Benigni e signora in piazza. Contro le ruspe di Matteoli

Roberto Benigni e la sua gentile consorte-manager, Nicoletta Braschi, sono furiosi con il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli e con il supermanager dell’Anas, Pietro Ciucci. Da un anno e più, appena arrivato a palazzo Chigi Silvio Berlusconi, infatti il ministero ha adottato e velocizzato fra le poche un’opera pubblica importante per il centro-Italia: il completamento della superstrada Orte-Terni-Rieti. Ma il problema è che per gli affari del comico toscano l’opera si è trasformata in un inferno che mette a rischio anche i guadagni provenienti da quello dantesco: l’Anas infatti sta scavando una galleria di fianco agli studios di Benigni. Rendendo impossibile ogni registrazione. Il problema è emerso fra le righe dell’ultimo bilancio degli studios del gruppo Melampo, che un tempo si chiamava Spitfire e ora Cinecittà Papigno, grazie all’alleanza con Cinecittà studios cui i coniugi Benigni hanno piano piano trasferito la maggioranza del capitale, mantenendo comunque il 40%. Alle porte di Terni, grazie a un accordo con il Comune e a un affitto di assoluta affezione (22.568 euro l’anno) la società gestisce per proprie produzioni o per locazione a terzi gli Stabilimenti di Papigno. Il piano industriale prevedeva una notevole redditività da dividere fra i soci. Ma alla fine del 2008, che doveva essere l’anno della svolta, da dividersi sono restati appena 3.660 euro. Spiccioli per due come il cavaliere di gran Croce Benigni che nel 2005 ha dichiarato un reddito da 3.580.995 e come la consorte-manager Nicoletta Braschi che lo stesso anno ha dichiarato 1.699.365 euro. E una certa rabbia, perchè se quegli studios (che custodiscono ancora le scenografie-premio Oscar di Pinocchio) non rendono il dovuto, la colpa non è della gestione. Come scrive nella relazione al bilancio 2008 il presidente di Cinecittà Papigno, Lamberto Mancini, la responsabilità è dello «svolgimento dei lavori di realizzazione, a ridosso degli studi, del viadotto sulla Valnerina e della relativa galleria di collegamento nell’ambito del completamento della superstrada Orte-Rieti che, causa il rumore prodotto dai mezzi d’opera, hanno praticamente reso impossibile l’uso proprio degli studi». Non è servito fare sollevare un po’ di politici locali preoccupati per la caduta della manodopera: Matteoli e Ciucci sono stati inflessibili e nel febbraio 2009 hanno perfino celebrato la caduta del primo diaframma della galleria lì di fianco. Chissà se è anche con questa rabbia che i coniugi Benigni hanno promesso di sfilare in piazza contro Berlusconi... Franco Bechis

