ridotti del 10%”. L’esercito di professori, professorini e piccoli boiardi che affollano consigli di amministrazioni e comitati pubblici, dovrà accontentarsi quando bene di avere mantenuto l’incarico, e probabilmente anche restituire l’eventuale aumento indebitamente ricevuto nel 2009 prima della risposta ufficiale del ministero

Duecentomila euro per evitare lo tsunami Gabanelli

Una società pubblica, appartenente al gruppo Enel, la Sogin spa, ha investito 200 mila euro per proteggere il proprio amministratore delegato, Massimo Romano, da un’inchiesta di Report e della sua conduttrice, Milena Gabanelli. Una cifra che vale circa 5 volte il costo medio di una puntata di Report (42.600 euro) e che comunque ha raggiunto il suo obiettivo: grazie all’intensa attività di lobbing dei consulenti arruolati per arginare e ammorbidire la Gabannelli, Romano e la sua gestione Sogin sono rimasti fuori dall’inchiesta andata in onda il 2 novembre 2008. L’incredibile vicenda emerge fra le pieghe di un procedimento giudiziario in fase istruttoria ancora nel dicembre 2009, intentato a Report e alla stessa Gabanelli (perfino con esposto all’ordine dei giornalisti, subito archiviato) da una delle vittime di quella puntata sul ritorno del nucleare, un deputato della Lega Nord, Massimo Polledri. Sentendosi diffamato da un passaggio di quella trasmissione, Polledri ha prodotto in giudizio faldoni di materiale sui contatti fra Report e Sogin e altrettanto ha fatto a sua difesa la Gabanelli, che ha contestato anche il testo di una mail che poteva sembrare imbarazzante per l’autonomia della conduttrice (testo che invece sembrerebbe artefatto). Ma le carte processuali raccontano comunque una vicenda assai interessante. La puntata di Report andata in onda il 2 novembre 2008 a cura del giornalista Sigfrido Ranucci con il titolo “L’eredità”, è stata preparata lungamente prima dell’estate. E ha rischiato di fare dormire sonni poco tranquilli al povero Massimo Romano, amministratore della Sogin nominato a quell’incarico nel 2007 durante il governo di Romano Prodi. Per evitare rischi, Romano è andato a contattare un pool di consulenti di immagine e comunicazione, firmando alla fine un contratto da 200 mila euro più 20 mila euro di rimborsi spese con uno dei massimi professionisti del settore: la Ad hoc communications di Mario Pellegatta. Il contratto formalmente aveva ad oggetto una consulenza generica, ma nel rapporto fatto arrivare a Romano dopo lo scampato pericolo del 2 novembre è risultato chiaro come la sostanziale missione fosse proprio quella di annullare il rischio Gabanelli. Ad hoc, che già aveva avuto rapporti professionali precedenti con Romano e Sogin, firmò il nuovo contratto con validità dal primo luglio 2008, proprio mentre Report stava girando l’inchiesta sulla gestione delle scorie nucleari avanzando rilevanti dubbi proprio sul ruolo di Sogin e su eventuali violazioni della legge esistente da parte della società pubblica. Grazie alla capacità dei consulenti, per evitare un danno di immagine a Romano e alla società, si riesce a combinare un incontro faccia a faccia con la Gabanelli, probabilmente conviviale, comunque fissato per le ore 13,30 del 17 luglio 2008 all’hotel de Russie, uno dei più esclusivi di Roma, a pochi metri da piazza del Popolo. A 24 ore dal faccia a faccia con la Gabanelli il consulente di Sogin, Mario Pellegatta, inviò una mail a Romano con un dettagliato rapporto sull’inchiesta che stava conducendo la trasmissione Rai e l’annotazione “in preparazione incontro di domani”. Il rapporto, comprensibilmente, era più che altro un elogio sul lavoro compiuto da Ad Hoc per allenare i dipendenti e dirigenti Sogin a rispondere alle domande del giornalista di Report. Allenamento che sembrava avere dato i risultati voluti: “alle domande critiche”, sosteneva la relazione a Romano, “gli intervistati hanno risposto senza offrire appigli o elementi deboli”. Si elencavano poi le domande fatte arrivare per iscritto alla società pubblica dal giornalista di Report, e i suggerimenti ulteriori forniti dai consulenti, tipo: “Sono da evitare frasi con espressioni improprie. La telecamera è sempre accesa (…) “. Fornita anche un’avvertenza strategica: mai fidarsi della correttezza professionale della Gabanelli e dei suoi collaboratori: “Il giornalista utilizza i cosiddetti tempi morti fra una ripresa e l’altra o durante le pause per rifocillarci, per trattare temi critici che avrebbe intenzione di approfondire. Non abbiamo la certezza che nelle sue borse (in particolare nello zainetto che ha sempre con sé) non vi sia un microfono nascosto. Occorre quindi limitare le conversazioni con il giornalista allo stretto necessario o a temi di conversazione banali e quotidiani…”. L’incontro al De Russie probabilmente ha avuto l’effetto sperato da Romano. Tanto che prima di andare in onda con l’inchiesta, la Gabanelli offre all’amministratore delegato della Sogin la possibilità di una intervista, che viene però (su consiglio dei consulenti) cortesemente rifiutata, inviando una breve dichiarazione alla conduttrice che per mail assicurò “ne daremo conto”. Il 2 novembre andò in onda la puntata tanto temuta. Dura, e non poco, con Sogin, che viene infilzata sia da studio che durante l’inchiesta condotta sul campo, sempre riferendosi però a presunte colpe dei manager che precedettero Romano, in testa il generale Carlo Jean nominato da Silvio Berlusconi qualche anno prima. Anche quando vengono rilevate criticità contemporanee, non una parola di Report è spesa a critica della gestione Romano: contro la società sì, ma contro il manager mai. Successo quindi raggiunto: con quei 200 mila euro messa alla berlina Sogin ma salvato il suo capo azienda, che a quello puntava. Inutile dire che il giorno dopo il trionfo sarebbe stato celebrato in un carteggio fra Sogin e i consulenti di Ad Hoc, dove questi ultimi tripudiavano: “alla luce della puntata di Report andata in onda ieri, 2 novembre 2008, è evidente che la strategia e i processi di comunicazione hanno raggiunto gli obiettivi che si proponevano, ovvero: proteggere la grande professionalità dei tecnici, sottolineare la discontinuità fra le gestioni precedenti e l’attuale, limitare gli errori di comunicazione che erano emersi nelle passate puntate”. Insomma con soldi pubblici una società pubblica ha pagato una somma consistente per ammorbidire (riuscendovi) l’inchiesta di una trasmissione della tv pubblica, pagata con soldi pubblici, per difendere la sola questione privata esistente: il buon nome di un manager nominato dal centro sinistra che pur di salvare se stesso ha accettato di fare andare a fondo la società che avrebbe dovuto difendere. Una storia davvero tutta italiana.

