Spatuzza? Non ne dice una giusta sulla Standa. Ma nessuno in un anno ha mai controllato
Per tutta la prima parte degli anni Novanta i magazzini Standa a Palermo sono stati nove. Sei in gestione diretta del gruppo allora controllato dalla Fininvest e tre che avevano solo in franchising il marchio di quella che veniva definita la “casa degli italiani”. La realtà che emerge dai bilanci pubblici Standa 1990-1994 è dunque assai diversa da quella (meglio dire quelle) raccontate dal mafioso pentito Gaspare Spatuzza. Ieri nell’aula bunker di Torino durante l’audizione più attesa dell’anno Spatuzza ha spiegato: “A Brancaccio nel 1990-1991 è stato aperto un supermercato affiliato Standa e la stessa parola Standa mi dice tutto oggi. E’ l'unica a Palermo e nel quartiere Brancaccio. Visto che il signor Berlusconi ha di proprietà della Standa ed è l’unica Standa a Palermo mi sembra un’anomalia". Il ricordo è sbagliato: non uno ma sei erano i magazzini Standa del capoluogo siciliano, e nessuno di questi nel quartiere di Brancaccio. Lì invece aveva sede uno dei tre negozi in franchising. Ma su quello che viene ritenuto l’argomento chiave per provare i rapporti fra il gruppo di Berlusconi e i boss palermitani qualche confusione Spatuzza deve avere. Perché in uno degli interrogatori precedenti depositati in istruttoria e rilasciati nei primi 180 giorni del suo pentimento, l’ex imbianchino pluriomicida di Brancaccio aveva offerto qualche particolare in più (sia pure contrastante con la versione fornita ieri). “Ricordo”, aveva detto, “che le Standa aperte in quel periodo erano tre e che facevano tutte capo a Michele Finocchio o alla sua famiglia. Michele era una persona vicinissima ai Graviano, così come lo era stato suo padre Gaspare, molto legato a Michele Graviano, il genitore di Filippo e Giuseppe. Di queste tre Standa una è a Brancaccio, in via Azzolino Hazon, una in via Duca della Verdura, mentre la terza è in corso Calatafimi che mi pare fare parte, così come la seconda, del mandamento mafioso di Porta Nuova”.
Evidentemente l’attenzione processuale è stata distratta da altri elementi, perché su queste dichiarazioni non sono state compiute verifiche. In due dei tre indirizzi forniti non c’è mai stata alcuna Standa. Il terzo indirizzo, quello di via Calatafimi 380, è invece quello buono. Era uno dei sei grandi magazzini a gestione diretta della società controllata da Fininvest, ed esiste ancora oggi, sia pure con il marchio Oviesse-Coin. Allora non è vero che Berlusconi avesse una sola Standa a Palermo all’epoca, è vero solo che Spatuzza di una Standa sola azzecca l’indirizzo. Qualcuno probabilmente fra il primo e il secondo interrogatorio deve averglielo fatto presente. Ma anche su via Calatafimi il superpentito scivola su una buccia di banana. Ne attribuisce la proprietà a Michele Finocchio e alla sua famiglia. Le mura invece dal 1986 appartengono al Fondo pensioni per il personale della Cassa centrale di risparmio V.E. per le provincie siciliane, che ne è ancora oggi il padrone di casa. Quell’immobile- che un tempo fu della Standa- solo oggi è in corso di dismissione ed a occuparsi di quella vendita è niente meno che Mediobanca, advisor di un’operazione di cessione di 52 immobili in portafoglio al fondo pensioni. C’è quindi molta confusione e assoluta imprecisione nei ricordi di Spatuzza, in modo sorprendente perché molti abitanti di Palermo sanno invece ricordare con precisione le vie dove c’erano supermercati Standa.
Quella dei supermercati è comunque sempre stata una passione assoluta dei mafiosi pentiti. Del caso Standa aveva parlato già in 86 pagine di interrogatorio davanti a Piero Grasso un pentito chiave del primo processo a Marcello Dell’Utri: Antonino Giuffrè. Fu lui a raccontare i motivi per cui la mafia all’inizio degli anni Novanta aveva dato fuoco a supermercati Standa e Upim a Catania e Palermo. “Quello che interessava”, sostenne Giuffrè, “non era soltanto il pagamento di tangenti o l’imposizione di forniture, bensì l’instaurarsi di un rapporto diretto con Silvio Berlusconi e con Gianni Agnelli che se non sbaglio erano proprietari di queste strutture”. Insomma dare fuoco ai grandi magazzini era un modo per i boss mafiosi per presentare con una certa rudezza (già, erano boss) il loro biglietto da visita convinti così di potersi dopo sedersi al tavolo con il Cavaliere e con l’Avvocato. Da potere forte volevano conoscere gli altri poteri forti. Lo disse senza tanti giri di parole un altro pentito, Angelo Siino, spiegando come la cupola morisse dalla curiosità a inizio anni Novanta di conoscere un altro big dell’imprenditoria, Raul Gardini, anche lui in passato proprietario della Standa. In Sicilia all’epoca aveva la Calcestruzzi e il biglietto da visita lo mandò direttamente Totò Riina con attentato a un cementificio…
Fini? Fa così perchè Berlusconi non se l'è più filato. Parola di Laboccetta
Missione che sembra impossibile. Ma c’è chi ci lavora da tempo ed è sicuro che presto accadrà: Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi l’uno di fronte all’altro chiusi in una stanza. “Liberi di gridarsi di tutto, finalmente di tirare fuori quel che l’uno ha dentro verso l’altro. Ma guardandosi negli occhi”, pregusta già il match uno dei pontieri che quell’incontro certamente sogna e spera di combinare. Amedeo Laboccetta, napoletano sanguigno ed ex missino di lunga militanza, conosce Fini da quando “portava i calzoni corti” ed è fra i pochi davvero a fianco del presidente della Camera, con cui l’altro giorno ha festeggiato il secondo compleanno della figlioletta avuta da Elisabetta Tulliani con soli altri due politici amici: Giulia Bongiorno e Ignazio La Russa (solo più tardi ha fatto un salto di cortesia Italo Bocchino). Con La Russa sta tentando la missione che sembra impossibile. Cercando di agganciare gli unici pontieri interessati allo stesso risultato sul fronte opposto: “e cioè Marcello dell’Utri, Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Consiglieri veri di Berlusconi, un po’ sopra la corte che gira intorno e che alla fine getta solo zizzania per farsi belli con il leader”, spiega Laboccetta, che ammette: “Stesso problema c’è intorno a Fini. Lui è molto generoso e vola alto. Ma essendo generoso ha lasciato le chiavi delle sue macchine nel cruscotto. Così oggi la prende uno e si fa un giro senza che lui lo sappia, poi la prende un altro e magari non ha la patente ed è al volante di una Ferrari. Finisce che si sfascia lui e alla fine ci sfasciamo tutti”. Il riferimento è naturalmente alla nuova generazione dei colonnelli cui ogni tanto capita qualche uscita di troppo che aggiunge guaio a guaio. Se ne è accorto anche Fini se- come si dice- qualche giorno fa il presidente della Camera ha operato il più classico degli shampoo a Fabio Granata per qualche dichiarazione oltre misura. “Mah… il fatto è che Berlusconi la mattina si sveglia e pensa come è giusto al modello Obama. Fini si sveglia e pensa al modello Sarkozy. Meraviglioso. Grandi temi, grandi aspirazioni. Poi arriva qualcuno, mette lì sotto il naso la dichiarazione di tizio o sempronio, butta benzina sul fuoco e scoppia il finimondo. Finchè lavorano gli estremisti le cose peggiorano. Così ci si chiude nel bunker e si pensa di vivere in assedio e a come uscirne. No, ora servono proprio i pontieri”.
Certo, non aiutano la fumata del calumet della pace video- sia pure “rubati”- come quelli che hanno ritratto Gianfranco Fini al premio Borsellino sbertucciare Berlusconi con il procuratore capo di Pescara… “Vero”, ammette Laboccetta, “e ha tutte le ragioni Berlusconi di incazzarsi. Perché un conto è sentire le cose di bocca in bocca, un conto sentirle così in presa diretta. Non ho parlato con Fini di quel video, ma certo bisogna archiviarlo il più presto possibile. Anche perché l’ultimo dei pensieri di Fini è che il presidente del Consiglio o Marcello dell’Utri siano mafiosi. E certo non crede alle rivelazioni di un Spatuzza…”. Così è sembrato ieri, con il comunicato di Fini sulla inutilità di quelle dichiarazioni senza nemmeno un riscontro. Ma non è stata l’unica occasione di attrito fra Fini e Berlusconi. E quasi sempre il casus belli pubblico è stato suscitato dal presidente della Camera. Che cosa è accaduto fra i due? C’è un fatto all’origine di questa freddezza personale? “Sì, c’è, è evidente. Perché di una cosa Berlusconi può essere certo: un uomo di destra è sempre leale. Fedele no, perché fedeli sono i cani. Ma leale sì. E Fini gli è sempre stato leale. Ma la lealtà chiede rispetto da entrambe le parti. E io non vedo rispetto verso il Fini politico”. Perché, Berlusconi gli ha mancato di rispetto? “Fini dopo avere a lungo riflettuto gli ha portato in dono An. Gli ha donato la sua storia e quella di tutti noi senza condizioni. E’ evidente che dopo non ha ottenuto il rispetto che si deve a un dono così. Non mi sembra che il ruolo politico di Fini e dei suoi amici nel Pdl sia così rilevante. E Berlusconi non può trattare Fini da politico qualsiasi, uno in mezzo agli altri nel Pdl. Un conto è magari discutere idee di cui Gianfranco si innamora troppo (e che io non capisco, e glielo dico, come nel caso immigrati o sulle questioni etiche), un conto ignorarlo del tutto, o avere atteggiamenti del tipo: se pensa così, fuori. Questo lo può fare un Papa, non un leader politico. In politica non esistono eresie”. E allora? “Allora bisogna che il presidente del Consiglio presti appunto orecchio a chi sa parlargli senza convenienza personale come Dell’Utri, Confalonieri o Letta. Gente di qualità, che ha dato spessore alla politica. Sono certo che con loro in campo il ponte fra i due si costruirà. Ma non può bastare una volta sola. Quei due debbono incontrarsi regolarmente. Una o due volte al mese, e vedrà che la buriana finisce e il governo si rafforza”.