E alla fine Feltri fa un favore al vescovo anti-Berlusconi

Con un pò di approssimazione ieri pomeriggio alcune agenzie di stampa hanno battutto la notizia: «La Cei chiede un passo indietro al direttore di Avvenire, Dino Boffo». Ad avanzare la richiesta (facendo poi mezza rettifica) non è stata in realtà l’assemblea dei vescovi, ma un autorevole esponente come mons. Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del consiglio Cei per gli Affari giuridici, che ha ipotizzato un «passo indietro» di Boffo, «pur incolpevole», per «il bene del giornale e della Chiesa». Mogavero è il leader dell’ala anti-berlusconiana dei vescovi italiani. Ironia della sorte è proprio lui- che accusava Boffo di eccessiva morbidezza nei confronti del premier- a schiacciare la palla alzata da Vittorio Feltri. (...) Perché la sostanza di questa italianissima storia è proprio questa. Di cosa Feltri e il suo Giornale hanno accusato il direttore di Avvenire? Di avere criticato i costumi anche sessuali del premier in un paio di occasioni, una volta proprio a firma Boffo che rispondeva a una lettera assai critica di un lettore (e in quella redazione probabilmente l’effetto-escort ne ha originata più di una). Critica legittima, ma per fare la morale ad altri bisognerebbe avere una vita privata in ordine: altrimenti- sostiene Feltri- bisognerebbe tacere. Tesi a cui è stato allegata copia di un certificato penale di antico patteggiamento di Boffo per il reato previsto dall’articolo 660 del codice penale (molestie). E il contenuto di una informativa che lo accompagnava, scritta in linguaggio da questurino e assai simile a una di quelle veline che i servizi hanno in abbondanza prodotto nella storia italiana per dire che lo stesso Boffo era stato “attenzionato” per presunta inclinazione omosessuale. Centinaia di veline simili contenevano pure balle utilizzate per le guerre fra bande di cui è piena la politica italiana, altre contenevano vox populi spesso vicina alla realtà. Ma insomma, il contenuto degli editoriali del Giornale di questi giorni era pressapoco questo: Boffo non dovrebbe permettersi commenti sulla moralità di Berlusconi. La campagna è stata appunto sposata dall’arcivescovo di Mazara del Vallo, che da mesi ha la linea diametralmente opposta: Avvenire e il suo direttore sarebbero stati troppo teneri nei confronti sia del premier che del suo governo. Mons. Mogavero non è uno che manca di chiarezza: si felicita pure che la vicenda Boffo abbia mandato gambe all’aria lo scandaloso (per lui) incontro fra Berlusconi e il cardinale Tarcisio Bertone a l’Aquila: Berlusconi è peccatore, di quelli che manco si debbono perdonare. Ilo 24 giugno scorso sempre Mogavero chiedeva al premier italiano le dimissioni che oggi ventila per Boffo. Anche allora disse, come uno che la sa lunga: “non escludo un passo indietro del presidente del Consiglio”, che tutti come oggi interpretarono come un attacco diretto della chiesa italiana al governo. Insomma, il povero Boffo viene attaccato per avere criticato Berlusconi come per non averlo attaccato abbastanza. Probabilmente oggi il direttore di Avvenire si difenderà anche dall’accusa principale, quella contenuta in quel patteggiamento. L’articolo 660 del codice penale all’epoca puniva con ammenda reati assai diversi fra loro. In quelle molestie rientravano il cane che abbaiava troppo, sms e telefonate indesiderate, schiamazzi e disturbi della quiete pubblica. In cassazione nel 2008 è arrivata una vicenda di una proprietaria di cani e gatti che non le loro flatulenze ammorbavano i vicini. Reati non proprio da galera. Nel caso- ma nessuno parla- probabilmente si trattava di telefonate indesiderate. L’utenza era intestata al direttore di Avvenire, ma negli atti secretati è contenuta l’ipotesi che ad usare l’apparecchio non fosse l’intestatario: si trattava di terza persona cui era stato prestato il telefonino. Secondo la ricostruzione fatta da fonti attendibili questa vicenda sembra intrinsecamente legata a un’altra drammatica storia di tentato recupero dalla tossicodipendenza, purtroppo tragicamente fallito. Il riserbo adottato e quel patteggiamento, necessario ad evitare ogni tipo di clamore a protezione di più persone avrebbero questa motivazione. Per come si sono messe le cose e per il linciaggio messo in atto credo che oggi sia impossibile tenere secretato il contenuto di quel patteggiamento... Franco Bechis