Tremonti fa il Babbo Natale del Csm

La vera sorpresa è arrivata l’ultima settimana a palazzo dei Marescialli. Ai membri del Consiglio superiore della Magistratura, a poche ore dal Natale, è stato il segretario generale dell’organo a rilevanza costituzionale, Carlo Visconti, a portare la buona novella: “Giulio Tremonti ha cambiato idea. Arrivano due milioni di euro in più in cassa”. Un vero e proprio regalo di Natale in anticipo per Nicola Mancino & c, che ormai vi disperavano: nonostante i tagli draconiani imposti fin dal suo primo giro davanti alle Camere dalle tabelle di bilancio allegate alla finanziaria, il durissimo Tremonti si è fatto commuovere dai magistrati. Loro chiedevano una integrazione di bilancio di 5 milioni di euro, le porte sembravano chiuse, ma alla fine la notizia dei due milioni di euro in arrivo ha fatto sorridere tutti. Forse almeno per Natale i magistrati saranno un po’ più buoni con il governo che tanta generosità ha mostrato nei loro confronti. Tanta, anche perché quella del Csm non è proprio una storia di povertà alla San Francesco di Assisi. Basti pensare che per fare funzionare il parlamentino dei giudici togati e non togati che con cuore assai tenero controllano e puniscono (praticamente mai) le malefatte della categoria nel 2001 bastavano 18,9 milioni di euro. La cifra è lievitata nel bilancio di previsione 2009 (solo contributo pubblico, perché di entrate ce ne sono altre) a 29,6 milioni di euro, con un aumento percentuale del 56,7%. Insomma, non erano gli alti papaveri della magistratura i primi a doversi lamentare per la rigidità della crisi, tanto più che per loro tirare un po’ la cinghia non sarebbe stato un dramma: il grosso del bilancio- a parte gli stipendi- se ne va a pagare spese di viaggio e “formazione” di componenti e dipendenti. Ma proprio il loro caso segnala la svolta natalizia del ministro Tremonti. La trasformazione dell’arcigno custode dei conti e forzieri pubblici in un Babbo Giulio Natale è stata per altro più che evidente in Senato in occasione dell’approvazione in terza lettura della legge finanziaria. A palazzo Madama il governo non ha messo la fiducia nel testo, anche se non ha concesso alcun tipo di modifica per non dovere tornare alla Camera per la quarta lettura. Qualche maldipancia più nella maggioranza che nell’opposizione è sbucato fuori qua e là. In commissione difesa anche più di un maldipancia, con un intervento assai pesante da parte del relatore Luigi Ramponi (Pdl- ex An) molto critico sulla decisione di spostare fondi dei militari a tamponare i problemi di bilancio di Gianni Alemanno al comune di Roma. Ma in mezzo alle baruffe e pur dovendo spostare ogni decisione concreta all’anno prossimo, è arrivata la strenna natalizia del vice-Tremonti, Giuseppe Vegas. E’ stato l’uomo della finanziaria nella commissione Bilancio ad accettare- come mai era avvenuto in questi anni- tutti gli ordini del giorno di maggioranza e opposizione, perfino quelli bocciati in altre commissioni proprio per la perplessità del governo. Un dono di Natale (gli ordini del giorno impegnano il governo formalmente se non sono accettati come seplice raccomandazione) inatteso ai più. Anche perché nella lista delle richieste che il governo ha detto “esaudirò, non subito, ma esaudirò”, c’è davvero di tutto, e non proprio di poco conto: riforma dell’Irpef, limatura dal 2010 di un po’ di Irap, revisione di quegli studi di settore che da anni sono diventati un incubo per le partite Iva, estensione della cedolare secca sugli affitti -che in finanziaria è prevista per la sola provincia de L’Aquila- in via sperimentale già nel 2010 su tutto il territorio nazionale con una prima possibilità di detrazione delle spese sostenute per il canone di locazione della prima casa. E come capita con i regali di Natale, il governo promettendo di esaudire non ha separato letterina da letterina, accettando davvero di tutto: dalla richiesta di rimettere qualche soldarello nel Fondo unico per lo spettacolo, a quella di finanziare la partecipazione delle scuole ai prossimi giochi della Gioventù, fino alla assicurazione che l’anno prossimo verranno integrati i fondi delle associazioni combattentistiche. Una rivoluzione copernicana per Tremonti. Che ha commosso tutti, con questo suo cuore improvvisamente grande come un melone. Ma chissà quanto durerà…

