Anche Tesauro, parruccone della Corte costituzionale, in affari con la cricca

Spunta il nome di un alto magistrato nelle inchieste sulla cricca degli appalti pubblici. Si tratta del giudice della Corte Costituzionale, Giuseppe Tesauro, già presidente dell’Autorità antitrust italiano. Il magistrato- che non risulta al momento indagato- è stato più volte intercettato al telefono con uno degli esponenti più discussi della cricca, Antonio Di Nardo, cui Tesauro di fatto fa da consulente per un contenzioso assai serio con l’Autorità di Vigilanza nei lavori pubblici. Ma i magistrati fiorentini stigmatizzano anche un secondo ruolo ricoperto dal giudice della Corte Costituzionale: quello di socio de “Il Paese del sole immobiliare”, società a caccia di concessioni e appalti di costruzioni in Gallura, nel cui capitale Tesauro fa compagnia a imprenditori e dirigenti pubblici più volte sospettati di collusioni con la criminalità organizzata. Con la stessa quota di Tesauro c’è anche un dirigente del Ministero delle Infrastrutture, Ivo Blasco, così descritto nell’informativa dei carabinieri: “Si segnala che il citato BLASCO Ivo, risulta indagato per reati aggravati dalla finalità mafiosa (art. 7 Legge 203/1991) nell’ambito di una indagine denominata “TAMBURO” condotta nel 2002 dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro nel 2002 riferita al condizionamento esercitato da alcune ‘ndrine calabresi nella esecuzione dei lavori dell’autostrada Salerno- Reggio Calabria”. Nel Paese del Sole figurano poi lo stesso Di Nardo, e Aniello Cera, due nomi che agli inquirenti fanno nascere il sospetto di “eventuali collegamenti con della criminalità organizzata (anche in considerazione dei rapporti di parentela del Mastrominico). Ci sono poi anche Mario Sancetta, consigliere della Corte dei Conti e sodale della cricca degli appalti, e un altro imprenditore di riferimento della cricca, Rocco Lamino. Che cosa fa l’immobiliare co-fondata a fine 2007 dal giudice della Corte Costituzionale? Lo raccontano i magistrati fiorentini grazie alle intercettazioni telefoniche. “Nella giornata del 23 ottobre DI NARDO Antonio parla33 con tale Guglielmo delle trattative che sono in corso con una signora di Santa Teresa di Gallura per l’acquisto di un’area edificabile, precisando che in questa operazione è pure interessato il presidente Tesauro (Giuseppe) ... “eh solo che ... un intoppo domani me ne devo venire perchè ... mò sto con Rocco vedi ... dice che 'sta signora di Santa Teresa di Gallura ci ha fatto una controfferta ... pure abbiamo parlato con Tesauro... con il Presidente ... che anche loro sai sono soci in questa cosa ... e quindi dobbiamo formare un altro tipo di società e ci dobbiamo fare una controfferta perchè lei ci ha chiesto ... era partita da 1.600 al metro mò è scesa quasi a 1.200 ... 1.100 ... al metro quadro ….(…) … sono 6.000 metri di terra c'è tutta una concessione al 2,5 % di edificabilità …(…) … a Santa Teresa …(..) …sul mare... sul mare”. Tesauro che viene ascoltato dai magistrati mentre combina incontri, pizze al circolo Aniene e rapidi caffè a Napoli con esponenti della cricca, cerca di risolvere a Di Nardo anche il problema con l’Autorità dei lavori pubblici, che contesta al funzionario statale proprio il possesso di due società: una Soa e la immobiliare fata con Tesauro, incompatibili con la sua funzione. Per altro la figura stessa di Di Nardo è più volte discussa nell’ordinanza dei magistrati di Firenze, che così lo definiscono: “diretto referente di soggetti riferibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso” e “referente” negli appalti della cricca di “alcune delle imprese consorziate di origine siciliana e campana connotate dalla presenza, quali soci o amministratori, di soggetti già coinvolti in procedimenti penali per reati di associazione di stampo mafioso”. Non proprio le migliori compagnie, figurarsi i migliori soci in affari, per un giudice della Corte Costituzionale.

Clerici, la casalinga che fa Sanremo

Un po’ grazie alla famiglia di origine, un po’ grazie alla Rai che l’ha blindata con uno dei migliori contratti della sua storia. Ma una cosa è certa: Antonella Clerici il Festival di Sanremo se lo potrebbe guardare tranquillamente in poltrona da casa. Averebbe un solo imbarazzo: quale casa? Alla banca dati Sister del catasto italiano la Clerici di case ne ha più di un immobiliare. Basta battere il codice fiscale della bionda dal mattone d’oro per trovare la proprietà o la comproprietà di 41 fabbricati in tutta Italia. Il grosso, 32, sono in provincia di Milano, fra il capoluogo e Legnano, e in gran parte si tratta di appartamenti, cantine e garage in corso Magenta. Ma ce ne sono anche 4 nella provincia di Varese (Busto Arsizio), due in quella di Genova (Rapallo) e tre nella capitale. Appartamenti talvolta acquistati da sola, altre con la sorella, in altri casi ancora frutto dell’eredità e divisi con tutta la famiglia. Certo un discreto patrimonio immobiliare che potrebbe garantire alla Clerici un buon reddito anche in caso di assenza dai teleschermi pubblici. Eppure la conduttrice del Festival di Sanremo 2010 non perché era in grado di vivere nella bambagia ha perso la grinta nell’ultima trattativa economica con la Rai. Secondo fonti interne all’azienda è riuscita a spuntare proprio tutto quello che voleva fino all’ultimo centesimo. La sua annata vale 1,6 milioni di euro, prezzo da star assoluta anche per le generose casse della tv di Stato. Si dice che sia stata calcolato in 500 mila euro il cachet per il solo Sanremo, ma dall’azienda non arriva conferma né ufficiale né ufficiosa. Si sa invece che la formula contrattuale coinvolge la Clerici anche nelle decisioni sulle produzioni esterne e sugli altri contratti di collaborazione per la “Prova del cuoco”, tanto che almeno uno di rilievo è stato fortemente chiesto da lei. E si sa anche che nella trattativa la Clerici ha chiesto un risarcimento più che simbolico per i danni che avrebbe patito con l’interruzione dopo solo due puntate (quelle del 22 e del 29 settembre 2009) della seconda edizione di “Tutti pazzi per la tele”, crollata da una stagione all’altra dal 25% al 14% di share. Per le 6 puntate non andate in onda ha ottenuto un bonus risarcitorio da 120 mila euro, assai più elevato di quello che di norma si assegna (il 10% del compenso personale previsto) in caso di cancellazione improvvisa di show o programmi televisivi. Secondo quanto risulta a Libero per altro la Clerici ha chiesto di non incassare personalmente il risarcimento, ma di versare i 120 mila euro a una società milanese, la Oliver srl, con sede in piazza della Repubblica. La srl, che è attiva nel settore delle comunicazioni e delle partecipazioni immobiliari, risulta avere la proprietà di un immobile ad Ansedonia, vicino ad Orbetello (Argentario) ed è oggi interamente intestata alla psicologa Cristina Clerici, sorella di Antonella e sua “socia” anche nella proprietà di alcuni immobili. Ma fino al mese di marzo 2007 le quote della Oliver erano così divise: “90 per cento Antonella e 10 per cento Cristina Clerici”. Che il passaggio azionario sia stato più formalità che sostanza non lo indica solo la richiesta della conduttrice di Sanremo di versare quei 120 mila euro di risarcimento alla Oliver, ma il bilancio stesso della società. Quello chiuso al 31 dicembre 2008 indica ad esempio un debito da 748.494 euro “verso soci per finanziamenti infruttiferi”. La voce generica è così tradotta in nota: “si precisa che lo stesso è stato erogato da un socio e che il finanziamento è inteso non produttivo di interessi; lo stesso socio, pur avendo ceduto la sua partecipazione, ha concesso ulteriori facilitazioni creditizie alla società, incluse nella voce debiti verso altri (213.320 euro)”. Insomma, avendo un credito da circa un milione di euro nei confronti della Oliver srl , che ha un fatturato più o meno equivalente, Antonella ne è tuttora la titolare di fatto. Nonostante queste discrete possibilità, in più occasioni la Clerici ha preferito come tutti gli italiani farsi finanziare dalla banca di fiducia l’acquisto di casa attraverso l’erogazione di un mutuo. L’ha fatto per la prima volta nel 1992 a Milano, quando la Banca popolare di Verona le concesse un mutuo da 100 milioni di vecchie lire per comprare l’appartamento in largo Cairoli. E due volte con la Banca di Legnano per l’acquisto di due case a Roma. La prima nel 1999: 500 milioni di lire per comprare casa in via Cola di Rienzo, al centro del quartiere Prati. E la seconda alla fine del maggio scorso, quando lo stesso istituto di credito del paese natio ha concesso ad Antonella un mutuo ventennale da 2,3 milioni di euro (3,4 con gli interessi) per acquistare a Roma Nord, in via della Mendola, due appartamenti, uno da dieci vani e uno più o meno della metà.

Finiti in pasto tutti i telefoni e telefonini di Bertolaso

Ufficialmente nell’inchiesta della procura di Firenze sugli appalti della protezione civile il gip aveva autorizzato l’intercettazione di 12 numeri di telefonini utilizzati da sei personaggi, fra cui i quattro arrestati. Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere diversamente da quanto di solito avviene non solo non vengono schermati i numeri di questi telefonini (in altre ordinanze con i puntini si maschera l’utenza), ma vengono riportati interamente anche i numeri delle utenze di altri indagati o semplicemente di persone non coinvolte nell’inchiesta che hanno telefonato a uno degli indagati. In tutto si rivelano i numeri di telefono di 40 personaggi, a cui vengono fatti corrispondere 46 numeri di telefonino, tre numeri di telefono di casa e quattro numeri diretti di ufficio. Rivelati ad esempio il numero di casa del procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, e due telefonini di Guido Bertolaso (uno privato e uno intestato alla presidenza del consiglio dei ministri), oltre al suo diretto di ufficio. Rese pubbliche fra le altre le utenze dell’attuale presidente della Fieg, Carlo Malinconico, di un albergatore, di un avvocato, di mogli e fidanzate dei protagonisti e di numerose segretarie o assistenti di imprenditori privati e della presidenza del Consiglio dei ministri

E Alemanno rovinò il massaggio di Bertolaso...