Fisco, ecco il trucco per dribblare Tremonti e Obama

Prima mossa, prendere su tutti i propri risparmi ovunque conservati e portarli in Lichtenstein. Sì, proprio nel paese che per primo ha tradito la fiducia dei propri depositanti vendendo i loro nomi alla Germania. A Vaduz, ma dai gestori giusti. Pronti a varcare l’Oceano, destinazione Panama, l’ultima terra libera dalla morsa del fisco internazionale, visto che di lei se ne è dimenticata pure l’Ocse. Lì costituire una fondazione a cui intestare capitali e conti detenuti in Lichtenstein, e non c’è Barack Obama o Giulio Tremonti che possa bussare a quella porta. Chi ha ideato il sistema e lo ha messo in vendita perfino su Internet assicura che funziona. Si tratta di un gruppo di specialisti nella gestione dell’offshore. Il sistema è stato ideato dalla Panama offshore Incorporation e propagandato dal sito www.doubleassetprotection.com in risposta sostanziale alla guerra santa verso i paradisi fiscali. Nessuno ovviamente sostiene che bisogna beffare o dribblare il proprio sistema fiscale nazionale, ma l’ingegnoso meccanismo viene utilizzato per sfuggire al pressing di creditori insistenti. Vero che agli americani i gestori di patrimoni panamensi spiegano che è difficile blindare i propri risparmi standosene seduti comodamente in poltrona, perché poi accade che perfino la Svizzera con la sua Ubs ti volta le spalle e arrivano i guai. Che funzioni davvero o no, certo il meccanismo non è alla portata di chiunque, e chissà se bisogna fidarsi dei professionisti di Panama. Ma non farei spallucce, prendendo la cosa come un banale tentativo di truffa ai risparmiatori. Quel che oggi viene senza pudicizia alcuna suggerito e addirittura messo in vendita attraverso la rete, è poi lo stesso mestiere che fior di consulenti e studi tributari internazionali con più o meno raffinatezza fanno da decenni ideando architetture complesse e sfruttando tutti i meandri della legislazione per fare più ricchi i loro clienti e assai meno le esattorie dei singoli Stati. Dalle operazioni finanziarie più ingegnose alla costruzione di catene di controllo esterovestite, la storia delle imprese italiane è piena dei frutti dell’ingegno dei migliori consulenti. Tutti legalissimi, finchè le maglie della legge non si sono ristrette. Ma con un solo scopo: non pagare quel che verrebbe chiesto dal fisco nazionale. Non lo si è pagato e non lo si paga in parte per colpe di chi scappa, in parte per responsabilità di chi fa scappare. E nè per le une nè per le altre può risolvere solo uno scudo fiscale... Franco Bechis

Per l'eredità han dovuto resuscitare Caracciolo a giugno

L’atto porta del 19 giugno 2009, il numero di repertorio 80915/19467. E’ stato stilato dal notaio Antonio Mosca ed è stato trascritto nel registro del catasto il 20 luglio 2009. E’ un atto notarile pubblico di assegnazione a socio dei beni della società per scioglimento della stessa. Come riporta il documento è rubricato un po’ grottescamente come «atto fra vivi». Grottesco perchè la società sciolta si chiama «Tenuta di Torrecchia», ha sede a Cisterna di Latina e cede i suoi 120 beni fra porzioni di fabbricati e terreni al principe Carlo Caracciolo di Melito, nato a Firenze il 23 ottobre 1925. Ma il principe alla data dell’atto è passato a migliore vita da sei mesi: è morto il 15 dicembre 2008. Quell’atto però è necessario per l’eredità... La tenuta di Torrecchia era assai cara al principe, che ci ha vissuto gran parte del suo tempo. Lì dettò le sue ultime volontà il due agosto del 2006. L’unico testamento ritrovato al centro della contesa fra eredi sicuri (Jacaranda Falck) e presunti (figli illegittimi in causa). Fu aperto dal notaio Fabio Ricci di Aprilia alla presenza di testimoni due giorni dopo la morte del principe, il giorno successivo al rilascio del certificato di morte da parte dell’ufficio dello stato civile del comune di Roma. Una buona parte dell’eredità lasciata ad amici e conoscenti riguardava proprio terreni e fabbricati della amata tenuta di Torrecchia. Beni lasciati insieme a una consistente liquidità dallo stesso principe essenzialmente agli amici del gruppo Espresso che con lui avevano condiviso per decenni la passione per l’editoria. A Milva Fiorani ad esempio lasciò due milioni di euro, a Gianluigi Melega 500 mila euro. Somme consistenti. Ma poi il testamento continuava: “In merito alla società Torrecchia srl dispongo che le case attualemnte in uso, ovvero condotte in locazione dai signori Milvia Fiorani, Marco Benedetto, Donata Zanda ed Ettore Rosboch vengano agli stessi lasciate vita natural durante. Per tutto il resto del mio patrimonio, mobiliare e immobiliare, nomino mia erede universale Jacaranda Falck Caracciolo in Borghese”. Ma la società che aveva in carico la tenuta sarebbe da lì a poco satta messa in liquidazione e scioglimento, e il destino dei beni avrebbe dovuto essere l’assegnazione al socio per poi girare tutto ad eredi e usufruttuari secondo quanto stabilito. L’operazione non potè essere realizzata con Caracciolo in vita. E così si è fatta post mortem con quel grottesco “atto fra vivi” del giugno scorso che facilita il percorso ereditario... Franco Bechis