Magistrati 2/ Il giudice nel pallone che si gestisce Spatuzza
Non è un “quisque de populo”, Gaspare Spatuzza, il pentito di mafia più atteso degli ultimi anni che oggi deporrà a Torino al processo a Marcello dell’Utri. E “quisque de populo” non è nemmeno Giuseppe Quattrocchi, procuratore capo di Firenze, che quella definizione su Spatuzza ha coniato. Si sbaglia il deputato del Pd che la scorsa settimana con vis polemica ha ironizzato sulle preoccupazioni di Silvio Berlusconi: “questo magistrato qui non è mica un Antonio Ingroia o una toga rossa… L’avete visto in tv forse per la prima volta. E’ la mite procura di Firenze, non quella di Milano o Palermo”. Mite sarà anche mite, Quattrocchi. Ma un quisque de populo no. E neanche uno sconosciuto per taccuini dei cronisti e riflettori tv. Vero che fu lui, magistrato messinese (lì ha ereditato una parte della casa di famiglia), classe 1938, a indire una conferenza stampa dopo anni di Tangentopoli per chiedere di non citare più i nomi di pm e giudici della sua Lucca in cui ha esercitato per lustri “perché i magistrati non debbono essere divi e sentirsi protagonisti”. Così prese il coordinamento di decine di inchieste anche scottanti e in tv e sulla stampa finì sempre un nome solo: quello del procuratore capo Quattrocchi. A Firenze è arrivato solo nel 2008, promosso dal Csm. Ci abitava però dal 2003, quando acquistò la bella casa dove abita ancora in via Mossotti con la figlia Stefania dopo essere rimasto vedovo (frutto di una divisione con altra famiglia). Era procuratore capo di Lucca, ma come altri colleghi fortunati Quattrocchi aveva anche un secondo mestiere: giudice sportivo della serie C. Esercitava a Firenze, e non di rado le sue scelte “sportive” han fatto più notizia delle sue inchieste. Perché Quattrocchi ovunque si sia trovato mai ha dato l’impressione di essere un “quisque de populo”. In poco più di un anno a Firenze è riuscito a fare tremare ogni palazzo pubblico con l’inchiesta su Sai-Fondiaria. Non è una toga rossa: a spaventarsi è stato lo stato maggiore del Pd, sindaco Leonardo Domenici in testa (lo ha indagato anche per un incidente capitato a Forte Belvedere durante uno spettacolo estivo). Poi ha preso in mano le stragi del ’93 in via dei Georgofili riaprendo il processo e gestendo il pentimento di Spatuzza. Quando ci fu il tragico incidente ferroviario di Viareggio, anche se fuori terriotorio, il procuratore capo di Firenze causò più di un maldipancia ai vertici delle Ferrovie aprendo un fascicolo su tutti gli incidenti ferroviari degli ultimi tre anni. E giù titoloni sulla stampa locale. Come a maggio di quest’anno, quando Quattrocchi guidò l’operazione “Botero” grazie a cui arrestò esponenti di una organizzazione camorristica per riciclaggio. Ci riuscì scoprendo un deposito da un milione di euro in una banca di Prato. Ma il procuratore capo di Firenze volle dare un avviso a tutto il sistema creditizio italiano, lanciando quello che lui stesso definì con linguaggio dell’aviazione un “mayday” alle banche: “tutte le operazioni sospette vanno segnalate. Le banche non possono chiudere un occhio”.
Agenda fittissima, procedimenti clamorosi, ma Quattrocchi ha trovato il tempo anche di occuparsi di temi politici nazionali. Sul processo breve ha spiegato ai giornalisti che “il 60% dei processi a Firenze sarebbe stato estinto”. Qualche tempo prima giù critiche anche al reato di immigrazione clandestina, su cui Quattrocchi voleva perfino sollevare questione di legittimità costituzionale. Prima ancora, di fronte alla bozza di legge sulle intercettazioni protestò spiegando che si volevano favorire mafia e camorra. Non è un procuratore che le manda a dire, Quattrocchi. E lavora come un matto: quando nel giugno scorso una giovane collega fu punta in ufficio da una zecca, fu proprio Quattrocchi a dirigere e coordinare le operazioni di disinfestazione. Pronto a dirigere perfino il tempo libero dei suoi: si è messo a capo del Fiorentina fan club della procura di Firenze.
A Lucca non è stato da meno: ha fatto lui il processo al televenditore Giorgio Mendella, ha inquisito e fatto rinviare a giudizio Donatella Dini per corruzione, si è infilato con attgi giudiziari nella querelle politica fra il sindaco di Lucca e l’allora presidente del Senato, Marcello Pera. Ha indagato sulle minacce ricevute dall’arbitro Pierluigi Collina e sull’attentato alla villa di Chiara Beria d’Argentine. Si è occupato di doping nel ciclismo, ha indagato Mario Cipollini per minacce. Ha accusato di tentata estorsione un calciatore, Stefano Bettarini che era marito di Simona Ventura. Condotto una inchiesta sulle firme false per le liste di Alessandra Mussolini alle regionali 2005. Ha sequestrato e sigillato La Bussola, locale dove esordì Mina perché la musica era troppo alta. Ha fatto qualsiasi tipo di indagine: pedofilia, eutanasia, calcio scommesse. Ogni indagine, una conferenza stampa e poi titoloni su giornali e servizi tv. Come i casi di cui si è occupato da giudice sportivo nella spenta serie C. Tutti unici, tutti da ottimo titolo sui giornali nazionali: due tifosi che si tirano giù le mutande e mostrano i glutei a Foggia (2002); un tifoso che fa pipì in testa al guardialinee (2004). Uno che ha offeso la memoria di Papa Giovanni Paolo II a Prato (2005) e via così… Attenti a Quattrocchi, non sarà un Ingroia ma non è un pm “quisque de populo”.
Magistrati 1/ Quello con cui Fini si confessava
Il magistrato con cui Gianfranco Fini si è sfogato nel fuori-onda contro il premier- imperatore è da 25 anni la bestia nera di Silvio Berlusconi. Nicola Trifuoggi, attuale procuratore capo della Repubblia a Pescara, il magistrato che ha decapitato la giunta regionale dell’Abruzzo arrestando il suo presidente, Ottaviano Del Turco, è stato anche protagonista della storia delle tv private in Italia. Trifuoggi fu infatti uno dei tre pretori d’assalto che il 16 ottobre 1984 spensero le tre reti tv Fininvest da poco nate: Canale 5, Italia Uno e Rete 4. Con un’azione concertata Trifuoggi a Pescara, Giuseppe Casalbore a Torino ed Eugenio Bettiol a Roma esattamente 25 anni fa inviarono alle nove del mattino agenti della Guardia di Finanza e funzionari della Escopost nelle sedi delle emittenti locali che trasmettevano su tutto il territorio nazionale grazie al sistema ingegnoso della interconnessione. Fininvest non era infatti autorizzata alla diretta su tutto il territorio nazionale e aveva aggirato il limite producendo programmi che venivano consegnati alle varie sedi locali per la trasmissione sul territorio più o meno alla stessa ora. Solo grazie a quel sistema Publitalia riusciva infatti a raccogliere la pubblicità su tutto il territorio nazionale. All’oscuramento deciso dai tre pretori di assalto Berlusconi reagì facendo comparire sugli schermi di tutta Italia una sola scritta “Tutte le trasmissioni sono temporaneamente sospese per motivi politici”. Arrivarono migliaia di telefonate di protesta sia al ministero delle Poste che ai telefoni delle tre preture che avevano proceduto. Qualcuno individuò anche i numeri telefonici di casa dei magistrati e per loro furono giorni di passione. Fu il primo vero braccio di ferro di Berlusconi con la magistratura, poi risolto dal presidente del Consiglio dell’epoca, Bettino Craxi, che con un decreto legge autorizzò Fininvest temporaneamente alla trasmissione su tutto il territorio nazionale. Qualcuno dei tre pretori provò ancora ad oscurare i ripetitori quando decadde il decreto senza essere trasformato in legge, ma Fininvest ricorse e il buio durò poco.
Anni dopo allo stesso Trifuoggi fu chiesto da qualcuno di oscurare Rete 4, che la Corte Costituzionale aveva deciso di mandare sul satellite, ma lui a onore del vero si rifiutò sostenendo che quello non sarebbe più potuto essere il metodo con cui procedere e anzi, dichiarando pubblicamente che tornando indietro non avrebbe nemmeno ripetuto quel che aveva deciso nel lontano 1984.
Il magistrato pescarese è poi finito nell’occhio del ciclone proprio per l’arresto di Del Turco nell’ambito dell’inchiesta sulla sanità abruzzese. Una misura cautelare che anche ad alcuni osservatori era parsa spropositata e che naturalmente ha scetenato polemiche politiche, visto che si trattava di un presidente di Regione eletto direttamente dal popolo. Ma non è raro che decisioni dei magistrati vengano criticate e scatenino polemiche. Non sarebbe stata quella né la prima né l’ultima volta.
A Trifuoggi in ogni caso non sembra portare fortuna il premio Borsellino per la legalità. Questa volta il magistrato era solo ospite, pizzicato in imbarazzante colloquio con il presidente della Camera, Fini. Due anni fa invece fu proprio lui il premiato. Qualcuno lo vide lì., lesse le motivazioni e tirò fuori una vicenda destinata a provocare un certo imbarazzo. Con interrogazione parlamentare di Emerenzo Barbieri si rivelò come qualche mese prima del premio Trifuoggi avesse acquistato a Montesilvano una villetta da un costruttore proprio da lui inquisito qualche anno prima (lo aveva perfino arrestato nel 2003). Più di una polemica ne è seguita, ma lui alla fine si è difeso: “al momento del compromesso non conoscevo né il nome del costruttore né la sua situazione giudiziaria. In ogni caso ho pagato il prezzo di mercato”
De Benedetti ha scoperto il suo cimicione
Anche Carlo De Benedetti ha il suo cimicione, tredici anni dopo quello di Silvio Berlusconi. L’ingegnere e i suoi collaboratori hanno infatti trovato manomessa la Bmw 750 IL grigio metallizzato utilizzata tutte le settimane per gli spostamenti dell’imprenditore nella capitale. Secondo la denuncia contro ignoti presentata immediatamente alla procura della Repubblica di Roma, dove l’ha avocata a sé il procuratore capo Giovanni Ferrrara, ci sarebbe stata “una intrusiva e dolosa manomissione rilevata all’interno dell’autovettura”. Secondo le indiscrezioni fatte circolare sarebbe stato trovato all’interno dell’auto un vano dove sarebbe stato possibile nascondere un apparecchio per le intercettazioni. La manomissione avrebbe riguardato anche uno dei fanali anteriori. Secondo le ricostruzioni ufficiali il cimicione non sarebbe stato trovato, o almeno la sua eventuale presenza fino a ieri sera era top secret. Ma che quella sia la strada che le indagini hanno intenzione di percorrere è emerso dopo che dalla procura è trapelata l’intenzione di affidare l’indagine a un pm del pool sui reati informatici. Qualche scetticismo è però emerso da esperti del settore consultati ieri da Libero, perché raramente una manomissione così evidente può essere opera di veri professionisti. Certo la Bmw 750 non era particolarmente tutelata. Intestata a una società del gruppo Espresso, era tenuta in autorimessa incustodita la maggiore parte del tempo. L’unico autorizzato alla guida era l’autista personale dell’ingegnere, cugino di un sindacalista dei Beni culturali. Più o meno una volta alla settimana veniva ritirata per andare ad accogliere a Ciampino De Benedetti, che è residente in Svizzera ma che svolge buona parte della sua attività lavorativa fra Milano, Torino e Roma. L’autista lo accompagna regolarmente agli appuntamenti di lavoro, si occupa di piccole spese e poi accompagna l’ingegnere nella sua abitazione romana di via Monserrato, a due passi da piazza Farnese. De Benedetti se non ci sono appuntamenti particolari cena nell’attico e superattico che acquistò nel dicembre del lontano 1979 per 200 milioni di lire da Bruno Visentini attraverso la Finco spa, antenata dell’attuale Cofide (in quella casa in piena Tangentopoli fu messo agli arresti domiciliari dal gip Augusta Iannini, consorte di Bruno Vespa che indagava sulle forniture di telescriventi Olivetti alle poste).