Era quasi una settimana che Diego Anemone, costruttore chiave della cricca degli appalti pubblici e il suo braccio destro Simone Rossetti stavano preparando l’evento. Tutto in vista di quel giorno fatidico di domenica 14 dicembre 2008, quando il supercapo della protezione civile era atteso al Salaria Sport Village per una doppia seduta di massaggi. Uno tradizionale, con protagonista Francesca, la preferita di Guido Bertolaso. E uno speciale, specialissimo, con tanto di bottiglia di champagne, due coppe di cristallo, musica soft e assoluta riservatezza. “Vengo”, aveva confermato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio appena alla vigilia. Proprio mentre Rossetti stava selezionando la protagonista del messaggio speciale: era stata consigliata da un amico una ragazzaa-bomba originaria della Malaysia. Anche Francesca era allertata e disponibile a lavorare di domenica per il suo cliente così affezionato. Ma proprio quando le cose sembravano organizzate a puntino, a Bertolaso è arrivata allarmata una telefonata da parte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Il Tevere era in piena da circa 48 ore e l’onda attesa a Roma sembrava non avere fatto troppi guai. Il gran capo della protezione civile quella domenica mattina era passato in rassegna su tutti i ponti. Proprio all’ora di pranzo è capitato l’imprevisto: l’onda di piena ha staccato un barcone ormeggiato sul Tevere che si era incagliato sotto ponte Sant’Angelo. Alemanno aveva chiamato Bertolaso, e si è deciso di fare saltare in aria il barcone con l’aiuto della marina militare. Ora prevista: le 15,30. Stessa ora del primo massaggio. Telefonata ad Anemone: “il dovere mi chiama, non vengo. Ma per le 21- 21 e 15 ce la faccio ad essere lì”. Pazienza alla fine premiata. L’operazione barcone in aria è riuscita perfettamente, e alla fine è riuscito a raggiungere Bertolaso anche Alemanno, appena terminata l’intervista faccia a faccia con Lucia Annunziata. Un po’ stanco, senza la possibilità di un massaggio davvero ricostituente, alla fine Bertolaso si è dovuto limitare al massaggio speciale. Ad attenderlo c’era la bionda brasiliana Monica. Che stando alle intercettazioni successive e alla soddisfazione di tutti i protagonisti, ha svolto in modo eccellente il suo lavoro…

Nemmeno Van Straten ci ha salvato da Veltroni & c- Lo sfogo di un imlrenditore della cricca

La frase scappa di bocca all’imprenditore che naturalmente non sa di essere intercettato. “Ma questa è una banda armata.. io infatti guarda ho sempre votato a sinistra...Non li voto più ... ho deciso non vò più a votare. Preferisco incazzarmi col Berlusconi piuttosto essere inculato da Veltroni “ E davanti all’interlocutore che annuisce “Questo, questo era pacifico... purtroppo!”, lui rincara la dose: “ Il bello è che la gente ben pensante, tutti i miei amici borghesi di sinistra, vedono in Veltroni l'illuminato ! L'illuminato una sega, capito, ecco.... se questo è il buon dì, ecco è bene che io non li voti più ... capito?... io ho finito di votare... a questo punto non mi rompo più coglioni”. A parlare, in uno dei tanti colloqui intercettati dai carabinieri che lavorano per la procura di Firenze è Vincenzo Di Nardo. Non è un personaggio qualsiasi, e non solo per il capoluogo toscano: Già amministratore delegato della Btp, Baldassini-Tognozzi-Pontello, nel suo curriculum ha inanellato una carica dopo l’altra: vicepresidente di Ance Toscana, vicepresidente di Confindustria Firenze, professore a contratto della facoltà di Architettura dell’Università, presidente nazionale del Comitato grandi infrastrutture dell’Ance. Un pezzo grosso, dunque. Che in un’altra telefonata intercettata come quella sopra riportata nel dicembre 2007, all’architetto Casamonti che confessava “Io ti devo dire la verità .. guarda .. io sono di sinistra .. lo sono sempre stato .. però spero che questa volta pigliano una rintronata ... perchè non è possibile…”, raccontava amaro: “ Io sono di tre generazioni di gente socialista ... ho sempre votato a sinistra .. ma io stavolta non li voto ... a me non m'importa una sega...Preferisco incazzarmi con il governo Berlusconi che essere inculato dal governo Prodi ... capito ? Io voglio l'onestà ... non posso pensare che la cricca di Veltroni … Ti immagini il nuovo Partito Democratico… che fanno queste cose così ... l'occupazione dei romani ... dai! .. ma dove siamo!”. Di Nardo è così furioso con gli esponenti della classe politica che ha sempre votato perché, come molti professionisti di Firenze e di altre città di Italia (architetto Casamonti compreso), è scandalizzato dalla gestione degli appalti per i 150 anni dell’Unità di Italia. E’ una struttura commissariale a gestirli, e Prodi alla guida ha messo naturalmente il re degli appalti pubblici, Angelo Balducci, che poi ne affiderà la gestione ordinaria al suo braccio destro, Fabio De Santis. Entrambi sono stati arrestati nei giorni scorsi dalla procura di Firenze proprio per la gestione dei bandi di gara nei grandi eventi. La struttura di missione per i 150 anni dell’Unità d’Italia a quell’epoca risponde al vicepresidente del Consiglio dei ministri, Francesco Rutelli. E agli occhi degli imprenditori esclusi dalle gare che commentano quello che è avvenuto a Firenze (teatro della musica), a Venezia (palazzo del Cinema) e in altri grandi appalti, più che la cricca Balducci, ha pesato la “cricca dei sindaci di Roma”, appunto Rutelli-Veltroni. C’è un intero faldone di documenti raccolti dai carabinieri che compongono un dossier di 1.162 pagine sulle accuse che professionisti e imprenditori in quel periodo rivolgono- anche con amarezza (ne erano stati militanti)- ai vertici del neonato Partito democratico. Ben quattro fra imprenditori e professionisti addetti ai lavori sostengono che ad esempio la gara per il teatro di Firenze, la più importante delle celebrazioni (80 milioni di euro), sia stata pilotata da una telefonata fatta da Veltroni al sindaco Pd della città, Leonardo Domenici, che in questa inchiesta è già sentito dalla magistratura per gli appalti della zona Castello. In tre sostengono di avere le prove che prima di scegliere i vincitori della gara fiorentina sia arrivata una telefonata di Veltroni al sindaco di Firenze, Domenici. Ma gli investigatori inseriscono a questo punto un misterioso (omissis). Lo fanno un’altra volta, quando l’architetto Casamonti rivela al telefono a un imprenditore di avere capito che in ogni caso per passare la gara bisognava adeguarsi ai desideri del leader del Pd: “è arrivato l'ordine di Veltroni ... poi ascolta io ho chiamato Van Straten .. per dirgli se lo faceva con noi ...m'ha detto ..."no...non posso" ... (omissis)”. Si tratta di Giorgio Van Straten, amico e compagno di vacanze di Veltroni che il fondatore del Pd fece inserire nel nuovo consiglio di amministrazione della Rai. Ma anche su questo misterioso punto gli inquirenti hanno apposto un omissis.

Chiesa, è iniziata la grande corsa Milano-Torino

La corsa è già iniziata da tempo, anche se il traguardo più ambito resta lontano. Dietro il caso Boffo e i tormenti della Chiesa italiana che hanno portato martedì alla ruvida discesa in campo del Vaticano non c’è solo una contesa culturale e politica. I protagonisti sono sempre gli stessi, ma il campo di partita è quello della guida delle grandi diocesi della Chiesa italiana al Nord. Sono in scadenza quelle di Torino (in primavera, ma il passaggio di testimone avverrà dopo l’ostensione della Sindone), e soprattutto quella di Milano (a inizio 2011). In entrambi i casi i cardinali che le guidano hanno superato il 75° anno di età, rimettendo il mandato nelle mani del Papa che ha concesso una proroga biennale, a Saverino Poletto (Torino) nella primavera 2008 e a Dionigi Tettamanzi (Milano) nella primavera 2009. L’esito non è affatto scontato né nell’uno né nell’altro caso: E quelle due nomine di intrecciano naturalmente con una partita tutta vaticana, quella sulla successione del cardinale Giovanni Battista Re alla guida della Congregazione per i Vescovi (vedasi altro articolo in pagina). Sarà dunque nuovamente sull’asse fra la Conferenza episcopale italiana e la segreteria di Stato Vaticana che si giocherà la partita più importante per la chiesa italiana. Su Torino l’urgenza è più immediata e la candidatura più in evidenza è quella che vorrebbe proprio il segretario di Stato: Monsignor Giuseppe Versaldi, vescovo di Alessandra e visitatore apostolico dal 2009. Il cardinale Tarcisio Bertone si fida di lui a occhi chiusi, da quando nel 1994 lo volle con sé alla arcidiocesi di Vercelli. Bertone ne era l’arcivescovo prima di essere nominato a Genova e Versaldi lo raggiunse come vicario generale, insignito del titolo di Prelato d’onore di Sua Santità. In Cei per Torino era invece emersa la candidatura di monsignor Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e responsabile della pastorale sul lavoro dei vescovi italiani. In altri ambienti della curia vaticana invece si spinge per la nomina di monsignor Rino Fisichella, per cui era già stata ipotizzata senza successo la guida della diocesi di Modena (assai meno rilevante del capoluogo piemontese). Ma la partita vera è quella che si gioca a Milano, e non è l’anno di tempo che ancora manca al fischio finale sufficiente a spegnere tensioni, bracci di ferro e ambizioni. E’ nella più grande diocesi di Italia per altro che si è consumato il caso Boffo, secondo molti osservatori legato anche ai delicatissimi equilibri dell’Istituto Toniolo, cui di fatto spetta la nomina del rettore dell’Università cattolica. Da anni si combattono in quel consiglio di amministrazione due schieramenti della chiesa italiana, e solo per l’abilità politica e diplomatica di Camillo Ruini e Dino Boffo per due mandati si è arrivati a costituire la maggioranza che ha portato in rettorato Lorenzo Ornaghi mettendo in minoranza due vecchie volpi dc come Emilio Colombo e Oscar Luigi Scalfaro e i consiglieri nominati dallo stesso arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi. Ma con quel che è accaduto, si fa assai più delicata la nuova nomina della guida della Cattolica, che arriverà a novembre, a giochi forse in corso ma assai probabilmente già fatti per la successione di Tettamanzi. Dalla segreteria di Stato vaticana già nei mesi scorsi era trapelata una soluzione non di rottura come quella di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Ponitificio consiglio per la Cultura e delle commissioni sui beni culturali e l’archeologia sacra della Chiesa. Sembrava quasi il candidato unico, quando il cardinale Re è riuscito a portare l’attenzione del Papa su monsignor Luciano Monari, vescovo di Brescia, che Benedetto XVI ha apprezzato durante la visita pastorale del novembre scorso. Una gara dietro cui si intravedono ancora una volta tensioni tutte di palazzo vaticano, da una parte la curia tradizionale e dall’altra la segreteria di Stato.