Mr Husky spacca gli Agnelli- Famiglia divisa sul commercialista che ha consigliato Marella sui cani mettendola nei guai con il fisco

L’uomo che con il suo appunto rischia di mettere nei guai con il fisco Marella Agnelli, e cioè il commercialista torinese Gianluca Ferrero che suggerì all’indomani della morte dell’Avvocato di non intestarsi i cani husky posseduti a Torino per non fare sembrare fittizia la residenza in Svizzera, ha provocato una frattura finora inedita fra gli altri eredi. E’ proprio su Mr Husky che la famiglia si è spaccata all’interno della cassaforte societaria, la Giovanni Agnelli & c e per la prima volta nella sua storia non ha votato all’unanimità una proposta del presidente, rischiando di causare le dimissioni di un irritato Gianluigi Gabetti. Lo rivela il verbale integrale dell’assemblea straordinaria della accomandita depositato presso MF-Honeyvem... L’autore di quel memorandum con i consigli alla vedova Agnelli che ora sono al centro della indagine del fisco italiano sull’eredità dell’Avvocato fu infatti nominato socio accomandatario della Giovanni Agnelli & c il 15 maggio 2008 per addirittura un trentennio, fino “all’assemblea di approvazione del bilancio al 31 dicembre 2008”. La proposta arrivò da Gabetti, che di conseguenza sottopose all’assemblea della famiglia anche la modifica dell’articolo 10 dello statuto sociale con l’elenco dei soci accomandatari, convinto che per semplice alzata di mano la pratica sarebbe stata chiusa in un baleno. Mr Husky, il giovane Gianluca, era figlio di Cesare Ferrero, presidente del collegio sindacale della stessa Giovanni Agnelli & C. Come ricordò lo stesso Gabetti quel giorno, fu l’Avvocato prima di morire a raccomandarglielo: “si tenga stretto il dottor Ferrero”. Gianluca era pure nipote di un altro professionista di fiducia, Giorgio Giorgi, rappresentante comune degli azionisti. Tanto che con la nomina di Mr Husky a socio accomandatario quello stesso giorno si sono dovuti dimettere per incompatibilità padre e zio. Ma la rapida alzata di mano non ci fu. Per la prima volta nella storia della cassaforte degli Agnelli uno dei capostipite, la sorella dell’ Avvocato, Maria Sole Agnelli Teodorani Fabbri, alzò la mano per dire no. Nulla di personale verso Mr Husky, ma «lo spirito che ha sempre contraddistinto la società dalla sua costituzione è stato quello di circoscriverne la partecipazione ai componenti della famiglia. Ritengo che ciò trovi conferma nella norma che vuole in capo agli accomandatari il requisito di azionista. Si tratta pertanto non di semplici amministratori, ma di persone di famiglia. Vero che ci sono state le dovute eccezioni, di cui Gianluigi Gabetti è autorevole e ben voluto rappresentante, ma come è noto, l’eccezione conferma la regola e non la modifica». Maria Sole precisò con cortesia di non fare “alcuna valutazione sul candidato proposto, che anzi considera persona degna della massima stima”, e dopo una discussione anche accesa confermò la sua contrarietà alla nomina di Mr Husky decidendo però di astenersi nel voto per non provocare eccessiva frattura con un no, decisa comunque “ad attenersi allo spirito delle norme che governano la società”. Non la prese bene Gabetti, che replicò: “Ho sempre rispettato l’opinione degli azionisti, non sono mai venuto meno allo spirito che regola lo statuto della società e in questo spirito i fondatori, l’avvocato Giovanni Agnelli e l’ingegnere Giovanni Nasi, vollero che a fianco dei familiari vi fossero due amministratori indipendenti. Oggi io sono l’unico rimasto e la mia preoccupazione è che alla mia scomparsa possa non esserci più nessuno”. In effetti in passato altri due autorevoli esterni alla famiglia ebbero il ruolo proposto a Mr Husky: Cesare Romiti e Gabriele Galateri di Genola. Nessuno contestò le scelte. Ma il precedente non ha convinto Maria Sole. Provocando la frattura e il commento di Gabetti: «Prendo nota con tristezza che per la prima volta nella storia dell’accomandita una delibera non è stata assunta all’unanimità su tutto». Un precedente che non avrebbe potuto avere un bis: “altrimenti il mio impegno morale verso gli azionisti verrà riveduto perché è stato assunto alla condizione di potere sempre rappresentare l’opinione unanime degli azionisti stessi”. All’uscita dell’assemblea Gabetti fu avvicinato dalle agenzie di stampa: “Con il consenso di tutti Gianluca Ferrero è il nuovo accomandatario». Il caso Mr Husky è restato in famiglia... Franco Bechis

