D'Addario madrina? I cassintegrati la rifiutano e Legrottaglie rinuncia alla beneficenza
Quando l’ha saputo Nicola Legrottaglie, difensore della Juventus e della Nazionale italiana, ha subito preso le distanze: “Ah, io con quella Patrizia D’Addario non voglio c’entrare proprio nulla. Non sapevo fosse stata coinvolta nella Nazionale italiana solidale (Nis) e anzi lo trovo imbarazzante”. A Legrottaglie, che in quella nazionale di vecchie e nuove glorie nata per uno dei tanti tour di beneficenza per iniziativa dell’ex portiere azzurro Stefano Tacconi, è sfuggito infatti che madrina della Nis fosse divenuta da un paio di mesi proprio l’escort barese che tentò di incastrare con il suo registratore Silvio Berlusconi. A lei Dario Casetta, allenatore della squadra benefica in cui hanno giocato oltre a Tacconi anche Marco Osio, Luca Bucci e Lorenzo Minotti, ha consegnato la maglia azzurra numero dieci, ottenendo in cambio la devoluzione alla onlus di parte dei diritti di autore che eventualmente la D’Addario incasserà con il suo prossimo disco, presentato lunedì al Midem di Cannes.
Un matrimonio che ha suscitato un certo clamore, quello fra la escort barese e la squadra di Tacconi. Lasciando appunto all’oscuro uno dei partecipanti all’iniziativa, come Legrottaglie, che per altro ricorda: “a dire il vero non ho mai giocato in quella nazionale. Mi hanno proposto 5-6 partite l’estate scorsa spiegandomi che gli incassi sarebbero stati devoluti a una associazione benefica specializzata nell’adozione di bambini in difficoltà. Per giocare naturalmente avrei dovuto essere libero dagli impegni con la Juventus e con la nazionale A, e questo non è mai capitato.
Appena nato, dunque, il matrimonio D’Addario- Nazionale italiana solidale rischia già di naufragare per le prese di distanza. La squadra di Tacconi, dopo avere giocato l’ultima partita il 19 settembre scorso a Fontanellato, vincendo 1 a 0 contro la nazionale della polizia di stato, non è più riuscita a scendere kin campo.
L’esibizione clou sarebbe dovuta avvenire pochi giorni prima del Natale, a Paderno Dugnano, giocando contro una rappresentativa di cassintegrati della Metalli preziosi, che dal dicembre 2008 aveva di fatto chiuso i battenti. Quando però il 9 dicembre i dirigenti della Nazionale hanno posto la condizione irrinunciabile della presenza della D’Addario, che avrebbe dovuto dare il calcio di inizio, i cassintegrati si sono rifiutati di giocare. I loro rappresentanti sindacali (anche la Fiom Cgil) sono corsi dal sindaco di Paderno Dugnano, il giovane Marco Alparone, primo farmacista della cittadina, che ha subito condiviso le loro preoccupazioni. Spiega il primo cittadino: “ Due dirigenti della Nazionale italiana solidale si sono presentati il giorno della conferenza stampa tirando fuori all’improvviso la condizione della presenza della D’Addario, divenuta madrina della squadra. D’accordo con i cassintegrati ho risposto che non se ne parlava nemmeno. La partita serviva a portare solidarietà ai lavoratori, non a fare pubblicità a quella signorina. Loro hanno chiesto di fare due telefonate e poi ci hanno detto che la condizione D’Addario era irrinunciabile. Allora abbiamo rinunciato a loro. La partita si è giocata salvando l’incasso. Ma in campo è scesa più banalmente la mia giunta contro i lavoratori della Metalli preziosi in crisi”.
Per il fisco la escort d'Italia valeva 733 euro al mese
Nome, D’Addario Patrizia. Reddito lordo 2005 : 12.265 euro. Netto mensile: 733,84 euro, appena 170 euro sopra la soglia della povertà ufficiale. Tasse pagate: 2.725 euro all’anno. Non se la passava un granchè bene la protagonista del sexy gate italiano prima di fare esplodere il caso Silvio Berlusconi. Certo, i redditi per esercitare il mestiere più antico del mondo non finiscono mica nel 740, e alla D’Addario sarebbero bastate due serate da accompagnatrice perfino senza “utilizzatore finale” per essere rimborsata di quel che in un anno aveva versato al fisco con il suo 740 ufficiale. Ma fino a lì la povera Patrizia non deve avere vissuto anni d’oro. Ora si atteggia a star del Midem di Cannes, il salone internazionale della musica dove la D’Addario è sfilata sotto i flash internazionali pochi giorni fa. Ma era ben altra musica quella che suonava dieci-quindi anni fa, quando per piazzare insieme al socio qualche book video o fotografico della sua Stadium pictures snc a Bari le doveva provare proprio tutte.
Fu il suo primo flop imprenditoriale. Voleva produrre film, telefilm, documentari, spot, spettacoli teatrali, libri d’arte e fotografici sul Mezzogiorno d’Italia e la Puglia in particolare. Non ha ottenuto che qualche piccola commessa e quando era appena uscita dalla fase di lancio la D’Addario e il suo socio, Riccardo Schito, avevano dovuto chiudere baracca e burattini e liquidare la società. Non è andata molto meglio negli anni successivi: qualche piccolo contratto televisivo, qualche book fotografico, perfino un calendario. Anche se non traspariva dalla dichiarazione dei redditi, qualche soldino Patrizia doveva averlo messo da parte. Tanto che dal 2000 risulta proprietaria di una bottega da 193 mq a Triggiano e dal 2001 di un appartamento di 6,5 vani e di cantina da 20 mq a Bari, oltre che dei beni ereditati l’anno precedente, alla morte del padre Francesco e poi a quella del fratello Luigi, insieme alla madre a Bari (due alloggi da 4,5 vani ciascuno) e nel quartiere Carbonara (un terreno).
Ma al catasto la D’Addario è stata protagonista di una girandola di atti in questi anni. I problemi più grossi li ha avuti con la bottega di Triggiano: Patrizia l’aveva conquistata grazie a un atto di permuta con una società: la Galtieri Tommaso e Gaudino Cataldo snc. Loro avevano girato a lei il negozio e in cambio avevano ricevuto da lei parte dell’eredità paterna cui avevano rinunciato madre e fratello: due alloggetti in “abitazione di tipo ultrapopolare” da 1,5 vani ciascuno in via De Rossi a Bari, uno allo stesso indirizzo da 2,5 vani, uno da un vano appena e uno un po’ più ampio, 4 vani. Ma sulla bottega l’anno successivo, il 9 febbraio 2001, è stata posta ipoteca giudiziale dal giudice di pace di Bari con decreto ingiuntivo a favore dell’avvocato Domenico De Felice tutto per una piccola cifra che fra capitale e interessi ammontava a 7 milioni di vecchie lire. Il resto dell’eredità paterna, due mini alloggi ad Adelfia, sono stati venduti il 10 maggio 2001 ai signori Arciuli (marito e moglie) di Bari. Ma non si è potuto ricavare un granchè.
Le speranze di Patrizia erano tutte in un’altra parte di eredità: il terreno a Carbonara e il diritto di costruzione di tre fabbricati lì sopra. Era quello che lei avrebbe voluto trasformare in residence e per cui aveva cercato contatti e spintarelle in alto loco. Chiese una mano anche allo stesso Berlusconi, che non poteva dargliela, visto che il comune era saldamente in mano al Pd e al sindaco Michele Emiliano. Secondo la documentazione depositata al catasto però il comune in qualche modo era intervenuto nella vicenda. Il 4 ottobre 2007 infatti aveva costituito davanti al notaio barese Concetta Capano un vincolo di destinazione a favore del municipio del capoluogo pugliese. “I signori Frisone Vincenza (la mamma, ndr)”, si trova scritto nell’atto, “D’Addario Patrizia e D’Addario Luciano, proprietari del fabbricato a costruirsi sito in Bari-Carbonara, si sono obbligati a riservare e destinare a favore del comune di Bari e dei terzi aventi comunque diritto e interesse a tale riserva e destinazione- sempre che il fabbricato venga realizzato- a parcheggio privato le aree di pianoterra e del piano interrato della superficie complessiva di mq 295,75”. Il comune aveva quindi detto sì al progetto di Patrizia, chiedendo in cambio di costruire un parcheggio. Ma poi non se ne è fatto nulla.
A noi mai giù le tasse. A se stessi i partiti si graziano 500 milioni
I partiti politici stanno per regalarsi un maxi condono. Proprio nel momento in cui negano agli italiani un taglio delle tasse, grazie a un emendamentino alla legge mille proroghe vogliono approvare un colpo di spugna da 500 milioni di euro perdonando peccati passati e perfino futuri grazie a un nuovo condono sulle multe per avere affisso manifesti abusivi. L’idea è venuta a due ex tesorieri (Pontone, An e Lusi, Margherita) che hanno firmato una modifica al decreto legge mille proroghe per sanare ogni affissione abusiva dal 10 marzo 2009 fino alla prima parte della campagna elettorale in corso con il semplice pagamento di mille euro in ogni provincia. Lo sconto è analogo a quello previsto dal mille proroghe di un anno fa, che stabiliva un condono tombale per gli anni 2005-2009. Non è gran pagare, perché secondo stime attendibili in un anno elettorale le multe complessivamente comminate dai comuni ai partiti valgono 150 milioni di euro. Cifra a cui va aggiunto il costo per rimuovere i manifesti abusivi:circa 20 milioni all’anno. Grazie al condono invece di pagare 170 milioni ciascun partito se la può cavare con poco più di 100 mila euro all’anno. Tutti insieme poco più di un milione di euro. Roba da stappare spumante e festeggiare, come farebbe qualsiasi cittadino se il comune facesse uno sconto simile sulle multe per sosta vietata: un euro ogni 170 dovuti. Eppure nemmeno il clamoroso regalo offerto a Pd-Pdl e tutti gli altri all’inizio del 2009 li ha resi contenti. La possibilità di chiudere con 4 milioni di euro in tutto un contenzioso superiore ai 400 milioni non ha fatto felici i tesorieri né del centro destra né del centro-sinistra: nessuno ha colto la super-promozione. Semplicemente hanno fatto spallucce e non hanno pagato sperando che tutto finisse come sempre nel dimenticatoio. Invece molti comuni che almeno a quegli spiccioli non vogliono proprio rinunciare, hanno fatto recapitare a Pd, Pdl e compagnia bella delle minacciose cartelle esattoriali. Ma niente paura, ci pensa appunto il nuovo emendamento Lusi-Pontone, che sembra piacere proprio a tutti i partiti. Non solo arriva il nuovo condono 2009-2010, ma si allungano perfino i termini draconiani per aderire al condono precedente, quello 2005-2009. Bisognava versare quei mille euro a provincia entro il 31 marzo 2009. Bene, ora quel colpo di spugna è prorogato al 31 marzo 2010 e per la prima volta nella storia parlamentare comprende perfino le violazioni ancora non commesse, e che gli stessi partiti sanno bene che commetteranno.