Bertone, l'elefante nella cristalleria vaticana

Poche righe, “che hanno spazzato via 50 anni di alta diplomazia vaticana”. L’amaro sfogo sfuggito a uno dei più anziani cardinali che conosce la Curia come le sue tasche dopo il comunicato della Segreteria di Stato che avrebbe voluto chiudere il “caso Boffo”, è il termometro più evidente del clima che si vive il giorno dopo in Vaticano. Un clima che a dire il vero accompagna fin dai suoi primi passi l’arrivo alla guida della segreteria stessa del cardinale Tarcisio Bertone. Già faceva storcere il naso a molti l’idea di affidare la guida della diplomazia a un salesiano. Figurarsi poi uno come Bertone, che solo l’anno prima della nomina era finito su tutti i giornali per avere fatto il telecronista (tifoso) di Sampdoria-Juventus su una televisione locale genovese. Molti ne apprezzavano la simpatia e i modi diretti, grandi doti, non propriamente adatte all’incarico. Si comprese subito quando Bertone prese possesso dell’abitazione vaticana destinata la segretario di Stato. Vi dimorava il predecessore, cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio dopo l’elezione a papa di Joseph Ratzinger. Chiese un po’ di tempo prima di lasciare l’alloggio, anche per trovare una nuova abitazione degna del rango. Il tempo però si prolungò. Un giorno il segretario del cardinale Bertone chiamò casa Sodano annunciando: “Eminenza, domattina vengono gli imbianchini per fare dei lavori di riadattamento”. Gli imbianchini arrivarono, e in fretta e furia Sodano dovette lasciare l’appartamento in cui si sarebbe entro pochi giorni insediato il segretario di Stato. Episodio banale, certo. Ma indicativo di una svolta radicale nel protocollo. E chi era abituato ai passi felpati della diplomazia restò a bocca aperta. Si trattava di un caso personale, ma da lì ad oggi l’abbandono dei passi felpati della diplomazia è divenuto un habitus della segreteria di Stato che più di un incidente ha causato, non di rado creando problemi seri allo stesso Pontefice. Si attribuisce al cardinale Bertone la supervisione (e la successiva gestione) del discorso del Papa a Ratisbona che rischiò di aprire una nuova guerra di religione con l’Islam. Non meno esplosivo il dossier sui lefebvriani e il vescovo negazionista Richard Williamson. Ma di incidenti più o meno grandi è lastricata la strada di questi anni, perfino nei rapporti fra il Vaticano e le conferenze episcopali locali. Si è rischiato quasi uno scisma in Brasile, dopo che l’arcivescovo di Recife, don Jose' Cardoso Sobrinho, scomunicò i medici che avevano fatto abortire una bambina di nove anni stuprata, per poi essere di fatto sconfessato dal Vaticano con un intervento chiesto da Bertone al presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Rino Fisichella (che ebbe parole di buon senso e pietà, ma il tutto sembrò una sconfessione dell’episcopato brasiliano). Altro incidente, assai insolito nella storia vaticana, quello di inizio 2009 con la nomina di Gerhard Wagner a vescovo ausiliario di Linz, importante diocesi austriaca. La nomina suscitò un putiferio (Wagner era considerato troppo tradizionalista) nella conferenza episcopale di Vienna e non sapendo che pesci prendere, la segreteria di Stato fece pressioni sul nominato perché rifiutasse l’incarico. Così avvenne a quindici giorni dalla firma papale della nomina, ma la toppa fu peggiore del buco perché Wagner fece trasparire la non volontarietà della rinuncia. Precedente che sta preoccupando in questi giorni gran parte della Curia, visto che il Cardinale Bertone sembra sia riuscito a convincere il Papa sulla nomina del prossimo prefetto della Congregazione dei vescovi

Nella guerra dei Berluscones Marina e Piersilvio inciampano in Mills

Ci sono due nomi che rischiano di trasformarsi in una buccia di banana nella causa di separazione fra Silvio Berlusconi e Veronica Lario. Sono nomi di società off shore: Century One e Universal One ltd, e sono apparsi a più riprese in una serie di processi davanti alla procura di Milano. Due nomi chiave nella sentenza di condanna di primo e di secondo grado dell’avvocato britannico David Mills. Sono riapparsi nel filone sui diritti tv e nel procedimento Mediatrade. Ma le stesse due sigle sono state utilizzate dalla difesa di Silvio Berlusconi per uno dei rari successi giudiziari ottenuti: quello che allontanato dal capo di Piersilvio e di Marina Berlusconi una delle ipotesi investigative più gravi, il riciclaggio. Ma la storia di Century One e Universal One rischia di trasformarsi ora in un’arma a doppio taglio per il Cavaliere. Fra i motivi della condanna di Mills c’è soprattutto quello di avere taciuto i “beneficial owners” dei due trust durante la deposizione testimoniale al processo All Iberian. L’avvocato inglese che nel 1997 aveva trascurato il particolare (e per questo è accusato di averlo fatto apposta, poi ripagato da Fininvest), in una successiva deposizione ha ricostruito la vera storia dei due trust. Nacquero all’inizio degli anni Novanta, grazie alla collaborazione fra Mills, Carlo Bernasconi , Livio Gironi e Candia Camaggi (che ne scelse i nomi per affinità con il mondo del cinema). I beneficiari erano appunto i figli di primo letto del Cavaliere, che nel frattempo però aveva già concepito gli altri tre figli con Veronica (l’ultimo, Luigi, era nato nel 1988). Secondo la ricostruzione contenuta negli atti del processo i due trust sarebbero serviti a mettere in sicurezza parte del patrimonio di Berlusconi a favore dei due figli di primo letto, Piersilvio e Marina. Così scrivono i magistrati milanesi a pagina 99 della sentenza di primo grado con cui condannano l’avvocato inglese: “La falsità e reticenza delle dichiarazioni di Mills in ordine alla reale proprietà delle società Century One e Universal One risulta dalle prove orali e documentali raccolte. Egli era a perfetta conoscenza che le società erano state create per volontà diretta di Silvio Berlusconi, che intendeva così trasmettere una parte del proprio patrimonio ai figli Marina e Piersilvio- mantenendone però il controllo fino al proprio decesso, con una facoltà decisionale delegata solo a Gironi, Foscale e Confalonieri, da comunicarsi per il tramite esclusivo dello studio di David Mills- e che i capitali ad esse afferenti erano gestiti da Paolo Del Bue per conto della famiglia Berlusconi. Di quanto sopra la deposizione confessoria di Mills del 18 luglio 2004 davanti ai pm milanesi- sul punto mai ritrattata- e le sue affermazioni agli ispettori di Inland Revenue, costituiscono pieno riscontro”. Questa deposizione di Mills dell’estate 2004 è stata utile- come ricordato- proprio per allontanare il sospetto di riciclaggio dalla testa di Piersilvio e Marina. Ma rischia di entrare a pieno diritto nella causa di separazione fra Silvio e Veronica. Perché un faldone intero di documenti processuali è lì a dimostrare come il cavaliere si sia adoperato fin dagli anni Novanta per proteggere un asse ereditario privilegiato di cui non c’era né evidenza né contabilità ufficiale. Non si sa quanti soldi siano stati trasferiti su quei due trust. Ma i magistrati milanesi scrivono: “è documentata in atti l’entità dei prelievi in contanti effettuata negli anni 1991-1994 sui conti di ciascuna società: quasi 71 miliardi di lire italiane sul conto di Century One, oltre 32 miliardi di lire italiane su quello di Universal One. I relativi giustificativi il 3 gennaio 2002 furono trasmessi all’autorità giudiziaria elvetica nell’ambito della commissione rogatoriale in corso”.