Sei di Libero? Allora io non ti curo

Venerdì scorso sono scivolato in moto su un tratto ghiacciato di strada. Mi ha raccolto l’ambulanza e portato nell’ospedale più vicino. Al pronto soccorso, fatti i primi esami un medico di turno mi ha imbragato la gamba destra. Finendo la fasciatura a un ginocchio assai malridotto, mi ha chiesto che mestiere facevo. “Giornalista? A Libero? Doveva dirmelo prima, non l’avrei medicata”. Non era una battuta, tanto che poi ha filosofeggiato pure sul perché. Tornato dopo l’operazione al ginocchio, ho aperto il mio blog che tengo da qualche anno mettendovi tutti gli articoli che scrivo. Faccio il giornalista da 28 anni, ho lavorato in più testate. Cerco notizie, quando le trovo le offro ai lettori. E ho avuto la fortuna di potere dire anche quel che penso. Da settembre- cioè da quando sono venuto a lavorare a Libero- i commenti sono assai simili. L’ultimo è esemplificativo: “Sparati” e l’invito è esteso ad altri colleghi di questo giornale, compreso il suo direttore, Maurizio Belpietro, e chi lo aveva diretto prima, Vittorio Feltri. “Sparatevi”, ed è una carineria rispetto al solito. Su facebook ho circa 6 mila “amici” e non pochi se ne sono andati: “ah, la stimavo. Ma da quando è a Libero non più”. Insulti e sberleffi, gruppi che nascono per eliminare il politico o il giornalista che non piace sono pane quotidiano in quel mondo virtuale dove pochi per altro si presentano a volto scoperto, rubando identità altrui o indossando maschere di fantasia. Sì, c’è un odio montante in giro che non ricordavo dai tempi della scuola e dell’università, che ho fatto fra la metà degli anni settanta e la metà degli anni ottanta. Una differenza c’è, ed è che mai l’odio è stato tanto stupido come quello che gira adesso. C’è sempre stata una componente di stupidità enorme dietro odio e violenza politica. Ma si accompagnavano a qualcosa di reale: una frattura fra generazioni, una distanza siderale del potere dalla realtà, una serie di disagi realmente e largamente vissuti. Quello di oggi è solo stupido e basta. Nuota nel nulla, corre attraverso le reti virtuali, trova per strada leader vuoti e inconsistenti come raramente è accaduto. Non è meno pericoloso, perché guardate cosa ha combinato negli anni la stupidità negli stadi italiani. Ma è odio di quel genere lì, che in fondo gira tutto esclusivamente intorno a una persona, quella di Silvio Berlusconi. Ed essendo stupido e impolitico, si sparge su qualsiasi tentativo di ragionare sui fatti e sulle cose al di fuori di quello schema pro o contro Silvio. Così può perfino capitare che con quello schema l’odio prenda nel mirino di volta in volta un Pierluigi Bersani o un Enrico Letta o un Antonio Polito che semplicemente da sinistra provano a ragionare. E al contrario santifichi nel modo più impolitico e strumentale possibile un Gianfranco Fini solo finchè si immagina lui possa essere la leva ideale con cui rovesciare Berlusconi. C’è stata leggerezza che purtroppo ha accompagnato questa stupidità coccolandola e facendola crescere per un piccolo tornaconto personale. Lo ha fatto Antonio Di Pietro, politico dalla mono-idea (il partito della fedina penale) non in grado di andare al di là di quell’orizzonte, e insieme a lui ha provato a mettersi alla testa del movimento degli stupidi organizzati anche qualche leader più fragile culturalmente e politicamente della sinistra, come Dario Franceschini e Rosy Bindi. Poi si è infilato in mezzo qualche regista, attore, conduttore, scrittore e giornalista che semplicemente sulla stupidità organizzata ha trovato il modo di campare meglio, magari facendosi una villa in più al mare. Ma è solo business, oggi spreme gli stupidi, domani spremerà qualcun altro. Poi c’è qualcosa di più serio e meno stupido, ed è quella parte di elite italiana che per via democratica mai è riuscita a raggiungere il potere (al massimo ha piazzato qualche suo esponente) e che da sempre cerca di farlo in modo illegittimo: è la vera cupola d’Italia, e dentro ha il cosiddetto partito di Repubblica, qualche manipolo di intellettuali, un po’ di finanza, un po’ di magistratura deviata, gli utili idioti del momento che alla bisogna vengono scaricati. Non c’è dubbio che le fila di questo nuovo clima che ha portato al fattaccio domenicale di piazza del Duomo, alla caccia al ciellino all’università di Milano, alla violenza e all’odio che qua e là stanno esplodendo, da quella cupola siano state tirate. Fecero così con i Forlani i Craxi e gli Andreotti, risparmiarono De Mita e Prodi ritenendoli utili ai loro disegni, dal primo giorno hanno ripuntato i cannoni su Berlusconi e chiunque gli si avvicini. E’ il nulla che riempe questo odio che sgomenta, non la contrapposizione, non la diversità di idee, lo scontro anche aperto sui problemi che toccano la nostra vita quotidiana. Non credo che si esca da questo clima con appelli alla pacificazione che sembrano tanto per bene ma sono falsi e traditori. Se ne esce riempendo di contenuti veri la diversità, con una politica che si riappropri dei suoi spazi reali e abbandoni quelli virtuali. Ci si scontri, ma sul senso della vita e su come costruire un modello di società. Non su questo o quell’uomo, ma sul significato della realtà. E se ne uscirà.