La rinuncia a incassare quasi 500 milioni di euro dovuti, per quanto il condono sui manifesti abusivi dei partiti sia ormai triste tradizione italiana, fa impressione nel momento in cui il governo in carica dice di non potere concedere sconti fiscali di alcuna natura ai contribuenti italiani, pur riconoscendo che la pressione tributaria sia alta. Se si potesse incassare quella somma, ad esempio si potrebbe scontare se non proprio eliminare uno dei tributi locali più odiati dai contribuenti italiani: la tassa sui rifiuti. C’è poi una grande differenza rispetto al passato, ed è che i partiti hanno i forzieri pieni grazie a un finanziamento ottenuto dai contribuenti italiani che con buona dose di ipocrisia si continua a chiamare rimborso elettorale. Lo Stato continua a rimborsare ai partiti più di quanto loro non spendano nelle campagne elettorali, stampa di manifesti inclusa. Ma se nel 1994 di fronte a una spesa di 36 milioni di euro ai partiti sono stati “rimborsati” 47 milioni di euro, nell’ultima campagna elettorale la sproporzione è stata ben più evidente: spesi 136 milioni, “rimborsati” 503 milioni di euro. Pd, Pdl, Udc e Idv avrebbero quindi tutte le risorse in cassa (hanno poi incassato anche il generosissimo rimborso delle europee) per pagare le multe che invece si condonano. Se proprio nel governo la vocazione al condono è insopprimibile, meglio regalarlo a tutti i contribuenti, con la prospettiva di incassare assai di più. Chissà, anche quei mille euro all’anno per le multe future potrebbero rivelarsi un affare per migliaia di cittadini: un forfettone sulla sosta vietata. Resterebbe da spiegare un’ultima cosa a tutti: perché mai si fanno tante leggi e si stabiliscono punizioni draconiane se poi si sa dal primo giorno che non verranno rispettate? A questo punto meglio libero manifesto in libero Stato.
Bonino's e Bresso, lo scontro prima dell'alleanza
L’atto è depositato ancora più che davanti al notaio: fra i documenti ufficiali del Senato della Repubblica, di cui Emma Bonino è vicepresidente. “Non desidero assistenza religiosa, desidero un funerale non religioso”, spiega la leader radicale nel suo testamento biologico, e aggiunge: “Qualora io perdessi la capacità di decidere o di comunicare le mie decisioni, nomino mio rappresentante fiduciario che si impegna a garantire lo scrupoloso rispetto delle mie volontà espresse nella presente carta, la signora Bonino Domenica, residente a Bra (Cn), via Principi di Piemonte (…). Nel caso in cui il mio rappresentante fiduciario sia nell’impossibilità di esercitare la sua funzione, delego a sostituirlo in questo compito il signor Bonino Giovanni, nato a Bra (Cn), residente a Bra, in via G Piumati…”. Giovanni e Domenica sono i fratelli del candidato alla presidenza della Regione Lazio, e con Emma condividono la proprietà di un appartamento ad Alassio e un box auto a Bra, paese natale della famiglia (la leader radicale ha anche casa e bottega a Trastevere a Roma, e la bottega l’affitta a un esercizio commerciale). Giovanni fa l’amministratore di alcune immobiliari in quel di Bra. Ma è Domenica la leader di famiglia, e non a caso Emma si affida per prima a lei. Fa l’imprenditrice, e con un certo successo. Controlla la Santa Rita srl di Bra e attraverso quella anche la Tlp di Cherasco, specializzata in Laminati. Ha le amicizie giuste, tanto da avere una quota nei Roveri, la cittadella nel verde alle porte di Torino dove vivono i piemontesi bene. Domenica Bonino e il marito hanno le stesse quote azionarie, tanto per capirci, di Andrea Nasi e Andrea Agnelli, rampolli dell’impero Fiat. E’ grazie alla sua attività imprenditoriale che la sorella della Bonino ha incrociato la spada con il presidente della Regione Piemonte, quella Mercedes Bresso che ha appena siglato un patto di ferro con Emma. La Bresso infatti fra il 2007 e il 2008 aveva chiuso un accordo di programma con la Grassetto costruzioni, un tempo di Salvatore Ligresti e poi passata a Marcellino Gavio, recentemente scomparso. Si trattava di costruire la nuova Bra con un programma straordinario di edilizia residenziale e pubblica che stava particolarmente a cuore alla Bresso. Ma l’accordo che era a un passo dalla firma dopo avere superato la conferenza di servizi è stato impugnato proprio dall’altra Bonino, l’imprenditrice che insieme a un’altra impresa ha contestato l’aderenza del progetto Gavio alla viabilità prevista dal piano regolatore di Bra. La spada però è stata rinfoderata in fretta: le obiezioni della Bonino sono state subito accolte e inserite nell’accordo della conferenza dei servizi, con soddisfazione di tutti. E alla fine, vinta l’opposizione dell’imprenditrice di Bra, la Bresso ha messo la firma sul piano per cui ha stanziato 69,8 milioni di euro,parte come contributo pubblico e parte come mutuo fondiario agevolato, la metà del quale (31 milioni di euro) è destinato ad edilizia non residenziale.
La santa Rita srl e la sua legale rappresentante, Domenica Bonino, hanno accettato la correzione e la soluzione e sono andati avanti con i loro lavori. La società, che ha proprio sede nell’indirizzo fornito dal vicepresidente del Senato per l’esecuzione del suo testamento biologico, ha un patrimonio netto di circa 6 milioni di euro e un utile 2008 di poco inferiore agli 80 mila euro. Nell’ultimo quinquennio è riuscita a non chiudere mai i bilanci in rosso, anche grazie agli ottimi dividendi ottenuti dalla controllata Tlp di Cherasco, che nell’ultimo anno ha chiuso il bilancio con un utile di 543.491 euro e negli anni passati è riuscita a fare anche assai meglio. Avesse saputo prima dell’alleanza di Emma con la Bresso probabilmente la sorella Bonino imprenditrice avrebbe trovato altre strade alternative al braccio di ferro con il presidente della Regione Piemonte. A meno che proprio quell’occasione di lite risolta alla fine abbia favorito il buon clima sbocciato fra le due leader di casa Pd.
Dove stanno gli evasori? Sorpresa: tutti in Calabria e al Sud
Non è il cumenda, ma il picciotto il vero campione dell’evasione fiscale in Italia. Anche se per anni si è disegnato l’identikit del furbetto del fisco con l’imprenditore del Nord- Nord Est pronto a nascondere capitali in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, il vero serbatoio dell’economia sottratta al fisco è il Sud Italia. Lo rivela la documentazione depositata da Banca d’Italia, Agenzia delle Entrate e Istat presso la commissione Lavoro del Senato che sta conducendo una indagine conoscitiva sul livello dei redditi di lavoro nonché sulla redistribuzione della ricchezza in Italia nel periodo 1993-2008. I dati , e in particolare un lavoro dell’ufficio studi della Agenzia delle Entrate sulla evasione Irap sono stati analizzati in un documento pubblicato lunedì scorso integralmente dal professore Paolo Feltrin, titolare della cattedra di scienza dell’amministrazione all’Università di Trieste. Feltrin ha spiegato che l’evasione Irap è “una delle forme di evasione che si possono quantificare meglio. Sulle altre ci possono essere indizi più o meno indiretti, ma su questa siamo abbastanza certi”. E ha citato l’indagine dell’Agenzia delle Entrate per rivelare che “l’intensità della evasione Irap nelle regioni del Sud è da 3 a 5 volte superiore a quella delle regioni del Nord, raggiungendo il massimo del 94 per cento in Calabria (vuole dire che circa il 50% è evaso)”. Sempre secondo i dati della Agenzia delle Entrate, rivela Feltrin, “nel Sud e nelle isole l’evasione fiscale è medio-alta per il 70 per cento delle province contro il 24-26 per cento delle province del centro-nord. Secondo la stessa ricerca per il Sud si arriva ad oltre l’80 per cento di propensione all’evasione fiscale”.
I dati su chi fa fesso il fisco, secondo il professore triestino, rischiano di fare traballare la veridicità di altri dati ufficiali, soprattutto quelli su reddito medio e livelli di povertà che nel quadro macroeconomico si riflettono anche sulla consistenza del Pil italiano. Feltrin cita una indagine della Banca d’Italia “che segnala qualche problema sulle dichiarazioni delle regioni meridionali. Nel 2006 ad esempi ci sarebbe un 30 per cento di popolazione con reddito pro capite basso, ma se vado a vedere i consumi questo 30 per cento si dimezza e diventa 15 per cento. Se guardo ai redditi ho il 30 per cento delle famiglie povere, ma se guardo ai consumi questa percentuale si dimezza al 15 per cento. Anche qui la differenza fra redditi e consumi è una spia”. Il professore non lo dice, ma è evidente che è un altro indicatore del formidabile livello di evasione nel Mezzogiorno. Ma non si tratta della vecchia economia sommersa: “tutti i dati anzi dimostrano che l’evasione fiscale da lavoro nero, mancati contributi etc… è in radicale diminuzione: queste sono le stime Istat dagli anni ’90 in poi (…). In questi anni sembra essere aumentato un altro tipo di evasione/elusione fiscale, prevalentemente concentrata nei settori manifatturieri e collegata all’import-export”. E’ in questa massa di evasione fiscale che si spiega perché sia sopportabile nel Sud un altro dato ufficiale, quello sulla presenza del 61,8 per cento di famiglie povere: “perché”, sostiene Feltrin, “non ci sono movimenti di contestazione o tensioni sociali con dati così? Perché questi dati non sono veri”. Esiste secondo il professore triestino anche un altro dato non veridico: quello sul Pil: “Con ogni probabilità stiamo sottostimando il Pil nazionale perché non teniamo in adeguato conto non tanto l’evasione classica, tradizionale, quella che abbiamo avuto per 50 anni, ma quella che può essere esplosa negli anni ’90 e negli anni 2000, legata a transazioni estere, spesso legali”. Lo sa l’Istat, lo sa la Banca di Italia “e perché non si corregge la sottostima del Pil? Io credo che qualsiasi aggiustamento del Pil renderebbe meno cogente qualunque politica di contenimento del debito pubblico. Quindi, tutto sommato, conviene a tutti per un po’ dire che il Pil è così come è e non fare troppe discussioni”.
Le sentenze sono sacre! Ma il Csm non le rispetta
Le sentenze non si discutono, si rispettano e si applicano. Questa massima, ripetuta come una cantilena da magistrati, giuristi e legulei, vale per tutti. Beh, non proprio per tutti. Per tutti i comuni mortali. Meno i magistrati. Già, perché la sentenza riguarda loro, mica la debbono per forza rispettare. La buttano nel cestino. Come ha fatto nell’ultimo anno e mezzo per ben due volte il massimo organo di autogoverno della magistratura, il Csm. Due volte infatti il Consiglio di Stato ha annullato per irregolarità la nomina di Giovanni Palombarini a procuratore generale aggiunto della Corte di Cassazione. Due volte il Csm ha fatto finta di nulla e buttato nel cestino la decisione del massimo organo della giustizia amministrativa. E mercoledì scorso ha rinominato Palombarini procuratore generale aggiunto della Cassazione con la stessa procedura (una chiacchierata in commissione, stretta di mano e pacche sulle spalle) già annullata due volte per irregolarità.
Palombarini era stato nominato a quell’incarico il 18 ottobre 2007. Tre magistrati che ritenevano di avere più titoli di lui hanno fatto ricorso. E vinto con decisione del Consiglio di Stato numero 3513 del 2008. Solo uno di loro, Vitaliano Esposito, ha ritirato poi l’azione giudiziaria. Non perché si sia convinto che Palombarini avesse più titoli di lui. Solo perché Esposito è stato nominato dal Csm a un grado più alto, quello di procuratore generale di Cassazione, e non avrebbe avuto senso continuare a battagliare per essere retrocesso.