Silvio-Veronica, scene da un patrimonio- Tutte le cifre del divorzio del momento

Silvio Berlusconi oggi ha in tasca 3,8 miliardi di euro. Miriam Bartolini, in arte Veronica Lario in tasca ha 80 milioni di euro. I tre figli di Silvio e Veronica, e cioè Eleonora, Barbara e Luigi, possono già contare su 1,2 miliardi di euro grazie ai beni assegnati dal padre. Dipende proprio da questi tre parametri il valore di quel che diventerà il trattamento di fine rapporto della seconda moglie del cavaliere. In termini giuridici si chiama legittima, ma quando ci sono di mezzo i figli e un patrimonio in gran parte legato alle vicende di borsa, è assai difficile da calcolare. Fra moglie e marito per altro c’è qualcuno che ha messo non un dito, ma un ditone da 750 milioni di euro: è Carlo De Benedetti, che grazie alla causa intentata da Cir a Fininvest e già vinta in primo grado rischia non solo di rendere più povera tutta la famiglia, ma anche di rendere inutile qualsiasi accordo consensuale fatto oggi dai coniugi Berlusconi davanti al giudice. Anche per questo dividere il più grande patrimonio d’Italia non sarà uno scherzo da ragazzi. Le caratteristiche stesse della causa potrebbero incidere e non poco sul valore del bene. Basti pensare che dei 3,8 miliardi di euro oggi attribuibili al cavaliere ben 2,5 sono legati alla patrimonializzazione di quattro titoli quotati: Mediaset, Mediolanum, Mondadori e Mediobanca. Stesso discorso per i tre figli di secondo letto: 850 milioni su 1,2 del loro patrimonio possono risentire della volatile sensibilità dei mercati finanziari. Anche se non è stata la chiave principale di questi mesi di separazione fra i coniugi, ora qualsiasi passo sopra le righe nella causa di liquidazione di Veronica rischia di fare perdere anche a lei una parte della posta in gioco. Silvio oggi può contare su circa 700 milioni di euro di liquidità a diretta disposizione grazie alla quota distribuibile del patrimonio delle quattro holding di controllo di Fininvest a lui riconducibili, e alla liquidità depositata sui loro conti correnti presso la Arner bank e il Monte dei Paschi di Siena. Due miliardi e mezzo il valore di capitalizzazione di borsa dei titoli riportabili alla sua persona fisica, altri 178 milioni di valori mobiliari in società non quotate e circa 420 milioni in immobili. Il pezzo più pregiato in portafoglio resta Villa Certosa, che nel bilancio della società che la controlla (Immobiliare Idra) è stato da poco rivalutato in 168 milioni di euro (terreno più fabbricati). Seconda per valore proprio la villa di Macherio dove abita in Italia Veronica: 78 milioni di euro, che potrebbero entrare a pieno diritto nel conto del trattamento di fine rapporto della signora. Vale di meno villa San Martino ad Arcore (52 milioni), ed appare incedibile: a quelle mura è davvero affezionato il premier. Ci sono poi altri immobili a Roma, in Sardegna e a Segrate che potrebbero entrare a fare parte della trattativa. A Silvio Berlusconi persona fisica sono intestati 6 fabbricati a Milano (frutto dell’eredità paterna), due piccoli terreni (poco più di un agro) pratosi a Castelveccana, nel varesotto e dieci fabbricati a Lesa, sul lago Maggiore, in provincia di Novara. Il premier li ha comprati il 30 settembre 2008 da una coppia di coniugi, Daniele Mulacchiè e Marina Girola. Costituiscono il complesso di Villa Lapejre o Villa Correnti sulla statale del Sempione: un piano interrato, un piano sottoterra, uno sottotetto e tre piani fuori terra, oltre a un edificio per il custode, uno ad uso darsena, un edificio “adibito a sala hobby/palestra con terrazza, bagno e ripostiglio”, vari box, parcheggio auto coperto e “parco su cui insistono piscina e annesso spogliatoio, campo da tennis e campo da bocce”. Valore stimato in circa 12 milioni di euro. Infine le partecipazioni immobiliari estere, quella nella Bridgeston Ltd alle Bermuda e quella nella Sweet Dragon Limited a Dubai. Veronica ha sostanzialmente tre partecipazioni mobiliari: quella nella San Daniele srl, ora in liquidazione, quella nel “Foglio edizioni” (38%) che edita il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara e quella nella Finanziaria Il Poggio, il braccio immobiliare dell’ex first lady italiana. Attraverso questa controlla altre due società: la Orchidea reality corporation a New York e la Palace Gate mansions ltd a Londra. Nel ramo immobiliare ha acquistato una serie di palazzi e abitazioni di un certo valore in Sardegna, a Londra (a Kensington, dove Veronica passa parte del suo tempo), a Bologna, Milano e New York, sulla 55 strada. Il pezzo più di pregio è acquisto recente: 135 porzioni di fabbricato a Milano Due, con la proprietà di gran parte di palazzo Canova. Operazione conclusa il 31 marzo 2009, quando già iniziava ad esserci il grande freddo con il marito. Lo testimonia anche un atto che non ha precedenti: per acquistare palazzo Canova Veronica ha dovuto bussare per la prima volta nella sua storia in banca e chiedere un mutuo. Così la Banca popolare di Sondrio le ha concesso un finanziamento ventennale di 20 milioni di euro di capitale oltre a 10 milioni di euro di interessi e 4 milioni in spese di istruttoria, al tasso di interesse annuo del 2,85%.

La strana storia del paffuto console di Parma che impone Patrizia D'Addario per raccogliere fondi pro bambini. E spunta perfino l'ombra di Gelli

Dietro il disco che sta per lanciare Patrizia D’Addario c’è un misterioso giallo, che unisce l’escort barese a un paffuto console di Parma, balzato agli onori delle cronache durante i giorni del sequestro e assassinio del piccolo Tommaso Onofri e ora plenipotenziario di una organizzazione Onu per salvare i bambini in difficoltà nata in Serbia, trasferitasi in Macedonia e cresciuta anche grazie ai buoni uffici del figlio di Licio Gelli, Raffaello. Il giallo emerge proprio all’ombra di un fatto di cronaca che ieri abbiamo raccontato ai lettori di Libero. Il 19 dicembre scorso un gruppo di cassintegrati della Metalli preziosi di Paderno Dugnano si è rifiutato di scendere in campo per una partitella di calcio di beneficienza con la Nazionale italiana solidale, proprio perché a dare il calcio di inizio sarebbe dovuta essere la D’Addario: “se c’è lei niente partita”. I dirigenti della nazionale a scopo benefico, composta da ex calciatori, artisti e perfino giocatori in attività, non hanno voluto rinunciare alla presenza della escort, e la partita non si è giocata. L’allenatore della squadra, Dario Casetta, ha regalato la maglia numero 10 alla D’Addario facendone la madrina ufficiale della squadra. Lei ha ricambiato l’attenzione promettendo di versare alla squadra a fini di beneficenza parte dei diritti di autore che avesse dovuto incassare con il suo primo disco promosso lunedì scorso al Midem di Cannes. Da quando però la D’Addario è diventata dodicesima giocatrice di quella nazionale, nessun avversario vuole più scendere in campo, rinunciando perfino alle iniziative di beneficenza collegate. Ieri con Libero ha voluto prendere le distanze dall’iniziativa un giocatore come Nicola Legrottaglie coinvolto nel varo della nazionale, ma tenuto all’oscuro del caso D’Addario. Ora sembra preoccupato anche il presidente della squadra, l’ex portiere dela Juventus e della nazionale A, Stefano Tacconi. Che confessa a Libero: “Avrà anche un visetto carino quella D’Addario, ma da quando è madrina non vuole giocare più nessuno con noi. Rischiano di saltare 5-6 partite già programmate dopo quella con i cassaintegrati. Meglio che salti lei…”. Già, ma chi ha voluto la D’Addario? “Ah, non è stata scelta della squadra: ce l’ha imposta il console di Parma”. Di che paese? “Il console italiano, Claudio Borghi”, spiega Tacconi. Ed italiano è il Borghi che anima le iniziative della Nazionale italiana solidale sperando di raccogliere fondi per adottare o salvare i bambini di tutto il mondo in difficoltà. E’ pure console, nominato a questo ufficio dopo avere ricoperto per qualche anno l’incarico di viceconsole, dalla prima ambasciata dei bambini nel mondo. L’ambasciata fu creata l’8 giugno 1991 nella ex Jugoslavia, a Medjashi e la sua sede fu poi trasferita a Skopje, in Macedonia, che la riconobbe giuridicamente nominando ambasciatore il suo fondatore, l’insegnante Dragj Zmijanac. Fu riconosciuta anche dall’Onu che le diede a pieno titolo i diritti diplomatici grazie all’intervento della sottocommissione per la promozioni e la protezione delle minoranze. In quel consesso sedevano due italiani in possesso di passaporto diplomatico, Raffaello Gelli, figlio del venerabile Licio e sua moglie Marta Gelli. In commissione al loro fianco fu cooptato Dragj Zmijanac. E da quel momento, avendo l’ex insegnante macedone la possibilità di offrire onorificenze e passaporti diplomatici, si allungò la lista italiana dei beneficiari. Subito fu nominato un ambasciatore onorario a Napoli, Antonio Diletto. Seguirono onorificenze a personaggi famosi, spesso calciatori (come Daniele Massaro). E infine veri e propri incarichi, come quello arrivato al parmigiano Borghi, nominato prima viceconsole e poi console effettivo della ambasciata per i bambini nel mondo. Lui si è dato un gran da fare. Anche se la prima volta che è balzato agli onori delle cronache è stato per un fatto tragico: il rapimento del piccolo Tommaso Onofri. Borghi si precipitò a casa dei genitori del piccolo, spiegando di essere il migliore amico del padre. Fondò subito un comitato “Liberate Tommaso”, e successivamente, appreso il tragico epilogo della vicenda, una fondazione benefica in memoria del piccolo. Prima iniziativa: una partita di beneficenza, poi l’apertura di due conti correnti, uno bancario e uno postale. Ma non è mai stato chiaro quali iniziative si fossero intraprese con quei fondi. Nel 2007 la mamma di Tommaso, Paola, in un’intervista sollevò qualche dubbio sulla gestione di Borghi: “Non voglio accusare nessuno in particolare, ma quei fondi sembrano spariti nel nulla”. Borghi non spiegò, ma piccato si dimise dalla fondazione e presentò querela nei confronti della signora. Il 20 ottobre però il gup di Milano ha prosciolto la signora da ogni accusa di diffamazione,. Sostenendo che non c’erano gli estremi nemmeno per arrivare a un rinvio a giudizio. E’ stato poche settimane dopo che Borghi ha deciso di utilizzare la D’Addario come prima testimonial delle iniziative del consolato per i bambini nel mondo. “Non so nemmeno”, sostiene con una certa saggezza Tacconi, “se lei possa essere una mascotte utile a iniziative del genere”. E in effetti mettere in primo piano una escort per convincere il buon cuore degli italiani a versare fondi a favore delle adozioni dei bambini sembra la mossa più controproducente che ci possa essere, come i fatti stanno dimostrando. Per questo è ancora più misterioso il legame fra il testardissimo Borghi e la D’Addario.