I cani mettono nei guai Marella Agnelli con il fisco

L’Agenzia delle Entrate, che ha aperto un fascicolo sull’eredità di Gianni Agnelli per verificare eventuali profili di evasione fiscale, sta accertando anche l’effettiva residenza svizzera di Marella Caracciolo vedova Agnelli. A fare rischiare qualche brivido alla signora, secondo quanto risulta a Italia Oggi, sarebbe la passione di Marella per gli amati husky, i cani che prediligeva anche l’Avvocato, la cui permanenza sarebbe accertata in suolo italiano, principalmente a Torino per più dei fatidici sei mesi annui, data limite per considerare fittizia la residenza estera di un cittadino italiano. Ad avere attirato l’attenzione un appunto del commercialista torinese Gianluca Ferrero, con riferimento ai cani e ai domestici di casa Agnelli. Ad avere attirato l’attenzione degli ispettori del fisco italiano sono sostanzialmente due passaggi del memorandum firmato da Ferrero il 16 maggio 2003 con l’elenco dei beni posseduti dall’Avvocato al momento della morte, relativi all’assunzione dei 15 domestici in servizio nella residenza di famiglia sulla collina di Torino e all’intestazione dei cani. Il suggerimento dei commercialisti a Marella fu quello di non caricarsi nè dipendenti nè animali, intestando (così sta scritto nell’appunto) i domestici a John Elkann e i cani a un prestanome. L’avvertenza dei commercialisti di fiducia, scritta nel memorandum, fu infatti quella che con quei passaggi si poteva mettere a rischio l’effettiva residenza in Svizzera, «paese in cui l’amministrazione fiscale italiana non riconosce ai cittadini italiani lo status di residenti anche ai fini fiscali, salvo prova contraria da prodursi a cura del contribuente». Con il trasferimento a Marella di cani e domestici sarebbe divenuta secondo lo studio Ferrero «un domani molto complessa la possibilità di provare la propria residenza estera». Il testo di quel memorandum, reso noto per la pubblicazione sulla stampa italiana a fine luglio, è entrato ora nel fascicolo predisposto dalla Agenzia delle Entrate. Ufficialmente la struttura guidata da Attilio Befera non conferma e non smentisce l’indagine sulla effettiva residenza svizzera di Marella, ma spiega che gli ispettori del fisco “si stanno muovendo a 360 gradi”, partiti per il momento da ritagli di stampa, e che quindi tutti gli accertamenti del caso verranno effettuati “come prevede la procedura secondo routine”, anche se al momento nessuna contestazione formale è stata notificata. Naturalmente il tema della residenza della vedova Agnelli come di tutti gli eredi dell’Avvocato ha rilievo anche a proposito di eventuale liquidità che potrebbe emergere al di fuori dei confini italiani (la polpa di quell’indagine riguarderebbe infatti due miliardi di euro di fondi non ricompresi negli accordi ereditari e contestati dalla figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli). Indagini come queste sono svolte ogni anno dal fisco italiano su centinaia di grandi contribuenti e su migliaia di sospetti evasori. Non c’è da scandalizzarsi dunque se tocca anche agli eredi della più importante famiglia italiana di questi decenni. Come spesso capita le liti sugli assi ereditari provocano guai collaterali, e quel che è accaduto in casa Agnelli non poteva sfuggire agli occhi nè del fisco nè della stampa. Nessuno è colpevole di nulla fino a quando non viene accertata quella che è solo un’ipotesi in via definitiva, e il fisco italiano non sempre ha brillato in rapidità in casi simili. Giusto quindi invocare prudenza e garantismo, che sono bandiere sventolate in Italia quasi sempre secondo le convenienze e gli schieramenti del momento. Chi fa spallucce sul caso Agnelli e magari si indigna pure accusando chi ne riferisce di macchiare la memoria di chi non può più difendersi, spesso ha trasformato ipotesi giudiziarie che riguardavano per esempio le aziende di Silvio Berlusconi in titoli simili a sentenze passate in giudicato. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che imprese e grandi patrimoni italiani abbiano cercato di evitare la mannaia del fisco per decenni secondo formule più o meno raffinate. Stuoli di consulenti hanno lavorato per questo. La confusione legislativa ha offerto più di una via di fuga, è vero. Ma la sostanza è che ricchezza prodotta in Italia è stata sottratta con più o meno furbizia al fisco, e cioè al bene collettivo. Poi magari chi lo ha fatto è stato in prima fila a fare predicozzi sullo Stato che non funziona, sulle infrastrutture che mancano, sui servizi sociali scadenti. E cioè sulle conseguenze di quella furbizia. Ci saremmo risparmiati almeno la beffa delle prediche inutili... Franco Bechis