Spesso a Roma l’ingegnere è solo, raramente viene accompagnato dalla moglie Silvia Cornacchia più nota con il cognome di Monti. In genere si ferma una notte sola, viaggiando con un piccolo trolley e una borsa con i documenti di lavoro. Il 16 luglio scorso non era sfuggito agli abitanti della zona il suo arrivo in piazza Farnese e la decisione con cui aveva impedito all’autista di prendergli il trolley, lasciandogli invece caricare due borsoni blu dell’Ikea con alcune suppellettili per l’abitazione romana. Due anziane signore romane che lo avevano riconosciuto, colpite proprio da quei sacchi portati dall’autista, sospirarono: “Ah, se De Benedetti per risparmiare è costretto a comprare all’Ikea, vuole dire che la crisi finanziaria è più grave di come ci racconta il governo”.
La Bmw 750 è lasciata incustodita appunto in quelle occasioni, ma non per molto tempo e quasi sempre davanti alle fontane di piazza Farnese (le possibilità di parcheggio in zona non sono altissime) che a qualsiasi ora del giorno e della notte è affollatissima. A pochi metri per altro c’è palazzo Farnese, sede dell’ambasciata di Francia, sempre vigilata. Difficile immaginare una intrusione nell’auto e una manomissione in quelle condizioni. Quasi impossibile sia avvenuto durante gli spostamenti, perché l’autista la abbandona raramente, al massimo per un caffè. Le indagini quindi punteranno sull’autorimessa del gruppo Espresso, luogo più probabile in cui possa essere avvenuta l’intrusione. Non ci sono però segni evidenti di scasso o manomissione ad altre strutture o auto.
Non sarebbe per altro la prima volta che De Benedetti viene intercettato: il suo nome era inserito nella lista degli spiati dalla Polis d’Istinto che lavorava con il capo della sicurezza Telecom Giuliano Tavaroli. E nel 1996 De Benedetti fu intercettato legalmente mentre faceva gli auguri ad Antonio Di Pietro per lo sbarco in politica del pm, discutendo con lui in modo assai colorito di una possibile discesa in politica anche dell’ex nemico di una vita: Cesare Romiti.
Veronica? Vuole solo un quarto dello stipendio mensile di Silvio
Il clamoroso assegno di mantenimento annuo, 43 milioni di euro, chiesto da Veronica Lario, al marito Silvio Berlusconi dopo la separazione vale circa un quarto dei dividendi incassati nell’ultimo anno dal presidente del Consiglio italiano. Il Cavaliere infatti fra febbraio e fine aprile si è fatto versare dalle società da lui direttamente controllate 166 milioni e 723 mila euro. Quindi se Veronica ha chiesto 3 milioni e 583 mila euro al mese per il suo mantenimento base (vale a dire quanto un top manager di grandi banche o di gruppi come Enel o Eni guadagna in un anno), è vero che grazie al buon andamento delle sue società, Berlusconi nel 2009 ha contato su una paghetta mensile di 13 milioni e 893 mila euro. Il presidente del Consiglio per altro è assai più ricco di quanto non dica questo ragguardevolissimo stipendio mensile. Complessivamente ad oggi avrebbe a disposizione poco meno di 800 milioni di euro: 166,7 sono appunto i dividendi già incassati dalle 4 holding di controllo di Fininvest da lui possedute (la prima, la seconda, la terza e l’ottava), dalla piccola quota di Fininvest a lui riportabile (2,06%) e dalla partecipazione di maggioranza assoluta (99,5%) in Dolcedrago. Dalle holding che controllano Fininvest il premier nella primavera scorsa si è fatto distribuire sotto forma di dividendi quasi tutti gli utili. Negli anni precedenti invece spesso li ha fatti accantonare a riserva. Così oltre ai dividendi Silvio Berlusconi può contare su una liquidità rilevante, pari a 177,8 milioni di euro, su investimenti in titoli (in gestione a banca Arner) per 19,6 milioni di euro e su utili di anni precedenti portati a riserva e distribuibili senza intaccare la solidità delle holding per 420,3 milioni di euro. Il cavaliere ha quindi a disposizione 784,6 milioni di euro. Altri 353, 4 milioni sono immobilizzati nel mattone attraverso la Idra (proprietaria di Villa Certosa e di quelle di Arcore e di Macherio) e ancora 6 milioni investiti in villette attraverso la Immobiliare due ville. Una somma complessivamente superiore a quella che Cir ha chiesto a Fininvest nella contesa giudiziaria sul lodo Mondadori. A questa potrebbe aggiungersi anche parte pro quota del patrimonio Fininvest, la finanziaria che nel bilancio consolidato 2008 registrava disponibilità liquide per un miliardo e 111 milioni e titoli detenuti per la negoziazione per un controvalore di 186,4 milioni di euro. Ma queste cifre non sono state considerate da Libero per calcolare la ricchezza personale della famiglia Berlusconi perché in Fininvest la liquidità serve al funzionamento e allo sviluppo del gruppo.
Diversa la situazione dei cinque figli, che attraverso altre tre holding (la quarta, la quinta e la quattordicesima) controllano ognuno poco più del 7 per cento del capitale Fininvest. Piersilvio e Marina hanno la stessa quota, il 7,652%. I tre figli di secondo letto, Barbara, Eleonora e Luigi controllano invece indirettamente il 7,13%.
Dei cinque oggi il più ricco è Piersilvio. Non tanto per i dividendi incassati: lui come Marina ha ricevuto solo i 5.614,17 euro spettanti per la propria partecipazione del 0,25% nella Dolcedrago. Il primogenito è più ricco pertchè ha risparmiato di più in questi anni: la sua holding (la quinta) ha disponibilità liquide per 60,4 milioni di euro, investimenti in titoli per 28,7 milioni di euro e utili accantonati negli anni e oggi distribuibili per 94 milioni di euro: in tutto fanno 183,3 milioni di euro. Marina invece i dividendi li ha goduti negli anni e investiti o spesi. Nella sua holding (la quarta) ci sono 19,4 milioni di euro liquidi, altri 11,1 milioni di euro investiti in titoli e 35,1 milioni di vecchi utili distribuibili.
Infini i tre figli di secondo letto, che insieme possono contare su 305,7 milioni di euro (più di cento a testa). Eleonora, Barbara e Luigi hanno ricevuto a marzo dalla loro holding (la quattordicesima) una argente du poche da 1,4 milioni di euro a testa. In tutto 4,2 milioni di euro, piccola quota dei dividendi annuali percepiti e accantonati in gran parte a riserva. Sui conti correnti i tre insieme hanno disponibilità liquide per 111,6 milioni di euro, altri 5 milioni dati in gestione alla Sator di Matteo Arpe e ancora circa 185 milioni di euro di utili accantonati in precedenza e distribuibili senza sciogliere la società. Altri 35 milioni li hanno investiti nel mattone, comprando un palazzo nel centro di Milano.
Anche Tremonti assediava Brenda a casa- Il fisco voleva quel tugurio
Al catasto di Roma era registrata come “abitazione di tipo civile” di due vani. Il monolocale con soppalco dove è stata trovato il corpo di Brenda, il transessuale brasiliano del caso Marrazzo, apparteneva in realtà a una coppia di anziani signori che in quelle quattro pareti avevano investito in risparmi di una vita. E sull’immobile dalla scorsa primavera c’era anche un’ipoteca legale posta dal fisco italiano, sia pure per una piccola somma.
I proprietari risultano essere il signor Domenico B. (classe 1935) con la gentile consorte Franca P. (classe 1947) e per potere acquistare l’unica casa da loro mai posseduta avevano perfino chiesto un mutuo fondiario in banca. E l’11 maggio 2004, stessa data dell’acquisto dell’appartamentino di via Raffaele Stasi 16, interno 1F, da un giovane romano (Luca.S.), quel mutuo è arrivato. Lo ha fornito il Monte dei Paschi di Siena, stanziando 55 mila euro e iscrivendo ipoteca per il doppio della somma. Il mutuo che in partenza aveva un tasso di interesse annuo del 3,276%, scadrà nel maggio 2019. Ora quell’appartamento da cui Brenda- il cui vero nome era Wendell Mendes Paes - voleva andarsene prima di compiere il suo trentaduesimo compleanno (sarebbe accaduto sabato prossimo), è sotto sequestro giudiziario. La sua planimetria non è censita al catasto ma secondo i rilievi della polizia dopo il delitto il monolocale con bagno ed angolo cottura misurerebbe in tutto 18 metri quadrati, e quindi l’acquisto sarebbe avvenuto con una valutazione oscillante fra i 3 e i 4 mila euro a metro quadrato, e non si sa se nella valutazione della compravendita fosse già compreso quel soppalco un po’ rudimentale su cui è stato rinvenuto il corpo annerito della vittima. Secondo la versione data da altri transessuali che conoscevano Brenda i suoi rapporti con i padroni di casa non erano idilliaci, tanto che lei avrebbe rivelato di essere sotto sfratto. Tutti gli appartamenti ai piani terra, primo e seminterrati appartengono a persone fisiche che in numerosi casi li hanno affittati ai trans. Uno solo è di una società di uno dei più noti costruttori romani proprietaria per altro fin dalla costruzione anche di due palazzi interi nelle immediate vicinanze (uno nella stessa via, al numero 32).
Sulla casa di Brenda da qualche mese erano arrivate anche le ganasce del fisco. La società di riscossione dei tributi del ministero dell’Economia, guidato da Giulio Tremonti, e cioè Equitalia Gerit, aveva infatti iscritto sull’appartamento ipoteca legale il 25 marzo 2009, per una piccola somma: 1.643,92 euro contestata al proprietario, il signor Domenico B. Probabilmente una cartella esattoriale dimenticata che ha fatto scattare le classiche ganasce fiscali (che risultano tutt’ora vive).
C'è una tenaglia che si stringe intorno a Berlusconi. Milano-Firenze-Palermo e in due mosse il cav sarà ko
Le procure italiane stanno cercando con una manovra a tenaglia di mettere in mutande Silvio Berlusconi. Scacco al re in due mosse. Prima mossa, a Milano: processo rapido, più rapido della legge sul processo breve. E già a gennaio l’attuale premier potrebbe trovarsi condannato per corruzione nel caso Mills. Pena accessoria, immediatamente esecutiva: sospensione dai pubblici uffici per anni cinque. Non indultabile in automatico, perché ci sono in corso altri procedimenti. Un missile su palazzo Chigi in grado di mettere fine alla carriera politica del cavaliere. Seconda mossa: Palermo, Caltanissetta o Firenze. Non è ancora chiaro da dove partirà la cannonata decisiva. A Palermo tutto è già pronto: riaperto dopo 15 anni il fascicolo di indagine n.6031/94, pronta la nuova iscrizione per concorso esterno in associazione mafiosa per Berlusconi Silvio+ 13. E in qualsiasi momento può partire la richiesta del pm di sequestro preventivo del patrimonio del Cavaliere. Tanto la tesi giudiziaria è quella scritta e riscritta mille volte nei libelli anti-cav, da Mario Guarino a Marco Travaglio: all’origine della Fininvest ci sono capitali oscuri. Mafiosi.
Attenzione: non è fantagiustizia. E’ quel che si sta preparando, anche se la caccia grossa come è evidente non troverà la preda immobile paralizzata dalla paura. Ma la partita è iniziata. Con un solo obiettivo: lasciare in mutande Berlusconi, e consegnargli solo la magra soddisfazione di rendere del tutto inutili un paio di procedimenti civili che proprio in queste ore si stanno incardinando: quello sulla immediata esecutività della sentenza Mesiano a favore di Cir (sui 750 milioni di euro, il cui pagamento è temporaneamente sospeso, si deciderà a dicembre), e naturalmente quello sulla separazione per colpa del coniuge innescato da Veronica Lario.