Davanti all’annullamento della nomina, il Csm non ha nemmeno lontanamente pensato di fare autocritica. Qualcosa tipo riguardare bene i curricula, esaminare tutti i candidati e poi scegliere con profonde motivazioni quello più adatto all’incarico, come stabiliva il Consiglio di Stato. Macchè, quelli Palombarini volevano e Palombarini hanno rinominato semplicemente riconvocandolo in commissione per una brillantissima audizione e stabilendo che sì, lui era l’uomo giusto. Inutile dire che di fronte a quello che loro sembrava un sopruso bello e buono, i due esclusi che attendevano giustizia, e cioè Carmelo Renato Calderone e Antonio Siniscalchi, hanno ripresentato ricorso al Csm.
I supremi giudici amministrativi il 31 dicembre 2009, un po’ spazientiti per il comportamento dei colleghi del Consiglio superiore della magistratura, hanno bocciato con sentenza il loro comportamento e in più licenziato dall’incarico lo stesso Palombarini. Il Consiglio di Stato spiega che “non vi era adeguata motivazione in ordine alla ritenuta prevalenza del dott. Palombarini sugli altri candidati a fronte di quanto risultante dai fascicoli personali degli stessi: imn particolare emergeva dagli atti che il dott. Esposito vantava una più lunga e variegata esperienza presso gli uffici di legittimità e che sia il dott. Calderone che il dott. Siniscalchi potevano vantare maggiore esperienza dirigenziale specifica”. Di più: “illegittimo era il ruolo determinante che era stato assegnato, quanto al requisito delle attitudini e capacità organizzative, all’audizione del dotto. Palombarini, atteso il carattere integrativo e sussidiario che per, consolidata giurisprudenza, l’audizione personale riveste rispetto alle risultanze documentali relative ai precedenti in carriera dei candidati”. Come dire che uno studia per anni da mattino a sera, lavora come una bestia, macina titoli su titoli e poi a un concorso gli preferiscono un altro solo perché è più brillante e simpatico nella conversazione. Agli esclusi secchioni girano le scatole. Al Consiglio di Stato hanno bollato questa decisione con il timbro che dovrebbe essere più infamante per il Csm: “illogica e illegittima”. E così il 31 dicembre il Consiglio di Stato ha concluso: “Alla luce dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di accoglimento delle domande di parte ricorrente. Alle amministrazioni intimate, pertanto, va ordinato di porre in essere tutti gli atti necessari per la corretta ottemperanza al giudicato in questione, attraverso una ulteriore rinnovazione della valutazione comparativa”. Il 20 gennaio il Csm si è riunito e ha semplicemente rinominato Palombarini al suo posto, facendo spallucce al consiglio di Stato.
Palombarini, il candidato per cui si buttano nel cestino le sentenze, non è di primissimo pelo. Nato a Gorizia nel 1936, va per i 74 anni. Nel 1981 è stato eletto segretario generale di Magistratura democratica e successivamente presidente della stessa corrente dei magistrati. Grazie a Md fra il 1990 e il 1994 è stato eletto nel consiglio superiore della magistratura.
Ai suoi contendenti beffati per la seconda volta dal Csm resta ancora una possibilità: quella della causa civile per avere almeno il riconoscimento economico dei loro diritti. Ogni anno decine di magistrati, perfino quelli in pensione, scelgono quella strada per avere riparazione dalle ingiustizie del Csm. E ottengono il dovuto senza incontrare resistenza: tanto il loro aumento di stipendio e lo scatto di pensione viene pagato da Giulio Tremonti, mica da Nicola Mancino e dai suoi colleghi.
Claudio Bisio, il comico che ha più naso per gli affari
Come il Leonard Zelig di Woody Allen Claudio Bisio soffre di camaleontismo. Ma per lui non è una malattia. Di notte accarezza il suo cuore da sempre a sinistra, cavalcando con battute al fulmicotone i cabaret che lo hanno reso celebre fino a farlo diventare il mattatore di Zelig su Canale 5. Di giorno cura il suo portafoglio a destra, per cui deve ringraziare le tv di Silvio Berlusconi. Un superportafoglio, perché Bisio guadagna più di 2 milioni di euro all’anno ed è il comico più ricco, anzi, straricco, di tutta la banda Zelig. Lascia a distanza siderale perfino Luciana Littizzetto, la comica più ricca. Lei lo supera solo sul mercato immobiliare: ha 13 case fra Torino e Milano. Bisio si è fermato a 12. Alla banca dati del catasto il compagno Zelig di Novi Ligure (dove è nato il 19 marzo 1957) risulta proprietario di 5 fabbricati a Milano, due in provincia di Savona, tre a Firenze e due in provincia di Genova (ad Arenzano). In più ci sono cinque terreni nell’alessandrino e tre nel fiorentino. Ma a differenza della Littizzetto Bisio viene da famiglia benestante, e buona parte del patrimonio di immobili e terreni lo ha ereditato dal padre insieme alla sorella Marilena, di tre anni più giovane. Sugli immobili vale di più lei. Ma sul vile denaro Bisio sbaraglia la collega, grazie soprattutto agli ottimi contratti ottenuti con Mediaset e con Seat-Pagine gialle per cui da anni è testimonial di un fortunatissimo spot. Quando la Littizzetto ha iniziato a lavorare con Fabio Fazio in Rai, al fisco ha dichiarato 1,8 milioni di euro, cifra che la inserisce di diritto fra le donne più ricche di Italia. Bisio però le ha bagnato il naso, lasciandola a grande distanza. Con il suo reddito di 2.299.611 euro dal 2005 è entrato nell’empireo dei milionari italiani, 384° in classifica. Tanto per capirci al 385° posto figurava Andrea Della Valle, presidente della Fiorentina, che guadagnava 9 mila euro meno di lui. Sopra i due milioni di euro, ma alle spalle di Bisio c’erano anche Donatella Versace, l’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti (che da domani secondo un emendamento alla legge comunitaria passato ieri in Senato dovrà ridursi lo stipendio sotto i 200 mila euro lordi, parificato ai parlamentari), l’ex manager della Juventus, Antonio Giraudo, il calciatore-allenatore ancora per poco della stessa squadra, Ciro Ferrara, e perfino uno scrittore-intellettuale che campa di diritti di autore d’oro come Umberto Eco (2 milioni e 128 mila euro).
A costruire il super-reddito di Bisio oltre ai cachet cinematografici e per le serate, ci sono anche le partecipazioni in società. Il comico ha il 2 per cento della Bananas srl, creata da Gino e Michele proprio per dare forma societaria alle fortune di Zelig. Ma è intestata a lui anche l’80 per cento di una immobiliare, la Solea srl, di cui è amministratore unico. Nel 2008 ha fatturato poco più di un milione di euro con un utile di 469.277 euro. Non ha immobili di proprietà, ma ha preso in leasing un ufficio con autorimessa (valore 1,3 milioni) e una abitazione (valore 602 mila euro) che gestisce e riaffitta a terzi. Bisio ha una quota anche di una società di promozione pubblicitaria (la Moviement srl) che fattura circa 2 milioni di euro all’anno e ha chiuso il 2008 in utile per 33.093 euro. Meno fortunata un’altra avventura imprenditoriale in cui si è tuffato insieme ad altri colleghi di Zelig: quella della Steek Hutzee srl, azienda di abbigliamento in corso di trasformazione. Dopo qualche anno in cui si è barcamenata, ha dedicato l’intero 2008 a cercare di riscuotere i crediti dai clienti che non pagavano. Risultato: 13 mila euro di perdita. Per Bisio non è un dramma: ha solo l’8 per cento. Per gli affari (e non solo quelli), Claudio ha davvero naso.
Littizzetto, Luciana si inventa una seconda vita da palazzinara
Il suo primo mattone l’ha conquistato quattro giorni prima di compiere il ventesimo anno di età. Fu quel 25 ottobre 1984 che la signorina Luciana Littizzetto, “nubile, insegnante” firmando l’atto di acquisto dalla signora Antonietta Luigia Darbesio in Ceschi, casalinga, scoprì la sua vera vocazione: quella immobiliare. Era un semplice box auto, in via San Donato a Torino, a due passi dalla latteria gestita tutta la vita dia genitori. Ma era solo l’inizio. Otto anni dopo, nel 1992, altro box auto. E poi gli affari veri. Oggi la Littizzetto non insegna più. In compenso è proprietaria di 10 fabbricati a Torino, uno nella collina torinese in quel di Gassino (è l’ultimo suo acquisto, nel novembre 2009), uno nella natìa Bosconero, sempre provincia del capoluogo piemontese e uno a Milano. In tutto 14 fabbricati, ed è un patrimonio già da agenzia immobiliare. Certo, la spalla destra di Fabio Fazio in “Che tempo che fa”, la sua vocazione l’ha costruita anche grazie a un altro mestiere, assai più redditizio dell’insegnamento: quello di attrice comica. Grazie alla Rai che l’ha trasformata in una stellina del suo terzo canale, è diventata una delle principali protagoniste dello show business. Libri, spot pubblicitari, film, spettacoli tv. A differenza dei suoi colleghi e amici di Zelig (con cui iniziò) specialisti nel cuore a sinistra e portafoglio a destra, Luciana ha corretto la rotta: ora è cuore e portafoglio rigorosamente a sinistra. Rai Tre contribuisce non poco al suo reddito, ma soprattutto è stata il volano per farle avere contratti altrove (come quelli degli spot). Fatto sta che già nel primo anno di Che Tempo che fa la Littizzetto è arrivata fra i primi 500 contribuenti di Italia. Reddito da 1.824.084 euro, 11 mila più dell’allora manager di Mc Donald’s, Mario Resca, 13 mila più di Santo Versace e davanti perfino a il re delle carni Luigi Cremonini (22 mila euro meno di Luciana), all’industriale Vittorio Merloni (24 mila euro in meno) e al superprofessore Umberto Veronesi, che doveva accontentarsi di 1.784.502 euro.
L’ex insegnante insomma ha fatto carriera, e si può capire come oggi sia blindato in Rai il suo contratto non intaccato (a differenza di quello di Fazio) nemmeno da uno spiffero. Con i soldi guadagnati Luciana si è potuta così dedicare alla passione che la prese così giovane: quella per gli investimenti sul mattone. A Torino, città a cui è restata legatissima, ha immobili un po’ dappertutto: in via Cavalcanti, in corso Quintino Sella, sulla collina. Ma il suo interesse principale è stato per la cosiddetta precollinare: in via Villa della Regina ha messo a segno anno dopo anno un colpo immobiliare dietro l’altro, comprando appartamenti in vari numeri civici sempre da privati. Trattative fatte in solitaria salvo in un caso, in via Colombini, dove l’acquisto dal proprietario precedente, la Operfin 90 srl è stato condiviso al 50% con Davide Graziano, autore della colonna sonora di “Ravanello pallido”, esordio di Luciana come sceneggiatrice. Nonostante la disponibilità economica, solo nel 2006 la Littizzetto ha voluto sbarcare come immobiliarista anche nel paese da cui proveniva la sua famiglia. E ha acquistato una casetta a Bosconero dalla Vibi costruzioni srl battagliando all’inizio perché fosse tolta l’ipoteca da 2 milioni dovuta a un precedente mutuo con Unipol banca. Ma poi tutto è filato liscio.
