Ehia ehia voglio quella foto là! Fini si è portato alla Camera il fotografo di fiducia (con tanta nostalgia...)


L’appalto in teoria dovevano dividerselo in tre, e la spesa prevista per l’intero 2010 era stata messa in budget per un totale di 307.992 euro. Quello era quanto il collegio dei Questori della Camera aveva previsto di erogare in cambio di qualche servizio fotografico per le pubblicazioni e l’archivio interno. Una spesa non piccolissima, che però doveva coprire sia le foto di ambiente del palazzo che quelle- ricordo della attività istituzionale del suo presidente pro-tempore, Gianfranco Fini. Il budget rischia però di andare a farsi benedire, perché uno dei tre fotografi prescelti, ne ha mangiato già un buon quarto nel solo primo mese dell’anno. Un paio di mini-servizi commissionati alla Luxardo foto, una serie di book richiesti a Umberto Battaglia (12.756 euro già impegnati a febbraio per servizi sugli ambienti del palazzo) e la gran parte assorbita per le foto della frenetica attività istituzionale e diplomatica di Fini. Visite ufficiali in Italia e all’estero, incontri istituzionali con presidenti di Stati e Parlamenti di tutto il mondo, incontri con scolaresche e associazioni. Bottino pieno per la società che si è assicurata l’esclusiva dell’immagine del presidente della Camera, la Impero fotografico srl, che in un solo mese ha già prenotato 75.328 euro della posta complessiva ( i dati sarebbero segreti, naturalmente, ma ora li possiamo conoscere tutti grazie a una battaglia fatta sulla trasparenza con tanto di sciopero della fame dalla radicale Rita Bernardini). Il nome della società dice già qualcosa, con quel riferimento nostalgico un tempo impreziosito anche da un’aquila imperiale stemma dell’agenzia. Ma se si fa quello del titolare, si mette a versare lacrimoni anche donna Assunta: si tratta infatti di Enrico Para, l’ex fotografo di fiducia di Giorgio Almirante, un monumento vivente della storia postfascista italiana. Para dal 1980 è il fotografo ufficiale del Secolo d’Italia. Ha marcato come un francobollo avendone il copyright tutti i leader prima del movimento sociale e poi di Alleanza Nazionale. Era l’ombra di Almirante, è diventato una sorta di guardia del corpo di Fini. L’attuale leader della minoranza del Pdl non vuole fotografia ufficiale che non abbia la firma di Para, e ha trasmesso questa passione per il suo click anche ai principali amici e collaboratori. Tanto che Para è diventato fra il 2001 e il 2006 quasi il fotografo unico delle istituzioni del centro destra. Fini se lo portò dietro a palazzo Chigi come fotografo ufficiale del vicepresidente del Consiglio e alla Farnesina come ritrattista del ministro degli Esteri. Francesco Storace ne fece il fotografo ufficiale della Regione Lazio, Gianni Alemanno ne utilizzò l’opera al ministero delle Risorse agricole, Altero Matteoli lo chiamò al suo ministero dell’Ambiente. Naturale che quando Fini è divenuto la terza carica della Repubblica non abbia voluto altro scatto che quello di Para. E non si è sottratto certo ai suoi flash,tanto da creare qualche preoccupazione al collegio dei questori che ha visto lievitare oltre ogni attesa il conto per le fotografie.
Nonostante le frenetiche attività istituzionali del presidente della Camera e dei vari ministri che lo hanno voluto alla loro corte, Para è riuscito a trovare il tempo sia per continuare l’attività tradizionale della sua Impero fotografico (i redditizi servizi per i matrimoni), sia per togliersi qualche sfizio. In pochi anni un libro dietro l’altro. Con Federico Guiglia ha pubblicato ( e dàglie) una biografia di Fini assai vicina all’agiografia (“Gianfranco Fini, cronaca di un leader), corredata di tutte le foto scattate negli anni a palazzo Chigi. Con Mauro Mazza, attuale direttore di Rai Uno, ha dato alle stampe “I ragazzi di via Milano” dove campeggiava la bellissima foto della squadra di calcio del secolo, con tutti i futuri leader di An.
Para scatta e non commenta. Cresciuto in quel mondo, lo ha seguito (e gli è andata bene) senza mai fare capire cosa pensasse davvero dei vari cambi di pelle della destra italiana. Qualcosa si capiva fino a un anno fa dando un’occhiata al sito Internet della sua agenzia foto. Ai novelli sposi proponeva quattro tipi di servizi fotografici: “Claretta, Rachele, Edda e Rosa”, i nomi dell’amante, della moglie, della figlia e della mamma di Benito Mussolini. La traccia di una evidente nostalgia. Che però deve essere saltata all’occhio del suo committente, che non poteva più permettersela. Meglio riparare, deve avere pensato il fotografo, che non voleva perdersi per nessuna ragione al mondo il business della Camera dei deputati. Così i quattro servizi per gli sposi oggi si chiamano: “Diamante, Topazio, Smeraldo e Rubino”. Cosa non si fa per la gloria…

Ha negato mille volte. Montezemolo però ha la sua poltrona a Montecitorio


Lui continua a giurare che no, la politica non è il suo mestiere, e che non scenderà in campo. Ma ormai c’è la prova provata della evidente bugia ripetuta come una cantilena da Luca Cordero di Montezemolo. Perché l’ex presidente della Fiat e della Confindustria a Montecitorio ha già pronta la sua poltrona. Lui non è ancora lì, ma la Camera già sta pagandogli l’indennità di poltrona. A testimoniarlo è un contratto che l’amministrazione di Montecitorio ha da poco firmato con il gruppo Montezemolo. Poltrona Frau si è infatti assicurata in cordata con altre tre aziende del settore la fornitura di 220 mila euro di poltrone per il terzo palazzo delle istituzioni presieduto da Gianfranco Fini. L’azienda di Montezemolo ha infatti vinto una gara per “acquisto di arredi e sedute” fornendo già le prime poltroncine pregiate ai deputati nel primo quadrimestre. Luca penserà a poltrone e divani (quelli celebri del Transatlantico dove parlottano nelle pause onorevoli e giornalisti), i compagni di cordata penseranno alla fornitura di altri arredi da ufficio. Insieme a Poltrona Frau ci sono infatti la Estel Office spa della famiglia Stella, la Tecno spa del gruppo Mosconi e la Sedus stoll che appartiene all’omonimo gruppo internazionale. Altre suppellettili per gli uffici dei deputati saranno invece fornite (per 100 mila euro) dalla Eurosalotto Pedrina, dalla Cassina spa e da un gruppo di piccole aziende minori. Solo di arredi di complemento per gli uffici quest’anno la Camera ha messo in budget una spesa al milione di euro. Non riguarderà però i famosi uffici dei deputati sistemati ormai fuori dal palazzo principale, anche perché sono tutti di recentissima costruzione e con arredi per lo più nuovi fiammanti. Grazie a quella gara Montezemolo ha già avviato una rivoluzione copernicana nel sistema politico. Un tempo si conquistava la poltrona del palazzo. Lui invece ha conquistato il palazzo per la sua poltrona. E quando arriverà potrà sentirsi già a casa sua.


L'ultima bufala: non si può più intercettare la moglie di Riina. Già, perchè lei al telefono racconta tutto...