Quella delle procure è ormai una tenaglia che si sta stringendo intorno all’inquilino di palazzo Chigi. Verbali di pentiti di mafia stanno facendo il giro di un numero consistente di procure italiane, ogni volta aggiornati con particolari succulenti. Presunte rivelazioni di Gaspare Spatuzza in viaggio da mesi sulla Firenze-Palermo-Firenze e già approdate al processo a Marcello dell’Utri, appena aggiornate da un ultimo paragrafo, quello sul presidente del Senato, Renato Schifani (cui aveva appena mandato l’avviso di garanzia Il Fatto quotidiano). Verbalini di un altro personaggio a cui alla bisogna torna sempre la memoria utile al momento, come Pietro Romeo, quello che di tanto in tanto rivela qual cosina sul Berlusconi mafioso e stragista. Anche loro in viaggio sulla direttissima Firenze-Palermo. Materiale che oltre ad affacciarsi nel processo a Dell’Utri per dare il colpo di grazia sta riempendo di nuovi contenuti quel “contenitore di sistemi criminali” che è il fascicolo 6031/94, inventato nella notte dei tempi da Roberto Scarpinato e Giancarlo Caselli. Lì furono già iscritti per concorso esterno Berlusconi e Dell’Utri per poi finirne archiviati. Ma il fascicolo non si chiude mai, pronto a rinascere come le teste dell’Idra grazie alle leggio speciali anti-mafia che tutto consentono di riaprire. Siamo ai primi passi della caccia, e ci vuole un po’ di coraggio. Perché intorno non c’è più il popolo plaudente e assetato di vendetta di quegli anni lontani e manco c’è più a Palermo un mastino alla Caselli. Chissà che quei verbali, verbalini e fascicoli non riprendano insieme alla richiesta di sequestro preventivo dei beni del Cavaliere la strada per Firenze, dove la procura da tempo sta lavorando ai fianchi il boss decisivo, quel Filippo Graviano nercessarissimo per confermare le accuse a Berlusconi dei pentiti.
L’altra tenaglia, quella milanese, si sta stringendo con assai meno misteri. Ha un solo nemico da infilzare prima che le sbarri la strada, e non è manco così difficile, visto che si tratta di quel disegno di legge sul processo breve che già molti alleati del presidente del Consiglio stanno lavorando ai fianchi. Tolto di messo quello, è sostanzialmente scontata la condanna in primo grado per il caso Mills. Lodo Alfano o meno il processo è già stato istruito condannando l’avvocato inglese e indicando nelle motivazioni non solo il reato (corruzione), ma anche il corruttore: Berlusconi. Ma c’è un passaggio contenuto nella sentenza di primo grado che già scrive la parte più insidiosa per il cavaliere. E’ all’inizio della pagina 368 della decisione giudiziaria: “Ai sensi dell’articolo 29 c.p. deve applicarsi all’imputato la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni. Appare opportuno rimettere alla fase esecutiva del giudizio, anche in relazione alla pendenza a carico dell’odierno imputato di altri procedimenti giudiziari, l’eventuale applicazione del beneficio dell’indulto ex l. n. 241 del 2006, pur astrattamente applicabile nel caso di specie”. Un periodo destinato al “copia e incolla” in caso di condanna di Berlusconi. Il più velenoso, perché anche se impugnato in appello renderebbe più difficile la permanenza del cavaliere a palazzo Chigi e assai imbarazzante sul punto il rapporto con il Quirinale.
Il partito di Bersani è già vecchio. La politica deve staccare dalla Resistenza e dal risorgimento
Da un paio di mesi a questa parte Silvio Berlusconi ha un ambasciatore in più e probabilmente manco lo sa. Eppure è un fiore di ambasciatore, perché fa la spola fra la sua Perugia, dove Paolo Mancini, classe 1948, è Professore Ordinario di Sociologia delle Comunicazioni presso la Facoltà di Scienze Politiche, e Londra. Oxford University, Westminster università, London School of economics. Domani sarà al Reuter institute di Londra a fare da controparte a Carlo De Benedetti. “E mi ha chiamato già un altro conferenziere, John Loyd, credo preoccupato di riequilibrare quel che dirà l’ Ingegnere”. Conferenze, seminari, piccoli corsi universitari. Tutti su un solo tema: Berlusconi e la sua rivoluzione nella politica italiana e non solo. Ad Oxford ha appena tenuto un ciclo di seminari sul tema. Ad ottobre è stato l’ospite centrale in un lungo speciale della tv moscovita in lingua inglese (vista in tutto il mondo), Rt, dal titolo “Lo strano caso di Silvio Berlusconi”. Lo ha difeso con garbo e moderazione, anche sui temi più scivolosi, come la vicenda escort spiegando che questo in Italia è un problema per l’opinione pubblica e le gerarchie cattoliche, non per l’opinione pubblica in generale: perché semmai la maggiore parte degli italiani, ma anche dei russi, degli inglesi, dei francesi o degli spagnoli, vorrebbe essere al posto di Berlusconi Ed è curioso, perché il professore Mancini non è un tifoso del cavaliere. Anzi: in università raccontano venga dalle radici socialiste e sia un moderato di sinistra. Però studia, come racconta lui stesso a Libero il fenomeno politico del cavaliere. E lo esporta come materia davanti agli studenti britannici, spiegando come il modello Berlusconi, seguito da quello Blair e da quello Obama sia soprattutto una rivoluzione nel modo di fare politica e abbia travolto i partiti tradizionali su una via senza ritorno. “Vero”, spiega Mancini, “all’estero c’è un grande interesse verso il fenomeno politico Berlusconi. Ad Oxford il titolo del seminario che ho tenuto era “Behind of the common sense”, cioè al di là del senso comune. E infatti secondo me con il premier italiano c’è qualcosa di molto più importante del senso comune: ed è il mutamento radicale delle forme della politica”. Con lui, sostiene il professore perugino (che invero è nato a Foligno) si segna “la fine dei partiti tradizionali di massa, nel bene e nel male. Con Berlusconi ha preso una strada, con altri che sono seguiti ne ha preso diverse. Ma da lì è finito il modello del partito ideologico di massa”. Eppure quel modello in Italia è ancora forte, e vi pianta le sue radici anche il Pd di Pierluigi Bersani: “Non voglio attaccare dicendo questo”, si schermisce Mancini, “il nuovo partito della sinistra italiana., ma è certo che non avrà più spazio nelle forme che hanno ormai preso la democrazia e la politica. Forme che Berlusconi ha appunto riempito dei suoi contenuti e che Obama ha riempito di contenuti assai diversi. Ma non ha più futuro una forma ideologica di partito”. E cosa saranno allora i partiti del dopo Berlusconi? “Il fatto”, spiega Mancini, “è che ognuno vuole ritrovare se stesso, con la propria vita di ogni giorno, molto pragmatica, nella forma di un partito. Il valore ideologico c’è sempre di meno, è destinato a spegnersi”. Cioè? “Sono a Perugia, la famiglia di mia moglie viene dalle radici più consolidate della sinistra cattolica. Ma quando loro e quelli della loro generazione avranno terminato l’esperienza della resistenza, quando quella generazione sarà scomparsa, si porterà via con sé quelle radici. Mio figlio ad esempio vive una esperienza totalmente diversa, c’è poco da fare. Quei partiti, nonostante sforzi come quello di Bersani, sono assolutamente destinati a scomparire. Sopravviverà nell’area solo qualche esperienza totalmente diversa, pensi a cosa è stato ad esempio il Labour di Tony Blair…”
Ma è Mps (la banca rossa) la preferita da Silvio
E’ il Monte dei Paschi di Siena, quella che scherzosamente viene definita la “banca rossa” per eccellenza, l’istituto di credito prescelto da Silvio Berlusconi e da tutti i suoi figli per la gestione dei propri depositi. Presso l’istituto bancario che ha ancora come primo singolo azionista l’omonima fondazione (gestita da enti locali amministrati dal Pd, per questo banca rossa) la famiglia Berlusconi ha depositato indirettamente poco meno di 350 milioni di euro. Cifra assai superiore ai 19, 6 milioni di euro depositati presso Banca Arner, filiale italiana dell’istituto di credito svizzero, dei 28,6 milioni depositati presso banca Morgan Stanley e dei 28,7 milioni amministrati congiuntamente da Morgan Stanley ed Arner. E’ nel gruppo bancario guidato da Giuseppe Mussari che il premier e i suoi cinque figli hanno lasciato la liquidità che controllano più direttamente: quelle delle holding proprietarie del gruppo Fininvest. Quattro di queste (la prima, la seconda, la terza e l’ottava) sono controllate dal capo famiglia, una a testa (la quarta e la quinta) dai due figli più grandi, Marina e Piersilvio e l’ultima (la quattordicesima) è controllata congiuntamente dai tre figli più piccoli nati dal matrimonio con Veronica Lario: Eleonora, Barbara e Luigi. Non è una sorpresa in sé la predilezione per la banca senese, perché è proprio quella che ha affiancato Berlusconi nei suoi primi passi imprenditoriali, finanziandogli le attività da costruttore. Il dato però stride con le affermazioni contenute nella inchiesta (più annunciata che fatta) trasmessa domenica sera da Report condotto da Milena Gabanelli. Secondo la trasmissione (che conteneva più di una imprecisione) le holding di Berlusconi avrebbero tenuto depositi principalmente nella Arner Bank e la cifra rivelata ammontava a 60 milioni, 50 dei quali appartenenti a Marina e Piersilvio e 10 a Silvio Berlusconi. Non è questa la cifra desumibile dagli ultimi bilanci disponibili, quelli che si sono chiusi al 30 settembre 2008 e che sono stati approvati nelle assemblee delle holding fra fine gennaio e i primi del mese di marzo 2009. Presso Banca Arner i Berlusconi hanno esclusivamente gestioni patrimoniali e nei bilanci si riporta solo la movimentazione dei titoli. La holding quarta che fa capo a Marina non risulta avere più né gestione né deposito in Banca Arner, e probabilmente l’errore di Report deriva dalla consultazione dei bilanci dell’anno precedente (quando Arner era citata in co-gestione con Banca Morgan Stanley, oggi sola depositaria del patrimonio). In un caso, quello della holding quinta di Piersilvio la gestione patrimoniale- di una certa consistenza: 28,7 milioni di euro- è affidata congiuntamente a Morgan Stanley ed Arner, e nell’ultimo anno è riuscita a salvare quasi tutto il capitale amministrato, perdendo solo 197.456 euro di valore (-0,6%). E’ andata di lusso a Marina che con la sola Morgan Stanley è riuscita a guadagnare perfino nel primo anno di crisi dei mercati: 550.037 euro di capital gain (+6.3%). La primogenita di Berlusconi , che sicuramente ha un fiuto particolare per gli affari, è riuscita in questo modo a investire parte della liquidità azzeccando due colpacci nell’ottobre 2008: prima ha acquistato130 mila azioni Mediaset e poi 120 mila azioni Parmalat spa. Su Mediaset alla data di ieri aveva guadagnato 136.378,55 euro (e cioè il 27,47% di capital gain in un anno) . Su Parmalat Marina ha guadagnato 91.882,91 euro (una sorta di botto di questi tempi: il rendimento in soli 12 mesi è stato del 60,56%).