D'Addario madrina? I cassintegrati la rifiutano e Legrottaglie rinuncia alla beneficenza

Quando l’ha saputo Nicola Legrottaglie, difensore della Juventus e della Nazionale italiana, ha subito preso le distanze: “Ah, io con quella Patrizia D’Addario non voglio c’entrare proprio nulla. Non sapevo fosse stata coinvolta nella Nazionale italiana solidale (Nis) e anzi lo trovo imbarazzante”. A Legrottaglie, che in quella nazionale di vecchie e nuove glorie nata per uno dei tanti tour di beneficenza per iniziativa dell’ex portiere azzurro Stefano Tacconi, è sfuggito infatti che madrina della Nis fosse divenuta da un paio di mesi proprio l’escort barese che tentò di incastrare con il suo registratore Silvio Berlusconi. A lei Dario Casetta, allenatore della squadra benefica in cui hanno giocato oltre a Tacconi anche Marco Osio, Luca Bucci e Lorenzo Minotti, ha consegnato la maglia azzurra numero dieci, ottenendo in cambio la devoluzione alla onlus di parte dei diritti di autore che eventualmente la D’Addario incasserà con il suo prossimo disco, presentato lunedì al Midem di Cannes. Un matrimonio che ha suscitato un certo clamore, quello fra la escort barese e la squadra di Tacconi. Lasciando appunto all’oscuro uno dei partecipanti all’iniziativa, come Legrottaglie, che per altro ricorda: “a dire il vero non ho mai giocato in quella nazionale. Mi hanno proposto 5-6 partite l’estate scorsa spiegandomi che gli incassi sarebbero stati devoluti a una associazione benefica specializzata nell’adozione di bambini in difficoltà. Per giocare naturalmente avrei dovuto essere libero dagli impegni con la Juventus e con la nazionale A, e questo non è mai capitato. Appena nato, dunque, il matrimonio D’Addario- Nazionale italiana solidale rischia già di naufragare per le prese di distanza. La squadra di Tacconi, dopo avere giocato l’ultima partita il 19 settembre scorso a Fontanellato, vincendo 1 a 0 contro la nazionale della polizia di stato, non è più riuscita a scendere kin campo. L’esibizione clou sarebbe dovuta avvenire pochi giorni prima del Natale, a Paderno Dugnano, giocando contro una rappresentativa di cassintegrati della Metalli preziosi, che dal dicembre 2008 aveva di fatto chiuso i battenti. Quando però il 9 dicembre i dirigenti della Nazionale hanno posto la condizione irrinunciabile della presenza della D’Addario, che avrebbe dovuto dare il calcio di inizio, i cassintegrati si sono rifiutati di giocare. I loro rappresentanti sindacali (anche la Fiom Cgil) sono corsi dal sindaco di Paderno Dugnano, il giovane Marco Alparone, primo farmacista della cittadina, che ha subito condiviso le loro preoccupazioni. Spiega il primo cittadino: “ Due dirigenti della Nazionale italiana solidale si sono presentati il giorno della conferenza stampa tirando fuori all’improvviso la condizione della presenza della D’Addario, divenuta madrina della squadra. D’accordo con i cassintegrati ho risposto che non se ne parlava nemmeno. La partita serviva a portare solidarietà ai lavoratori, non a fare pubblicità a quella signorina. Loro hanno chiesto di fare due telefonate e poi ci hanno detto che la condizione D’Addario era irrinunciabile. Allora abbiamo rinunciato a loro. La partita si è giocata salvando l’incasso. Ma in campo è scesa più banalmente la mia giunta contro i lavoratori della Metalli preziosi in crisi”.

Per il fisco la escort d'Italia valeva 733 euro al mese

Nome, D’Addario Patrizia. Reddito lordo 2005 : 12.265 euro. Netto mensile: 733,84 euro, appena 170 euro sopra la soglia della povertà ufficiale. Tasse pagate: 2.725 euro all’anno. Non se la passava un granchè bene la protagonista del sexy gate italiano prima di fare esplodere il caso Silvio Berlusconi. Certo, i redditi per esercitare il mestiere più antico del mondo non finiscono mica nel 740, e alla D’Addario sarebbero bastate due serate da accompagnatrice perfino senza “utilizzatore finale” per essere rimborsata di quel che in un anno aveva versato al fisco con il suo 740 ufficiale. Ma fino a lì la povera Patrizia non deve avere vissuto anni d’oro. Ora si atteggia a star del Midem di Cannes, il salone internazionale della musica dove la D’Addario è sfilata sotto i flash internazionali pochi giorni fa. Ma era ben altra musica quella che suonava dieci-quindi anni fa, quando per piazzare insieme al socio qualche book video o fotografico della sua Stadium pictures snc a Bari le doveva provare proprio tutte. Fu il suo primo flop imprenditoriale. Voleva produrre film, telefilm, documentari, spot, spettacoli teatrali, libri d’arte e fotografici sul Mezzogiorno d’Italia e la Puglia in particolare. Non ha ottenuto che qualche piccola commessa e quando era appena uscita dalla fase di lancio la D’Addario e il suo socio, Riccardo Schito, avevano dovuto chiudere baracca e burattini e liquidare la società. Non è andata molto meglio negli anni successivi: qualche piccolo contratto televisivo, qualche book fotografico, perfino un calendario. Anche se non traspariva dalla dichiarazione dei redditi, qualche soldino Patrizia doveva averlo messo da parte. Tanto che dal 2000 risulta proprietaria di una bottega da 193 mq a Triggiano e dal 2001 di un appartamento di 6,5 vani e di cantina da 20 mq a Bari, oltre che dei beni ereditati l’anno precedente, alla morte del padre Francesco e poi a quella del fratello Luigi, insieme alla madre a Bari (due alloggi da 4,5 vani ciascuno) e nel quartiere Carbonara (un terreno). Ma al catasto la D’Addario è stata protagonista di una girandola di atti in questi anni. I problemi più grossi li ha avuti con la bottega di Triggiano: Patrizia l’aveva conquistata grazie a un atto di permuta con una società: la Galtieri Tommaso e Gaudino Cataldo snc. Loro avevano girato a lei il negozio e in cambio avevano ricevuto da lei parte dell’eredità paterna cui avevano rinunciato madre e fratello: due alloggetti in “abitazione di tipo ultrapopolare” da 1,5 vani ciascuno in via De Rossi a Bari, uno allo stesso indirizzo da 2,5 vani, uno da un vano appena e uno un po’ più ampio, 4 vani. Ma sulla bottega l’anno successivo, il 9 febbraio 2001, è stata posta ipoteca giudiziale dal giudice di pace di Bari con decreto ingiuntivo a favore dell’avvocato Domenico De Felice tutto per una piccola cifra che fra capitale e interessi ammontava a 7 milioni di vecchie lire. Il resto dell’eredità paterna, due mini alloggi ad Adelfia, sono stati venduti il 10 maggio 2001 ai signori Arciuli (marito e moglie) di Bari. Ma non si è potuto ricavare un granchè. Le speranze di Patrizia erano tutte in un’altra parte di eredità: il terreno a Carbonara e il diritto di costruzione di tre fabbricati lì sopra. Era quello che lei avrebbe voluto trasformare in residence e per cui aveva cercato contatti e spintarelle in alto loco. Chiese una mano anche allo stesso Berlusconi, che non poteva dargliela, visto che il comune era saldamente in mano al Pd e al sindaco Michele Emiliano. Secondo la documentazione depositata al catasto però il comune in qualche modo era intervenuto nella vicenda. Il 4 ottobre 2007 infatti aveva costituito davanti al notaio barese Concetta Capano un vincolo di destinazione a favore del municipio del capoluogo pugliese. “I signori Frisone Vincenza (la mamma, ndr)”, si trova scritto nell’atto, “D’Addario Patrizia e D’Addario Luciano, proprietari del fabbricato a costruirsi sito in Bari-Carbonara, si sono obbligati a riservare e destinare a favore del comune di Bari e dei terzi aventi comunque diritto e interesse a tale riserva e destinazione- sempre che il fabbricato venga realizzato- a parcheggio privato le aree di pianoterra e del piano interrato della superficie complessiva di mq 295,75”. Il comune aveva quindi detto sì al progetto di Patrizia, chiedendo in cambio di costruire un parcheggio. Ma poi non se ne è fatto nulla.

A noi mai giù le tasse. A se stessi i partiti si graziano 500 milioni

I partiti politici stanno per regalarsi un maxi condono. Proprio nel momento in cui negano agli italiani un taglio delle tasse, grazie a un emendamentino alla legge mille proroghe vogliono approvare un colpo di spugna da 500 milioni di euro perdonando peccati passati e perfino futuri grazie a un nuovo condono sulle multe per avere affisso manifesti abusivi. L’idea è venuta a due ex tesorieri (Pontone, An e Lusi, Margherita) che hanno firmato una modifica al decreto legge mille proroghe per sanare ogni affissione abusiva dal 10 marzo 2009 fino alla prima parte della campagna elettorale in corso con il semplice pagamento di mille euro in ogni provincia. Lo sconto è analogo a quello previsto dal mille proroghe di un anno fa, che stabiliva un condono tombale per gli anni 2005-2009. Non è gran pagare, perché secondo stime attendibili in un anno elettorale le multe complessivamente comminate dai comuni ai partiti valgono 150 milioni di euro. Cifra a cui va aggiunto il costo per rimuovere i manifesti abusivi:circa 20 milioni all’anno. Grazie al condono invece di pagare 170 milioni ciascun partito se la può cavare con poco più di 100 mila euro all’anno. Tutti insieme poco più di un milione di euro. Roba da stappare spumante e festeggiare, come farebbe qualsiasi cittadino se il comune facesse uno sconto simile sulle multe per sosta vietata: un euro ogni 170 dovuti. Eppure nemmeno il clamoroso regalo offerto a Pd-Pdl e tutti gli altri all’inizio del 2009 li ha resi contenti. La possibilità di chiudere con 4 milioni di euro in tutto un contenzioso superiore ai 400 milioni non ha fatto felici i tesorieri né del centro destra né del centro-sinistra: nessuno ha colto la super-promozione. Semplicemente hanno fatto spallucce e non hanno pagato sperando che tutto finisse come sempre nel dimenticatoio. Invece molti comuni che almeno a quegli spiccioli non vogliono proprio rinunciare, hanno fatto recapitare a Pd, Pdl e compagnia bella delle minacciose cartelle esattoriali. Ma niente paura, ci pensa appunto il nuovo emendamento Lusi-Pontone, che sembra piacere proprio a tutti i partiti. Non solo arriva il nuovo condono 2009-2010, ma si allungano perfino i termini draconiani per aderire al condono precedente, quello 2005-2009. Bisognava versare quei mille euro a provincia entro il 31 marzo 2009. Bene, ora quel colpo di spugna è prorogato al 31 marzo 2010 e per la prima volta nella storia parlamentare comprende perfino le violazioni ancora non commesse, e che gli stessi partiti sanno bene che commetteranno. La rinuncia a incassare quasi 500 milioni di euro dovuti, per quanto il condono sui manifesti abusivi dei partiti sia ormai triste tradizione italiana, fa impressione nel momento in cui il governo in carica dice di non potere concedere sconti fiscali di alcuna natura ai contribuenti italiani, pur riconoscendo che la pressione tributaria sia alta. Se si potesse incassare quella somma, ad esempio si potrebbe scontare se non proprio eliminare uno dei tributi locali più odiati dai contribuenti italiani: la tassa sui rifiuti. C’è poi una grande differenza rispetto al passato, ed è che i partiti hanno i forzieri pieni grazie a un finanziamento ottenuto dai contribuenti italiani che con buona dose di ipocrisia si continua a chiamare rimborso elettorale. Lo Stato continua a rimborsare ai partiti più di quanto loro non spendano nelle campagne elettorali, stampa di manifesti inclusa. Ma se nel 1994 di fronte a una spesa di 36 milioni di euro ai partiti sono stati “rimborsati” 47 milioni di euro, nell’ultima campagna elettorale la sproporzione è stata ben più evidente: spesi 136 milioni, “rimborsati” 503 milioni di euro. Pd, Pdl, Udc e Idv avrebbero quindi tutte le risorse in cassa (hanno poi incassato anche il generosissimo rimborso delle europee) per pagare le multe che invece si condonano. Se proprio nel governo la vocazione al condono è insopprimibile, meglio regalarlo a tutti i contribuenti, con la prospettiva di incassare assai di più. Chissà, anche quei mille euro all’anno per le multe future potrebbero rivelarsi un affare per migliaia di cittadini: un forfettone sulla sosta vietata. Resterebbe da spiegare un’ultima cosa a tutti: perché mai si fanno tante leggi e si stabiliscono punizioni draconiane se poi si sa dal primo giorno che non verranno rispettate? A questo punto meglio libero manifesto in libero Stato.