Quante intercettazioni telefoniche sono servite a catturare Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano? Quante telefonate hanno tradito i capi della mafia e sono state utilizzate come fonti di prova per la loro condanna nei maxi processi? La risposta è semplice: nemmeno una. Sì, è vero. Per quattro anni gli inquirenti hanno piazzato microspie nella casa di Saveria Provenzano. Per 34.650 ore un ristretto pool di poliziotti ha ascoltato ininterrottamente ogni respiro captato nella casa dove viveva la moglie del capo dei capi della mafia. In quattro anni non è accaduto nulla. Solo una sera di inverno si è sentito piangere e singhiozzare Saveria. E solo l’intuito di un poliziotto ha immaginato che potesse essere accaduto qualcosa al padrino: forse stava male, forse era capitato qualcosa di grave. Dopo, solo dopo, si sarebbe ipotizzato che forse quel singhiozzo seguì la notizia giunta in un misterioso pizzino del cancro alla prostata di Provenzano, del suo ricovero sotto falso nome in una clinica di Marsiglia. Non ci sono telefonate, non ci sono intercettazioni, non ci sono microspie ambientali piazzate dove si voglia che siano state utili a trovare i superlatitanti della mafia, che abbiano tradito i Riina, i Messina Denaro, i Piccolo, i Bagarella. Non c’è una sola telefonata a inchiodare chicchessia nei grandi processi sulla criminalità organizzata. Basta andarsi a riprendere gli atti, leggersi le sentenze, sentire gli inquirenti veri che sono andati per anni caccia dei mafiosi. La caratteristica principale di Cosa nostra è il silenzio. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla al telefono. Ad aprire bocca sono stati i pentiti, raccontando ognuno la sua verità e certo fornendo ai magistrati anche elementi fondamentali nella guerra alla mafia. Ma nessun picciotto che conti si è mai tradito al telefono. Nessuna moglie, nessun figlio di latitante è inciampato in una frase di troppo captata dalla microspia che ben immaginavano di avere in casa, in ufficio, nel negozio o in auto. Alcuni quotidiani assai agguerriti nella campagna contro la legge del governo per regolamentare le intercettazioni ieri riferivano dell’arma micidiale che avrebbe usato il presidente della Camera, Gianfranco Fini per convincere Umberto Bossi che quella legge sarebbe assai indigesta: “Ma ti rendi conto Umberto”, ricostruiva ieri Il Fatto quotidiano, certo di avere intercettato la telefonata fra Fini e Bossi, “che con questo testo approvato in Senato non si potrebbe mettere una cimice nella macchina della moglie di Riina?”. Chissà se l’intercettazione politica è vera o una delle tante patacche disseminate in questa campagna. Certo è una patacca questa della microspia nell’auto della moglie di Riina. Non solo perché la legge sulle intercettazioni non vieta affatto questa possibilità. Ma perché la moglie di Riina- Ninetta Bagarella- non ha mai avuto auto e quando vi è salita sopra è sempre stato perché altri la scortavano e si mettevano alla guida. Microspie ne hanno messe anche a lei e ai suoi figli, in casa, in lavanderia, nei luoghi di lavoro. Ma inutilmente: non è da quelle che il capitano Ultimo ha avuto la strada per rintracciare il Capo dei capi e giungere al suo arresto nel lontano 1993. Non ci sono intercettazioni ambientali, non ci sono brogliacci di telefonate fra le prove regine dei processi per la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, o per la strage di via D’Amelio dove a perdere al vita fu Paolo Borsellino. Sì, qualche magistrato siciliano come Antonio Ingroia anche oggi va ripetendo in dibattiti e conferenze insieme ai Marco Travaglio o ai giornalisti dell’antimafia che senza intercettazioni telefoniche non si prenderebbe più neanche un latitante. Ma non è vero. L’unico lavoro sui telefoni in qualche modo collegato alle grandi inchieste sulla criminalità organizzata è stato quello sui tabulati telefonici fatto da Gioacchino Genchi nell’inchiesta sulla strage di Capaci. Non intercettazioni, ma controllo dei tabulati molto tempo dopo i fatti. Lì ha ricostruito qua e là chi stava in contatto con chi e ipotizzato anche una telefonata subito dopo la strage per dare il segnale che tutto era avvenuto secondo i piani. Un indizio importante certo, ma probabilmente se quella telefonata fosse stata intercettata (e assai difficilmente sarebbe potuto avvenire), probabilmente non si sarebbe sentito molto più di un sospiro. E’ una superpatacca quella della legge sulle intercettazioni che manderebbe gambe all’aria la lotta alla mafia. Nei processi le uniche vere telefonate prodotte sono quelle ai politici ritenuti coinvolti. Ad esempio quelle di Silvio Berlusconi o Marcello dell’Utri. Buone a tutti gli usi e a tutte le interpretazioni. Perché parlavano liberamente al telefono. Come i veri mafiosi non fanno mai.

Ma come tirano la cinghia! In Calabria ogni assessore ha fatto assumere un autista che gli era caro


La scelta al momento l’hanno fatta in sei, ma è possibile che alla fine diventi una caratteristica comune a tutta la nuova giunta della Regione Calabria, guidata da Giuseppe Scopelliti: la squadra di governo è stata dotata di un autista personale di fiducia liberamente scelto al di fuori della pubblica amministrazione. Il primo a togliere i colleghi dall’imbarazzo è stato il 19 aprile scorso l’assessore all’Urbanistica, Piero Aiello, in carica da tre giorni. Ha preso carta e penna e scritto al dirigente dell’ufficio dle personale chiedendo l’assunzione come autista di fiducia (stipendio base standard della Regione: 35.707,44 euro all’anno) di Salvatore Ionà, “estraneo alla pubblica amministrazione”. La Regione Calabria naturalmente ha i suoi autisti regolarmente assunti, ma non erano di fiducia dell’assessore, che per regolamento regionale ha diritto ha una sua “struttura speciale” di collaborazione in cui sono consentite immissioni di personale dall’esterno. Spezzato il ghiaccio, quello dell’autista di fiducia è diventato un cult in Regione. Il 21 aprile è arrivata la richiesta dell’assessore all’Agricoltura e alla Forestazione, Michele Trematerra per chiedere l’assunzione dell’autista di fiducia Giovanni Siciliano. Con lettera del 22 aprile anche l’assessore al Bilancio, Giacomo Mancini, ha preteso (e poi ottenuto) l’assunzione dall’esterno del suo chauffeur: Francesco Manna. Il 27 aprile all’ufficio del personale è arrivata la lettera- con analoga richiesta- scritta dall’avvocato Francescantonio Stillitani: l’autista prescelto (anche lui estraneo alla pubblica amministrazione) è stato Emanuele Mancuso. Il 30 aprile altra lettera, questa volta firmata dal neoassessore alle Attività Produttive, Antonio Caridi. Chaffeur personale dall’esterno: Domenico Laganà, assunto effettivamente dal 5 maggio con decreto n. 7018 di inserimento nel “registro dei decreti dei dirigenti della Regione Calabria”. Quello stesso giorno all’ufficio del personale è arrivata un’altra lettera- con analoga richiesta- da parte dell’assessore all’Ambiente, Francesco Pugliano, che non aveva trovato all’interno della Regione un autista di fiducia e con la sua richiesta ha fatto strabuzzare gli occhi ai dirigenti della Regione. Il prescelto infatti è un omonimo: Francesco Pugliano, nato come l’assessore a Rocca di Neto in provincia di Crotone. L’assessore però è del 1955 e l’autista è del 1969. Uno faceva il veterinario prima di arrivare in Regione, l’altro (l’autista) aveva una omonima impresa agricola.

l'Italia giocava? Solo i Bossi e Calderoli's boys lavoravano come sempre



 Durante la disfatta azzurra di Italia- Slovacchia molti nei ministeri erano talmente presi dalla partita da non potere rispondere al telefono. Nella segreteria del ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, solo durante l'intervallo qualcuno si è degnato di rispondere. E solo lo staff della Lega ha risposto al primo colpo: i Bossi e Calderoli boy's non stavano guardando l'Italia. Prova effettuata da Franco Bechis dal primo minuto della partita 






Ministero Titolare Ufficio Secondi per avere risposta
Commercio estero Adolfo Urso centralino 1.972
Pari Opportunità Mara Carfagna segreteria ministro 1.863
Salute Ferruccio Fazio centralino 1.122
Sviluppo Economico int. Silvio Berlusconi centralino 274
Economia Giulio Tremonti centralino 137
Infrastrutture Altero Matteoli centralino 42
Turismo Michela V. Brambilla centralino 31
Lavoro Maurizio Sacconi centralino 27
Giustizia Angelino Alfano centralino 22
Politiche Ue Andrea Ronchi segreteria ministro 21
Beni Culturali Sandro Bondi centralino 13
Difesa  Ignazio La Russa gabinetto 12
Pubblica istruz Maristella Gelmini centralino 11
Difesa  Esercito centralino 11
Interno Roberto Maroni centralino 9
Ambiente Stefania Prestigiacomo centralino 9
Politiche agricole Giancarlo Galan centralino 7
Pa e Innovazione Renato Brunetta centralino 6
Camera deputati Gianfranco Fini centralino 5
Rapporti regioni Raffaele Fitto segreteria ministro 5
Gioventù Giorgia Meloni segreteria ministro 4
Difesa  Marina militare centralino 4
Senato Renato Schifani centralino 3
Esteri Franco Frattini centralino 3
Rapporti Parlamento Elio Vito segreteria ministro 3
Attuazione programma Gianfraco Rotondi segreteria ministro 2
Difesa  Aeronautica centralino 2
Pres. Cons. min. Silvio Berlusconi centralino 2
Semplificazione Roberto Calderoli segreteria ministro 1
Riforme e federalismo Umberto Bossi segreteria ministro 1