Dovrebbe imparare da Marina papà Silvio che invece con Banca Arner ha perso in un anno più o meno la stessa somma in valore assoluto guadagnata dalla figlia (-3%). Più prudenti invece i tre figli più piccoli: hanno lasciato il grosso della liquidità (111,6 milioni) sul conto bancario Mps e hanno preferito evitare di fare scommesse sui mercati: 5 milioni li hanno affidati in gestione tranquilla al fondo Sator di Matteo Arpe, altri 4,3 milioni li hanno investiti nel capitale di una società di biotecnologie già controllata da Fininvest
su silvio la tenaglia pm- figli- Veronica
C’è un nome che sintetizza gran parte dei timori giudiziari di Silvio Berlusconi e che qualche cosa ha anche a che vedere con le vicende di famiglia. Non è il nome di un giudice, non è il nome di una persona. E’ il nome di una banca svizzera. Si chiama Arner bank, e questo marchio apparso già in passato nelle prime inchieste sul gruppo Fininvest-Mediaset, unisce due procure di quelle che al Cavaliere fanno accapponare la pelle. Perché sull’Arner bank indagano sia la procura di Milano (inchiesta sui diritti televisivi e Mediatrade) sia quella di Palermo, dove ufficialmente i due pm Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia si occupano di riciclaggio di soldi della mafia e per questo motivo hanno fatto arrestare nel 2008 un finanziere italo-svizzero, Nicola Bravetti. Ma le strade delle due indagini si sono più volte intersecate e la documentazione acquisita ha fatto capolino anche durante un processo che è giunto già a sentenza di secondo grado, quello nei confronti dell’avvocato britannico David Mills. E’ un po’ complesso addentrarsi nei particolari. La sostanza però è semplice: presso la Arner bank, per poi dirigersi verso altri porti, secondo i magistrati è passato un fiume di denaro proveniente da attività condotte fuori dai bilanci ufficiali, in nero. Parte di queste attività sarebbero arrivate dai vari business della criminalità organizzata- ed è il filone aperto da Ingroia e Scarpinato. Altra parte dal sistema dei conti esteri off-shore del gruppo Fininvest, ed è la matassa che da anni sta cercando di sbrogliare anche attraverso raffiche di rogatorie la procura di Milano. Con quel materiale sono già stati originati numerosi processi ufficiali in parte chiusi (All Iberian, falso in bilancio Fininvest e primo filone diritti tv) in parte aperti (Mills e Mediatrade). E sono le stesse carte di sempre ad essere utilizzate dalla procura di Milano per aprire nuove ipotesi processuali (appropriazione indebita è l’ultima ipotesi avanzata dal pm Fabio De Pasquale per il sottofilone Frank Agrama). Sono al momento solo voci e illazioni quelle secondo cui il materiale Arner Bank potrebbe essere utilizzato da una procura per unire i due filoni (fondi neri Fininvest e fondi neri mafia spa) trovando punti di contatto e ipotesi di accusa comuni.
Nel mirino di queste inchieste c’è naturalmente Silvio Berlusconi, ma non è l’unico membro della famiglia ad essere lambito dalle ipotesi di accusa. Il malloppone giudiziario sui fondi neri Fininvest ha più volte lambito i due figli di primo letto del cavaliere, entrambi con responsabilità operative in aziende del gruppo Marina e Piersilvio. Nel 2004 nei loro confronti fu aperta una indagine con l’accusa di riciclaggio e ricettazione nell’ipotesi che Marina e Piersilvio fossero beneficiari di fondi neri depositati sue due conti bancari: il Century One e l’Universal One. Due anni dopo gli stessi magistrati hanno archiviato tutto, sostenendo che Piersilvio e Marina fossero troppo giovani e quindi dei semplici prestanome senza responsabilità dirette. Ma i nomi dei due figli di primo letto di Berlusconi sono riapparsi fra le carte del processo Mills e fra quelle del filone di inchiesta su Frank Agrama. L’ipotesi è sempre la stessa: che nel sistema estero del gruppo Fininvest e in particolare nella compravendita dei diritti televisivi con le major cinematografiche americane (il lavoro di Agrama) si fossero creati fondi neri in parte destinati a pagare i mediatori e in parte proprio a fare arrivare redditi esentasse a Berlusconi e ai suoi primi due suoi figli. Per ora è solo un filone nelle varie inchieste, ma è quello che più irrita e preoccupa il Cavaliere, che si indigna in pubblico e in privato per il coinvolgimento dei suoi figli. Anche perché sa dove portano queste ipotesi giudiziarie: a possibili condanne e pene accessorie in grado di togliere non a Berlusconi, ma ai Berlusconi quanto creato dal cavaliere nella sua vita.
Il Cavaliere si sente circondato
Questa volta Silvio Berlusconi è davvero “circondato”. Il virgolettato è d’obbligo, perché a descrivere così la sua situazione è il diretto interessato. “Sono circondato”, ripete il premier da qualche mese ad ogni incontro con i suoi più diretti collaboratori e nei rari momenti che riesce a trascorrere con i vecchi amici. E circondato il cavaliere lo è davvero come mai gli era accaduto nei quindici anni della sua nuova vita politica. Non c’è parte dove voltarsi in cui Berlusconi non trovi davanti un nemico. In politica, perfino all’interno del partito che ha fondato. Nelle istituzioni, dove pochi gli sorridono. Nel rapporto con i magistrati che stringono la tenaglia delle inchieste non solo su lui (ci è abituato), ma anche sulle persone che ha più care. A casa, se di casa si può parlare nel giorno in cui Miriam Bartolini sposata Berlusconi (e più nota con il nome d’arte Veronica Lario) ha depositato in tribunale un ricorso individuale di separazione con addebito dal marito. Non è mai stato così sotto assedio. Non ha mai corso come ora il rischio di perdere tutto l’imprenditore che ha creato dal nulla il primo gruppo televisivo privato italiano, il politico che dal nulla ha fondato e portato al successo il primo partito italiano, il patriarca abituato ad essere venerato e rispettato senza discussioni dai cinque figli, dai generi, dai nipoti da una famiglia che amava riunire appena possibile con riti celebrati sempre uguali fino alla noia e sempre immutati negli anni.
E’ sotto assedio, circondato, l’impero a cui Berlusconi tiene di più: quello delle aziende che ha costruito e fatto crescere in questi anni e che avrebbe voluto consegnare ai figli. Sono circondate dal fisco, che alla sola Mondadori contesta 250 milioni di euro e a Fininvest numerose altre poste (un salvagente era stato immaginato in Senato con un mini condono tributario rifiutato dal finiano Maurizio Saia, relatore della legge finanziaria). Fuori con i fucili puntati c’è Carlo De Benedetti, con in mano quella sentenza firmata dal giudice Raimondo Mesiano e al momento congelata, che rischia di portare via a Berlusconi e ai suoi figli 750 milioni di euro. Ci sono i bazooka delle procure che oltre a potere sbalzare il cavaliere dalla sella di palazzo Chigi, potrebbero avere l’effetto di sottrargli anche parte del patrimonio e delle aziende. E poi c’è Veronica, la madre di solo tre dei suoi figli, con la causa di separazione ostile che rischia di spezzare la famiglia e anche a possibilità di Berlusconi di scegliere liberamente l’asse ereditario. Non c’è bisogno di una regia preordinata, di un complotto che veda uniti negli intenti e coordinati nelle azioni tutti i protagonisti sopra citati. La regia potrebbe essere nei fatti, indipendentemente dalla volontà degli attori.
Siamo su pure ipotesi, che nel quartiere generale del cavaliere però sono state prese seriamente in considerazione leggendo fra le pieghe delle mosse di chi lo cinge d’assedio. C’è una azione giudiziaria, quella di Veronica, che punta a castigare il marito soprattutto sotto il profilo patrimoniale e a ridurre il perimetro aziendale e patrimoniale dei due figli di primo letto, Marina e Piersilvio a favore dei tre di secondo letto: Eleonora, Barbara e Luigi. C’è una seconda azione giudiziaria, quella della procura di Milano che se ha al centro del suo mirino il presidente del Consiglio, potrebbe avere come conseguenza indiretta lo stesso obiettivo che ha Veronica. Quel che traspare dalle carte del processo Mills e delle varie inchieste sui diritti televisivi è infatti l’ipotesi di un tesoretto non ufficiale accumulato negli anni all’estero a favore di Berlusconi e dei suoi due figli impegnati direttamente in azienda, che sono appunto quelli di primo letto. Non c’è dubbio che quelle carte possano diventare interessanti anche per la causa di divorzio e per stabilire il perimetro dell’asse ereditario. Altro che assedio: diventerebbe un fuoco concentrico, per altro con evidenti parallelismi con quello che sta accadendo all’interno della famiglia Agnelli (fisco, giudici e Margherita sono saldati da un obiettivo comune).
C’è anche il fronte politico, dove gli avvenimenti sono più palesi. E’ chiaro a tutti ad esempio come con grande difficoltà si possa parlare ancora di un’alleanza politica (il rapporto umano è compromesso da tempo) fra Berlusconi e l’attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ma se questo è un caso alla luce del sole, sotto traccia non manca altro. Come ha confessato in privato il leader Udc Pierferdinando Casini dopo il faccia a faccia della riconciliazione con il premier :“figurarsi, fosse stato per Silvio eravamo già lì a discutere i particolari di una nuova alleanza. Perfino i ministeri. Ma io come faccio? Chiunque dei suoi abbia incontrato non ha fatto che parlarmi del dopo. Tutti, anche suoi ministri, ragionano del dopo-Berlusconi considerando questa epoca agli sgoccioli. E io vado a costruire un’alleanza con lui proprio ora?”.
Johnny Riotta, era lui il direttore del Tg1 dall'editoriale facile
Gianni Riotta batte Augusto Minzolini 77 a 4. Per settantasette volte in due anni e mezzo l’ex direttore è comparso sugli schermi del Tg1 da lui diretto commentando, intervistando e perfino intervistandosi. Minzolini quattro volte in sei mesi e per pareggiare i conti con il suo predecessore avrebbe bisogno di ingranare la sesta marcia, d’ora in avanti con almeno un intervento ogni dieci giorni. Nel disinteresse assoluto di vertici aziendali, commissioni parlamentari di vigilanza e politica in genere, Riotta è riuscito ad utilizzare tutte le frecce all’arco di un vero professionista. Per ventidue volte ha fatto il commentatore: 19 editoriali veri e propri e tre ricordi autobiografici (in gergo giornalistico “coccodrilli”) di altrettanti autorevoli giornalisti scomparsi: Enzo Biagi, Emilio Rossi e Sandro Curzi. Dodici volte Riotta è comparso in studio durante le principali edizioni del Tg1 per farsi intervistare dal conduttore di turno. Ma in sostanza per auto intervistarsi, perché le domande erano concordate se non proprio scritte insieme prima di andare in onda. Altre 43 volte l’ex direttore del Tg1 è andato in onda facendo da intervistatore, e anche in quel caso qualche commento è scappato a chiosa del dialogo con il suo ospite. L’apice è stato raggiunto da Riotta il 13 ottobre del 2007, quando in studio il direttore del Tg1 è apparso insieme a un altro ospite, Vincenzo Conticello, proprietario dell’Antica focacceria San Francesco di Palermo, un imprenditore balzato agli onori della cronaca per il suo rifiuto di pagare il pizzo alla mafia. La conduttrice, Tiziana Ferrario intervistò Conticello, poi intervistò il suo direttore e ancora cedette a lui la possibilità di fare ulteriori domande all’ospite. Riotta le fece, poi fissò la telecamera per un editorialino volante: “sono orgoglioso di potere ospitare un imprenditore così. Sono due volte orgoglioso, perché Conticello è mio cugino”.