Gialappa's, mai dire no a Berlusca e il portafoglio si gonfia
Mai dire no. Chissà se mai quei tre ragazzi che un quarto di secolo fa, era il 1985, esordirono a Radio popolare, avrebbero pensato un giorno di entrare nella classifica fra i 5 mila uomini più ricchi di Italia. Loro, Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci ora come oggi sono conosciuti dal grande pubblico come la “Gialappa’s”. Nati nella radio cult della sinistra meneghina, commentando la sera delle partite la giornata calcistica, i tre si sono ben guardati di dire no al dirigente Fininvest che un giorno sentendoli li contattò e propose loro il grande salto. Così il trio è esploso professionalmente a Mediaset. Assunti a Rete4, passati a Italia Uno, finiti a Canale 5, hanno ormai un posto fisso fra le star delle tv di Silvio Berlusconi. E all’azienda sono restati più che fedeli in questi anni. Con un solo screzio, datato aprile 2004, quando in piena campagna elettorale per le europee, la mannaia della par condicio falcidiò i contenuti della loro “Mai dire domenica”, provocando la protesta di uno dei tre, Santin, che tuonò: “Perché noi censurati ed Emilio Fede che sbeffeggiava Lilly Gruber lasciato libero?”. Cinque anni dopo però è stato lo stesso Santin a divenire più realista del re prendendo le parti di Mediaset contro Enrico Mentana in quel caso Englaro che costò il posto di lavoro al conduttore di Matrix: “Lui si è nascosto dietro la foglia di fico dell’interesse per l’informazione. Ma a Mentana interessava solo l’auditel in questo caso”. Insomma, il trio della Gialappa’s non la pensa come il fondatore dell’azienda che dà loro lavoro, ma sta ben attento a non sputare nel piatto dove mangia. Anche perché grazie al biscione la loro vita è davvero cambiata. Nel 2005, l’anno in cui tutti i 740 degli italiani sono finiti su Internet per decisione di Vincenzo Visco, loro stavano nella parte alta della classifica. Carlo Taranto davanti a tutti con i suoi 616.761 euro che superavano perfino di 600 euro il reddito all’epoca di Fabio Fazio. A ruota Marco Santin, con 597.507 euro e fanalino di coda Giorgio Gherarducci, figlio d’arte del giornalista sportivo Mario, che aveva guadagnato 561.450 euro. Grazie ai buoni contratti ottenuti i tre si sono lanciati anche in un’altra avventura di successo: quel Zelig di cui sono autori, fondatori e mezzi padroni Gino e Michele. La Gialappa’s si è divisa in parti più o meno uguali il due per cento di Bananas srl, società che produce Zelig. E così ha uno zampino anche nell’altra gallina dalle uova d’oro della compagnia: Smemoranda. L’avventura con Gino e Michele è costata qualche migliaio di euro, e rende già benissimo. La quota della Gialappa’s vale, come porzione di fatturato 2008, qual cosina in più di 350 mila euro.
Gialappa’s è anche il nome della società a responsabilità limitata che gestisce il marchio del successo artistico del trio ed è guidata da Taranto, che ha vocazioni più manageriali degli altri compagni di ventura. Fattura poco meno di un milione di euro con un utile di 80.074 euro. Sul conto corrente aperto presso la Cassa di risparmio di Parma e Piacenza sono depositati 124.155 euro secondo quanto riporta il bilancio di esercizio. Mentre Taranto cura gli affari del gruppo, i due colleghi della Gialappa’s hanno investito nel mattone. Santin a dire il vero ha due case a Milano, la più grande ereditata nel 2005 dal padre Federico, uno dei più celebri disegnatori e illustratori di libri per ragazzi. E una casetta ad Ostuni, vicino a Brindisi, dove rifugiarsi di tanto in tanto. Gherarducci ha invece un piccolo patrimonio immobiliare fra Milano e le province di Piacenza e Savona. Nel capoluogo lombardo, dove i tre lavorano, Gherarducci risulta comproprietario di una casetta sui Navigli acquistata nel 2000, e proprietario di un appartamento di sei vani non lontano da piazza 5 giornate, acquistato a fine 2004 e di un altro appartamento nella stessa zona con 5,5 vani in comproprietà. Sempre a Milano è di Gherarducci il 50% di un più ampio appartamento (10,5 vani) a due passi da porta Ticinese. Altri investimenti immobiliari in solitaria a Lugagnano Val D’Arda in provincia di Piacenza e insieme al più giovane fratello Giampaolo ad Albisola superiore, in provincia di Savona (4,5 vani di cui gode l’usufrutto la mamma, Maria Carmen).
Gino e Michele, quando le formiche diventano ricchissime
Hanno la stessa quota in Zelig. La stessa in Smemoranda, l’agenda scolastica nata anche grazie a Mario Capanna e a Democrazia proletaria. Tutto uguale fino al centesimo. Se uno fa a Gino e Michele la radiografia patrimoniale sembrano quasi gemelli. I gemelli più ricchi di Italia. Insieme a Beppe Grillo e Roberto Benigni, i comici di sinistra che grazie a Silvio Berlusconi sono riusciti a guadagnare di più. Grillo e Benigni (un po’ meno) lavorando contro Berlusconi. I due gemelli lavorando per Berlusconi. Ma Gino e Michele gemelli fino in fondo non sono. Perché Michele Mozzati è più giovane di dieci mesi di Luigi Vignali (Gino) ed anche un pizzico più ricco di lui. Quindicimila euro lordi di differenza, lo stipendio di un operaio. Non una distanza siderale, quando si è milionari. Eppure quei 15 mila euro li separano di 36 posti nella classifica dei ricchissimi di Italia. Gino con i suoi 1.313.665 euro dichiarati nel 2005, l’anno in cui Vincenzo Visco mise in piazza tutti i 740 degli italiani, si piazza subito davanti Guido Maria Barilla, distanziato di mille euro lordi, e a gente come il calciatore David Suazo (un milione e 304 mila eiuro), il compianto Mike Bongiorno (un milione e 298 mila) e un supermanager pubblico come l’amministratore delegato delle Poste, Massimo Sarmi. Michele riesce a fare di meglio: con il suo reddito di 1.328.285 euro riesce a distanziare anche Lucio Dalla ( un milione e 322 mila euro) e perfino Stefano Ricucci nell’anno chiave della sua scalata al successo insieme ai furbetti del quartierino (un milione e 320 mila euro).
Uno dei filoni satirici più fortunati nelle raccolte pubblicate da Gino e Michele riguarda come sempre l’attuale presidente del Consiglio. Sempre attuale quella che faceva il verso a una fortunata battuta (“Se Berlusconi avesse le tette farebbe anche l'annunciatrice”) di Enzo Biagi: “Non è vero che se Berlusconi avesse le tette farebbe l'annunciatrice. E' vero invece che se l'annunciatrice avesse le tette se la farebbe Berlusconi”. Più cattivella quella “Quando Silvio Berlusconi salì alla guida del governo molti italiani si convinsero che le sorti del Paese fossero in mano ad un ‘serial Premier’”. Ma da vero hara-kiri la terza gettonatissima nella Gino and Michele story: “Berlusconi è così convinto che con i soldi si può fare tutto che, quando va a pescare, come esca usa l'American Express”.
Il duo comico milionario infatti non ha bisogno della carta di credito. Usa contanti. Come nell’ultimo anno sia Gino che Michele hanno fatto per acquistarsi una seconda casa dove stabilire il proprio buen retiro. Rigorosamente separati di centinaia di chilometri. Gino si è comprato a settembre una casetta a Rimini, in viale Amerigo Vespucci. Gliela ha venduta l’Hotel Villa verde. Michele invece qualche mese prima ha acquistato da Laura Bruno Ventre un’ampia casa (9,5 vani con magazzini annessi) in mezzo al verde in quel di Orino, nel varesotto. L’uno e l’altro acquisto cash, senza bisogno di chiedere il mutuo alla banca di fiducia. D’altra parte né a Gino né a Michele la liquidità difetta. Vanno a gonfie vele tutti gli affari sia a Smemoranda (la società editrice, Gut edizioni, fattura più di 30 milioni di euro), sia a Bananas, la società che produce Zelig (oltre 14 milioni di fatturato). Con la quota di fatturato riconducibile all’uno e all’altro Gino e Michele potrebbero contare su poco meno di 7 milioni di euro all’anno. Ma il valore della partecipazione è assai più alto. Smemoranda nel 2009 aveva perfino fatto gola al blasonato fondo di private equità della Barclays. I comici hanno tirato per le lunghe le trattative, poi quando hanno avuto certezza di riavere in tasca per Zelig il contratto con Mediaset invece di firmare la cessione hanno detto “partiamo per le vacanze”. Tornati hanno deciso che non se ne faceva più nulla. Tanto nel capitale hanno dentro un amico cui i soldi non mancano: Massimo Moratti, presidente dell’Inter. Anche grazie a lui il duo comico ha intrapreso la sua nuova attività, quella edilizia. Fondando una società, la Red Brick (Mattone rosso) il cui nome è tutto un programma…
Zelig fa ridere anche i conti correnti
Più di quattordici milioni di fatturato, oltre un milione di euro di utile all’anno. E nove milioni spesi per servizi, comprese le prestazioni professionali degli stessi soci. E’ la repubblica di Bananas, la società a responsabilità limitata che possiede il marchio di Zelig e che quei 14 milioni di euro all’anno incassa soprattutto da Mediaset, grazie al contratto per la trasmissione dello spettacolo di cabaret su Canale 5. Anche se vive essenzialmente per la linfa che esce dalle tasche di Silvio Berlusconi, Bananas (cioè Zelig) è una repubblica rossa. Sono quasi tutti di sinistra gli azionisti. A cominciare da Gino e Michele, quelli delle formiche che si incazzano (il libro che raccoglieva le loro battute è che è diventato una macchina da soldi dopo la pubblicazione per i tipi di Einaudi, casa editrice controllata da Berlusconi). Gino e Michele, che per l’anagrafe rispondono ai nomi di Luigi Vignali e Michele Mozzati, sono sia autori di Zelig che grandi azionisti della Bananas srl: insieme detengono il 23%. Stessa quota dei manager della società: Giancarlo Bozzo (direttore artistico di Zelig), il commercialista Salvatore Rino Messina (che è anche presidente del collegio sindacale della Banca popolare di Milano) e Nicola detto Nico Colonna, che è anche direttore di un’altra gallina dalle uova d’oro della compagnia (gli azionisti non sono molto diversi): la Gut edizioni, società editrice di Smemoranda (oltre 30 milioni di fatturato 2008). A dividersi i 9 milioni di cachet e anche gli utili sfornati ogni anno da Bananas ci sono anche i comici. I fondatori del cabaret: Paolo Rossi (9%), Giobbe Covatta (attraverso la sua Papero srl, che ha il 3%) e con quote ciasuno del 2% Antonio Albanese, Lella Costa, Enrico Bertolino, Claudio Bisio, Raul Cremona, Elio e le Storie Tese (attraverso la loro Hakapan spa), e la Gialappa’s (la quota è divisa fra i tre). Hanno l’uno per cento a testa di Bananas anche Dario Vergassola e Aldo, Giovanni e Giacomo. Una sfilza di comici e autori di satira tutta anti-berlusconiana, che curiosamente ha vissuto, è cresciuta professionalmente ed è divenuta ricca proprio grazie a Berlusconi e alle sue aziende. Grazie a Zelig, naturalmente (e i comici si lamentano pure del fatto che la trasmissione su Canale 5 pagata milioni di euro ha fatto contrarre i ricavi del locale in cui si fa cabaret per qualche centinaio di migliaia di euro). Ma anche grazie a nuove iniziative che si stanno sperimentando in base a quello che Bananas srl nel suo bilancio definisce “l’accordo con Mediaset-Rti per lo sviluppo di nuovi progetti per l’area digitale terrestre che hanno consentito alla nostra struttura la sperimentazione di differenti formule televisive ed un ulteriore coinvolgimento delle risorse artistiche e autorali che gravitano nell’orbita Zelig”.