Comunicazioni Paolo Romani numero verde staccato sempre




Per il Cavaliere (dopo Topolanek) tassa Zappadu da 30 milioni


Ha dovuto prima staccare un assegno da 24,5 milioni di euro a titolo di finanziamento infruttifero. E poi trovarsi di fronte a una perdita di 7,6 milioni di euro, che è quella con cui si è chiuso il bilancio 2009 della Immobiliare Idra. Silvio Berlusconi ha dovuto pagare a caro prezzo la difesa della sua privacy dopo le incursioni con tanto di tele-obiettivo di Antonello Zappadu, il fotografo che lo ritrasse fra il 2008 e il 2009 a villa Certosa insieme al premier cèco Mirek Topolanek in costume adamitico. Il maxi-investimento per la difesa della propria privacy si coglie ora dal bilancio 2009 della Dolcedrago spa, la holding controllata quasi totalitariamente dal Cavaliere che ne ha lasciato una minuscola quota (0,25%) a testa ai due figli di primo letto, Marina e Piersilvio. Dolcedrago controlla fra le altre società, la Immobiliare Idra che amministra le tre principali residenze private del presidente del Consiglio: Villa San Martino ad Arcore, la villa di Macherio dove abita l’ex moglie Vernica Lario e appunto villa Certosa, buen retiro estivo del Cavaliere. Lì sono stati necessari numerosi lavori di ristrutturazione per garantire meglio la sicurezza del premier ed evitare intrusioni non gradite. Spese per innalzare paratie e rendere più sicuri i confini dei parchi, ma anche per acquistare nuovi terreni che segnassero le distanze dalle residenze più vicine. Fra l’altro nel 2009 Berlusconi è riuscito a mettere fine anche a questo scopo a una lite annosa con la propria vicina di casa, la signora Maristella Cipriani. Prima, nel mese di maggio, in un preliminare di acquisto il cavaliere si è impegnato ad acquistare dalla Cipriani i terreni di confine utilizzati per la vigilanza armata a tutela della sicurezza del premier che tante liti avevano causato in questi anni. La promessa è stata poi rispettata il 14 agosto scorso aggiungendo in dono alla signora altri terreni della Idra a titolo di compensazione. E impegnandosi pure a non piazzare più vicino a casa Cipriani "apparecchiature e impianti rumorosi che rechino disturbo alla limitrofa proprietà a rimuovere quelli attualmente esistenti allo scopo di rendere meno fastidiosi i rumori e possibilmente eliminarli del tutto".

Alla pensione dei calciatori ci pensa Simona


L’isola dei famosi ha messo un mattoncino per costruire la pensione dei calciatori e degli allenatori un po’ meno famosi degli altri. E’ grazie anche a Magnolia, società di produzione del celebre programma tv guidato da Simona Ventura, che si tengono in piedi i conti della previdenza calcistica. Magnolia- che in Italia è rappresentata dall’ex direttore di Canale 5, Giorgio Gori, è infatti l’inquilino più celebre dei palazzi della Sport Invest 2000 investimenti immobiliari sportivi spa, società guidata dall’avvocato Salvatore Catalano (già presidente del collegio sindacale Rai) e controllata al 100% dal Fondo di accantonamento delle indennità di fine carriera per i giocatori e gli allenatori di calcio. La Sport Invest 2000 insomma ha il compito di investire in immobili per mantenere la solvibilità del fondo per il congedo di allenatori e giocatori di calcio. E lo ha fatto a Roma, Milano e in altre città, dove ha in portafoglio terreni e fabbricati per 33,7 milioni di euro. Fra gli immobili anche uno nella capitale, in via della Farnesina, che è diventato la sede romana di Magnolia che si è garantita la locazione con una fidejussione da 112.500 euro rilasciata dalla Banca San Paolo di Brescia. E’ il contratto di affitto più rilevante della Sport invest 2000 e così Gori e Ventura danno una mano ai calciatori più anziani. In attesa di averli all’Isola dei famosi…

Papi si è comprato il suo primo comunista: Peppone

Grazie a una lunga e complessa transazione durata più di un decennio Silvio Berlusconi è diventato dal 2009 ufficialmente l’erede di Giovanni Guareschi. O quasi. Fatto sta che gli appartiene in diritto Peppone insieme al suo eterno rivale don Camillo, in versione cinematografica. Pagando 41.562 euro all’anno di royalties infatti la Videodue srl controllata indirettamente (attraverso Dolcedrago) dal premier italiano si è conquistata il diritto di trasmettere dove e quando vuole la serie su don Camillo e Peppone. La piccola tassa finirà (come spiega il bilancio 2009 della Videodue, appena depositato) agli eredi di Renè Barjavel e Julien Duvivier, sceneggiatori della fortunatissima serie interpretata da Fernandel e Gino Cervi.

Come capo azienda ora è meglio Piersilvio di Silvio


Nell’anno più difficile 254 nuovi investitori pubblicitari sui 1.017 complessivi di Publitalia. E un’altra quarantina già arrivati nel primo trimestre 2010. Non solo, Digitalia 08, la concessionaria del digitale Mediaset, che ha raggiunto il punto di pareggio già nel 2009 con un anno di anticipo rispetto alla tabella di marcia. Così Piersilvio Berlusconi è riuscito proprio nel 2009-2010, in cui la crisi internazionale ha piegato gran parte delle economie occidentali, a battere l’orso e a fare assai meglio di quanto non sia riuscito a papà Silvio che con Giulio Tremonti era alla guida dell’azienda Italia. Mentre i conti pubblici avevano innestato il passo del gambero lasciando sul campo migliaia di feriti, Piersilvio ha tenuto la corazzata Mediaset e perfino la creatura più colpita dalla crisi, Publitalia, sulla cresta dell’onda, facendo addirittura guadagnare fette di mercato (la concessionaria del primo gruppo di tv private italiana ha conquistato nel 2009 il 64% del mercato, un punto in più dell’anno precedente). Proprio mentre Sipra (concessionaria Rai) perdeva il 17,4%, Rcs (Rizzoli Corriere della Sera) il 17,6%, Il Sole 24 System il 21,5%, Manzoni (Repubblica e Finegil) il 24 per cento (e la sola Repubblica il 14,5% del proprio fatturato pubblicitario). Ma la vera scommessa vinta da Piersilvio è proprio quella del digitale, testimoniata oltre che dal sorprendente risultato di Digitalia 08, anche dai ricavi 2010 di Mediaset premium, cresciuti del 54,6% nei primi tre mesi dell’anno sfiorando i 215 milioni di euro e avviandosi ormai a ripagare anche nel risultato gli investimenti effettuati.

Lippi pareggia, Cannavaro la butta giù. De Rossi la ritira su. La nazionale azzurra quando fa affari è uguale a quella in campo


Tutti insieme fatturano probabilmente meno dei loro 740. Però non sono da buttare via nemmeno quei 58 milioni di euro che vengono da business diversi che tra un allenamento e l’altro sono riusciti a mettere in piedi i componenti della Nazionale di calcio che ha esordito lunedì ai mondiali del Sudafrica. Un allenatore, Marcello Lippi  e 23 giocatori. Di loro 11 (Lippi più dieci giocatori) hanno già pensato al futuro, a quando appenderanno le scarpette al chiodo. E hanno provato a prepararsi un altro mestiere, perfino a lanciare un business. Il successo non è stato grandissimo, perché se i 58 milioni di valore della produzione sono comunque un risultato rispettabile da media azienda, non altrettanto si può dire del risultato consolidato formato sommando utili e perdite dei loro bilanci. Perché gli 11 azzurri in campo nel mondo degli affari nell’ultimo anno si sono rivelati una nazionale perdente. Hanno dovuto sborsare di tasca loro 198.664 euro, che rappresenta il rosso complessivo della loro avventura finanziaria. Hanno giocato maluccio, ma come nel campo reale anche qui è soprattutto questione di formazione. L’allenatore non è una certezza: con Lippi nel mondo degli affari si può vincere o perdere. Ma alla fine il risultato dell’anno è un pareggio: sommando utili e perdite delle sue partecipazioni l’allenatore azzurro è andato in rosso di appena 76 euro. Le due velocità sono una costante nelle storie degli 11 azzurri businessman. Che incredibilmente sembrano parallele a quel che si è visto in campo nella partita di esordio con il Paraguay. Il conto economico della Nazionale è infatti tirato su da uno spumeggiante Daniele De Rossi (utile consolidato di 539.090 euro), ma tirato giù da Fabio Cannavaro che alla fine perde più di un milione di euro. Senza i suoi errori di valutazione la Nazionale spa sarebbe oggi in attivo.
Gli undici azzurri hanno imparato a fare davvero un po’ di tutto nella vita. Molti si sono buttati nel mattone, costituendo immobiliari, ma anche utilizzando sistemi più sofisticati come i fondi del settore o il leasing. Alcuni hanno cercato di valorizzare il proprio marchio di origine, acquisendo società sportive, palestre, o società organizzatrici di pr. Altri hanno provato con fantasia a fare tutt’altro: c’è chi alleva bovini e chi pesci e crostacei, chi gestisce catene di ristoranti e chi prova con spiagge e locali notturni , chi idea campagne pubblicitarie e perfino chi ha messo un piedino nel business energetico del futuro: quello dell’eolico e delle energie rinnovabili. Ecco nome per nome le attività.