Bonino's e Bresso, lo scontro prima dell'alleanza

L’atto è depositato ancora più che davanti al notaio: fra i documenti ufficiali del Senato della Repubblica, di cui Emma Bonino è vicepresidente. “Non desidero assistenza religiosa, desidero un funerale non religioso”, spiega la leader radicale nel suo testamento biologico, e aggiunge: “Qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, nomino mio rappresentante fiduciario che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente carta, la signora Bonino Domenica, residente a Bra (Cn), via Principi di Piemonte (…). Nel caso in cui il mio rappresentante fiduciario sia nell’impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a sostituirlo in questo compito il signor Bonino Giovanni, nato a Bra (Cn), residente a Bra, in via G Piumati…”. Giovanni e Domenica sono i fratelli del candidato alla presidenza della Regione Lazio, e con Emma condividono la proprietà di un appartamento ad Alassio e un box auto a Bra, paese natale della famiglia (la leader radicale ha anche casa e bottega a Trastevere a Roma, e la bottega l’affitta a un esercizio commerciale). Giovanni fa l’amministratore di alcune immobiliari in quel di Bra. Ma è Domenica la leader di famiglia, e non a caso Emma si affida per prima a lei. Fa l’imprenditrice, e con un certo successo. Controlla la Santa Rita srl di Bra e attraverso quella anche la Tlp di Cherasco, specializzata in Laminati. Ha le amicizie giuste, tanto da avere una quota nei Roveri, la cittadella nel verde alle porte di Torino dove vivono i piemontesi bene. Domenica Bonino e il marito hanno le stesse quote azionarie, tanto per capirci, di Andrea Nasi e Andrea Agnelli, rampolli dell’impero Fiat. E’ grazie alla sua attività imprenditoriale che la sorella della Bonino ha incrociato la spada con il presidente della Regione Piemonte, quella Mercedes Bresso che ha appena siglato un patto di ferro con Emma. La Bresso infatti fra il 2007 e il 2008 aveva chiuso un accordo di programma con la Grassetto costruzioni, un tempo di Salvatore Ligresti e poi passata a Marcellino Gavio, recentemente scomparso. Si trattava di costruire la nuova Bra con un programma straordinario di edilizia residenziale e pubblica che stava particolarmente a cuore alla Bresso. Ma l’accordo che era a un passo dalla firma dopo avere superato la conferenza di servizi è stato impugnato proprio dall’altra Bonino, l’imprenditrice che insieme a un’altra impresa ha contestato l’aderenza del progetto Gavio alla viabilità prevista dal piano regolatore di Bra. La spada però è stata rinfoderata in fretta: le obiezioni della Bonino sono state subito accolte e inserite nell’accordo della conferenza dei servizi, con soddisfazione di tutti. E alla fine, vinta l’opposizione dell’imprenditrice di Bra, la Bresso ha messo la firma sul piano per cui ha stanziato 69,8 milioni di euro,parte come contributo pubblico e parte come mutuo fondiario agevolato, la metà del quale (31 milioni di euro) è destinato ad edilizia non residenziale. La santa Rita srl e la sua legale rappresentante, Domenica Bonino, hanno accettato la correzione e la soluzione e sono andati avanti con i loro lavori. La società, che ha proprio sede nell’indirizzo fornito dal vicepresidente del Senato per l’esecuzione del suo testamento biologico, ha un patrimonio netto di circa 6 milioni di euro e un utile 2008 di poco inferiore agli 80 mila euro. Nell’ultimo quinquennio è riuscita a non chiudere mai i bilanci in rosso, anche grazie agli ottimi dividendi ottenuti dalla controllata Tlp di Cherasco, che nell’ultimo anno ha chiuso il bilancio con un utile di 543.491 euro e negli anni passati è riuscita a fare anche assai meglio. Avesse saputo prima dell’alleanza di Emma con la Bresso probabilmente la sorella Bonino imprenditrice avrebbe trovato altre strade alternative al braccio di ferro con il presidente della Regione Piemonte. A meno che proprio quell’occasione di lite risolta alla fine abbia favorito il buon clima sbocciato fra le due leader di casa Pd.

Dove stanno gli evasori? Sorpresa: tutti in Calabria e al Sud

Non è il cumenda, ma il picciotto il vero campione dell’evasione fiscale in Italia. Anche se per anni si è disegnato l’identikit del furbetto del fisco con l’imprenditore del Nord- Nord Est pronto a nascondere capitali in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, il vero serbatoio dell’economia sottratta al fisco è il Sud Italia. Lo rivela la documentazione depositata da Banca d’Italia, Agenzia delle Entrate e Istat presso la commissione Lavoro del Senato che sta conducendo una indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2008. I dati , e in particolare un lavoro dell’ufficio studi della Agenzia delle Entrate sulla evasione Irap sono stati analizzati in un documento pubblicato lunedì scorso integralmente dal professore Paolo Feltrin, titolare della cattedra di scienza dell’amministrazione all’Università di Trieste. Feltrin ha spiegato che l’evasione Irap è “una delle forme di evasione che si possono quantificare meglio. Sulle altre ci possono essere indizi più o meno indiretti, ma su questa siamo abbastanza certi”. E ha citato l’indagine dell’Agenzia delle Entrate per rivelare che “l’intensità della evasione Irap nelle regioni del Sud è da 3 a 5 volte superiore a quella delle regioni del Nord, raggiungendo il massimo del 94 per cento in Calabria (vuole dire che circa il 50% è evaso)”. Sempre secondo i dati della Agenzia delle Entrate, rivela Feltrin, “nel Sud e nelle isole l’evasione fiscale è medio-alta per il 70 per cento delle province contro il 24-26 per cento delle province del centro-nord. Secondo la stessa ricerca per il Sud si arriva ad oltre l’80 per cento di propensione all’evasione fiscale”. I dati su chi fa fesso il fisco, secondo il professore triestino, rischiano di fare traballare la veridicità di altri dati ufficiali, soprattutto quelli su reddito medio e livelli di povertà che nel quadro macroeconomico si riflettono anche sulla consistenza del Pil italiano. Feltrin cita una indagine della Banca d’Italia “che segnala qualche problema sulle dichiarazioni delle regioni meridionali. Nel 2006 ad esempi ci sarebbe un 30 per cento di popolazione con reddito pro capite basso, ma se vado a vedere i consumi questo 30 per cento si dimezza e diventa 15 per cento. Se guardo ai redditi ho il 30 per cento delle famiglie povere, ma se guardo ai consumi questa percentuale si dimezza al 15 per cento. Anche qui la differenza fra redditi e consumi è una spia”. Il professore non lo dice, ma è evidente che è un altro indicatore del formidabile livello di evasione nel Mezzogiorno. Ma non si tratta della vecchia economia sommersa: “tutti i dati anzi dimostrano che l’evasione fiscale da lavoro nero, mancati contributi etc… è in radicale diminuzione: queste sono le stime Istat dagli anni ’90 in poi (…). In questi anni sembra essere aumentato un altro tipo di evasione/elusione fiscale, prevalentemente concentrata nei settori manifatturieri e collegata all’import-export”. E’ in questa massa di evasione fiscale che si spiega perché sia sopportabile nel Sud un altro dato ufficiale, quello sulla presenza del 61,8 per cento di famiglie povere: “perché”, sostiene Feltrin, “non ci sono movimenti di contestazione o tensioni sociali con dati così? Perché questi dati non sono veri”. Esiste secondo il professore triestino anche un altro dato non veridico: quello sul Pil: “Con ogni probabilità stiamo sottostimando il Pil nazionale perché non teniamo in adeguato conto non tanto l’evasione classica, tradizionale, quella che abbiamo avuto per 50 anni, ma quella che può essere esplosa negli anni ’90 e negli anni 2000, legata a transazioni estere, spesso legali”. Lo sa l’Istat, lo sa la Banca di Italia “e perché non si corregge la sottostima del Pil? Io credo che qualsiasi aggiustamento del Pil renderebbe meno cogente qualunque politica di contenimento del debito pubblico. Quindi, tutto sommato, conviene a tutti per un po’ dire che il Pil è così come è e non fare troppe discussioni”.