Bananas controlla a sua volta altre società. L’ultima è nata nel 2009, si chiama Zelanda, è stata fondata da Gino e Michele e poi parzialmente ceduta ai soliti soci, e vorrebbe sfruttare i marchi Zelig e Smemoranda sul web. C’è una partecipazione del 5% agli utili di Smemoranda, l’80 per cento della Deco srl (circa 2 milioni di fatturato), società di coproduzione tv e la maggioranza (51%) del capitale di Z&lig advertising, società di raccolta pubblicitaria (circa 400 mila euro di fatturato). In quest’ultima, sarà un destino, è sia consigliere di amministrazione che azionista (29,5%) un giovane avvocato milanese, Marta Buti. Il suo successo professionale più importante è stato come difensore di parte civile di un gruppo di assistenti sociali del comune di Milano. Ha ottenuto un risarcimento di 10 mila euro. Era un processo per diffamazione a mezzo stampa per due articoli usciti su Il Giornale di Berlusconi.
Il gruppo di Zelig ha anche investito sul mattone, conquistando negli anni le mura dei locali della società in viale Monza a Milano. Milioni di euro di utili e pure la patrimonializzazione del loro investimento:per tutti Bananas è stato un grande affare visto che i comici ne sono diventati via via azionisti fra il 2000 e il 2001 acquistando per 5 milioni di vecchie lire ogni quota dell’uno per cento messa in vendita dai fondatori della srl.
Due soli i passi falsi in questi anni. Il primo è stato di carattere editoriale: la partecipazione del 20 per cento in una casa editrice, la Kowalski che non solo non ha reso nulla ma di svalutazione in svalutazione ha costretto il gruppo di Zelig a rimettere totalmente i 60 mila euro investiti fino ad uscire l’anno scorso dal capitale. Certo, i titoli non erano da cassetta: qualche autore minore dello spettacolo di cabaret, qualche romanzo straniero di cui si erano acquistati i diritti. Eppure fra le primissime pubblicazioni c’era un accattivante “Se non avrei fatto il cantante” di Checco Zalone. Ma era il maggio 2006, solo qualche mese prima del boom (legato ai mondiali di calcio) del cantante- cabarettista e nemmeno i suoi colleghi si sono accorti della gallina dalle uova d’oro che avevano per le mani.
Il secondo insuccesso è quello alimentare. Quelli di Zelig hanno aperto a fianco del cabaret anche un bistrot alla parigina, il Woody’s cafè. Siccome nessuno di loro era in grado di stare ai fornelli, hanno affittato la gestione del locale a Fiorenzo Bortolo Corona. Intanto che c’erano, hanno ceduto a lui pure due cuochi extracomunitari (inserendo la cosa in contratto): Nabih Abd El Aziz e Khalid Mohamed, entrambi egiziani. In cambio di 26 mila euro all’anno. Ma le perdite del ramo di azienda sono restate in mano ai comici, che nell’ultimo bilancio annotavano tristi: “la presenza della società, pur non diretta, nell’area della somministrazione non ha purtroppo prodotto i risultati sperati, si da determinare una fase di riflessione sull’opportunità di mantenere questa presenza e soprattutto sulle modalità dell’eventuale mantenimento”.
Diritti tv, ma quell'inchiesta è come il maiale. Sempre la stessa, non si butta via mai nulla
C’è un nuovo Berlusconi nel mirino della procura di Milano. Grazie al pm Fabio De Pasquale, che ha chiuso l’indagine Mediatrade sui diritti tv, Piersilvio Berlusconi potrà imparare dal padre anche un secondo mestiere, quello di imputato. Il primogenito del premier infatti è iscritto nel registro degli indagati per frode fiscale insieme al padre, a Fedele Confalonieri e una sfilza di altri personaggi ex manager o fornitori di Mediaset per cui a seconda dei casi è stata aggiunta anche l’ipotesi penale di appropriazione indebita e di riciclaggio. L’accusa non è proprio nuova di giornata. L’anticipò Repubblica a fine settembre, pochi giorni prima della decisione della Corte Costituzionale sul lodo Alfano. Venne scritto che un nuovo reato (quello di appropriazione indebita) era stato scovato dai pm milanesi nel canovaccio giudiziario che per altro era restato immutato, dando origine a una lunga serie di processi in parte conclusi con il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, in parte bloccati dal lodo Alfano. Il quotidiano di Carlo De Benedetti raccontò con toni melodrammatici il tormento del povero pm De Pasquale: lui l’indagine l’aveva praticamente conclusa, ma che fare? Se avesse depositato la richiesta alla vigilia della sentenza sul lodo Alfano, sarebbe sembrata una pressione sulla Corte. L’avesse fatto all’indomani, qualcuno avrebbe interpretato la scelta come una vendetta su Berlusconi. Così sono passati quattro mesi, e la chiusura delle indagini è stata formalizzata ieri. L’unica cosa ignota perfino a Repubblica era la decisione del battesimo giudiziario per Piersilvio. Questa notizia era stata ipotizzata a dire il vero proprio da Libero il 13 novembre scorso, in un articolo dove citando le ultime mosse dei pm e il dispositivo della sentenza di condanna di David Mills, si sosteneva che dopo Silvio la procura sembrava volere attaccare anche i figli. Il giorno successivo però è giunta in redazione una lettera di smentita dell’avvocato del premier, Nicolò Ghedini. Assai secca: “le prospettazioni contenute nell’articolo di Libero non trovano alcun riscontro nella realtà. Marina e Piersilvio Berlusconi sono già stati ritenuti ampiamente estranei a qualsiasi fattispecie penalmente rilevante”. Ottimista l’avvocato, ma così sicuro e tranchant che anche noi ne dovemmo prendere atto. Si capisce come quella di ieri per lui sia divenuta doccia fredda se non ghiacciata. Tanto da tuonare: “estendere l’incolpazione a Piersilvio Berlusconi, colpevole evidentemente di essere figlio di Silvio, è sconnesso da qualsiasi logica e da qualsiasi realtà fattuale”.
Non essendoci molto di inedito nel nuovo procedimento, perché gran parte del materiale di indagine è già stato fatto filtrare di mese in mese sulla stampa, c’è una cosa che colpisce in quest’ultima offensiva giudiziaria nei confronti del premier e ormai della sua famiglia. Una cosa che accomuna il filone dei diritti tv al processo Mills: la procura non ha grandi novità fra le carte di indagine. Sostanzialmente sono le stesse per cui si sono già imbastiti e conclusi processi nel 2005 e nel 2006. Sulla base dello stesso canovaccio giudiziario (l’acquisto dei diritti tv attraverso Frank Agrama dagli Usa passando per numerosi paesi europei) con cui la preda (il cavaliere) è sfuggita ai suoi cacciatori (la procura di Milano) per intervenuta prescrizione si ipotizza un reato diverso non prescritto e si imbastisce un secondo processo con lo stesso menù. Non più falso in bilancio o evasione fiscale, ma appropriazione indebita. Così come nel processo Mills si è escogitata sulla stessa materia processuale la formula assai innovativa della corruzione successiva: uno corrompe un professionista, e quello si fa corrompere sulla base di una semplice promessa. E siccome il cavaliere è uomo di parola, anni dopo quella promessa (che non aveva nemmeno cambiali firmate prima) viene onorata. Oramai quella fra i Berlusconi e i giudici di Milano è guerra senza esclusione di colpi. Il premier sfugge a un processo con una leggina? E i pm non buttano via nulla. Si tengono i faldoni e scovano all’interno un nuovo reato. Altro processo, altra leggina a fare da scudo. All’infinito.
Il Csm si fa la legge ad personam per graziare Borraccetti (Md) che vuole fare carriera in età da pensione
Zitto zitto il Consiglio superiore della magistratura si è fatto mercoledì scorso una bella legge ad personam. La persona è quella di Vittorio Borraccetti, ex segretario di Magistratura democratica, che ha guidato la procura generale di Venezia e che oggi avrebbe ambito alla successione di Manlio Minale alla guida della procura di Milano. Avrebbe ambito, ma a rigore di legge non avrebbe potuto. Perché Borraccetti ha 69 anni e prossimo 5 ottobre ne compirà 70, età in cui i magistrati debbono andare in pensione. A meno che non chiedano ufficialmente per tempo di essere trattenuti in servizio. E’ consentito dall’articolo 72 della legge 133 del 6 agosto 2008, successivamente recepita dal Csm nella “Circolare sul trattenimento in servizio dei magistrati oltre il 70° anno di età”, approvata il 4 novembre 2008. Legge e circolare pongono però una condizione chiara: per potere prolungare l’età pensionabile i magistrati debbono presentare domanda di trattenimento in servizio dai 24 ai 12 mesi precedenti il compimento dei 70 anni. E il punto è proprio questo, perché Borraccetti ha avanzato la sua candidatura alla guida della procura di Milano, ma si è dimenticato della sua carta di identità. Non ha presentato in tempo la domanda per restare in servizio oltre i 70 anni. Se ne è accorto qualche amico al Csm, che deve avergli detto: “tu fai lo stesso quella domanda, poi ci pensiamo noi”. Così Borraccetti il 18 gennaio scorso, fuori tempo massimo (a 9 mesi e mezzo dal 70° compleanno) ha presentato la sua domanda per restare in servizio. E con una magia due giorni dopo il Csm ha approvato la leggina ad personam, una delibera per sanare transitoriamente tutte le situazioni alla Borraccetti fino al prossimo 4 novembre 2010. E visto che sembrava brutto farlo per un solo magistrato, al nome dell’aspirante capo della procura di Milano ne sono stati aggiunti altri nove: quelli che avevano presentato dalla fine del 2008 ad oggi domanda di post-pensionamento fuori tempo massimo. Quasi tutti magistrati molto noti, come Mario Almerighi, Francesco P. Amura, Vittorio Frascherelli, Mario Natalino Iapaolo, Franco Morano, Aldo Petrucci, Bartolomeo Quatraro, Claudio Rodà e Salvatore Sinagra. Due di loro, Morano e Petrucci i 70 anni li avevano addirittura già compiuti nella prima settimana del 2010. Un terzo, Sinagra (che presiede il processo sui fatti del G8), li compirà il prossimo 29 gennaio. Ma per tutti e nove, come per Borraccetti, la pensione sta per allontanarsi: sono infatti compresi nella sanatoria appena approvata dal Csm. Con il vantaggio che la legge pensata ad personam come si accusa Silvio Berlusconi di fare, ha allargato un pizzico la platea dei beneficiari, trasformandosi in legge ad personas. Un minuto dopo avere varato la sanatoria che ha mandato gambe all’aria una legge della Repubblica e una delibera dello stesso Csm, il supremo organo di controllo della magistratura ha già sanato secondo le nuove regole due posizioni, quella di Amura (giudice del tribunale di Torre Annunziata) e quella di Sinagra, che andando in pensione secondo la legge esistente avrebbe costretto il tribunale di Genova a riformare corte e azzerare processo sul G8.