Marcello Lippi. Guadagna bei soldini con la Mammamia srl, la società proprietaria del Twiga di Forte dei Marmi, che Lippi possiede insieme a Paolo Brosio ma soprattutto alla Laridel partecipations di Flavio Briatore e alla Dani comunicazioni di Daniela Santanchè. Ma li perde al momento con le altre attività. Che vanno dallo Health and sport International center di Firenze alla Capraia diving service (corsi sportivi) alla immobiliare di famiglia Dast all’altra immobiliare fiorentina Promoinvest, in contenzioso con il comune di Firenze che da tempo non rilascia le autorizzazioni che servono per un immobile da acquistare in via dei Cimatori. Lippi si è anche buttato nel campo delle energie alternative con al sua Sviluppo Energia pulita srl.
Ivan Gattuso. Possiede una società immobiliare con la moglie, con immobili in Calabria e a Varese. Ha una omonima srl a Corigliano per l’allevamento di pesci a crostacei e ha poi fondato con  un socio la Gattuso e Bianchi srl per la vendita di pesci e crostacei. Il socio si chiama Andrea Bianchi e curiosamente per associarsi a Gattuso ha dovuto presentare un attestato di partecipazione a jun corso per la qualifica di responsabile dell’autocontrollo. Gattuso ha messo in piedi una catena alimentare completa: il pesce lo coltiva, lo vende e poi lo serve al ristorante attraverso la sue Ottantasette srl
Giampaolo Pazzini. Per ora l’attaccante della Sampdoria si limita all’immobiliare. E’ sua la twenty-nine srl di Montecatini. Ma il portafoglio non è affatto da buttare via: un fabbricato a Firenze e 17 in provincia di Pistoia, in gran parte a Montecatini.
Vincenzo Iaquinta.L’attaccante bianconero con la famiglia (soprattutto con il papà, molto giovane, classe 1957) conduce un’azienda di costruzioni edili omonima. E proprio prima del mondiale ha fondato la Champions Re spa, attiva nel leasing immobiliare: fra i soci ci sono anche calciatori o ex calciatori come Sebastian Giovinco e Matteo Guardalben e un procuratore di calcio come Luca Pasqualin.
Fabio Quagliarella. Per ora il suo è solo un esordio nel mondo degli affari: ha costituito e gestisce con la famiglia un’azienda immobiliare, la Faviad srl la cui sede è da poco stata trasferita a Roma.
Giorgio Chiellini. Ha costituito a Livorno con il fratello Claudio una società, la Twin Group srl, specializzata in organizzazione di eventi e pubbliche relazioni. E va piuttosto bene, visto che ha chiuso in utile di 43 mila euro.
Daniele De Rossi. Ha due immobiliari con la moglie (Aleutine 106 e Gaia immobiliare 2005) e una società che fa da agenzia per spettacolo e sport, la Dagat srl. Da poco ha costituito anche la Wgt srl che si occupa di “gestione di piano bar, discoteche, enoteche e pubs”.
Gianluca Zambrotta. Ha una immobiliare, la Giza srl con alcune proprietà a Como, a la Young Boys srl che ha tentato di acquistare all’asta giudiziaria il centro sportivo di San Fermo della Battaglia, ma il tribunale di Como si è messo di traverso.
Gianluigi Buffon. L’ultima sua avventura è stata l’acquisto dell’Hotel Stella della Versilia srl a Massa, proprietaria dell’omonimo albergo. Ha anche immobiliari come la Buffon & co e la Suolo & ambiente srl. Anche lui però è in contenzioso come Lippi con il comune di Carrara e Massa che non gli lascia costruire una strada essenziale per recuperare un immobile in disuso di proprietà. Così le ruspe sono ferme e la società nell’attesa continua a perdere soldi.
Angelo Palombo. A parte l’immobiliare di famiglia, la P&P immobiliare, possiede la Palo 17 srl. Già dal nome non sembra ci sia troppa fantasia. Eppure dovrebbe ideare campagne pubblicitarie. In attesa dell’idea vincente, perde soldi.
Fabio Cannavaro. Più che un giocatore è un’industria. Ha due capogruppo: una immobiliare (Cma immobiliare srl) e una holding di partecipazioni (Cma holding e servizi). Si è salvato dal fallimento delle farmacie Maddaloni, che hanno ottenuto da poco il concordato preventivo. Il suo impero spazia dall’immobiliare (Margot srl) , ai trasporti marittimi (Fd service srl), ai servizi societari (Gm global trading),  allo sfruttamento dei diritti di immagine (Fenix srl), all’allevamento e produzione di latte (La Fattoria gaia, Biancolatte srl) alla gestione di spiagge (Pharaon srl) e di ristoranti (Como 8 srl, Fn number One, Vittoria srl, Le Millionaire srl, Le Millionair e Caserta srl). Le ultime tre società di ristorazione aperte (Millionaire 4, Millionaire 5 e Sveva srl) hanno nella compagine un socio di rilievo: Antonio Martusciello, già coordinatore campano di Forza Italia e ancora oggi uno dei leader del Pdl in Regione.

Tremonti, guerra santa ai carrozzoni. Però salva il suo...

Venti enti pubblici sciolti per decreto. Duecentotrentadue associazioni, fondazioni, istituti e centri di varia cultura e umanità per cui d’ora in avanti sarà assai difficile ottenere un contributo pubblico. La finanziaria tutta tagli di Giulio Tremonti non ha fatto poco nella sua parte di eliminazione degli sprechi. Eppure la notizia vera non è in quei 20 che volano via e in quei 232 messi in parziale quarantena (il Tesoro comunque conserverà il 30% dei fondi erogati a loro da corrispondere a quelli più bisognosi e meritevoli). La vera notizia è quella degli enti che rimangono. Sono dieci volte quelli che si sciolgono. O le fondazioni, le associazioni e gli istituti che continueranno a vivere di contributo pubblico: un elenco anche qui dieci volte più lungo di quello che deve stringere la cinghia. Solo il ministro dell’Economia, dopo anni di privatizzazioni e liberalizzazioni, è ancora azionista diretto di una trentina di società pubbliche, che a loro volta ne controllano decine di altre. Tutte fondamentali e utilissime, naturalmente. E chissà se Tremonti conosce la fondamentale missione di Studiare Sviluppo srl, che lui controlla al 100%. Se gli è sfuggita, faccia un giretto sul sito Internet della società. Lo spiegano i manager sotto la pomposa voce “mission” (perché usare l’italiano nel tempio della finanza pubblica di Roma è ormai proibito). Eccola: “Studiare Sviluppo, soggetto strumentale di Amministrazioni centrali, realizza attività orientate principalmente verso settori tematici e progettuali coerenti con gli interessi prioritari e gli obiettivi strategici dei propri referenti istituzionali”. Avete capito qualcosa? Direi di no. Allora facciamoci spiegare meglio: “In particolare, la Società opera a valere su due linee di intervento: supporto ad Amministrazioni o Enti pubblici, sul territorio nazionale, nella programmazione e gestione di strumenti di sviluppo territoriale e locale; partecipazione a progetti internazionali, finanziati prevalentemente dall’Unione Europea, relativi a consulenza istituzionale, institutional building e assistenza  tecnica a Governi e Amministrazioni pubbliche di Paesi terzi”. Ancora nulla? Sembra l’ultimo inutile carrozzone dello Stato italiano? I manager di Studiare Sviluppo pensano di essere fondamentali: “la Società gestisce iniziative che si caratterizzano per il loro contenuto innovativo e sperimentale, e rispetto alle quali l’azione permette all’Amministrazione di ricavare utili indicazioni di policy sulla materia trattata”. Per carità di patria bisognerebbe non procedere oltre. E tacere uno dei progetti fondamentali che il Tesoro sta finanziando. Si chiama “Storie interrotte” e “consiste nella diffusione, con diversi mezzi di divulgazione e comunicazione (sperimentazione scolastica, produzione teatrale, trasmissioni radiofoniche tematiche, produzioni editoriali, audio-riviste, web), della conoscenza del ruolo, del pensiero e dell’azione di cinque figure-chiave originarie del Sud d’Italia, che hanno segnato la storia nazionale: Francesco Crispi, Francesco Saverio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio”. Davanti a un monumento simile all’inutilità di cui Tremonti è unico azionista e che sopravvive anche a una finanziaria come questa, allora si capisce meglio il piagnucolìo delle vittime dei tagli. Viene quasi voglia di solidarizzare con chi si è visto portare via il contributo pubblico o ridurre i gettoni di presenza. Perché a lui sì e a studiare sviluppo no? Domande che restano senza risposta. E che possono essere ripetute all’infinito. I carrozzoni sono centinaia e centinaia. Ma perché lo è il comitato nazionale per la nascita di Cesare Pavese cui Tremonti ha tolto i 33.600 euro del finanziamento dei Beni culturali e non lo è invece quello per le celebrazioni della nascita di Amintore Fanfani, rifinanziato senza battere ciglio con 60 mila euro? E per gli amanti del genere restano in vita con soldi pubblici anche il comitato per il centenario della nascita di Mario Pannunzio (222 mila euro), quello per i 400 anni della morte di padre Matteo Ricci (180 mila euro), quello per lo studio e la valorizzazione del Tesoro di San Gennaro (174 mila euro), quello per ricordare la nascita di Massimo Mila (90 mila euro), di Paolo Bonomi (60 mila euro), di Mario Tobino (90 mila euro) e decine di altri. Basta non essere stati proprio nessuno ed essere morti o nati da almeno un secolo, che anche in tempi di magra come questi continuano ad arrivare finanziamenti pubblici: 5 milioni nel 2010 a questo scopo. Brindano perché salvano il tesoretto gli altri duemila sfuggiti all’occhio di Tremonti. Il Centro di ecologia teorica, come la Fondazione Gramsci Romagna che beffa l’omonima fondazione nazionale, depennata dalla lista. L’associazione combattenti e reduci insieme ai partigiani salvi per un soffio. Niente fondi alla Fondazione Adriano Olivetti, ma arrivano 48 mila euro al Comitato per i 100 anni della nascita della Olivetti spa. Chiusi i rubinetti alla Pro civitate cristiana di Assisi, ma affluiscono fondi pubblici nelle casse del Forum per i problemi della pace e della guerra. L’elenco è infinito, e lo offriremo giorno dopo giorno ai lettori di Libero. Certo, se si vuole tagliare, non mancheranno altre occasioni.