L’editoriale al Tg1 non è dunque innovazione di Minzolini, anche se ogni volta che l’attuale direttore apre bocca in studio succede un pandemonio e si strepita alla violenza perpetrata nei confronti del servizio pubblico. Certo finora Minzolini è andato al risparmio: a parte il primo saluto ai telespettatori solo altre tre volte è andato in video offrendo commenti dedicati al caso Berlusconi-escort, alla libertà di informazione (in occasione della manifestazione Fnsi a piazza del Popolo) e ai rapporti fra giudici e politica (il caso Ingroia sollevato proprio da Libero).
Nei suoi ventidue commenti Riotta ha naturalmente spaziato su un ventaglio di argomenti più vasto. Essendo la politica estera la sua passione, per sette volte se ne è occupato: due su terrorismo e Medio Oriente, cinque sulle elezioni americane. Come Minzolini si è occupato di libertà di informazione anche se Riotta (il 3 maggio 2008) ha preso spunto da una manifestazione internazionale: la giornata per la libera stampa indetta dall’Onu. Ma in non poche occasioni il predecessore di Minzolini si è occupato di politica interna. Editoriale il 14 luglio 2007 sulle difficoltà della situazione politica italiana. Altro editoriale il 13 ottobre 2007 sui risvolti provocati nel quadro politico italiano dalla nascita del Partito democratico. E ancora, panoramica di politica interna ed estera nell’editoriale del 30 dicembre 2007 dove si fanno anche gli auguri di buon anno ai telespettatori con un giorno di anticipo (per non mettersi in gara il giorno dopo con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano). Il 4 marzo 2008 Riotta fece un editoriale sui programmi dei due principali schieramenti in campagna elettorale finendo con un’intervista all’economista Mario Monti. Dodici giorni altro editoriale di politica, partendo però dal trentennale del sequestro di Aldo Moro. Un mese dopo, il 15 aprile 2008, ancora un Riotta commentatore politico in video per dire la sua sul risultato delle elezioni politiche in Italia. Poi una sfilza di editoriali sulle elezioni americane in cui non è stata del tutto assente la politica italiana. Fino all’editoriale omnibus del primo gennaio 2009, in cui Riotta ha commentato il discorso di Napolitano della sera prima e l’agenda politica del governo per il nuovo anno.
In mezzo le 43 interviste, un genere in cui la parte del leone è toccata a Roberto Benigni (intervistato per 13 volte anche per lanciare un programma in onda su Rai Uno), e di cui hanno tratto beneficio dopo la vittoria elettorale anche esponenti del centro-destra come Giulio Tremonti (intervistato da Riotta sul Tg1 cinque volte) e Gianfranco Fini (due volte, come Romano Prodi nel periodo precedente).
Non può essere quindi al genere giornalistico che il centrosinistra aziendale o no oggi sta facendo il processo. Sono i contenuti e non la forma dei commenti di Minzolini che si vorrebbe censurare. Come mai è accaduto nella storia dell’informazione pubblica dell’Italia libera e repubblicana.
Il forziere della camorra? Non ha un euro dentro. Su Cosentino i pm prendono un po' di fischi per fiaschi
Si è messo le mani nei capelli, perché altro non poteva fare Roberto Pepe, manager di lungo corso, quando è entrato per la prima volta nel suo ufficio alla Eco4 di Caserta, la società formalmente pubblica specializzata nel ciclo dei rifiuti che secondo i magistrati pronti ad arrestarlo era di fatto dell’attuale sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino (“la Eco4 songo io” si sarebbe vantato il politico secondo le confessioni dei camorristi pentiti). Basterebbe prendere la disperata relazione di Pepe depositata al registro delle Camere di commercio per conoscere un’altra verità di quella Eco4, che secondo i giudici napoletani è l’architrave dell’accusa verso Cosentino: attraverso i cospicui fondi lì transitati per il riciclo dei rifiuti si sarebbero ingrassati i forzieri della camorra, e nella stessa società grazie a Cosentino e ad altri politici dell’area (nell’ordinanza vengono citati pure Mario Landolfi e Italo Bocchino) sarebbero stati assunti decine e decine di parenti e manovali cari al clan dei casalesi. Bisognerebbe prenderle quelle sei paginette scritte il 15 giugno 2007 da Pepe e leggerle dalla prima all’ultima riga per farsi raccontare una storia che nella richiesta di arresto per Cosentino non è manco citata. “La situazione mi parve difficile già dalla mia prima visita alla sede della società”, scrisse Pepe, “uffici sporchi e disadorni, telefoni muti, computer non funzionanti e, successivamente, sequestrati dalla ditta proprietaria (perché non pagate le rate del nolo)”. La schiera di camorristi assunti? “Il personale è stato sempre scarsamente collaborativo, se non ostile, perché non pagato da mesi”. Il forziere della camorra? “nelle casse della società non vi era un solo euro e qualunque spesa da affrontare, anche la più irrisoria era impossibile. Neanche la carta intestata o bianca era disponibile. Ricordo che il crocifisso per la mia stanza mi fu donato dal dr…”. Niente soldi in cassa, eppure la Eco4 (che poi ha cambiato il suo nome in Egea service) non era ancora fallita: “era esposta a debiti e sotto il tiro di molti creditori, ma era anche depositaria di molti crediti da parte dei comuni i quali però non pagavano e si appellavano ad azioni pretestuose per non onorare i propri impegni”. Come è finita? Che i comuni hanno continuato a non pagare e che tutto quel che c’era se l’è portato via il creditore più svelto, la Flora Ambiente spa che ha ottenuto il fallimento della ex Eco4. Questo finale non è irrilevante, perché l’architrave dell’accusa dei magistrati contro Cosentino poggia proprio su questa Flora Ambiente, appartenente ai fratelli Orsi che sarebbe stata creata proprio per svuotare dai soldi pubblici la Eco4 attraverso un giro di false fatturazioni con la presunta complicità di Cosentino e con la benedizione del clan dei casalesi (prima una famiglia, i Bisognetti e poi un’altra, quella degli Schiavone grazie all’interessamento di vari pentiti e di un personaggio quasi da fumetto, Gigino o’drink). Hanno ragione i giudici di Napoli: effettivamente tutto quel che c’era della Eco4 è finito proprio alla Flora Ambiente. Non però per gli uffici malandrini di Cosentino: per decisione di altri giudici, quelli del tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Quella della Eco4 è una delle tante contraddizioni contenute nella richiesta di arresto del sottosegretario all’Economia avanzata dal gip di Napoli. Non è l’unica, se ne rendono conto gli stessi magistrati che procedono. Ballerino è il reato contestato di concorso esterno, tento che tutta la prima parte dell’ordinanza riconosce la confusione giuridica in proposito e cerca a lungo un precedente adatto alla bisogna, trovandolo poi in uno dei tanti processi a Calogero Mannino. Claudicante la stessa necessità di arrestare Cosentino. Anche qui il gip lo riconosce a pagina 354 dell’ordinanza: non c’è pericolo di fuga perché l’indagato è “parlamentare e sottosegretario di governo”.
SOS Magistrati- Gli italiani non ci amano più! Per colpa di Berlusconi...
A seguire i sondaggi non c’è solo Silvio Berlusconi. Da due anni a questa parte quelli sul gradimento sono miele per il presidente del Consiglio italiano che non perde occasione per sbandierarli anche all’estero. Sono fiele invece, quasi un incubo per l’associazione nazionale magistrati guidata da Luca Palamara. Nel direttivo centrale dell’Anm spesso quel dato del 33% di italiani che hanno ancora fiducia nella magistratura veniva citato dalla buonanima del giudice Maurizio Laudi, uno dei magistrati più critici verso la categoria di appartenenza. Quel 33% è apparso come un incubo anche nell’ultimo convegno organizzato da Magistratura democratica il 5 novembre scorso al residence di Ripetta. Lo ha ricordato anche in apertura Rita Sanlorenzo, segretario di Md, descrivendo una “magistratura delegittimata, magistratura che ha perso ormai il consenso dell’opinione pubblica, quello che la sostenne e la supportò negli anni della lotta al terrorismo, negli anni della lotta alla mafia, all’inizio di Mani pulite”. Poi la Sanlorenzo ha provato a farsi coraggio: “la misurazione del consenso è una lente di per sé ingannevole. I magistrati hanno bisogno più che di consenso, della fiducia dei cittadini”. Ma la teoria non sfonda presso i suoi colleghi. Ah i tempi di mani pulite, quando tutto il paese era con noi! Il lamento percorre la magistratura in tutte le sue componenti da mesi e si è fatto lancinante negli ultimi due anni. Facendo scattare l’allarme e cercare le contromisure. Come ha sostenuto durante uno dei direttivi centrali dell’associazione Paolo Corder. Giudice presso il tribunale di Venezia, “occorre un pacchetto di iniziative che possa ridare credibilità alla magistratura di fronte all’opinione pubblica”. E mica è il segno di una profonda autocritica all’interno della categoria. No, perché pochi magistrati pensano che questa caduta radicale di consenso nell’opinione pubblica derivi da comportamenti abnormi di colleghi. In due anni di direttivo centrale dell’Anm solo la buonanima di Laudi ha provato a buttarla lì (ad esempio nel direttivo del 26 giugno scorso a proposito delle intercettazioni disse “Oggi ci si dimentica degli abusi intervenuti in materia, sia per le intercettazioni a strascico che per la loro propalazione all’esterno, e che questi comportamenti hanno fatto sì che larga parte del paese è stufa”). Ma è stato appunto l’unico. Per tutti gli altri la caduta del consenso ha una causa sola: Berlusconi. Anche se quel nome nessuno pronuncia mai direttamente né in pubblico né in privato.
La parola più gettonata fra i magistrati è “emergenza democratica”. L’ha evocata Antonio Ingroia al convegno di Md, spiegando che “si può ribaltare il corso degli eventi soltanto ), cercando di creare alleanze interne alla società con le parti più sensibili e consapevoli degli interessi in gioco”. Di “emergenza democratica” ha parlato il segretario di Unicost, Marcello Matera, al direttivo centrale Anm del 17 ottobre scorso: “l’emergenza democratica è tale da imporci di mettere per un momento da parte, in secondo piano, divergenze che ci sono fra noi. Abbiamo tutti la consapevolezza della storia, e non possiamo ignorare che questa fase storica ricorda molto, molto, molto una fase storica che ha interessato la Francia fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Quando con referendum popolare si sono abolite l’assemblea nazionale e le assemblee locali e sono state sostituite da un triconsolato e da prefetti e questori. Solo dieci anni dopo il taglio delle teste della più grande rivoluzione dell’era moderna”. Piacciono ai magistrati i riferimenti storico-letterari che aiutano a drammatizzare ulteriormente. Così al convegno Md Ciro Riviezzo, movimento per la Giustizia e membro del Csm, ha tuonato: “C’è un pensiero unico, siamo in pieno nella logica del pensiero unico. L’opinione avversa non solo viene confutata, ma viene addirittura demonizzata aprioristicamente. Viene esclusa, ritenuta pericolosa. Non dobbiamo aspettare Orwell e il 1984. Ci siamo già dentro”.