Le sentenze sono sacre! Ma il Csm non le rispetta

Le sentenze non si discutono, si rispettano e si applicano. Questa massima, ripetuta come una cantilena da magistrati, giuristi e legulei, vale per tutti. Beh, non proprio per tutti. Per tutti i comuni mortali. Meno i magistrati. Già, perché la sentenza riguarda loro, mica la debbono per forza rispettare. La buttano nel cestino. Come ha fatto nell’ultimo anno e mezzo per ben due volte il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Due volte infatti il Consiglio di Stato ha annullato per irregolarità la nomina di Giovanni Palombarini a procuratore generale aggiunto della Corte di Cassazione. Due volte il Csm ha fatto finta di nulla e buttato nel cestino la decisione del massimo organo della giustizia amministrativa. E mercoledì scorso ha rinominato Palombarini procuratore generale aggiunto della Cassazione con la stessa procedura (una chiacchierata in commissione, stretta di mano e pacche sulle spalle) già annullata due volte per irregolarità. Palombarini era stato nominato a quell’incarico il 18 ottobre 2007. Tre magistrati che ritenevano di avere più titoli di lui hanno fatto ricorso. E vinto con decisione del Consiglio di Stato numero 3513 del 2008. Solo uno di loro, Vitaliano Esposito, ha ritirato poi l’azione giudiziaria. Non perché si sia convinto che Palombarini avesse più titoli di lui. Solo perché Esposito è stato nominato dal Csm a un grado più alto, quello di procuratore generale di Cassazione, e non avrebbe avuto senso continuare a battagliare per essere retrocesso. Davanti all’annullamento della nomina, il Csm non ha nemmeno lontanamente pensato di fare autocritica. Qualcosa tipo riguardare bene i curricula, esaminare tutti i candidati e poi scegliere con profonde motivazioni quello più adatto all’incarico, come stabiliva il Consiglio di Stato. Macchè, quelli Palombarini volevano e Palombarini hanno rinominato semplicemente riconvocandolo in commissione per una brillantissima audizione e stabilendo che sì, lui era l’uomo giusto. Inutile dire che di fronte a quello che loro sembrava un sopruso bello e buono, i due esclusi che attendevano giustizia, e cioè Carmelo Renato Calderone e Antonio Siniscalchi, hanno ripresentato ricorso al Csm. I supremi giudici amministrativi il 31 dicembre 2009, un po’ spazientiti per il comportamento dei colleghi del Consiglio superiore della magistratura, hanno bocciato con sentenza il loro comportamento e in più licenziato dall’incarico lo stesso Palombarini. Il Consiglio di Stato spiega che “non vi era adeguata motivazione in ordine alla ritenuta prevalenza del dott. Palombarini sugli altri candidati a fronte di quanto risultante dai fascicoli personali degli stessi: imn particolare emergeva dagli atti che il dott. Esposito vantava una più lunga e variegata esperienza presso gli uffici di legittimità e che sia il dott. Calderone che il dott. Siniscalchi potevano vantare maggiore esperienza dirigenziale specifica”. Di più: “illegittimo era il ruolo determinante che era stato assegnato, quanto al requisito delle attitudini e capacità organizzative, all’audizione del dotto. Palombarini, atteso il carattere integrativo e sussidiario che per, consolidata giurisprudenza, l’audizione personale riveste rispetto alle risultanze documentali relative ai precedenti in carriera dei candidati”. Come dire che uno studia per anni da mattino a sera, lavora come una bestia, macina titoli su titoli e poi a un concorso gli preferiscono un altro solo perché è più brillante e simpatico nella conversazione. Agli esclusi secchioni girano le scatole. Al Consiglio di Stato hanno bollato questa decisione con il timbro che dovrebbe essere più infamante per il Csm: “illogica e illegittima”. E così il 31 dicembre il Consiglio di Stato ha concluso: “Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di accoglimento delle domande di parte ricorrente. Alle amministrazioni intimate, pertanto, va ordinato di porre in essere tutti gli atti necessari per la corretta ottemperanza al giudicato in questione, attraverso una ulteriore rinnovazione della valutazione comparativa”. Il 20 gennaio il Csm si è riunito e ha semplicemente rinominato Palombarini al suo posto, facendo spallucce al consiglio di Stato. Palombarini, il candidato per cui si buttano nel cestino le sentenze, non è di primissimo pelo. Nato a Gorizia nel 1936, va per i 74 anni. Nel 1981 è stato eletto segretario generale di Magistratura democratica e successivamente presidente della stessa corrente dei magistrati. Grazie a Md fra il 1990 e il 1994 è stato eletto nel consiglio superiore della magistratura. Ai suoi contendenti beffati per la seconda volta dal Csm resta ancora una possibilità: quella della causa civile per avere almeno il riconoscimento economico dei loro diritti. Ogni anno decine di magistrati, perfino quelli in pensione, scelgono quella strada per avere riparazione dalle ingiustizie del Csm. E ottengono il dovuto senza incontrare resistenza: tanto il loro aumento di stipendio e lo scatto di pensione viene pagato da Giulio Tremonti, mica da Nicola Mancino e dai suoi colleghi.

Claudio Bisio, il comico che ha più naso per gli affari

Come il Leonard Zelig di Woody Allen Claudio Bisio soffre di camaleontismo. Ma per lui non è una malattia. Di notte accarezza il suo cuore da sempre a sinistra, cavalcando con battute al fulmicotone i cabaret che lo hanno reso celebre fino a farlo diventare il mattatore di Zelig su Canale 5. Di giorno cura il suo portafoglio a destra, per cui deve ringraziare le tv di Silvio Berlusconi. Un superportafoglio, perché Bisio guadagna più di 2 milioni di euro all’anno ed è il comico più ricco, anzi, straricco, di tutta la banda Zelig. Lascia a distanza siderale perfino Luciana Littizzetto, la comica più ricca. Lei lo supera solo sul mercato immobiliare: ha 13 case fra Torino e Milano. Bisio si è fermato a 12. Alla banca dati del catasto il compagno Zelig di Novi Ligure (dove è nato il 19 marzo 1957) risulta proprietario di 5 fabbricati a Milano, due in provincia di Savona, tre a Firenze e due in provincia di Genova (ad Arenzano). In più ci sono cinque terreni nell’alessandrino e tre nel fiorentino. Ma a differenza della Littizzetto Bisio viene da famiglia benestante, e buona parte del patrimonio di immobili e terreni lo ha ereditato dal padre insieme alla sorella Marilena, di tre anni più giovane. Sugli immobili vale di più lei. Ma sul vile denaro Bisio sbaraglia la collega, grazie soprattutto agli ottimi contratti ottenuti con Mediaset e con Seat-Pagine gialle per cui da anni è testimonial di un fortunatissimo spot. Quando la Littizzetto ha iniziato a lavorare con Fabio Fazio in Rai, al fisco ha dichiarato 1,8 milioni di euro, cifra che la inserisce di diritto fra le donne più ricche di Italia. Bisio però le ha bagnato il naso, lasciandola a grande distanza. Con il suo reddito di 2.299.611 euro dal 2005 è entrato nell’empireo dei milionari italiani, 384° in classifica. Tanto per capirci al 385° posto figurava Andrea Della Valle, presidente della Fiorentina, che guadagnava 9 mila euro meno di lui. Sopra i due milioni di euro, ma alle spalle di Bisio c’erano anche Donatella Versace, l’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti (che da domani secondo un emendamento alla legge comunitaria passato ieri in Senato dovrà ridursi lo stipendio sotto i 200 mila euro lordi, parificato ai parlamentari), l’ex manager della Juventus, Antonio Giraudo, il calciatore-allenatore ancora per poco della stessa squadra, Ciro Ferrara, e perfino uno scrittore-intellettuale che campa di diritti di autore d’oro come Umberto Eco (2 milioni e 128 mila euro). A costruire il super-reddito di Bisio oltre ai cachet cinematografici e per le serate, ci sono anche le partecipazioni in società. Il comico ha il 2 per cento della Bananas srl, creata da Gino e Michele proprio per dare forma societaria alle fortune di Zelig. Ma è intestata a lui anche l’80 per cento di una immobiliare, la Solea srl, di cui è amministratore unico. Nel 2008 ha fatturato poco più di un milione di euro con un utile di 469.277 euro. Non ha immobili di proprietà, ma ha preso in leasing un ufficio con autorimessa (valore 1,3 milioni) e una abitazione (valore 602 mila euro) che gestisce e riaffitta a terzi. Bisio ha una quota anche di una società di promozione pubblicitaria (la Moviement srl) che fattura circa 2 milioni di euro all’anno e ha chiuso il 2008 in utile per 33.093 euro. Meno fortunata un’altra avventura imprenditoriale in cui si è tuffato insieme ad altri colleghi di Zelig: quella della Steek Hutzee srl, azienda di abbigliamento in corso di trasformazione. Dopo qualche anno in cui si è barcamenata, ha dedicato l’intero 2008 a cercare di riscuotere i crediti dai clienti che non pagavano. Risultato: 13 mila euro di perdita. Per Bisio non è un dramma: ha solo l’8 per cento. Per gli affari (e non solo quelli), Claudio ha davvero naso.

Littizzetto, Luciana si inventa una seconda vita da palazzinara

Il suo primo mattone l’ha conquistato quattro giorni prima di compiere il ventesimo anno di età. Fu quel 25 ottobre 1984 che la signorina Luciana Littizzetto, “nubile, insegnante” firmando l’atto di acquisto dalla signora Antonietta Luigia Darbesio in Ceschi, casalinga, scoprì la sua vera vocazione: quella immobiliare. Era un semplice box auto, in via San Donato a Torino, a due passi dalla latteria gestita tutta la vita dia genitori. Ma era solo l’inizio. Otto anni dopo, nel 1992, altro box auto. E poi gli affari veri. Oggi la Littizzetto non insegna più. In compenso è proprietaria di 10 fabbricati a Torino, uno nella collina torinese in quel di Gassino (è l’ultimo suo acquisto, nel novembre 2009), uno nella natìa Bosconero, sempre provincia del capoluogo piemontese e uno a Milano. In tutto 14 fabbricati, ed è un patrimonio già da agenzia immobiliare. Certo, la spalla destra di Fabio Fazio in “Che tempo che fa”, la sua vocazione l’ha costruita anche grazie a un altro mestiere, assai più redditizio dell’insegnamento: quello di attrice comica. Grazie alla Rai che l’ha trasformata in una stellina del suo terzo canale, è diventata una delle principali protagoniste dello show business. Libri, spot pubblicitari, film, spettacoli tv. A differenza dei suoi colleghi e amici di Zelig (con cui iniziò) specialisti nel cuore a sinistra e portafoglio a destra, Luciana ha corretto la rotta: ora è cuore e portafoglio rigorosamente a sinistra. Rai Tre contribuisce non poco al suo reddito, ma soprattutto è stata il volano per farle avere contratti altrove (come quelli degli spot). Fatto sta che già nel primo anno di Che Tempo che fa la Littizzetto è arrivata fra i primi 500 contribuenti di Italia. Reddito da 1.824.084 euro, 11 mila più dell’allora manager di Mc Donald’s, Mario Resca, 13 mila più di Santo Versace e davanti perfino a il re delle carni Luigi Cremonini (22 mila euro meno di Luciana), all’industriale Vittorio Merloni (24 mila euro in meno) e al superprofessore Umberto Veronesi, che doveva accontentarsi di 1.784.502 euro. L’ex insegnante insomma ha fatto carriera, e si può capire come oggi sia blindato in Rai il suo contratto non intaccato (a differenza di quello di Fazio) nemmeno da uno spiffero. Con i soldi guadagnati Luciana si è potuta così dedicare alla passione che la prese così giovane: quella per gli investimenti sul mattone. A Torino, città a cui è restata legatissima, ha immobili un po’ dappertutto: in via Cavalcanti, in corso Quintino Sella, sulla collina. Ma il suo interesse principale è stato per la cosiddetta precollinare: in via Villa della Regina ha messo a segno anno dopo anno un colpo immobiliare dietro l’altro, comprando appartamenti in vari numeri civici sempre da privati. Trattative fatte in solitaria salvo in un caso, in via Colombini, dove l’acquisto dal proprietario precedente, la Operfin 90 srl è stato condiviso al 50% con Davide Graziano, autore della colonna sonora di “Ravanello pallido”, esordio di Luciana come sceneggiatrice. Nonostante la disponibilità economica, solo nel 2006 la Littizzetto ha voluto sbarcare come immobiliarista anche nel paese da cui proveniva la sua famiglia. E ha acquistato una casetta a Bosconero dalla Vibi costruzioni srl battagliando all’inizio perché fosse tolta l’ipoteca da 2 milioni dovuta a un precedente mutuo con Unipol banca. Ma poi tutto è filato liscio.