Sacconi senzatetto, Romani però conquista la palestrina

Nel governo c’è anche qualcuno che non segue le indicazioni della casa madre. Qualcuno che non ha investito sul mattone per seguire l’esempio del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. A ribellarsi (o almeno a celare diabolicamente la proprietà dei propri investimenti) anche un pezzo da novanta come il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Nessuna casa è ufficialmente intestata a lui in alcuna parte di Italia, e altrettanto dicasi della gentile graziosa consorte, che fa il direttore generale di Confindustria. Insomma, o il ministro preferisce stare in affitto o ha gabbato noi e le banche dati del catasto con qualche trucco. Come lui pochi altri nel governo: non ci sono immobili intestati al ministro Andrea Ronchi, ma la spiegazione qui l’ha offerta il diretto interessato: la casa c’era, da poco però è stata donata alla figliola che ne aveva più bisogno di papà, pronto ad arrangiarsi in affitto. Nessuna casa riconducibile a un vecchio professionista della politica, come Enzo Scotti, che oggi è ancora sottosegretario agli Esteri, e nessuna riportabile direttamente al sottosegretario al Tesoro, Luigi Casero. Due buchi perfino ai Trasporti, dove risultano senza casa di proprietà i sottosegretari Bartolomeo Giachino, detto Mino e il suo collega Giuseppe Maria Reina.
Se un gruppetto di ministri e vice dichiara zero mattoni, c’è in compenso chi nelle fila del governo ha pensato non solo a casa, ma a qualche affare immobiliare alternativo. Lo ha fatto da pochissimo il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, che oggi è in pole position per sostituire alle attività Produttive Claudio Scajola, che proprio la casa si è portato via. Romani si è comprato una palestra privata a Cusano Milanino: 67 metri quadrati e un po’ di terreno intorno, un bell’affare. Che però non deve essere piaciuto molto al fisco italiano. Nel gennaio scorso come un avvoltoio è zompata lì sopra Equitalia Esatri (concessionaria di Milano) iscrivendo ipoteca legale per un contenzioso con il viceministro da 26.292,52 euro. Lui appena se ne è accorto ha messo mano al portafoglio e saldato da gran signore il debito. Così l’ipoteca è stata cancellata del tutto lo scorso 4 marzo.

Compagni, tutti in campagna! Ecco le seconde, terze e quarte case dei leader della sinistra

Compagni, si va in campagna! E se non si trova il casalino toscano, umbro o pugliese che fa tanto chic, allora si va al mare! A sinistra è esplosa da qualche anno la moda della seconda o terza casa di proprietà, purchè silenziosa, accogliente e accomodante le buone letture. Grazie alla moda è tutto un fiorire di affaroni immobiliari che contagiano senza distinzione di credo nouvelle e ancient vague del Pd, vecchi comunisti all’amatriciana, rifondaroli dell’ultima ora e radical chic che sorridono ormai trionfanti per avere imposto ad ogni portafoglio il trend preferito. Il luogo preferito dagli agenti immobiliari rossi- si sa- è quello spicchio di terra fra campagna e mare in Toscana, poco oltre il confine con il Lazio. Tanto per intenderci, Capalbio e dintorni. Hanno lì casa (qualcuno la prima, altri la seconda e la terza) Furio Colombo e Alice Oxman, Giorgio Napolitano e Claudio Petruccioli con rispettive consorti, ma a pochi chilometri la truppa si ingrossa. Cìè Giuliano Amato con signora che da anni svernano e passano l’estate ad Ansedonia, chissà se ancora a giocare un buon tennis. C’è  Piero Fassino che con un mutuo si è ristrutturato un casale dalle parti di Scansano, dove va con la moglie Anna Serafini quando gli viene a noia la casa romana a due passi dal Pantheon (che battaglie con i locali della piazza che non chiudono mai i battenti, né di sabato né di domenica!). C’è un professore rivoluzionario attualmente in prestito all’Italia dei Valori, come Pancho Pardi che ha in pochi chilometri ha ben due case: una nell’esclusivo Monte Argentario, regno della compianta Susanna Agnelli, e l’altra davanti alla spiaggia della Giannella, quasi attaccata ad Orbetello. Pulsa lì il cuore della seconda casa di sinistra. Ma non pochi hanno scelto l’Umbria. Vi è approdato con la consorte l’ex presidente della Camera ed ex padre di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti: relax nella magione di Massa Martana, sui colli perugini per fuggire dalla casona dei Parioli e dal suo traffico insolente. Bertinotti da anni ha pure un’alternativa piena di magia, come la seconda casa (quella umbra è la terza) di Dolceacqua all’ombra del castello e vicino alle rive del fiume che vi passa in mezzo. Incantevole, ma un po’ lontanina per chi abita a Roma: si è praticamente a Ventimiglia, sul confine con la Francia. Ottima- certo- in questi giorni, se si vuole cfare un salto a Cannes e vedersi Draquila, l’ultima diabolica invenzione della amata Sabina Guzzanti.
Sulle colline umbre oziano volentieri nella seconda o terza magione altri protagonisti delle migliori stagioni della sinistra. Come Andrea Manzella, a Città della Pieve, Tommaso Padoa Schioppa e la sua compagna Barbara Spinelli fra Orvieto e Parrano, in provincia di Terni. O Giovanna Melandri a Ficulle, nel casale donatole dalla seconda moglie del padre. A metà strada fra i toscani e gli umbri si aggira invece Giuseppe Fioroni, che nella sua Viterbo ha possedimenti immobiliari in più di un paese (sono cinque le case a lui intestate). Preferiscono il mare e il ritorno nelle terre natie invece Umberto Ranieri, che ha acquistato a Maiori sulla spiaggia salernitana la sua terza casa (le altre a Roma e Napoli). O Alfonso Pecoraro Scanio che può fermarsi a dormire quando vuole in due case nel salernitano, in quella di Napoli o in quella della capitale. A sinistra non dispiace neppure la Puglia. Ci abita ovviamente Niki Vendola, governatore della Regione, anche se non è molto che ha comprato una sua casa a Terlizzi. Ci viene Vincenzo Visco, a Martinafranca in provincia di Taranto, quando non preferisce raggiungere la sua seconda casa in Pantelleria. Ci ha messo piede dal febbraio scorso anche un altro ex presidente della Camera, Luciano Violante, che ha acquistato a Francavilla Fontana, provincia di Brindisi, forse un po’ stanco delle vacanze un po’ in grigio nella sua seconda casa di Cogne, in Valle D’Aosta.