Il cavaliere inseguito dal Fisco. Anche sotto Tremonti

In un anno per ben tre volte il fisco ha bussato, con modi un po’ rudi, alla porta principale dell’impero di Silvio Berlusconi, quella del gruppo Fininvest. Per due volte, alla fine del 2007 e all’inizio del 2008, lo ha fatto regnante Romano Prodi e con Vincenzo Visco viceministro delle Finanze. La terza volta è capitata con lo stesso Berlusconi a palazzo Chigi e con Giulio Tremonti al ministero dell’Economia. Porta perfino una data simbolo di disgrazie, quella dell’11 settembre 2008, giorno in cui è stato consegnato a Fininvest un verbale di contestazione relativo a partite Ires, Irap e Iva dell’anno 2004. A rivelarlo è la nota integrativa al consolidato della capogruppo di Berlusconi da poco depositata al registro delle imprese. Con stile asciutto, la capogruppo guidata dalla primogenita del premier, Marina Berlusconi, spiega che “sul finire del 2007 e del 2008 alla società sono stati notificati due avvisi di accertamento- riferiti alle annualità 2002 e 2003- emessi dall’Ufficio delle Entrate- Roma I in esito alla verifica parziale condotta da personale della Direzione regionale della Lombardia». Per farla breve, nel primo si contesta la deduzione di una svalutazione della partecipazione in Trefinance sa, che è la finanziaria estera del gruppo, e nella seconda l’indebita fruizione del credito di imposta sui dividendi percepiti da un’altra partecipata, Euridea (la ex Standa) prima che questa venisse ceduta a terzi. Fininvest ha chiesto all’amministrazione, come fanno tutti, la formulazione di una proposta di accertamento con adesione. Ma è stata respinta: il regalino finale di Prodi e Visco. Alla società non è restata altra arma che avviare il contenzioso tributario “per vedere annullate entrambe le pretese dell’amministrazione finanziaria”. Ma ancora sotto il governo di centro sinistra è arrivata la richiesta di dare un’occhiata anche ai conti 2004. Da lì è partita l’indagine che si è concretizzata nel verbale di contestazione a Fininvest dell’11 settembre 2008. Per contestare “l’indebita deduzione di costi ai fini Ires e Irap e la mancata regolarizzazione ai fini Iva di movimenti finanziari ritenuti corrispettivi di prestazione di servizi”. Ritenendo di avere ragione, Fininvest non ha stanziato alcun fondo rischi, e quindi non si conosce l’entità delle tre contestazioni. Ma il gruppo è ormai abituato insieme a quello con i pm anche al braccio di ferro con il fisco. Avvenne anche in Spagna, dove nel 2008 dopo 10 anni un giudice ha dato ragione a Berlusconi, liberandogli 21,6 milioni... Franco Bechis