C'è un processo che ha Di Pietro contro Berlusconi. Il pm è Santoro. Le carte sono in mano a Fini. E non è fiction

C’è un processo che prevede un presunto colpevole, e qui non si fatica ad immaginare: è Silvio Berlusconi. Ha una parte offesa che ha denunciato il premier, e anche qui sembra tutto scontato: si tratta di Antonio Di Pietro. Ha naturalmente un pm che accusa, che si chiama Santoro. E qui la novità è solo che non si tratta di docu-fiction: non è un processo televisivo, ma un processo vero. E per il pm Santoro si tratta di banale omonimia: non c’è parentela con il Torquemada della tv di Stato. Il processo si sta svolgendo a Bergamo, tribunale presso cui Di Pietro circa un anno fa ha querelato Berlusconi dopo una puntata di Porta a Porta in piena campagna elettorale 2008 in cui il leader del Pdl aveva apostrofato così l’ex pm: “E’ un emerito bugiardo che non ha nemmeno la laurea valida”. Da lì appunto querela e processo. Che è già stato congelato in conseguenza del lodo Alfano, ma è ripreso il 18 novembre scorso in una breve udienza preliminare davanti al gip Patrizia Ingrascì in cui non si sono presentati né querelante né querelato (entrambi per legittimo impedimento) e a dire il vero nemmeno i due avvocati di fiducia (Sergio Schicchitano per Di Pietro, Niccolò Ghedini per Berlusconi), che si sono fatti sostituire da due giovani corrispondenti del foro locale. Pochi minuti d’udienza, per accogliere la richiesta della difesa, e cioè verificare con la Camera se Berlusconi dava del bugiardo a Di Pietro coperto o meno da immunità parlamentare. E poi intero fascicolo messo in busta e spedito il 25 novembre scorso con destinazione Camera dei deputati. La posta fra istituzioni non deve essere un modello di efficienza, perché per amara ironia del caso quel fascicolo giudiziario, quello con Di Pietro parte offesa, Berlusconi presunto colpevole e Santoro pubblico ministero, è arrivato nelle mani del presidente della Camera, Gianfranco Fini lunedì 14 dicembre, il giorno dopo l’aggressione a Berlusconi in piazza del Duomo a Milano. Nel bel mezzo della bagarre parlamentare fra Pdl e lo stesso Di Pietro che con toni da querela e controquerela stavano appunto commentando i fatti della domenica milanese. Per altro al “bugiardo” dato da Di Pietro a Berlusconi era subito arrivato come contro-risposta un “bugiardo” di Di Pietro a Berlusconi, ed era stata immediatamente annunciata una contro-querela che però mai è stata presentata. Più volte Di Pietro ha presentato in questi anni querele a Silvio Berlusconi perfino di fronte a giudizi generici sulla magistratura che non lo citavano direttamente. Al contrario, pur essendosi sentito dare del “bugiardo”, del “corruttore”, del “criminale” e anche del “mafioso”, Berlusconi ha annunciato querela a Di Pietro ma poi l’ha presentata in una sola occasione, assai recente, quando durante la campagna per le europee il leader dell’Italia dei Valori definì il premier “un magnaccia di veline”. Il processo è a Campobasso, dove il gip in prima battuta ha ritenuto subito non meritevole di alcuna considerazione la querela di Berlusconi (“magnaccia di veline” non sarebbe stata offesa politica). Ghedini però è riuscito a opporsi alla archiviazione del fascicolo e a tenere in piedi un procedimento che probabilmente mai si farà. Per altro se non ci sono molte querele contro Di Pietro- nonostante il linguaggio colorito più volte usato che certamente porterebbe un giornalista diritto a supercondanna- è perché si sa già in partenza che le azioni giudiziarie sarebbero inefficaci. Difficile trovare un collegio di magistrati che dia torto a un ex magistrato a capo del partito dei magistrati. Non solo: l’unica volta che per Di Pietro qualche rischio ci sarebbe stato, perché a querelare era un altro magistrato come Filippo Verde, il leader dell’Italia dei valori ha alzato immediatamente zitto zitto lo scudo che aveva a disposizione in quel momento: quello dell’immunità da parlamentare europeo, che lo ha tolto dalle pesti nella primavera scorsa. L’unica volta in cui avrebbe potuto dimostrare di razzolare come predicava, rifiutando l’immunità parlamentare e diventando davanti alla legge un cittadino come tutti gli altri, Di Pietro ha scelto la comoda pelliccia dell’immunità. E chissenfrega dei suoi di pietrini delusi.