Usano parole più forti dei politici di opposizione. Ragionano su come ribaltare il corso di Berlusconi e del berlusconismo ormai apertamente, senza finzioni. Francesco Vigorito, giudice del tribunale di Roma, sostiene “Oggi lo stato di diritto è in crisi. Oggi si sostiene che la politica in quanto espressione della volontà popolare sia l’unica forma di democrazia. E lo si dice oggi in una fase in cui la qualità della democrazia ha subito dei colpi perché è cambiato il punto di riferimento generale, la funzione pubblica di governo dell’economia è caduta, c’è stato il passaggio dallo stato sociale allo stato aziendale. Dobbiamo capire che fare, quali sono le vie di uscita. Una domanda che riguarda non solo la magistratura, ma l’intero mondo dell’opinione pubblica progressista. Allora dobbiamo avere più capacità organizzative, fare in modo che la società ci senta come un valore per tutti. E’ un percorso che mai come adesso è urgente compiere”. Ma non sanno come agganciare quella che chiamano “società civile progressista”, non sanno come ritrovare quel consenso popolare senza il quale la spallata diventa difficile. “La magistratura”, dice Giuseppe Santalucia, magistrato di Md alla suprema Corte di Cassazione, “magistratura si trova da un lato compressa da una maggioranza che ha voglia di semplificare il principio di maggioranza decidendo molto di più di quello che è fisiologicamente decidibile, dall’altro si trova esposta ai bisogni di risposta dei cittadini. E quindi ha la necessità di essere efficiente, e quindi necessità di contrastare una maggioranza politica che -come dire- erode spazi”. Il capo del governo, spiega Santalucia, fa ampio uso di popolismo che “critica, ma non dà una risposta, una soluzione quando amplifica la frattura fra il popolo e l’elite. E la magistratura è una delle elite che soffre di più di questa apertura di una frattura populista di una propaganda che si è sempre più rafforzata per la concentrazione dei poteri mediatici in capo a chi detiene ormai da tantissimo tempo il potere politico in Italia. Questo ci espone a una aggressione da cui è assai difficile difendersi”. Anche se la via d’uscita è “riorganizzarsi”, “ridarci efficienza, tornare a fare presa sull’opinione pubblica”, come quasi in coro hanno detto tutti i partecipanti al convegno di Md galvanizzati dalle incitazioni di Stefano Rodotà. E per iniziare ha suggerito un altro membro del Csm, Elisabetta Cesqui: “Dobbiamo combattere quel mantra che ci sta schiacciando, quel sillogismo secondo cui i giudici politicizzati sono di sinistra, per cui tutti i giudici che fanno sentenze contrarie agli interessi di qualcuno sono politicizzati, ergo sono di sinistra”.
Miss Sixty, il marchio che in una notte ha fatto il giro di Europa
Che capodanno, quello di dieci anni fa per Vittorio Hassan, il fondatore di un piccolo impero di moda per giovanissimi. Era il 31 gennaio 1998 quando l’imprenditore abruzzese vendette per un miliardo di vecchie lire a una società lussemburghese, la Fronsac investment holding, i suoi marchi principali: Miss Sixty, Sixty, Murphy & Nye, Energy Refrigiwear, Killah, Baracuta e altri. Il mattino dopo, all’alba del primo gennaio 1999 Hassan e il gruppo Sixty hanno acquistato il diritto di distribuzione di tutti i marchio che fino al giorno prima erano di loro proprietà. A vendere quel diritto è stata una società ungherese, la Pentaflash. Li aveva comprati durante la notte di Capodanno da una società olandese, la Aldrigen Trading and Licensing, che ha sua volta li aveva acquistati da una società di Madeira, la Nightingale Marketing e Commercio. Insomma, una notte da ricordare per Miss Sixty che si è fatta il giro di Europa prima di tornare a casa. Ma quel viaggio dopo dieci anni rischia di costare parecchio ad Hassan, a cui oggi l’Agenzia per le Entrate di Attilio Befera contesta una evasione fiscale di circa 50 milioni di euro negli anni proprio legata a quella rapidissima estero vestizione dei marchi così popolari fra i teen agers. Secondo il verbale della Agenzia delle Entrate infatti quel giro d’Europa è stato realizzato con un solo scopo: trasferire in paesi con forti vantaggi fiscali l’incasso delle royalties sui marchi. Ad avere messo gli ispettori del fisco italiano su quella pista per altro è stato lo stesso bilancio del gruppo Sixty del 1999, in cui vengono pagate alla società ungherese ultima titolare dei marchi 4,7 miliardi di lire di diritti di distribuzione, e cioè 5 volte quanto pochi mesi prima Hassan aveva incassato vendendo gli stessi marchi. Un’operazione che evidentemente non stava in piedi. L’Agenzia delle Entrate ha atteso una volta iniziate le prime indagini che passasse il periodo del condono fiscale a cui le società del gruppo Sixty però non hanno aderito e poi ha iniziato a procedere, pur senza arrivare a scoprire il vero azionista della società lussemburghese a cui quella notte per prima furono ceduti i marchi: era una finanziaria –schermo residente alle Bahamas che era ed è restata anomima.
Il verbale di contestazione dell’Agenzia delle Entrate è arrivato nelle settimane scorse alla procura della Repubblica di Teramo (dove è stata trasferita la sede legale, un tempo a Chieti) che con l’aiuto della guardia di Finanza ha aperto un fascicolo penale iscrivendo a registro degli indagati Hassan per dichiarazione infedele (le fiamme gialle hanno escluso l’esistenza di una ipotesi di dichiarazione fraudolenta). Al di là di come procederà il contenzioso fiscale, il caso è il primo di un’offensiva lanciata dal fisco italiano nei confronti del settore del lusso e del fashion, in cui il fenomeno dell’esterovestizione dei marchi e perfino delle società di distribuzione sembra assai diffuso. Qualche preoccupazione comincia a serpeggiare anche fra i grandi gruppi della moda italiana che per altro non stanno attraversando un buon momento di mercato e sono spesso costretti a chiudere attività e ristrutturare i settori di business.
Il gruppo Sixty spa ha chiuso il 2008 con un fatturato di 419 milioni di euro e un risultato negativo per 19 milioni di euro dovuto essenzialmente a partite finanziarie straordinarie e alla svalutazione di partecipate per 24 milioni di euro. Il margine operativo era infatti positivo di 18 milioni di euro, anche se in calo rispetto ai 44,8 milioni dell’anno precedente. Nel bilancio non si cita la vicenda dei marchi, ma si dà notizia di una doppia verifica fiscale da parte della Agenzia delle Entrate de l’Aquila. Una relativa al 2003 notificata a dicembre 2008 e una successiva per gli anni 2004-2007 non ancora notificata. Secondo i documenti giunti in società la contestazione riguarda imposte emerse per 21 milioni di euro. Il gruppo Sixty ha presentato istanza di autotutela e annunciato il ricorso per la contestazione notificata, ma non ha operato accantonamenti in bilancio sostenendo “prive di qualsiasi fondamento giuridico” le pretese dell’Agenzia delle Entrate, su consiglio dei consulenti fiscali prof. Giorgio De Nova e prof. Marco Piazza dello studio Biscozzi e Nobili che assistono Hassan.
C'è un pm che vuole ribaltare Berlusconi e tutto tace
Immigrati e intercettazioni telefoniche sono emergenze fittizie. “L’emergenza reale è quella democratica”. Parola di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo che sostiene- pur senza citare un nome, che chi oggi è al governo dell’Italia ha “demolito i pilastri dello Stato”, che prima ha “assediato, poi assaltato e occupato per i suoi interessi privati”. Di più, ha favorito per interessi privati l’invasione “di spazi della politica da parte di poteri criminali che hanno penetrato le istituzioni”. Così, secondo la ricetta espressa da Ingroia a un convegno di Magistratura democratica a Roma, oggi i magistrati debbono “riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica” per “ribaltare il corso degli eventi soltanto mettendo le premesse per la nascita e la crescita una politica con la P maiuscola”. Parole forti, con passaggi ancora più clamorosi, che Ingroia ha pronunciato a Roma al residence di Ripetta davanti allo stato maggiore di Md, a due membri del Csm e a Stefano Rodotà. Il magistrato di Palermo che ha condotto l’indagine su Marcello dell’Utri sostiene che era meglio il rapporto fra politica e mafia all’epoca di Giulio Andreotti: “Nella cosiddetta prima trattativa c’era una politica che- uno Stato, diciamo così, che intrecciava i rapporti con pezzi dei poteri criminali per finalità- diciamo così, di ordine pubblico (quindi politici e non privati). Nella cosiddetta seconda trattativa lo Stato è scomparso e ci sono interessi privati che si siedono al tavolo degli interessi criminali per contrattare privatamente i rispettivi obiettivi”.
Ingroia ha esordito nel silenzio generale (e con qualche applauso) spiegando che “Noi abbiamo davanti una sistematica demolizione dei pilastri dello Stato. Cioè quello che rende le cose a mio parere particolarmente drammatiche è che noi non abbiamo una politica che vuole sottoporre la magistratura sotto il controllo della politica. Oggi non abbiamo politica. E non abbiamo Stato. Cioè il ruolo di mediazione, con tutti i difetti e le accentuazioni che la politica svolse nella prima repubblica. Semplicemente non c’è più. Lo Stato e la politica sono stati oggetto prima di un assedio, poi di un assalto, di interessi privati e quindi oggi lo Stato è occupato da interessi privati, che non fanno politica, ma realizzano soltanto i propri interessi”. E ancora, scagliandosi contro le ipotesi di riforme istituzionali appena tratteggiate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “noi siamo oggi senza politica, ma solo in mano di interessi privati che della politica si sono impossessati. I colpi subiti dallo stato di diritto con l’accentramento del potere dell’esecutivo non sono solo finalizzati a costruire uno Stato secondo un modello diverso da quello istituzionale costruito dalla Corte Costituzionale . Si tratta semplicemente di una scelta nella quale un nucleo di interessi personali e privati ha individuato il potere l’esecutivo come quello che gli consente di fare meglio i proprio interessi. E secondo questi interessi ha modellato un nuovo modello di Stato e un nuovo modello istituzionale.” Ed ecco la ricetta del magistrato anti-Berlusconi: “Dobbiamo riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica non c’è più, perché parte di questo disegno è distruggere l’opinione pubblica, trasformandola in soggetti sui quali viene riversato il pensiero unico, la verità unica. Il dispregio dell’opinione altrui, dei fatti: trasformare tutti i fatti in opinioni, in modo che tutto sia opinabile e nulla sia vero. Di fronte a questo quadro, che fare? Avere consapevolezza che si può ribaltare il corso degli eventi…”.