Urso re del mutuo: ne ha due da 2,4 milioni di euro

Adolfo Urso, viceministro del Commercio estero e segretario della Fondazione fare futuro, ha stabilito nel 2009 un primato assoluto. E’ il parlamentare sulle cui spalle grava il mutuo casa più alto della storia. Ne ha due: uno per sé e un altro per uno dei due figli. Entrambi accesi con il Banco di Napoli di Montecitorio per l’80 per cento del valore dell’immobile acquistato. Due alloggi centralissimi, uno il doppio dell’altro, a Prati, due passi dal Palazzaccio. Il primo mutuo trentennale è da 1,6 milioni di euro. Quello per il figlio nella stessa casa è da 800 mila euro. In tutto fanno 2,4 milioni di euro. Il prezzo ufficiale per l’acquisto dei due appartamenti è stato di 3 milioni di euro. Una bella somma. Chiedendo alle principali banche italiane ieri (attraverso mutui on line) di farci una proposta di finanziamento per quell’acquisto, abbiamo trovato molte porte sbarrate. Dichiarando la stessa età del viceministro Urso (53 anni), il primo problema è stato trovare chi finanziasse un acquisto così rilevante. Hanno detto di no 8 banche su 14. Le altre sei hanno invece detto di no alla durata del mutuo: per avere l’ammortamento in 30 bisognerebbe avere meno di 45 anni. Uniche proposte arrivate: rimborso in 20 anni con rate fra 11 e 12 mila euro al mese. Circa il doppio dell’indennità parlamentare ufficialmente dichiarata. Come ha fatto allora Urso? L’unica è stata chiederlo al diretto interessato. Che non si è tirato indietro, anzi. E’ stato prodigo di particolari. All’inizio ha protestato: “Ma come? Io seguo la linea di Fedele Confalonieri e facendo il viceministro ho comprato casa con un regolare mutuo, come chiede lui, e proprio sulla mia casa venite ad indagare?”. Ma poi cortesemente spiega tutto: “Primo, io ho due figli di cui sono orgoglioso che da quando hanno 18 anni si sono messi a lavorare regolarmente. Anche mia moglie, da cui sono separato, ha sempre lavorato. Secondo: ho cercato casa a lungo, e poi ho trovato quella che mi piaceva, sia per me che per uno dei miei figli. Una è il doppio dell’altra. Zona prestigiosa, certo. Quarto piano, ma non è un attico: affaccio sull’interno. Non dico che è brutta, l’ho comprata perché mi piaceva: ma penso di avere pagato il prezzo giusto: circa due milioni per una, circa un milione per l’altra. Nel 2009 dopo il boom del mercato immobiliare, i prezzi hanno iniziato a scendere un po’”. E il mutuo? “Tutto trasparente. Finanziato l’80 per cento del valore dell’immobile. Contratto trentennale a tasso variabile, ho anche l’accordo per estenderlo a 40 anni!”, Beh, non capita tutti i giorni di trovare una banca che scommetta di trovarti ancora lì a pagare le tue belle rate oltre i 90 anni… A proposito, quanto pesano queste rate? “Vado a memoria: 5.600 euro al mese per la mia casa e 2.800 euro al mese per quella di mio figlio”. Fanno 8.400 euro al mese. Ma è sicuro di poterseli permettere sempre? “Ah”, sorride Urso, “certo senza lo stipendio da parlamentare e l’indennità da viceministro avrei qualche difficoltà a pagare le rate. Ma io ho fatto una scommessa sulla durata lunga del governo di Silvio Berlusconi, e anche il mio mutuo è lì a testimoniarlo”. Già, perché se il governo cade, dovrà pensarci Fare Futuro a quelle rate… “Ma no, che dice? Fare futuro mai. Non si mischia così pubblico e privato. Per altro è sempre stata la mia linea. Sono orgoglioso di non avere mai chiesto finanziamenti pubblici per la mia rivista politica e di avere fatto la stessa cosa con la fondazione Fare futuro: solo sostegni privati. Ma poi glielo ho detto: il governo durerà a lungo, il rischio non c’è. E in ogni caso i miei figli lavorano duro e sono proprio bravi”.

Bondi si riconquista Arcore

Per un tempo indefinito, ma per lui lunghissimo, il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi ha tenuto di perdere la sua preziosa casa di Arcore, quasi di fronte alla villa dove abita il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Tutta colpa della più classica delle vicende coniugali. La bella casa era stata infatti acquistata quando il ministro andava d’amore e d’accordo con la moglie, Maria Gabriella Podestà. E come avviene in questi casi i due cuori si sono uniti in una capanna formalmente intestata al 50 per cento ciascuno. Proprietà un po’ di Bondi, un po’ della Podestà. Poi il matrimonio del ministro- si sa, non violiamo alcuna privacy- ha subito le sue traversie, fino alla piena burrasca. Bondi vive con una nuova compagna, la collega azzurra Manuela Repetto, e il suo matrimonio è finito con una separazione legale. Prima di Berlusconi dunque Bondi ha dovuto fare i conti con gli avvocati della separazione. E ha corso quel brivido: di perdere- perché spettante alla moglie- quell’abitazione con affaccio sulla residenza del presidente del Consiglio. Eventualità questa da fare tremare le vene dei polsi. Assolutamente da scongiurare. E così è stato: con grande pazienza il ministro dei Beni culturali ha ottenuto la separazione consensuale, e con atto del 31 agosto scorso depositato il 2 settembre 2009, ha riavuto indietro anche quel 50% di casa Arcore che non possedeva. Un bene che evidentemente non aveva prezzo, e infatti non è stato valutato dal notaio che effettuava il trasferimento di proprietà. Ma nell’atto è stato scritto un saggio “mai più”, e cioè che mai più Bondi cederà ad altri quel pezzo di casa di Arcore. All’atto è allegato “l’espresso accordo che il trascrivendo trasferimento non verrà meno in caso di riconciliazione dei coniugi”. Anche se con la prima moglie dovesse fare pace, casa Bondi sarà solo del ministro per sempre…

Le 350 abitazioni dei casalinghi del governo Berlusconi

I ministri del governo di Silvio Berlusconi sono diventati tutti perfetti casalinghi. Possono lavorare al ministero, andare in giro per convegni o anche restare a casa. In una delle loro tante case: ne hanno 126, in media fra 5 e 6 ciascuno. Certo, nessuno di loro batte il capo del governo che ha una decine di ville di rappresentanza e molti più appartamenti disseminati in giro per il mondo. Ma anche senza avere i milioni o i miliardi che escono dalle tasche, ministri, viceministri e sottosegretari hanno certamente un buon fiuto immobiliare. Tutti insieme- secondo i dati di Sister-Agenzia del Territorio, posseggono la bellezza di 348 fabbricati (126 ministri e viceministri e 222 i sottosegretari), a cui si aggiungono 295 appezzamenti di terreno (154 i ministri e 141 i sottosegretari). Fanno in tutto 643 proprietà immobiliari, e anche se in quel numero ci sono pure rustici, box auto indipendenti e soffitte magari da ristrutturare, fa sempre una bella impressione: se non una città, riunendole tutte insieme si fa un bel paese solo per il governo. La passione per il mattone sembra per altro coincidere proprio con l’attività politica e l’ingresso nell’esecutivo. Quasi tutti hanno acquistato casa a Roma, anche se ne avevano già nella città natale e magari in campagna, al mare o in montagna. Qualcuno l’affarone l’ha fatto proprio durante l’ultimo governo. Quello più prezioso l’ha portato a casa (proprio così), il viceministro del Commercio Estero, il finiano Adolfo Urso. Più che una casa, un complesso immobiliare centralissimo vicino al Palazzaccio, dove ha sede la Corte di Cassazione. Urso ha acquistato dal gruppo Refin casa (9,5 vani), cantina, locali annessi e un preziosissimo box auto a fine maggio del 2009. Top secret il prezzo, ma qualcosa dice il supermutuo ipotecario che lo stesso giorno il viceministro ha stipulato con Intesa-San Paolo ex Banco di Napoli. L’importo è il più alto che sia mai stato concesso a un membro del Parlamento: 1,6 milioni di euro spalmabile in 30 anni (anche per alleggerire rate che comunque valgono assai più dell’indennità parlamentare) a un tasso di interesse annuo del 5,5%. Con quel mutuo non restano grandi risorse per altri acquisti, così il proprietario dell’immobile di deve essere intenerito e qualche giorno fa, con atto depositato il 6 maggio 2010, ha ceduto ad Urso gratuitamente i diritti reali sul lastrico solare dell’immobile. Tanta generosità non hanno trovato invece i suoi colleghi di governo che in questo biennio hanno deciso all’unisono di prendere casa (o una nuova casa). Mara Carfagna a Roma abitava già dal 2001, ma sulla Cortina di Ampezzo che è un po’ lontana dalla sede ministeriale. Una casetta: 2,5 vani comprata con un mutuo Bnl da 77.648 euro. Ma erano i primi tempi nella capitale e qualche sacrificio bisognava pure fare. Diventata ministro, la Carfagna ha iniziato a cercare una casa più di rappresentanza e anche più vicina al lavoro. L’ha trovata proprio a quattro passi, all’inizio del 2009. Prima ha venduto la sua vecchia casetta a una società medica di Napoli, la Nice srl di Valeria De Magistris. Poi ha acquistato da una signora venezuelana la nuova casa centralissima: quinto piano, grande vista e 7,5 vani. Prezzo? L’ha rivelato la stessa Carfagna: 930 mila euro. Affare immobiliare poco dopo l’insediamento anche per Gianfranco Rotondi, uno che a proprietà immobiliari non scherza (ha case ad Avellino, Firenze, Roma e Teramo). Era da poco al governo, e la transazione si è conclusa ad inizio agosto del 2008, proprio nella sua Avellino. Bella casa, su due piani e un’autorimessa da 50 metri quadrati. L’ha venduta a Rotondi la Edil Av srl per 550 mila euro. Il ministro ha però chiesto e ottenuto dal Banco di Napoli un mutuo da 440 mila euro da restituire in 30 anni al tasso di interesse annuo del 5,67%. Anche Renato Brunetta, rapido come la solito, non si è fatto sfuggire qualche buon affare nei pochi momenti lasciati liberi dalla continua caccia ai fannulloni. Lui lavora come un matto, ma a dare un’occhiata al patrimonio è fra i più casalinghi dell’esecutivo: ha infatti case nel perugino (Monte castello di Vibio), a Roma, Venezia, Ravello e nelle Cinque terre. Proprio qui, a Riomaggiore, Brunetta ha realizzato il suo ultimo affare. Sarà per i suoi pressanti impegni, ma l’atto porta la data del 24 dicembre 2009. Ha acquistato sia il terreno che un fabbricato in corso di ristrutturazione da cui godersi uno dei panorami costieri più straordinari di Italia (fa concorrenza alla sua altra casa di Ravello). Nessuna indicazione di prezzo, ma non depone a favore di Brunetta il cognome del venditore: si chiamava Stefano Pecunia. Fra i ministri che hanno comprato casa da quando sono al governo un posticino l’ha conquistato anche Giorgia Meloni, che nel gennaio 2009 ha conquistato il suo piccolo rifugio all’Ardeatino per 370 mila euro e grazie a un mutuo Banco di Napoli da 151.572 euro, durata quinquennale e tasso del 3,63%.