Altro che lottizzazione! Il Pd Zingaretti a Roma si compra un pezzo di tg (con i soldi di tutti)

Il prezzo è tutto da valutare. Con 24 mila euro Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, si è comprato un servizio nel tg dell’ora di punta di una delle più importanti emittenti regionali del Lazio, Gold tv. Una ricetta che potrebbe aprire importanti strade anche a livello nazionale, senza bisogno di troppe leggi sulla par condicio. Invece che lamentarsi della scarsa o cattiva informazione dei vari tg è più efficace comprarsi un servizio al giorno, e così’ ci si toglie ogni problema di torno. Secondo la determinazione dirigenziale n. 6910/2009 che porta la data del 29 ottobre 2009 a firma del dirigente del servizio Ufficio stampa e informazione della provincia di Roma, Emanuele Maria Lanfranchi, con 24 mila euro versati un un’unica selezione a Gold Tv, sede di Terracina (peraltro provincia di Latina) Zingaretti e i suoi assessori hanno ottenuto “la messa a disposizione di una troupe, composta da un cameraman e un giornalista, per la realizzazione di un servizio televisivo al giorno sull’iniziativa giornaliera, segnalata dallo scrivente servizio, o, meglio, fra le tante iniziative, su quella ritenuta dalla Amministrazione provinciale più importante, che verrà montato e palinsestato all’interno del notiziario Gold Tg”. Non si era mai visto fin qui scrivere nero su bianco addirittura su una delibera di un organo istituzionale come la provincia di Roma un patto leonino del genere contro la libertà di informazione (quella stessa libertà contro cui il Pd di Zingaretti era sceso in piazza insieme a Fnsi e Cgil qualche settimana prima). Per i 24 mila euro Gold tv ha accettato in più l’obbligo di “rigraficare ed inserire, in coda ad ognuna delle quattro edizioni del Gold tg del sabato, il tg denominato Provinz, prodotto dalla amministrazione provinciale”. Almeno in questo caso è meno nascosto al pubblico il carattere di comunicazione istituzionale e non redazionale del notiziario. Ma per il servizio da inserire nei Gold tg nessun avviso viene dato al telespettatore sul carattere esclusivamente promozionale (pagato come una pubblicità) e non informativo del servizio che va in onda. Basta scorrerne qualcuno per comprendere per altro come non si sprechino nel servizio comprato da Zingaretti lodi e iperboli verso la buona amministrazione provinciale. Il pezzo di tg per altro è stato acquistato dalla provincia di Roma non solo in barba a qualsiasi regola deontologica e alle regole base dell’ordine dei giornalisti, ma anche in assenza di ogni tipo di gara. Nella determinazione dirigenziale sopra ricordata si spiega solo che Gold tv ha ricevuto nel 2007 un premio Corecom per il migliore tg del Lazio (chissà se sapevano che i servizi venivano venduti), che la rete copre la provincia di Roma e che “l’esclusività della proposta e la rilevante specificità del proponente negli ambiti peculiari di realizzazione delle attività progettuali, permettono di individuarlo come unico interlocutore idoneo a garantire lo svolgimento di tutte le attività predette”. Nella delibera però non è indicata la durata del contratto: fosse annuale, almeno Zingaretti avrebbe comprato un servizio in un tg regionale a buon prezzo. Se invece l’unica indicazione che c’è, e cioè “liquidare la somma di euro 24 mila dietro presentazione di regolare fattura da parte della Gold tv srl” fosse indicativa di un contratto relativo al solo 2009, quell’acquisto di una dose giornaliere di pubblicità travestita da informazione per farsi belli con i soldi di tutti sarebbe anche assai caro.