Trattandosi di magistrati, naturalmente il plenum del Csm ha provato a dare anche un minimo di fondamento giuridico a una decisione che se altri organi istituzionali (perfino le Camere) avessero preso, sarebbe sorto un pandemonio. Così hanno notato che la legge del 2008 scrive sì che per restare oltre i 70 anni i magistrati debbono chiederlo fra i 24 e i 12 mesi prima di compiere la fatidica età. Ma la legge non aggiunge che quel termine debba essere “perentorio”. Ora lo sarà. Ma solo dopo avere sanato la posizione dei magistrati che stavano tanto a cuore ai componenti del Csm. E visto che siamo in periodo di grande generosità, gli uffici dell’organo di autogoverno della magistratura hanno allegato alla documentazione sulla sanatoria anche un elenco di altri 20 magistrati meno noti che stanno per compiere i 70 anni, ma non hanno al momento presentato domanda di trattenimento in servizio, senza inoltrare al Csm nemmeno regolare istanza di cessazione del servizio, necessaria per andare a godersi la meritata pensione. Si tratta di Salvatore Bognanni, Leonardo Bonsignore, Adriano D’Ottavio, Alberto De Palma, Antonio Giuseppe Giannuzzi, Francantonio Granero, Francesco Lacoppola, Giuseppe Vito Antonio Magno, Sergio Maxia, E. Armando Mori, Francesco Nuzzo, Giuseppe Pellettieri, Giuliano Perpetua, Luigi Persico, Michele Piantadosi, Giacomo Rodighiero, Giovanni Russo, Giacomo Sartea, Giovanni Strozzi e Guido Vidiri. Un plotoncino di sbadati che però ora verrà avvertito dai colleghi del Csm. Se sono interessati e si sbrigano, il colpetto di spugna sulle norme in vigore potrà valere anche per loro. A patto naturalmente di ringraziare Borraccetti: non ci fosse stato il suo caso, per tutti all’orizzonte resterebbe solo la panchina del giardinetto comunale e un po’ di pane secco da distribuire ai piccioni.
Ecco la tassa per cui ogni bebè è un rifiuto
In Italia c’è perfino una tassa che considera ogni nuovo nato come un rifiuto da buttare. Si chiama Tia, tariffa di igiene ambientale, e in moltissimi comuni ha ormai sostituito fra il 2002 e il 2007 una delle imposte meno amate dagli italiani: la Tarsu, tassa sui rifiuti solidi urbani. A differenza della Tarsu la Tia si paga non solo per i rifiuti portati via da casa, ma anche per la pulizia della città. Così c’è una quota fissa che ogni cittadino deve pagare, e una quota variabile che dipende come la Tarsu dalla metratura dell’abitazione, ma anche dall’ampiezza del nucleo familiare. Ogni figlio che nasce consumerà e butterà via, ha pensato il legislatore. Così per ogni neonato il capofamiglia dovrà pagare 15-25 euro in più di tassa rifiuti all’anno a seconda della città di residenza. E la vecchia Tarsu ha conquistato con la nuova veste un assoluto primato: in attesa dei più volte annunciati e mai realizzati provvedimenti fiscali a favore della famiglia, questa è l’unica tassa che punisce le famiglie numerose.
Chissà, forse cambiando il nome decine di sindaci hanno pensato di ingentilire il tributo. Di più: se ne sono anche politicamente liberati, perché a riscuoterlo non è più il comune, ma un’azienda municipalizzata. Il travestimento in realtà è stato diabolico, perché così si è pensato di trasformare la tassa nel più ordinario pagamento di un servizio. Così è aumentato l’esborso in modo esponenziale. Perché se nessuno vi ha mai fatto pagare l’Iva sulle tasse che pagate, sui servizi è sembrato possibile chiedere. Centinaia di piccoli comuni hanno quindi applicato il 10% di Iva sulla Tia, ex tassa sui rifiuti. Fino a quando la Corte costituzionale l’estate scorsa ha fermato l’indecenza, rendendo possibile a sei milioni di italiani la richiesta del maltolto. Iva o non Iva comunque la Tia costa assai più della vecchia Tarsu che pure è rimasta in vigore ancora nella maggiore parte dei comuni italiani. Un esempio? Roma. Una famiglia di quattro persone in cento metri quadrati pagava nel 2002 in tutto 196,90 euro di Tarsu all’anno. Poi la tassa sui rifiuti ha cambiato nome. Siccome la capitale è speciale, l’ha trasformata in Tia, ma non l’ha voluta chiamare così. Per distinguersi l’ha ribattezzata Tari. Per capire come funziona ci vuole un regolamento che solo qualche pazzo può avere ideato. La formula magica- l’algoritmo qui riprodotto in pagina- è così astrusa che nemmeno Einstein l’avrebbe mai compresa. Ma il risultato è ben visibile nelle tasche dei cittadini romani. Quella stessa famiglia di 4 persone che pagava 196,90 euro di Tarsu oggi paga 299.61 euro di Tari (fotocopia della Tia). Chi se la sente di raccontare la barzelletta che nessuno ha messo loro le mani in tasca? A parte i figli diventati rifiuti costosi, la tassa che non è più tassa è aumentata sensibilmente. Anche un single nello stesso appartamento paga più salato di prima: oggi 247,95 euro.
A Milano invece sopravvive la Tarsu. Che sarà odiatissima, ma se la offrite a quella stessa famiglia romana con due figli è in grado di portare un sorriso: perché sotto la Madonnina pagherebbe “solo” 262,20 euro all’anno e in più si potrebbe regalare gratis un fratellino o una sorellina ai due figli già nati perché la tassa resterebbe identica.
Nel capoluogo lombardo per altro a sorridere è anche la chiesa ambrosiana, cui non è chiesto per i luoghi di culto nemmeno un centesimo di Tarsu. A Roma ogni parrocchia deve pagare invece 3,93 euro al metro quadrato di tassa per lo smaltimento dei rifiuti, identica tariffa chiesta ai partiti politici (e nella capitale non mancano né chiese né sedi di partito). L’agevolazione milanese riguarda tutti i luoghi di culto riconosciuti, ed è concessa anche in uno sparuto gruppo di altre città, fra cui Bari e Trieste.
Epifani, che fiuto per il mattone. Tre case in un anno. Pronto per guidare il sindacato dei palazzinari
Tre case in meno di dodici mesi. Guglielmo Epifani può aspirare ora alla guida del sindacato degli immobiliaristi, grazie a una improvvisa passione per il mattone che ha fatto cogliere al volo al segretario della Cgil fra l’estate del 2008 e quella del 2009 tre affari immobiliari fra Roma e la Toscana insieme alla moglie Maria Giuseppina De Luca. Due i colpacci di mercato messi a segno dalla coppia: uno per un appartamento da 9,5 vani al settimo piano di un prestigioso immobile di viale Liegi, nell’esclusivo quartiere romano dei Parioli. E uno a Castelnuovo Berardenga, nel senese, dove la coppia è riuscita a conquistare una sorta di buen retiro nell’esclusivissimo Borgo di San Gusmè, un gioiello dell’architettura medioevale fresco di restauro. Tutto grazie ai propri risparmi (anche se il segretario della Cgil può contare su uno stipendio di circa 3.500 euro al mese, il più basso dei segretari dei sindacati) e a una girandola di mutui e finanziamenti il cui valore è cambiato sensibilmente nell’ultimo anno, ma che aveva toccato la punta di una esposizione ipotecaria per circa un milione e mezzo di euro.
La gentile consorte per altro ha donato al marito Guglielmo Ettore proprio nell’aprile 2009 la sua quota in un’altra casa, posseduta nel quartiere africano a Roma, a due passi dalla circonvallazione Salaria. L’atto, firmato davanti al notaio Gennaro Mariconda, uno dei più noti professionisti della capitale. Seconda la cortese formula di rito depositata alla banca dati del catasto capitolino “la signora Maria Giuseppina De Luca ha donato con riserva al signor Ettore Guglielmo Epifani che, con animo grato, ha accettato, la propria quota pari alla metà indivisa sulle porzioni immobiliare site in (…) comune di Roma. La signora si riserva espressamente la facoltà di disporre dei diritti pari alla metà indivisa dell’appartamento e della soffitta in oggetto, con esclusione della metà indivisa del posto auto, che resta definitivamente acquisita nel patrimonio del donatario”. Insomma, casa e soffitta con diritti di entrambi i coniugi e quel box auto che insieme avevano acquistato nel 2005 da una anziana signora di Piacenza, ora è tutto del segretario generale della Cgil. Grazie alla donazione il 23 dicembre scorso i coniugi Epifani hanno deciso di estinguere con 13 anni di anticipo il mutuo ipotecario da 125 mila euro da poco concesso dal Monte dei Paschi di Siena con un tasso di interesse annuo del 5,27%. D’altra parte proprio nell’anno d’oro del mattone per il numero uno della Cgil, il 15 ottobre 2008, Ettore Guglielmo ha anche ereditato insieme al fratello Gianfranco dal compianto padre Giuseppe un quarto immobile a Roma, da 7 vani e ampia cantina.
Pur conservando la casa nel quartiere africano, gli Epifani l’8 aprile 2009 hanno acquistato appunto ai Parioli di Roma un appartamento assai più prestigioso e grande, da 9,5 vani, ma sprovvisto di soffitta e box auto come nell’altra casa. A vendere l’appartamento uno dei nomi più noti della neurologia della capitale, Efrem Ferretti (classe 1917) che proprio nella nuova casa Epifani per lunghi anni ha esercitato la professione medica, scrivendo anche importanti saggi di psicanalisi. Il palazzo ha anche un ampio cortile trasformato in giardino lussureggiante con palme e vegetazione rara. Per l’acquisto gli Epifani, sei mesi prima di estinguere il mutuo in corso per l’altra proprietà, hanno bussato alla porta della banca di fiducia, il Monte dei Paschi di Siena. Che ha concesso al segretario Cgil (che compirà 60 anni il prossimo 24 marzo) un mutuo trentennale di 450 mila euro di capitale e un tasso di interesse annuo dello 3,01%, iscrivendo ipoteca sull’immobile per un valore di 900 mila euro. Il contratto prevede un tasso pari a quello Euribor di un mese maggiorato di un punto netto all’anno.
Risale invece alla primavera del 2008 il compromesso firmato dai coniugi Epifani con la Borgo di San Gusmè srl per l’acquisto di un appartamento di 104 metri quadrati nell’esclusivo e omonimo borgo medioevale a pochi km dal comune di Castelnuovo Berardenga, provincia di Siena. Il borgo è diventato in questi anni di moda, tanto che molti vip di sono precipitati ad acquistare gli appartamenti appena restaurati. Appena fuori dalle mura anche per favorire l’arrivo dei nuovi cittadini onorari è stata realizzata una piccola pista per l’atterraggio degli elicotteri. Gli Epifani vivono nella piazza centrale, a fianco dell’ufficio del turismo e a pochi passi da un giornalista e conduttore televisivo con cui hanno stretto subito amicizia, Tiberio Timperi. Ottimi i rapporti anche con una celebre attrice protagonista delle pellicole sexy degli anni Settanta, l’ancora affascinante Barbara Bouchet con cui i rapporti sono diventati ormai di grande simpatia. Per altro la cittadina non si è fatta sfuggire l’occasione dei suoi inquilini vip premiando sia Epifani che la Bouchet l’estate scorsa con la coppa Silvio Gigli (noto conduttore toscano dei tempi pioneristici della radio). A consegnare ad Epifani l’ambito riconoscimento è stata un’altra inquilina vip del borgo:Iva Zanicchi.