Murdoch scende in campo a fianco del Papa perchè si è convertito? A guardare il battesimo delle figlie sulle rive del Giordano, sembra di sì

La foto campeggia sulla prima pagina di “Hello!”, una sorta di “Chi” inglese nel gossip familiare delle celebrità mondiali. Rupert Murdoch ritratto insieme alla moglie Wendi Deng , alla regina Rania di Giordania, a Nicole Kidman, sorride nel giorno del battesimo delle due figlie di ultimo letto, le piccole Grace (8 anni) e Chloe (6 anni). La cerimonia si è svolta il 22 marzo scorso sulle rive del fiume Giordano, celebrata da un prete cattolico proprio nell’esatto luogo dove tre dei quattro vangeli (Marco, Luca e Matteo) raccontano che Gesù Cristo avesse ricevuto il battesimo da Giovanni Battista. Madrina di battesimo è stata appunto la Kidman, attrice che non fa mistero della sua fede cattolica. Padrino un attore cattolico australiano, Hugh Jackman. Un fatto non vissuto privatamente, perché l’ampio servizio fotografico che occupa le 18 pagine è certamente stato autorizzato da Murdoch. Tanto da volere sembrare un messaggio al mondo su una possibile conversione del più potente imprenditore dei media internazionali. L’ha interpretato così, ad esempio, l’editorialista del Guardian, Nicholas Blincoe, che ha commentato quelle foto sotto il titolo” Una rinascita per Rupert Murdoch?- Con il battesimo delle sue figlie sulle rive del Giordano forse il capo di News Corp sta segnalando la sua personale conversione”. Certo che alla nascita le due bimbe di Murdoch non sono state battezzate, e farlo dopo anni in modo così suggestivamente simbolico e pubblicizzato è certo segno di una decisione dei genitori lungamente pensata e maturata. Per altro giunge dopo un’altra conversione in seno alla famiglia Murdoch, quella vissuta assai più privatamente del figlio James, vero erede del padre nella News corp, e noto in Italia sia perché si occupa direttamente di Sky, sia per la sua partecipazione all’ultimo Meeting di Rimini, da cui sembra sia rimasto particolarmente segnato. Sono più di uno quindi gli elementi personali della famiglia di Murdoch che accompagnano la scelta recentissima del Wall Street Journal di scendere in campo nella battaglia mediatica sugli scandali pedofilia per difendere Papa Benedetto XVI. Iln più importante quotidiano finanziario del mondo, posseduto dai Murdoch, ha sfoderato nell’occasione la firma di uno dei suoi più potenti columnist, William McGurn. Non si tratta di un qualsiasi editorialista del gruppo, ma di un cattolico che ha e ha avuto in passato ruoli manageriali in News corporation e che da anni scrive i discorsi più delicati ( i cosiddetti “position papers”) per lo stesso Murdoch. Non lo ha fatto solo fra il giugno 2006 e il febbraio 2008 quando l’allora presidente Usa George W. Bush lo ha chiamato alla Casa Bianca a guidare il team di chi scriveva i suoi discorsi ufficiali, dietro un compenso di 261 mila dollari all’anno. Potrebbe esserci una scelta editoriale, in parte una scelta politica (Murdoch non ha in simpatia Barack Obama e i media del gruppo non hanno lesinato attacchi al presidente Usa anche sulla linea abortista), ma anche una profonda convinzione personale del tycoon del media in questo sostegno inatteso a Benedetto XVI. D’altra parte i rapporti diplomatici fra Murdoch e il Vaticano sono buoni da molti anni. Fu il magnate anglo-australiano a donare nel dicembre 1999 alla Conferenza episcopale americana i 10 milioni di dollari che servivano alla costruzione della nuova cattedrale di Los Angeles. Nel gennaio dell’anno precedente l’arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, aveva insignito Murdoch dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno, con tanto di benedizione papale che scandalizzò molti cattolici romani. E forse sono stati proprio i rapporti che si crearono all’epoca a determinare la nuova svolta religiosa del magnate.

Se volete il Papa a processo, consegnate Obama a Spataro- La curiosa linea difensiva in Usa dell'avvocato di fiducia del Vaticano