Pronto? Sono Bagnasco. E Tremonti restituisce i soldi alla scuola cattolica. Messo all'angolo anche da Lupi & c

Alla fine Giulio Tremonti ha ceduto, non avendo per altro molte vie di fuga. Così, con il maxi-emendamento di ieri alla legge finanziaria le scuole paritarie hanno riottenuto quei 130 milioni di euro volati via con i tagli orizzontali del ministero dell’Economia alle tabelle che accompagnavano la manovra di bilancio triennale. Per sciogliere la resistenza del ministro è sceso in campo anche il presidente dei vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco che prima con una telefonata al premier, Silvio Berlusconi poi in un colloquio diretto con Tremonti ha segnalato il rischio di chiusura di molti istituti con una taglio del 25% dei contributi pubblici alla libertà di educazione dei cittadini. L’intervento del cardinale in un momento in cui il governo è assai attento ai rapporti con la Chiesa cattolica (non pochi interpretano anche in questo modo la chiusura del caso Boffo), è giunto a raddoppiare l’assedio parlamentare al ministero dell’economia con una attività di lobbing coordinata dal vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi. Nei giorni scorsi a dire il vero erano stati presentati numerosi emendamenti per integrare il fondo per il finanziamento delle scuole paritarie, e il Pdl in commissione bilancio era convenuto sull’emendamento di Gabriele Toccafondi che restituiva al capitolo l’intera somma tagliata, appunto i 130 milioni di euro. Ma a sorpresa, sia pure per somme inferiori (fra gli 80 e i 100 milioni di euro) erano stati depositati emendamenti di reintegro anche da esponenti di tutti e tre i partiti di opposizione: Udc, Pd e Italia dei valori. Alla fine tutti hanno sostenuto l’emendamento Toccafondi. Il ministero dell’Economia aveva provato a trattare sull’entità del reintegro, vista la pioggia di richieste per ribaltare i tagli su decine di capitoli. Ma dopo la doppia telefonata del capo dei vescovi italiani Tremonti ha ceduto su tutta la linea, accettando anche di ridotare dei 400 milioni di euro saltati con i tagli lineari il fondo di finanziamento del 5 per mille. Su questo appunto era dato per scontato il via libera del ministero dell’Economia, visto che lo strumento non solo è stato inventato da Tremonti e dai suoi consulenti, ma è stato più volte difeso quando altri governi e ministri avevano immaginato di eliminarlo. Sulla scuola privata invece il braccio di ferro fra il ministro dell’Economia e i cattolici non è una novità. Già nel 2004 Tremonti operò un taglio triennale di 154 milioni di euro all’anno sui 530 milioni stanziati, scatenando le proteste della Conferenza episcopale italiana. Anche l’altro anno, tornato al governo, il taglio che infiammò la discussione sulla finanziaria 2009 fu proprio quello alle scuole paritarie, con una formale protesta della Cei che mise in qualche imbarazzo Berlusconi. Riuscì a metterci una pezza la lobby parlamentare trasversale sulla libertà di educazione, anche allora coordinata da Lupi. Ma 30 milioni di euro furono comunque tagliati rispetto alla dotazione. Così Bruno Stenco, direttore dell'Ufficio nazionale della Cei per l'educazione, la scuola e l'università, protestò anche sopra la righe con Tremonti: “Già tre anni ha tagliato e ora lo ripete. La scuola cattolica ha taciuto e quei fondi li abbiamo recuperati anno per anno con emendamenti, con fatica e con ritardi. La Chiesa adesso deve tirare le sue conseguenze perchè senza contributi le scuole dell'infanzia non vanno avanti e di certo rischiano di chiudere”. Altre polemiche sono sorte nella primavera scorsa per una circolare della Agenzia delle Entrate che identificava l’iscrizione alle scuole private come un indicatore di un tenore di vita alto meritevole di controlli e indagini fiscali. Fu considerato un modo per disincentivare l’iscrizione alle paritarie, proprio dopo avere limato i fondi pubblici. Se verrà approvato ora il calumet della pace del maxi-emendamento, il braccio di ferro fra cattolici e Tremonti sulla scuola è comunque solo rinviato di un anno. Lo stanziamento per la scuola paritaria nella tabella triennale per il 2011 indica ora un taglio ben più consistente di quelli ipotizzati negli ultimi due anni: 200 milioni di euro. Ma c’è ancora un anno davanti per accapigliarsi e telefonarsi…

Spatuzza? Non ne dice una giusta sulla Standa. Ma nessuno in un anno ha mai controllato