Per chi abita a Roma fisco incubo: si pagano 113 tasse
Sarà la vicinanza con il palazzo, sarà la particolare fantasia degli amministratori in loco, ma se c’è una città dove il fisco è davvero campione, è Roma. Fra tributi regionali, provinciali e comunali chi abita nella capitale non ha davvero il problema di come occupare il tempo libero. In tutto ci sono 113 tasse, imposte, tributi, percentuali su concessioni che magari non daranno enormi incassi, ma certo rappresentano un record in Italia e una fortuna per i commercialisti che operano nella città eterna. Nella tabella qui in pagina si può trovare solo un rapido esempio, sacrificato alla necessità di comparazione con altre grandi città. Ma le frecce all’arco del fisco romano sono cinque o sei volte più numerose degli esempi riportati. Non che brilli la trasparenza: la provincia di Roma guidata dal modernissimo e supermediatico Nicola Zingaretti è fra le poche in Italia a non avere inserito nel proprio sito Internet un bilancio analitico consuntivo o di previsione della propria istituzione. Ma alle tasse, per quanto si voglia nasconderle, i cittadini alla fine non possono sfuggire. Così non è difficile trovare nemmeno in casa Zingaretti, dove si celebrano le grandi opere in calendario e ci si bea dell’invarianza delle aliquote fiscali, quali e quante tasse alla fine bisogna pagare. Grazie a lui, ai sindaci che si sono susseguiti a Roma e soprattutto ai presidenti della Regione Lazio (un vero e proprio tassificio), nella capitale la mannaia del fisco non risparmia quasi nessuno. Tutto è tassa. Le quote locali di quelle grandi e note, come Irpef, Irap e Iva regionale, che scattano contemporaneamente al centro e in periferia. Quelle più note sui rifiuti o sull’auto (il bollo regionale). Ma anche una raffica di tasse che colpiscono ogni tipo di attività produttiva e perfino di hobby. In Lazio sono tassate tutte le concessioni: quelle per l’apertura e l’esercizio delle farmacie, quelle per aprire e mantenere ambulatori, case di cura, presidi medico-chirurgici o di assistenza ostetrica, gabinetti di analisi per il pubblico a scopo di accertamento diagnostico, e perfino l’abilitazione alla ricerca e alla raccolta dei tartufi. In altre regioni, come il Piemonte (che ad Alba ha una tradizione), esiste la tassa sui tartufi, ma riguarda solo quelli raccolti che per altro vengono messi sul mercato a prezzi proibitivi. Sempre in Lazio l’elenco continua con il tributo speciale per il conferimento in discarica dei rifiuti solidi, il tributo regionale per l’abilitazione all’esercizio professionale, la tassa sugli apparecchi radiografici che varia a seconda dei volt. E’ più severa di quella sul canone Rai: se si posseggono più apparecchi, scatta integrale sul primo e al 50% sugli altri. E come il canone Rai viene rinnovata ogni anno. Sempre in campo sanitario sono tassati tutti i posti letto privati. Poi c’è una addizionale tutta laziale sulle acque di derivazione pubblica, che segue le più comuni addizionali energetiche. Si riscuotono come in ogni regione le accise su benzina e gasolio, ma anche l’assai più rara imposta regionale sulle concessioni demaniali marittime. C’è una tassa per la partecipazione alle procedure concorsuali, e una singolare tassa fitosanitaria, che costringe a pagare quattro diverse tariffe per avere a) l’autorizzazione alla produzione e al commercio dei vegetali; b) l’autorizzazione all’uso del passaporto delle piante; c) per l’import-export dei vegetali; d) per l’esercizio annuale delle ditte operanti nel settore.
Più leggera a Milano la pressione fiscale sulle persone fisiche e le famiglie, che intanto possono godere della rinuncia alla addizionale Irpef comunale e su una raffica di agevolazioni fiscali. In Lombardia per altro le Entrate fanno il pieno grazie al business: è la Regione dove si incassa più Irap (il doppio del Lazio) e dove è più alta- con distanze siderali dagli altri- la compartecipazione al gettito Iva.
Mani in tasca del fisco di casa. Altro che federalismo: +43% le tasse locali in 5 anni. Complice anche un vecchio errore di Visco
E’ il salasso della porta accanto. Mentre a Roma si discute di tanto in tanto di possibile taglio delle tasse, dalla periferia negli ultimi cinque anni è arrivata una vera e propria stangata fiscale. Le addizionali regionali e comunali, una degli oltre milleottocento travestimenti che lè’esattore delle tasse si è inventato in Italia per infilare i suoi tentacoli nelle tasche dei cittadini, sono aumentate negli ultimi cinque anni in media del 43%. In gran parte per un ritocco verso l’alto delle addizionali stesse, e per il resto grazie alla trovata del duo Romano Prodi- Vincenzo Visco che nella finanziaria 2007 sostituirono le deduzioni con le detrazioni aumentando la base imponibile di tutti i contribuenti. Il risultato fu che la stessa aliquota locale (ad esempio un’addizionale regionale dello 0,9%) invece di essere applicata come avveniva al 95% del reddito lordo, dal primo gennaio 2007 è stata applicata al 100% del reddito, con una tragica magia: si sono pagate più tasse anche se formalmente nessuno le aveva aumentate.
Ma proprio nei due anni di governo dell’Unione la gran corsa alla tassazione sembra avere contagiato al di là degli schieramenti anche gli amministratori locali. Su 118 città capoluogo di provincia che Libero ha preso in considerazione grazie ai dati del Dipartimento Finanze del ministero dell’Economia, ben 91 hanno visto aumentare sensibilmente la tassazione addizionale Irpef, per ritocco verso l’alto o dell’addizionale regionale o di quella comunale. Una sola, la città di Lodi, ha visto diminuire la pressione fiscale locale dell’11,76% grazie al fatto che non è variata l’Irpef della Regione Lombardia e si è invece dimezzata quella comunale (passata da 0,4 a 0,2%). Per 26 città invece la pressione fiscale risulta oggi invariata rispetto al 2005 o perché non è stato effettuato alcun ritocco alle aliquote o perché comune e Regione si sono in qualche modo compensati con impatto zero sulle tasche dei cittadini. Sono nove le città capoluogo di provincia in cui la pressione fiscale locale ha raggiunto il tetto massimo del 2,2% previsto dalla legge (1,4% per l’addizionale Irpef regionale e 0,8% per quella comunale): Benevento, Campobasso, Catania, Cosenza, Imperia, Messina, Novara, Rieti e Siracusa. A inizio anno ce ne era anche un’altra, Palermo, che però da qualche giorno ha deciso con un decreto di dimezzare per il 2010 l’aliquota Irpef comunale (dallo 0,8 allo 0,4%), che resta comunque il doppio di quella in vigore nel non lontano 2005.
Sono quattro le città in cui la pressione fiscale locale si è almeno raddoppiata. Tutte nel Mezzogiorno. Il record è di Caltanissetta (aumento del 122,22%), seguita da Lecce (116,66%), Catania e Ragusa (100%). Ma assai vicina al raddoppio è andata anche una città abruzzese come Pescara (98,88%). Oltre a queste cinque sono comunque 23 le città in cui la pressione fiscale territoriale è aumentata nel corso dei cinque anni più del 50%. Mentre sono solo quattro le città che hanno optato per un addizionale comunale zero. Tutte al Nord: Brescia, Milano, Trento e Venezia. Per chi abita lì si paga solo l’Irpef dovuta secondo scaglione nazionale di reddito e almeno la quota minima stabilita per legge sull’addizionale regionale: 0.90%.
Scontano comunque una pressione fiscale locale sopra il 2% anche senza raggiungere il tetto massimo altre 16 città di provincia: Ancona, Ascoli Piceno, Bologna, Caltanissetta, Chieti, Crotone, Fermo, Genova, L’Aquila, La Spezia, Latina, Ragusa, Salerno, Sondrio, Varese e Vibo Valentia. Così è sulla carta, anche se per i comuni della provincia de L’Aquila compresi nel cratere del terremoto le tasse almeno ora non verranno pagate né a livello nazionale né a livello locale. Quando vuole il fisco riesce perfino ad avere cuore. Ma non ci riesce fino in fondo. Perfino nella regione terremotata si avvertono i cittadini con un avviso a caratteri microscopici che in effetti sì il pagamento delle tasse è al momento congelato. Ma si aggiunge in calce un’avvertenza grottesca: “Si precisa che, pur in presenza della proroga della sospensione, i pagamenti spontanei non sono inibiti e che, se effettuati, non sono rimborsabili”. Se qualcuno sbagliandosi quindi a L’Aquila e dintorni andrà a versare le tasse, in nessun ufficio delle imposte ci sarà qualcuno che gli dirà di no, che può fare con più comodo. E una volta intascati i soldini, il contribuente resterà beffato.
C'è ancora Mussolini in 62 imposte del fisco italiano
Rifondazione comunista al governo c’è arrivata due volte con Romano Prodi e in compagnia di tutti gli eredi del vecchio partito comunista. Ma nemmeno a loro è venuto in mente di togliere almeno una delle 62 tasse fasciste che gli italiani pagheranno ancora nel prossimo 2010. Sono altrettante infatti le imposte che alla loro base hanno ancora (talvolta con modificazione successiva) il testo di un provvedimento legislativo con sotto la firma di Benito Mussolini capo del governo. Basta scorrere il nomenclatore degli atti che accompagna la tabella delle Entrate 2010 che si accompagna all’ultima finanziaria di Giulio Tremonti entrata in vigore il primo gennaio scorso per sgranare davvero gli occhi. Sono 129 le tasse, imposte e gabelle concepite più di 50 anni fa, varate quindi prima degli anni Sessanta. Un bel pacchetto, e di queste più della metà portano ancora l’indicazione “regio decreto” e in calce la firma di un Savoia. I due riferimenti legislativi più antichi sono del 1910, e quindi ben 13 tasse ancora in vigore sono di impronta giolittiana. Nove appartengono a quel primo scampolo di Repubblica alla fine degli anni ’40 e le restanti 45 imposte appartengono agli anni ’50 e all’inizio della cavalcata democristiana. Risalgono al periodo fascista gran parte delle imposte direttamente o indirettamente legate all’acqua. Ad esempio sono tutt’oggi in vigore (anche se poco pagate) quelle collegate ad opere di bonifica dei territori. Tasse fasciste, che però hanno avuto come unica coda recente quella varata da un governo di sinistra, l’ultimo a guida Prodi: la tassa sulle bottiglie di plastica dell’acqua minerale, fatta inserire dai verdi nel 2007 per ottenere risorse da girare ai paesi in via di sviluppo. A proposito, sono 27 fra livello centrale e periferico i sistemi di tassazione legati all’acqua. Molte regioni hanno prelievi fiscali sull’imbottigliamento delle acque minerali, la vera stangata era in Veneto che dal dicembre scorso però l’ha attenuata (mentre l’Abruzzo l’ha appena abolita per tutti i cittadini anche non residenti nell’area del cratere del terremoto). Esiste anche la tassa sulla pioggia: così è stata ribattezzata nel 2008 l’idea venuta al primo cittadino di Ravenna di inserire nella bolletta della municipalizzata anche una sorta di accisa sulla gestione delle acque meteroriche, appunto quelle piovane.
Nella tabella di oggi proprio le prime voci illustrano un campione di tutto rispetto del diluvio fiscale a cui siamo sottoposti. Si inizia proprio con quella sovratassa di 0,5 centesimi per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola varata da Prodi: porterà nelle casse di Tremonti 5,5 milioni di euro anche quest’anno. Pochi spiccioli a livello centrale ormai per la quota erariale sulla addizionale per canoni di concessione delle acque pubbliche (800 mila euro all’anno) o per i servizi resi dal consiglio superiore delle acque (702 mila euro), ancora meno per la concessione delle acque pubbliche per i servizi di piscicultura (257 mila euro) o per il dazio erariale sui proventi del canale Cavour (111 mila euro). Piccole somme, nemmeno rivoli all’interno del bilancio dello Stato. Non tanto perché il cittadino non paghi, ma perché il grosso delle imposte ormai non è più diretto a livello nazionale, ma confluisce nelle casse di comuni, province e regioni per cui il federalismo fiscale da tempo è realtà anche senza le leggi ora fatte approvare dalla Lega Nord. La legge Mussolini sulle bonifiche in ogni caso garantisce ancora a Tremonti 2,6 milioni di euro di incassi all’anno, e non sono proprio da buttare via. Resiste ancora solo in parte quella nata sempre sotto il fascismo e che fu ribattezzata “tassa sul ghiaccio”. Bisogna pagarla per piste di pattinaggio e utilizzi vari a fine turistico-spettacolare, e solo da qualche anno non più per fare una granita o conservare prodotti al fresco. Per anni però la tassa sul ghiaccio è stata la disperazione degli albergatori, che si vedevano arrivare una vera e propria stangata per tutte le camere provviste di frigo-bar immediatamente sottoposti all’imposta.