Gialappa's, mai dire no a Berlusca e il portafoglio si gonfia

Mai dire no. Chissà se mai quei tre ragazzi che un quarto di secolo fa, era il 1985, esordirono a Radio popolare, avrebbero pensato un giorno di entrare nella classifica fra i 5 mila uomini più ricchi di Italia. Loro, Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci ora come oggi sono conosciuti dal grande pubblico come la “Gialappa’s”. Nati nella radio cult della sinistra meneghina, commentando la sera delle partite la giornata calcistica, i tre si sono ben guardati di dire no al dirigente Fininvest che un giorno sentendoli li contattò e propose loro il grande salto. Così il trio è esploso professionalmente a Mediaset. Assunti a Rete4, passati a Italia Uno, finiti a Canale 5, hanno ormai un posto fisso fra le star delle tv di Silvio Berlusconi. E all’azienda sono restati più che fedeli in questi anni. Con un solo screzio, datato aprile 2004, quando in piena campagna elettorale per le europee, la mannaia della par condicio falcidiò i contenuti della loro “Mai dire domenica”, provocando la protesta di uno dei tre, Santin, che tuonò: “Perché noi censurati ed Emilio Fede che sbeffeggiava Lilly Gruber lasciato libero?”. Cinque anni dopo però è stato lo stesso Santin a divenire più realista del re prendendo le parti di Mediaset contro Enrico Mentana in quel caso Englaro che costò il posto di lavoro al conduttore di Matrix: “Lui si è nascosto dietro la foglia di fico dell’interesse per l’informazione. Ma a Mentana interessava solo l’auditel in questo caso”. Insomma, il trio della Gialappa’s non la pensa come il fondatore dell’azienda che dà loro lavoro, ma sta ben attento a non sputare nel piatto dove mangia. Anche perché grazie al biscione la loro vita è davvero cambiata. Nel 2005, l’anno in cui tutti i 740 degli italiani sono finiti su Internet per decisione di Vincenzo Visco, loro stavano nella parte alta della classifica. Carlo Taranto davanti a tutti con i suoi 616.761 euro che superavano perfino di 600 euro il reddito all’epoca di Fabio Fazio. A ruota Marco Santin, con 597.507 euro e fanalino di coda Giorgio Gherarducci, figlio d’arte del giornalista sportivo Mario, che aveva guadagnato 561.450 euro. Grazie ai buoni contratti ottenuti i tre si sono lanciati anche in un’altra avventura di successo: quel Zelig di cui sono autori, fondatori e mezzi padroni Gino e Michele. La Gialappa’s si è divisa in parti più o meno uguali il due per cento di Bananas srl, società che produce Zelig. E così ha uno zampino anche nell’altra gallina dalle uova d’oro della compagnia: Smemoranda. L’avventura con Gino e Michele è costata qualche migliaio di euro, e rende già benissimo. La quota della Gialappa’s vale, come porzione di fatturato 2008, qual cosina in più di 350 mila euro. Gialappa’s è anche il nome della società a responsabilità limitata che gestisce il marchio del successo artistico del trio ed è guidata da Taranto, che ha vocazioni più manageriali degli altri compagni di ventura. Fattura poco meno di un milione di euro con un utile di 80.074 euro. Sul conto corrente aperto presso la Cassa di risparmio di Parma e Piacenza sono depositati 124.155 euro secondo quanto riporta il bilancio di esercizio. Mentre Taranto cura gli affari del gruppo, i due colleghi della Gialappa’s hanno investito nel mattone. Santin a dire il vero ha due case a Milano, la più grande ereditata nel 2005 dal padre Federico, uno dei più celebri disegnatori e illustratori di libri per ragazzi. E una casetta ad Ostuni, vicino a Brindisi, dove rifugiarsi di tanto in tanto. Gherarducci ha invece un piccolo patrimonio immobiliare fra Milano e le province di Piacenza e Savona. Nel capoluogo lombardo, dove i tre lavorano, Gherarducci risulta comproprietario di una casetta sui Navigli acquistata nel 2000, e proprietario di un appartamento di sei vani non lontano da piazza 5 giornate, acquistato a fine 2004 e di un altro appartamento nella stessa zona con 5,5 vani in comproprietà. Sempre a Milano è di Gherarducci il 50% di un più ampio appartamento (10,5 vani) a due passi da porta Ticinese. Altri investimenti immobiliari in solitaria a Lugagnano Val D’Arda in provincia di Piacenza e insieme al più giovane fratello Giampaolo ad Albisola superiore, in provincia di Savona (4,5 vani di cui gode l’usufrutto la mamma, Maria Carmen).

Gino e Michele, quando le formiche diventano ricchissime

Hanno la stessa quota in Zelig. La stessa in Smemoranda, l’agenda scolastica nata anche grazie a Mario Capanna e a Democrazia proletaria. Tutto uguale fino al centesimo. Se uno fa a Gino e Michele la radiografia patrimoniale sembrano quasi gemelli. I gemelli più ricchi di Italia. Insieme a Beppe Grillo e Roberto Benigni, i comici di sinistra che grazie a Silvio Berlusconi sono riusciti a guadagnare di più. Grillo e Benigni (un po’ meno) lavorando contro Berlusconi. I due gemelli lavorando per Berlusconi. Ma Gino e Michele gemelli fino in fondo non sono. Perché Michele Mozzati è più giovane di dieci mesi di Luigi Vignali (Gino) ed anche un pizzico più ricco di lui. Quindicimila euro lordi di differenza, lo stipendio di un operaio. Non una distanza siderale, quando si è milionari. Eppure quei 15 mila euro li separano di 36 posti nella classifica dei ricchissimi di Italia. Gino con i suoi 1.313.665 euro dichiarati nel 2005, l’anno in cui Vincenzo Visco mise in piazza tutti i 740 degli italiani, si piazza subito davanti Guido Maria Barilla, distanziato di mille euro lordi, e a gente come il calciatore David Suazo (un milione e 304 mila eiuro), il compianto Mike Bongiorno (un milione e 298 mila) e un supermanager pubblico come l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi. Michele riesce a fare di meglio: con il suo reddito di 1.328.285 euro riesce a distanziare anche Lucio Dalla ( un milione e 322 mila euro) e perfino Stefano Ricucci nell’anno chiave della sua scalata al successo insieme ai furbetti del quartierino (un milione e 320 mila euro). Uno dei filoni satirici più fortunati nelle raccolte pubblicate da Gino e Michele riguarda come sempre l’attuale presidente del Consiglio. Sempre attuale quella che faceva il verso a una fortunata battuta (“Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l'annunciatrice”) di Enzo Biagi: “Non è vero che se Berlusconi avesse le tette farebbe l'annunciatrice. E' vero invece che se l'annunciatrice avesse le tette se la farebbe Berlusconi”. Più cattivella quella “Quando Silvio Berlusconi salì alla guida del governo molti italiani si convinsero che le sorti del Paese fossero in mano ad un ‘serial Premier’”. Ma da vero hara-kiri la terza gettonatissima nella Gino and Michele story: “Berlusconi è così convinto che con i soldi si può fare tutto che, quando va a pescare, come esca usa l'American Express”. Il duo comico milionario infatti non ha bisogno della carta di credito. Usa contanti. Come nell’ultimo anno sia Gino che Michele hanno fatto per acquistarsi una seconda casa dove stabilire il proprio buen retiro. Rigorosamente separati di centinaia di chilometri. Gino si è comprato a settembre una casetta a Rimini, in viale Amerigo Vespucci. Gliela ha venduta l’Hotel Villa verde. Michele invece qualche mese prima ha acquistato da Laura Bruno Ventre un’ampia casa (9,5 vani con magazzini annessi) in mezzo al verde in quel di Orino, nel varesotto. L’uno e l’altro acquisto cash, senza bisogno di chiedere il mutuo alla banca di fiducia. D’altra parte né a Gino né a Michele la liquidità difetta. Vanno a gonfie vele tutti gli affari sia a Smemoranda (la società editrice, Gut edizioni, fattura più di 30 milioni di euro), sia a Bananas, la società che produce Zelig (oltre 14 milioni di fatturato). Con la quota di fatturato riconducibile all’uno e all’altro Gino e Michele potrebbero contare su poco meno di 7 milioni di euro all’anno. Ma il valore della partecipazione è assai più alto. Smemoranda nel 2009 aveva perfino fatto gola al blasonato fondo di private equità della Barclays. I comici hanno tirato per le lunghe le trattative, poi quando hanno avuto certezza di riavere in tasca per Zelig il contratto con Mediaset invece di firmare la cessione hanno detto “partiamo per le vacanze”. Tornati hanno deciso che non se ne faceva più nulla. Tanto nel capitale hanno dentro un amico cui i soldi non mancano: Massimo Moratti, presidente dell’Inter. Anche grazie a lui il duo comico ha intrapreso la sua nuova attività, quella edilizia. Fondando una società, la Red Brick (Mattone rosso) il cui nome è tutto un programma…