Per tutta la prima parte degli anni Novanta i magazzini Standa a Palermo sono stati nove. Sei in gestione diretta del gruppo allora controllato dalla Fininvest e tre che avevano solo in franchising il marchio di quella che veniva definita la “casa degli italiani”. La realtà che emerge dai bilanci pubblici Standa 1990-1994 è dunque assai diversa da quella (meglio dire quelle) raccontate dal mafioso pentito Gaspare Spatuzza. Ieri nell’aula bunker di Torino durante l’audizione più attesa dell’anno Spatuzza ha spiegato: “A Brancaccio nel 1990-1991 è stato aperto un supermercato affiliato Standa e la stessa parola Standa mi dice tutto oggi. E’ l'unica a Palermo e nel quartiere Brancaccio. Visto che il signor Berlusconi ha di proprietà della Standa ed è l’unica Standa a Palermo mi sembra un’anomalia". Il ricordo è sbagliato: non uno ma sei erano i magazzini Standa del capoluogo siciliano, e nessuno di questi nel quartiere di Brancaccio. Lì invece aveva sede uno dei tre negozi in franchising. Ma su quello che viene ritenuto l’argomento chiave per provare i rapporti fra il gruppo di Berlusconi e i boss palermitani qualche confusione Spatuzza deve avere. Perché in uno degli interrogatori precedenti depositati in istruttoria e rilasciati nei primi 180 giorni del suo pentimento, l’ex imbianchino pluriomicida di Brancaccio aveva offerto qualche particolare in più (sia pure contrastante con la versione fornita ieri). “Ricordo”, aveva detto, “che le Standa aperte in quel periodo erano tre e che facevano tutte capo a Michele Finocchio o alla sua famiglia. Michele era una persona vicinissima ai Graviano, così come lo era stato suo padre Gaspare, molto legato a Michele Graviano, il genitore di Filippo e Giuseppe. Di queste tre Standa una è a Brancaccio, in via Azzolino Hazon, una in via Duca della Verdura, mentre la terza è in corso Calatafimi che mi pare fare parte, così come la seconda, del mandamento mafioso di Porta Nuova”. Evidentemente l’attenzione processuale è stata distratta da altri elementi, perché su queste dichiarazioni non sono state compiute verifiche. In due dei tre indirizzi forniti non c’è mai stata alcuna Standa. Il terzo indirizzo, quello di via Calatafimi 380, è invece quello buono. Era uno dei sei grandi magazzini a gestione diretta della società controllata da Fininvest, ed esiste ancora oggi, sia pure con il marchio Oviesse-Coin. Allora non è vero che Berlusconi avesse una sola Standa a Palermo all’epoca, è vero solo che Spatuzza di una Standa sola azzecca l’indirizzo. Qualcuno probabilmente fra il primo e il secondo interrogatorio deve averglielo fatto presente. Ma anche su via Calatafimi il superpentito scivola su una buccia di banana. Ne attribuisce la proprietà a Michele Finocchio e alla sua famiglia. Le mura invece dal 1986 appartengono al Fondo pensioni per il personale della Cassa centrale di risparmio V.E. per le provincie siciliane, che ne è ancora oggi il padrone di casa. Quell’immobile- che un tempo fu della Standa- solo oggi è in corso di dismissione ed a occuparsi di quella vendita è niente meno che Mediobanca, advisor di un’operazione di cessione di 52 immobili in portafoglio al fondo pensioni. C’è quindi molta confusione e assoluta imprecisione nei ricordi di Spatuzza, in modo sorprendente perché molti abitanti di Palermo sanno invece ricordare con precisione le vie dove c’erano supermercati Standa. Quella dei supermercati è comunque sempre stata una passione assoluta dei mafiosi pentiti. Del caso Standa aveva parlato già in 86 pagine di interrogatorio davanti a Piero Grasso un pentito chiave del primo processo a Marcello Dell’Utri: Antonino Giuffrè. Fu lui a raccontare i motivi per cui la mafia all’inizio degli anni Novanta aveva dato fuoco a supermercati Standa e Upim a Catania e Palermo. “Quello che interessava”, sostenne Giuffrè, “non era soltanto il pagamento di tangenti o l’imposizione di forniture, bensì l’instaurarsi di un rapporto diretto con Silvio Berlusconi e con Gianni Agnelli che se non sbaglio erano proprietari di queste strutture”. Insomma dare fuoco ai grandi magazzini era un modo per i boss mafiosi per presentare con una certa rudezza (già, erano boss) il loro biglietto da visita convinti così di potersi dopo sedersi al tavolo con il Cavaliere e con l’Avvocato. Da potere forte volevano conoscere gli altri poteri forti. Lo disse senza tanti giri di parole un altro pentito, Angelo Siino, spiegando come la cupola morisse dalla curiosità a inizio anni Novanta di conoscere un altro big dell’imprenditoria, Raul Gardini, anche lui in passato proprietario della Standa. In Sicilia all’epoca aveva la Calcestruzzi e il biglietto da visita lo mandò direttamente Totò Riina con attentato a un cementificio…