Tasse, gli industriali hanno già avuto troppi sconti. Tocca alle famiglie
La stragrande maggioranza degli italiani, circa il 68% dei lavoratori dipendenti, paga più tasse oggi di tre anni fa. La stragrande maggioranza delle imprese- tutti i grandi gruppi, la maggioranza assoluta di quelli medi e perfino una percentuale consistente di quelle piccole paga meno tasse oggi di tre anni fa. Forse è da questo dato che dovrebbe partire Silvio Berlusconi e con lui il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti prima di prendere una decisione su un eventuale programma di riduzione del carico fiscale. Se urgenza c’è- dati alla mano- non è quella di una riduzione dell’Irap, ma quella di una riduzione dell’Irpef su gran parte dei redditi. Il sistema fiscale oggi in vigore sulle persone fisiche è quello disegnato da Vincenzo Visco nella finanziaria 2007, stravolgendo quell’inizio di riduzione della pressione fiscale avviato da Berlusconi e Tremonti durante la legislatura precedente. Oggi l’Irpef è quella di Visco, nonostante un anno e mezzo di governo Berlusconi. Il sistema di tassazione sulle imprese invece è stato ritoccato al ribasso prima dal governo di centro destra e poi ulteriormente da quello di centrosinistra, che non si può proprio dire sia stato avaro con le imprese e particolarmente con le grandi imprese.
Tre anni fa l’aliquota base Irap era del 4,25%. Oggi è al 3,90% che si applica oltretutto su un perimetro più ristretto grazie a nuove norme sulla parziale deducibilità di interessi passivi (deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi e l’eccedenza fino al 30% del risultato operativo lordo dell’impresa) e a quelle sulla riduzione del cuneo fiscale per le imprese stabilito con la finanziaria 2008 (si può dedurre 4.600 euro per ogni lavoratore dipendente impiegato a tempo indeterminato nel periodo di imposta- e prima non era consentito farlo). Il reddito di impresa era tassato con l’Irpeg, al 34,5%. Poi è stata introdotta l’Ires, con aliquota del 33%. Oggi l’aliquota Ires è del 27,5%. La tassazione media sugli utili dei primi 25 gruppi industriali italiani era nel 2004 del 42,6%, nel 2008 è stata del 26,6%.
Un lavoratore dipendente non può raccontare lo stesso percorso in discesa. Nel 2001 la maggioranza degli italiani votò Berlusconi grazie allo slogan elettorale “Meno tasse per tutti”. Ci fu l’11 settembre, poi il crack Enron, la grande depressione dei mercati azionari e l’operazione fisco leggero non fu possibile così come era stata immaginata. Quando Tremonti vi mise mano, semplificando aliquote e procedendo alla prima riduzione, perse la poltrona su pressing proprio dei sostenitori del taglio all’Irap. Era il 2004, per un po’ non si fece né un taglio né l’altro, poi uno scaglione di riduzione dell’Irpef. Il tempo di assaporare quel caffè al giorno offerto dal fisco italiano, e Berlusconi ha perso le elezioni. Al comando è salito Romano Prodi che ha varato la sua finanziaria dalle cento tasse. Alle finanze comandava il viceministro Visco, che ha stracciato la riformina Irpef di Tremonti, e l’ha rifatta a modo suo intorcigliandosi fra un errore e l’altro. Rimise cinque aliquote Irpef, cancellò il sistema vigente di deduzioni (che abbassano il reddito imponibile) e reintrodusse quello delle detrazioni (togliendo cioè direttamente dalla imposta dovuta). La sua idea era di fare pagare meno tasse ai redditi sotto i 40 mila euro e più tasse a quelli sopra quella soglia. Già alla prima prova della busta paga di gennaio 2007 gli italiani scoprirono che i calcoli erano campati in aria. Il complesso di norme Visco era neutro per i redditi fra i 20 e i 25 mila euro lordi, peggiorativo per tutti i redditi sopra quella soglia. Mancava però ancora un elemento, quello delle addizionali Irpef comunali e regionali. Il servizio Bilancio della Camera aveva per altro già messo in guardia il governo dell’epoca: attenti, perché avendo eliminato le deduzioni, anche a parità di aliquota delle addizionali, queste aumenteranno di 406 milioni di euro, perché senza deduzioni verranno calcolate su un reddito imponibile più alto. Cifra generosa quella prevista, perché in realtà nel 2007 il 75% degli enti locali ha aumentato le proprie addizionali. Risultato? Per avere un beneficio certo dalla riforma Visco i lavoratori dipendenti non avrebbero dovuto guadagnare più di 10 mila euro lordi all’anno. Fra 10 e 15 mila rispetto al 2006 la condizione era neutra o peggiorativa a seconda dei carichi familiari avuti. Sopra i 15 mila nella stragrande maggioranza dei casi i lavoratori italiani dal 2007 pagano più tasse di prima. Come reagì il governo di centro sinistra? Prima dicendo che non era vero nulla. Poi, dopo mesi, riconoscendo l’errore e promettendo “ripareremo”. Ma nulla fu fatto nella finanziaria 2008, e l’errore contribuì alla vittoria elettorale di Berlusconi. Non fu ininfluente per quel successo la promessa di ridurre la pressione fiscale. Ma dopo pochi mesi è scoppiata la crisi dei mercati finanziari. Nella finanziaria 2009 non c’è stato spazio per correggere almeno quell’errore dell’Irpef di Visco. E’ arrivato il decreto anticrisi del novembre 2008: sull’Irpef nulla, ma sull’Irap sì. E’ stato concessa la deduzione del 10 per cento dell’Irap pagata dall’Ires, sulla quota imponibile relativa agli interessi passivi e oneri assimilati (al netto degli interessi attivi) e sulla quota di spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni già spettanti.
Sono argomenti un po’ tecnici ma il risultato è semplice: le imprese che strepitano perché si riduca l’Irap pagano già meno tasse (e hanno già ottenuto in parte quello che chiedono). Le persone fisiche che lavorano (finchè un lavoro c’è) e tacciono, ne pagano di più. Anche un bambino capirebbe dove è più urgente mettere mano per riparare a un’ingiustizia fiscale. Vogliamo aggiungere un altro elemento? Quei capitali ora rimpatriati con lo scudo fiscale a una tassazione di assoluto favore (sulla carta il 5%, ma grazie al buon marketing degli intermediari sostanzialmente allo 0%), apparterranno più a chi chiede “giù l’Irap” o a quella massa silenziosa che guadagna 15, 20, 25 o 30 mila euro lordi l’anno e a cui il fisco ha ingiustamente portato via di più promettendo l’esatto contrario? E allora, non è il caso di pensare prima di tutto all’Irpef? Meditino Berlusconi e Tremonti. Perché l’equità fiscale non può partire da un gesto in questo momento iniquo.
Tremonti e il rigore, Draghi e il rigor mortis
Se c’è un numero da non pronunciare in presenza di Giulio Tremonti è il 47. “Morto che parla”, avrebbe scherzato Totò, ma quel 47 che agita i sonni del ministro dell’Economia è tutt’altro che un fantasma. Anzi, è vivo, vivissimo nonostante i 62 anni di età. Sessantadue anni come quelli portati magnificamente da Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia che nel ’47 è nato il giorno 3 settembre. Sessantadue anni e tre mesi in più di Draghi come quel decreto luogotenenziale del 4 giugno 1947, n.408 che mai nessuno ha abrogato e che stabilì che un Governatore della Banca d’Italia poteva autosospendersi dalle funzioni per assumere provvisoriamente l’incarico di ministro o sottosegretario di Stato. Sembra preistoria: l’Italia repubblicana era ai suoi primi passi, Enrico De Nicola ancora Capo provvisorio dello Stato e quel decreto luogotenenziale- come spesso accade in Italia, era assolutamente ad personam. Tanto che fu soprannominato “decreto Einaudi”. Fu Alcide De Gasperi a volere quella norma, per convincere il Governatore di via Nazionale ad entrare nel suo IV governo. E con l’idea della autosospensione e del possibile rientro nella carica, De Gasperi ci riuscì. Luigi Einaudi divenne ministro del Tesoro e delle Finanze del suo governo e qualche mese dopo anche titolare di quel Bilancio che fu creato apposta per lui. Come stabiliva il decreto luogotenenziale mentre Einaudi provvisoriamente faceva il ministro, le funzioni di Governatore della Banca d’Italia erano trasferite al direttore generale o in caso di suo impedimento al vicedirettore generale (all’epoca ce ne era solo uno, oggi sono tre). Il direttore generale c’era- eccome- e rispondeva al nome di Donato Menichella. Divenne il facente funzioni di Governatore mentre Einaudi provvisoriamente veniva prestato alla politica e siccome in Italia provvisorietà va rima con eternità, Menichella presto si trasformò in Governatore a tutto tondo: nel maggio 1948 infatti Einaudi fu eletto presidente della Repubblica e a quel punto si dimise dalla Banca d’Italia.
Storia e non preistoria, perché a turbare Tremonti è proprio il fatto che quel decreto luogotenziale sia stato tirato fuori dai polverosi archivi dall’ufficio legislativo di palazzo Chigi e inserito in una delle cartelle di documentazione destinate al presidente del Consiglio dei ministri. Silvio Berlusconi l’ha letto, ne ha fatto verificare la corrispondenza ai tempi e l’eventuale contrasto con norme successive e ha così appreso che anche oggi il Governatore della Banca d’Italia potrebbe legalmente autosospendersi e assumere un incarico da ministro. Secondo il dossier di palazzo Chigi quel decreto luogotenenziale era già stato tirato fuori dai polverosi archivi nella primavera del 2000, all’indomani delle elezioni regionali e delle dimissioni da presidente del Consiglio di Massimo D’Alema. Molte forze politiche provarono a corteggiare per finire la legislatura un impegno diretto del Governatore di Banca d’Italia dell’epoca, Antonio Fazio. E perché il pressing fosse più convincente si ritirò fuori l’ipotesi di una autosospensione provvisoria dalle funzioni con successiva reintegrazione. Non se ne fece nulla, ma i giuristi concordarono: si può fare. Berlusconi ce l’ha così chiaro che giovedì scorso, telefonando verso la mezzanotte italiana a un parlamentare del Pdl dalla dacia di Vladimir Putin che lo ospitava, ha borbottato la sua irritazione per il “caso Tremonti” e buttato là l’ipotesi di un Mario Draghi superministro dell’Economia spiegando che manco erano necessarie le dimissioni dalla Banca d’Italia perché c’è “il precedente Einaudi”. Una battuta sibilata, certo, di quelle che con i fedelissimi scappano a Berlusconi quando perde la pazienza. E che con Tremonti il premier avesse perso la pazienza è chiaro da numerose testimonianze dei fedelissimi in questi giorni. C’è anche chi lo ha sentito sbottare facendo altre soluzioni: “si sente protetto dalla Lega? Voglio vedere che dice la Lega se al posto di Tremonti io nomino un Giancarlo Giorgetti…”.
Ma appunto si tratta di frasi in libertà che segnalano soprattutto la tensione che si è vissuta intorno al caso Tremonti. Berlusconi sa bene che quel rischio Italia sui titoli pubblici si correrebbe davvero sostituendo un Tremonti con un Giorgetti. Cosa che naturalmente non avverrebbe- anzi- in caso di sostituzione di Tremonti con Draghi. Berlusconi apprezza non poco Draghi, e negli ultimi tempi ripete spesso una battuta che attribuisce al Governatore: “Anche io concordo con la politica di rigore, ma se il rigore non si accompagna allo sviluppo rischia di essere solo rigor mortis”. Ma l’apprezzamento al momento non si è trasformato in un’offerta concreta ( e nemmeno in un sondaggio sulla disponibilità di Draghi), con annessa decisione di spodestare Tremonti. Il dossier Einaudi resterà lì sulla scrivania del premier pronto ad essere riaperto alla bisogna. Meglio se dopo le prossime regionali.
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