E chi si ricorda più del programma Pdl? Berlusconi riscuote 360 milioni di tassa sul caro estinto che voleva abolire
Pagina 7 del programma elettorale 2008 del Popolo della libertà, primo obiettivo sulla famiglia: “Meno tasse”. Punto numero tre: “Abolizione delle tasse sulle successioni e sulle donazioni reintrodotte dal governo Prodi”.
Anno 2010, quello in cui Silvio Berlusconi con il suo governo entra nel giro di boa della legislatura. Previsione di entrata del capitolo 1239 del ministero dell’Economia e delle Finanze, incasso stabilito in euro 360 milioni alla voce “imposta sulle successioni e le donazioni”. L’odiosa tassa sul caro estinto che il cavaliere stracciò nel 2001 e il centro sinistra rispolverò nel 2006 decidendo perfino di mettere le mani nelle tasche dei morti, è tutt’oggi al suo posto. Non l’ha toccata nessuno. Fa parte delle quasi duemila gabelle che il fisco-monstre italiano negli anni ha accumulato a livello centrale e locale e che occupano ogni istante di vita degli italiani. Sono così numerose che alla fine in questo paese nessuno può essere un evasore totale: non pagherà il dovuto di Ire o di Ires, magari. Ma non può sfuggire all’accisa o all’imposta sul valore aggiunto in agguato, a meno di vivere davvero da nullatenente: senza mangiare, bere, dormire, consumare, respirare. Perché su ogni cosa c’è la sua bella tassa in agguato.
Tutte naturalmente fondamentali e non cancellabili. Prima bisogna ragionare su modelli e macrosistemi, poi magari si potrà trovare una soluzione alternativa a coprire i proventi governativi per il “diritto erariale dovuto per il rilascio urgente dei certificati del casellario giudiziale”. Giulio Tremonti prevede di incassare a quella voce ben 15.493 euro durante l’anno in corso: poco più di mille euro al mese in tutta Italia. E possiamo essere certi che il costo di riscossione sia almeno dieci volte tanto. Comunque a diritti e bolli sul certificato del casellario giudiziale il governo in carica sembra tenere assai. Tanto da avere sì infilato le mani in tasca a quello spartissimo gruppo di italiani che ne aveva bisogno. Fino al 7 gennaio 2009 per avere quel documento bisognava pagare una marca da bollo (a proposito, non si erano abolite tutte ?) da 3,10 euro. Con decreto ministeriale dell’8 gennaio 2009 andato in Gazzetta Ufficiale il 6 febbraio 2009 e da allora divenuto operativo, il costo di quella marca da bollo è salito del 14,2%, e ora è di 3,54 euro. Ne valeva proprio la pena?
La giustizia ad esempio non riesce a riscuotere, e spesso perde somme milionarie sequestrate e depositate su conti destinati a divenire dormienti per assoluta incuria, eppure ogni tribunale è una specie di monumento alla micro tassa. Non c’è documento o diritto del cittadino che non abbia sopra la bella zampata dell’erario. Perché per avere giustizia bisogna comunque pagare. Carte e marche da bollo, diritti di concessione, tributi di ogni genere. La tabella del ministero dell’Economia alla voce entrata si vergogna pure di citare i riferimenti, ma elenca “tributi speciali e diritti di origine giudiziaria” che nel 2010 daranno il loro bell’incasso da 50 mila euro. Identica piccola somma che si ottiene con i tributi pagati per i concorsi per la nomina ad amministratore giudiziario. Comunque il doppio dei 30.471 euro riscossi come quota di tributo erariale per l’iscrizione all’albo dei mediatori di assicurazione e riassicurazione. Una delle centinaia di imposte che costano più allo Stato di quel che possa mai incassare. Ma questo è il fisco italiano, signori…
(2- continua.
Berlusconi,mi consenta! Può levare almeno la tassa sull'aria. Su 1843 imposte, ce ne sarà una tagliabile in tempo di crisi?
Non è una battuta. In Italia anche l’aria è tassata. Perché fra le 1.843 tasse che ogni anno in piccoli rivoli affluiscono nei forzieri del ministero dell’Economia e nelle casse degli enti locali, ci sono anche le accise particolari sui “gas di petrolio liquefatto anche miscelato ad aria” e sul metano miscelato ad aria. La miscela serve così a rendere più facilmente combustibili petrolio e metano, ma il risultato finale è da guinness dei primati: ad essere tassata in Italia c’è pure l’aria. Piccola accisa, certo. Piccola goccia nel mare dei 1.269 tributi ancora riscossi a livello nazionale e delle 574 fra tasse, imposte e vari orpelli fiscali che si aggiungono a livello locale. In tutto poco meno di due mila prelievi annuali diretti o indiretti nelle tasche dei contribuenti, che hanno ormai creato una giungla di aliquote e norme destinata a fare impazzire qualsiasi ragioniere o commercialista. Non a caso proprio ieri il presidente dell’ordine ormai unificato, Claudio Siciliotti, dopo avere appeso alò chiodo la speranza di un abbassamento generale delle tasse, ha implorato Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi almeno di “semplificare un sistema fiscale” che ai commercialisti “fa mettere le mani nei capelli per la complessità. Proprio per questo ci auguriamo che dopo l’ennesimo rinvio sine die del taglio delle tasse, rimanga però alta l’attenzione sul tema, non più differibile, di una grande riforma fiscale nel nostro Paese.
Noi ci scontriamo quotidianamente con un livello di complessità inutile e ridondante che determina mille rivoli di micro-adempimenti e autentiche perdite di tempo nemmeno valorizzabili in termini di parcella ai clienti”. Come dire, se proprio non si vuole imboccare la strada della riduzione dell’imposta sulle persone fisiche a due sole aliquote, almeno si levi di torno qualcuna delle quasi duemila tasse con cui bisogna fare i conti.
A ruolo ci sono ancora tributi che risalgono a quasi un secolo fa o all’immediato dopoguerra, che di introiti danno sì e no qualche spicciolo e che spesso costringono l’Agenzia delle Entrate a spendere assai di più per recuperarli di quanto alla fine non si possa poi incassare. Tanto che la tabella compilata dalla ragioneria generale dello Stato per riclassificare il bilancio pubblico 2010 cita numerose imposte solo “per memoria” senza indicare la previsione di introito. Accade ad esempio anche nella prima parte della tabella sulle Entrate di cui oggi iniziamo a pubblicare le prime cento voci di incasso.
Fra le voci citate ma qui non incluse perché non è possibile prevederne l’incasso grazie agli accertamenti, ci sono i dazi sulle merci destinate al territorio della Repubblica di San Marino o le accise e imposte erariali di consumo sulle armi da sparo, sulle munizioni e sugli esplosivi, così come l’imposta di consumo su prodotti di registrazione e riproduzione del suono e dell’immagine prevista da una legge approvata nei suoi primissimi mesi dal governo di quel Bettino Craxi di cui fra qualche giorno si celebrerà il decennale della scomparsa.
Si accertano ancora gli incassi (riportati per memoria in tabella) della imposta sul consumo del caffè e di quella sul consumo del cacao naturale o comunque lavorato. Tassate anche le bucce e le pellicole di cacao e ovviamente il celebre burro di cacao. Ma hanno la loro bella accisa da versare allo stato i surrogati del caffè: non si usano come ricordano ancora i nonni in tempi di guerra, ma offrono i loro 13 milioni di euro alla causa del fisco. Si tassa ogni tipo di cibo e ogni suo contenitore, con differenza fra materia e materia. Si tassa naturalmente l’acqua minerale e la bottiglia che la contiene. Mangiare, bere, respirare, vestirsi, riscaldarsi e in qualche modo perfino amare: nessuno dei bisogni primari dell’uomo riesce a sfuggire alla voracità dell’erario italiano.
Figurarsi se poteva mancare nell’armamentario incredibile delle leggi succedutesi nel tempo o nei vari commi del Tuir (il testo unico delle imposte sui redditi) anche ogni freccia all’arco di quel che viene chiamato fisco etico. Quando il legislatore ha trovato impopolare e talvolta controproducente l’adozione della linea proibizionista, altra soluzione non è riuscito a trovare che mettere una nuova imposta o aumentare un’accisa o un tributo già esistente.
Accade così in ogni finanziaria sul fumo, che non è vietato, ma disincentivato con l’aumento ripetuto della accisa sui tabacchi. Accade così con i superalcolici, con la birra e un po’ meno con i semplici alcolici (il vino è risorsa importante per il sistema economico italiano). Pochi sapranno però che in questa campagna strisciante contro i danni da alcol condotta con le armi del fisco italiano si è sfoderata una accisa ad hoc per colpire anche tutti i “recipienti dei prodotti alcolici”.
La classica bottiglia è quindi tassata di più se dentro ha vino, bourbon o whisky invece di coca-cola o aranciata. Ma a pieno titolo come freccia nell’arco del fisco etico c’è una raffica di super-imposte che si abbattono su altri tipi di consumi che qualcuno avrebbe più facilmente proibito. C’è una addizionale alle imposte sul reddito destinata alla “produzione, distribuzione e rappresentazione di materiale e programmi televisivi di contenuto pornografico”. C’è una addizionale sullo stesso materiale in caso di “incitamento alla violenza” che forse più che tassato andrebbe meglio vietato.
E c’è una addizionale anche sulle “trasmissioni televisive volte a sollecitare la credulità popolare”.
Una vera e propria giungla- altro che cedolari secche- è il sistema di tassazione dei redditi finanziari di varia natura che occupa gran parte della tabella pubblicata qui sopra con le prime cento tasse di un lungo elenco. Per ogni tipologia al di là delle aliquote c’è un sistema diverso di riscossione e una norma ad hoc a regolare ogni cosa.
Piccolo esempio? Uno si fa l’assicurazione sulla vita pagando anche belle sommette ogni anno pensando di proteggere in caso di disgrazia i suoi famigliari. E’ un investimento, perfino triste. Ma in grado di rendere allegro, proprio ilare, il ministro dell’Economia pro tempore: sulle assicurazioni vita, considerate un prodotto finanziario come tanti altri, ci sono tre diverse imposizioni dirette o indirette che assicureranno allo Stato quasi un miliardo di euro di incassi nell’annoin corso.
Ritenute alla fonte, inclusione nel reddito delle persone fisiche, tassazione separata, diversità fra residenti e non residenti in Italia (ed è comprensibile), ma anche fra residenti in una regione o in un’altra.
Hanno regimi agevolati anche sui redditi finanziari regioni a statuto speciale come Sicilia, Sardegna o Valle D’Aosta. Ma la tassa cambia a seconda se colpisca gli investimenti di imprese residenti in attività fuori o dentro il territorio regionale. Regime fiscale differenziato anche per le imprese non residenti in quella regione che però i loro investimenti finanziari effettuano in Sardegna, Sicilia o nella Vallèe. Un guazzabuglio senza capo né coda che già oggi anticipa nei fatti e nel caos tutto quello che si sarebbe voluto evitare con il varo del federalismo fiscale.
Iscriviti a:
Post (Atom)