Fini? Fa così perchè Berlusconi non se l'è più filato. Parola di Laboccetta

Missione che sembra impossibile. Ma c’è chi ci lavora da tempo ed è sicuro che presto accadrà: Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi l’uno di fronte all’altro chiusi in una stanza. “Liberi di gridarsi di tutto, finalmente di tirare fuori quel che l’uno ha dentro verso l’altro. Ma guardandosi negli occhi”, pregusta già il match uno dei pontieri che quell’incontro certamente sogna e spera di combinare. Amedeo Laboccetta, napoletano sanguigno ed ex missino di lunga militanza, conosce Fini da quando “portava i calzoni corti” ed è fra i pochi davvero a fianco del presidente della Camera, con cui l’altro giorno ha festeggiato il secondo compleanno della figlioletta avuta da Elisabetta Tulliani con soli altri due politici amici: Giulia Bongiorno e Ignazio La Russa (solo più tardi ha fatto un salto di cortesia Italo Bocchino). Con La Russa sta tentando la missione che sembra impossibile. Cercando di agganciare gli unici pontieri interessati allo stesso risultato sul fronte opposto: “e cioè Marcello dell’Utri, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Consiglieri veri di Berlusconi, un po’ sopra la corte che gira intorno e che alla fine getta solo zizzania per farsi belli con il leader”, spiega Laboccetta, che ammette: “Stesso problema c’è intorno a Fini. Lui è molto generoso e vola alto. Ma essendo generoso ha lasciato le chiavi delle sue macchine nel cruscotto. Così oggi la prende uno e si fa un giro senza che lui lo sappia, poi la prende un altro e magari non ha la patente ed è al volante di una Ferrari. Finisce che si sfascia lui e alla fine ci sfasciamo tutti”. Il riferimento è naturalmente alla nuova generazione dei colonnelli cui ogni tanto capita qualche uscita di troppo che aggiunge guaio a guaio. Se ne è accorto anche Fini se- come si dice- qualche giorno fa il presidente della Camera ha operato il più classico degli shampoo a Fabio Granata per qualche dichiarazione oltre misura. “Mah… il fatto è che Berlusconi la mattina si sveglia e pensa come è giusto al modello Obama. Fini si sveglia e pensa al modello Sarkozy. Meraviglioso. Grandi temi, grandi aspirazioni. Poi arriva qualcuno, mette lì sotto il naso la dichiarazione di tizio o sempronio, butta benzina sul fuoco e scoppia il finimondo. Finchè lavorano gli estremisti le cose peggiorano. Così ci si chiude nel bunker e si pensa di vivere in assedio e a come uscirne. No, ora servono proprio i pontieri”. Certo, non aiutano la fumata del calumet della pace video- sia pure “rubati”- come quelli che hanno ritratto Gianfranco Fini al premio Borsellino sbertucciare Berlusconi con il procuratore capo di Pescara… “Vero”, ammette Laboccetta, “e ha tutte le ragioni Berlusconi di incazzarsi. Perché un conto è sentire le cose di bocca in bocca, un conto sentirle così in presa diretta. Non ho parlato con Fini di quel video, ma certo bisogna archiviarlo il più presto possibile. Anche perché l’ultimo dei pensieri di Fini è che il presidente del Consiglio o Marcello dell’Utri siano mafiosi. E certo non crede alle rivelazioni di un Spatuzza…”. Così è sembrato ieri, con il comunicato di Fini sulla inutilità di quelle dichiarazioni senza nemmeno un riscontro. Ma non è stata l’unica occasione di attrito fra Fini e Berlusconi. E quasi sempre il casus belli pubblico è stato suscitato dal presidente della Camera. Che cosa è accaduto fra i due? C’è un fatto all’origine di questa freddezza personale? “Sì, c’è, è evidente. Perché di una cosa Berlusconi può essere certo: un uomo di destra è sempre leale. Fedele no, perché fedeli sono i cani. Ma leale sì. E Fini gli è sempre stato leale. Ma la lealtà chiede rispetto da entrambe le parti. E io non vedo rispetto verso il Fini politico”. Perché, Berlusconi gli ha mancato di rispetto? “Fini dopo avere a lungo riflettuto gli ha portato in dono An. Gli ha donato la sua storia e quella di tutti noi senza condizioni. E’ evidente che dopo non ha ottenuto il rispetto che si deve a un dono così. Non mi sembra che il ruolo politico di Fini e dei suoi amici nel Pdl sia così rilevante. E Berlusconi non può trattare Fini da politico qualsiasi, uno in mezzo agli altri nel Pdl. Un conto è magari discutere idee di cui Gianfranco si innamora troppo (e che io non capisco, e glielo dico, come nel caso immigrati o sulle questioni etiche), un conto ignorarlo del tutto, o avere atteggiamenti del tipo: se pensa così, fuori. Questo lo può fare un Papa, non un leader politico. In politica non esistono eresie”. E allora? “Allora bisogna che il presidente del Consiglio presti appunto orecchio a chi sa parlargli senza convenienza personale come Dell’Utri, Confalonieri o Letta. Gente di qualità, che ha dato spessore alla politica. Sono certo che con loro in campo il ponte fra i due si costruirà. Ma non può bastare una volta sola. Quei due debbono incontrarsi regolarmente. Una o due volte al mese, e vedrà che la buriana finisce e il governo si rafforza”.