Le pagelle del Vaticano sulla politica italiana: Napolitano super. Berlusconi? Il principe fa quel che vuole, ma non si deve sapere. Draghi sì

Colloquio a distanza per gli auguri di buone vacanze con alto esponente vaticano. Chiaccherata in libertà anche sulle questioni di politica italiana. Con una sorta di pagella sulla politica italiana che qualche interesse può avere per tutti. Per questo mi permetto di riportarne la sostanza. Per il Vaticano il punto di riferimento assoluto è il rapporto ottimo con il presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano. Del tutto assorbito, dimenticato il disappunto per l'intervento nel caso Eluana. Napolitsno viene apprezzato per l'equilibrio e per l'attenzione anche alle questioni d'oltretevere. "Ha grandi doti umane e saggezza. Ottimo il rapporto con il Pontefice. Apprezzato il suo ruolo di controllo e di suggerimento pacato all'attività di governo". Più imbarazzo per le vicende pubbliche di Silvio Berlusconi, che certo risultano poco digeribili a gran parte dei cattolici. "Nulla da dire sul rapporto con il governo. Le premesse sono state buone, non a tutte sono seguiti fatti. Berlusconi? Il principe da sempre fa quel che vuole. Ms la regola aurea è che non si sappia mai quel che fa...". Assai meno apprezzato nel centrodestra Gianfranco Fini, ma è comprensibile e forse reciproco. Poco interesse alla gara nel Pd. Mreno entusiasmo di quel che ci si immaginerebbe nei confronti di Pierferdinando Casini "Brutta quella sua campagna elettorale utilizzando nei manifesti immagini dei figli piccoli e della seconda moglie. Scelta di dubbio gusto". Non scalda oltretevere la corsa per la guida del Pd, anche se non si è particolarmente entusiasti della candidatura di Ignazio Marino, anzi. Ma la vera sorpresa viene dalla stima che il Vaticano nutre nei confronti di chi viene ritenuto "riserva della Repubblica", e cioè quel governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi che non a caso è stato ospitato poco tempo addietro sull'Osservatore romano. La stima e la simpatia nei confronti del banchiere centrale sono assai elevate, e certo maggiori di quelle che suscita il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti di cui per altro sono apprezzati alcuni interventi. Draghi è d'altra parte assai stimato anche in altri autorevoli ambienti cattolici, da Sant'Egidio all'Opus Dei fino a Comunione e liberazione. Sarà il Governatore forse la presenza più significativa all'imminente meeting per l'amicizia dei popoli, cui è stato invitato dall'integruppo parlamentare per la sussidiarietà fondato da Maurizio Lupi e a cui aderiscono anche Enrico Letta, Pierluigi Bersani e Gianni Alemanno...

Dite a De Benedetti di portare Repubblica anche nelle edicole in Puglia

Campanello di allarme per l'ingegnere Carlo De Benedetti. Scoperta forse una delle ragioni per cui Repubblica nonostante la trasformazione hard continua a perdere copie rispetto all'anno precedente (a giugno altri sette punti indietro). Il quotidiano di Ezio Mauro deve avere problemi di distribuzione. Certo è provato che non arriva nelle edicole pugliesi. Lo ha confessato implicitamente Niki Vendola, governatore della Regione, in un'intervista pubblicata oggi dall'Unità. Dopo avere sostenuto (lo fanno tutti, e lui si è adeguato) di essere vittima di un complotto dei magistrati baresi che conducono le inchieste sulla sanità e dopo avere comunque scaricato alla velocità della luce il suo primo assessore indagato (Alberto Tedesco), il povero Vendola si berlusconizza e sostiene di essere vittima di una trappola non solo giudiziaria, ma mediatico- giudiziaria: tutti infatti parlerebbero delle inchieste sulla sua giunta, ma ci sono "altre due inchieste di cui nessuno parla: una riguarda Fitto, l'altra escort e cocaina e porta a Berlusconi". Dunque secondo Vendola nessuno parla dell'inchiesta su escort-Berlusconi. O non funziona la rassegna stampa della Regione Puglia, o Repubblica deve essersi dimenticata in questi mesi di approdare alle edicole pugliesi...

Io e il Tg1- Ho vinto la scommessa con Minzolini:impossibile portare uno come me in Rai...

So che non è bello parlare di sè, ma qualche mail da voi l'ho ricevuta a proposito della mia condizione professionale e quindi devo qualche risposta agli iscritti a questo blog e soprattutto ai tanti amici di Facebook a proposito di quello che hanno letto su di me in questi tempi su qualche giornale o sito Internet. Fra le tante, una aveva fondamento: l'ipotesi di un trasferimento al Tg1 come vicedirettore di Augusto Minzolini. Personalmente non ci ho mai creduto, ma sono amico di "Minzo" dal 1990, abbiamo fatto tante cose insieme e spesso ci siamo divertiti come matti. Ognuno ha il suo modo di interpretare il mestiere che facciamo, ma divertirsi lavorando è raro e io questa fortuna l'ho sempre avuta. Con Minzo, che è forse il giornalista italiano con più fiuto per la notizia e che ha una carica di simpatia umana straordinaria, lavorare sarebbe stato divertentissimo. Per cui gli ho detto "perchè no? Tanto non ci riuscirai mai. Io non sono digeribile dal grande corpaccione Rai". Minzo è uno tosto e se lo sfidi parte in quarta: "Ci riesco? Scommettiamo?". Scommessa fatta, e l'ho vinta io. E non perché lui non si sia applicato, battendosi anzi come un leone (auguro a tutti di avere un amico così, ne sono restato sorpreso anche io). Non sto a raccontarvi cosa è avvenuto in questi tre mesi, bisognerebbe pubblicarci un romanzo. Ma una cosa mi è stata chiara fin dall'inizio: salvo Minzo, lì non mi voleva nessuno. Dentro e fuori. Non pensavo di avere fatto girare le scatole a così tanta gente semplicemente raccontando giorno dopo giorno quel che apprendevo e pubblicandolo sui giornali dove ho lavorato. Ogni tanto me ne dimentico qualcuna, gli altri invece se le ricordano tutte. Giulio Tremonti che qualcosa in Rai conta (e che non so perché sostiene che qualsiasi cosa appaia su Italia Oggi, perfino le foto, sono irriverenti nei suoi confronti), era pronto a imbracciare il bazooka sparandomi se solo mi fossi avvicinato a viale Mazzini. Il suo consigliere Angelo Maria Petroni (e a lui sicuro, non ho mai fatto niente forse per dimenticanza, anzi, anni fa gli proposi pure di collaborare a Italia Oggi) aspettava solo il mio nome per impallinarlo. Paolo Garimberti ce l'aveva a morte con me (e lì non ricordo io, magari avrò scritto qualcosa di sgradito in passato), il sindacato voleva trasformarmi in un falò, la redazione non era felice, anzi...Minzo non si è fermato davanti a nulla, testone come è, e io l'ho lasciato fare (avvisando il mio editore attuale per questione di lealtà) osservando stupito tanta determinazione. Fino a lunedì mattina. Quando a poche ore dal voto in cda ho capito che non solo tutta la sua determinazione sarebbe stata inutile, ma insistendo avrebbe rischiato anche lui. E qui dovevo restituire la prova di amicizia e gli ho chiesto, insistendo per tre ore, di levare il mio nome dalle sue proposte. Alla fine l'ha fatto, dicendomene di tutti i colori, e proponendo 5 vice invece dei 6 cui aveva diritto. Hanno rinviato la pratica a giovedì,come è accaduto altre sei volte. Ma questa volta, senza me, passerà. Auguri a Minzo di cui non scorderò mai la prova di amicizia. Ma non gli condono il pranzo che abbiamo scommesso: l'ha persa, e le scommesse sono scommesse...