Volete Benedetto XVI in aula come testimone nei processi sulla pedofilia nella chiesa americana? Benissimo, allora ordinate al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di andare a testimoniare a Milano sulle direttive date alla Cia per il rapimento di Abu Omar. A chiedere alla Corte suprema degli Stati Uniti l’applicazione di una sorta di par condicio giudiziaria è niente meno che lo Stato Città del Vaticano. Il paradosso legale è infatti formalmente depositato presso la Corte suprema americana da Jeffrey S. Lena, l’avvocato che coordina la difesa della Chiesa nei processi per pedofilia. La deposizione al processo è stata chiesta per papa Benedetto XVI da un avvocato del Kentucky, William McMurry, insieme a quella del cardinale Tarcisio Bertone, del cardinale William Levada e del nunzio apostolico in Usa, Pietro Sambi. Respinta una prima volta nel 2007 è stata ripresentata con documentazione a sostegno. Così il caso Kentucky è finito davanti alla Corte suprema americana insieme a quello dell’Oregon, in cui un tribunale vorrebbe chiamare a rispondere penalmente e civilmente il Papa e lo Stato Città del Vaticano degli abusi commessi da alcuni preti pedofili. La documentazione legale dei due fronti è approdata ora davanti alla Corte, che non ha ancora calendarizzato l’udienza. Gli avvocati delle vittime degli abusi hanno trasmesso un documento- per altro già rivelato dalla stampa britannica nel 2002- che secondo loro dovrebbe rappresentare la pistola fumante per dimostrare le responsabilità apicali del Vaticano nello scandalo. Si tratta di un documento non firmato di una sessantina di pagine, dal titolo “Crimen sollicitationis” che risale al 1962 e che secondo la tesi accusatoria sarebbe stato approvato dal “Papa buono”, Giovanni XXIII. Il documento fornisce istruzioni ai vescovi su come comportarsi davanti a casi di abusi sessuali o addirittura “comportamenti bestiali” che potessero emergere nell’episcopato. La regola era di proteggere accusati e vittime fino all’accertamento della verità mantenendo il massimo riserbo possibile sull’accaduto. Consigliando comunque di trasferire ad altra sede o altro incarico i sospettati. I procedimenti sarebbero stati immediatamente incardinati presso il Sant’Uffizio e secretati pena scomunica. Stesso segreto (e stessa pena in caso di violazione) avrebbe dovuto riguardare l’identità dei denuncianti e di eventuali testimoni. Denunce anonime dei fatti invece sarebbero state cestinate, a meno che già non gravassero sospetti su quei casi e si ritenesse quindi utile un’inchiesta. Al termine delle indagini riservate, se le accuse venivano ritenute del tutto infondate, ogni documento sarebbe stato distrutto. In caso di accuse indeterminate e senza riscontro, la pratica sarebbe stata archiviata e la documentazione conservata per inchieste future. In caso di prove riscontrate invece il processo sarebbe stato celebrato sentendo anche il colpevole. Queste istruzioni sarebbero state allegate anche a una nuova lettera inviata a tutti i vescovi nel 2001 dal cardinale Joseph Ratzinger, che guidava la congregazione per la dottrina della fede. E quindi secondo gli avvocati delle vittime di abusi dimostrerebbe la responsabilità apicale della Chiesa cattolica nel cercare di circoscrivere e insabbiare lo scandalo pedofilia. Dello stesso documento offre una lettura diametralmente opposta naturalmente l’avvocato Lena, secondo cui al massimo si dimostrerebbe l’intenzione della Chiesa di fare inchieste serie sui casi di abusi sessuali fin dal 1962 e il riserbo delle indagini sarebbe stato innanzitutto a garanzia delle vittime (sia per le conseguenze sulla vita privata sia per non esporle a tentativi di vendetta). Viene depositata dai legali vaticani anche una interpretazione del documento firmata da un esperto di diritto canonico, il professore Thomas P: Doyle che confuta tutte le tesi di McMurry. Quanto alla richiesta di testimonianza del Papa al processo, Lena prima rivendica presso la Corte suprema l’immunità diplomatica garantita a un capo di stato straniero come il pontefice, poi spiega che se questa richiesta fosse ritenuta esaudibile, allora avrebbero legittimità le richieste di tutte le corti di paesi stranieri di fare comparire a processo il presidente degli Stati Uniti nei casi di “extraordinary renditions” compiute dalla Cia in quei territori, “come è avvenuto in Italia”. Quanto all’organizzazione piramidale del Vaticano che imporrebbe il coinvolgimento dello Stato estero nell’azione civile intentata dalle vittime di abusi, l’avvocato Lena spiega alla Corte suprema che la Chiesa non è una società per azioni con a capo una holding di diritto vaticano, e che quindi non si può applicare la responsabilità amministrativa per un ente morale. La richiesta invece equipara il Vaticano a una qualsiasi multinazionale, pur non avendone in alcun modo la configurazione giuridica.

Benedetto XVI mangia meno strudel, ma è sereno. E' la Curia ad essere terrorizzata per l'offensiva sulla pedofilia

Chi lo ha visto tutti i giorni nelle ultime settimane racconta di un Benedetto XVI provato, stanco, fisicamente sofferente. Il Papa cammina con fatica perfino all’interno degli appartamenti pontifici, sorride ed assaggia appena un pezzetto dell’amato strudel con le mele annurche che gli preparano le collaboratrici laiche che da anni lo assistono. Mangia poco, spesso non tocca nemmeno quelle mozzarelline di bufala che il suo segretario, padre Georg Gaenswein, gli fa arrivare da Frattamaggiore. Anche la via Crucis seguita in papa mobile, le vacanze estive disdette per la prima volta scegliendo il meno faticoso ritiro di Castelgandolfo rendono evidenti a tutti questa sofferenza. Che non è solo esterna, perché il Papa- racconta chi gli sta più vicino- ha vissuto con grande dolore quel che è stato chiamato lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma non si sente sotto assedio. Joseph Ratzinger è sereno, profondamente sereno. E ha a cuore oggi forse più di prima quella guida pastorale del suo popolo che è probabilmente la vera ragione dello scandalo e di quell’assedio che racconta quotidianamente la stampa di tutto il mondo. E’ la verità del cristianesimo, quell’unione fra fede e ragione raccontata nelle udienze del mercoledì attraverso le vite dei santi ad occupare il Papa. E non lo preoccupa quel che emerge perfino dentro la Chiesa. E’ nelle altre stanze vaticane che si vive con timore questo assedio di cui forse alcuni cardinali e alti prelati ingigantiscono oltremodo la portata. Non pochi rifiutano colloqui telefonici e- quando inevitabili- evitano accuratamente giudizi e riferimenti a vicende di cronaca. Perfino gli indirizzi di posta elettronica più riservati sono utilizzati con cautela e sospetto: chi vuole parlare lo fa solo a quattro occhi. Chiedi se immaginano una regia ad organizzare la campagna che monta ormai ha troppe radici diverse: quelle dell’ America puritana e di cultura ebraica, quelle anglicane, quelle semplicemente laiche e anticlericali da cui ti saresti atteso qualsiasi spallata, ma anche quelle cristiane, cattoliche, addirittura nella patria stessa del Pontefice. Sulle prime chi si incontrava in Curia ripeteva quasi rassicurante che forse regia c’era, ma solo per comuni interessi economici. I casi di pedofilia erano noti da anni, in ogni dettaglio proprio quelli che venivano sventolati in queste settimane. Se si alzava il tiro era solo per soldi: fare circolare come indiscreti documenti notori, farli pubblicare sui giornali e poi sfruttarne il clamore era utile a un manipolo di studi legali che puntando il dito sul Vaticano e trovando un giudice disposto a seguirli avrebbero fatto lievitare oltremisura risarcimenti e parcelle. Ma la furia delle onde in tempesta è seguita così devastante, si è unita a venti impetuosi e diversi nazione dopo nazione (si guardi all’Italia, dove il tiro al Papa ha sostituito dopo il flop elettorale immediatamente il tiro a Silvio Berlusconi), che oggi nelle stanze vaticane pochi credono sia solo questione di soldi. Per questo si ripercorrono le tappe di questo pontificato trovando uno dopo l’altro chi e perché soffia su quei venti. La Chiesa. C’è una data- chiave che spiega da dove nascono gtli attacchi interni al Papa. E’ quasi all’inizio del pontificato di Benedetto XVI: il 22 dicembre 2005, giorno dell’incontro con la curia romana per gli auguri natalizi. E del suo giudizio tagliente sul Concilio Vaticano II, che per il Papa non è stato una “apertura al mondo”, ma nel solco pieno della tradizione millenaria della Chiesa, solo un “passo fatto verso l’età moderna che appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto fra fede e ragione”. Detta così sembra solo una questione dottrinale, e invece all’interno della Chiesa è stato discorso di rottura decisa. Da lì il Papa è stato sentito come un nemico da gran parte dell’ala liberal e progressista degli episcopati. Lì e in altri discorsi sui valori fondamentali, sulla difesa assoluta della vita, si è consumato il vero scontro fra il Papa, il mondo laico e anticlericale (e questo era ovvio) ma soprattutto una parte non marginale della Chiesa. Se oggi la conferenza episcopale tedesca e buona parte di quella austriaca sono anche apertamente critiche del pontificato, il motivo è proprio in quel discorso del dicembre 2005, acqua ghiacciata sull’interpretazione rivoluzionaria del Vaticano II. Ebrei e mussulmani. Meno teologica e più facile da comprendere l’avversione del mondo mussulmano e di quello ebraico nei confronti del pontefice. Il discorso di Ratisbona incendiò subito l’Islam. La liberalizzazione del rito antico, che ha rispolverato la formula sulla conversione degli ebrei, il recupero della comunità lefebvriana (il vescovo negazionista, ma tutti erano sospettati di dottrina antisemita), l’annuncio prima di recarsi in Sinagoga della beatificazione di Pio XII hanno creato un solco profondo fra Benedetto XVI e i rabbini di tutto il mondo. Protestanti. Occasioni dirette di scontro non sono state così evidenti. Ma certo non è stato gradito il percorso di avvicinamento e perfino di apertura al rientro degli anglicani in seno alla chiesa cattolica romana. La Costituzione apostolica messa punto dal cardinale William Levada per l’occasione seguiva infatti una richiesta avanzata dalle comunità anglicane più tradizionaliste spaventate per l’apertura dell’ala liberal verso l’ordinazione di donne e omosessuali dichiarati. Più che come un gesto di comunione così quell’apertura del Papa è stata interpretata come un vero e proprio progetto scismatico sulla chiesa anglicana. Tutto questo teme la Curia, con cui peraltro il papa ha scarsissimi rapporti: gli unici che frequenta settimanalmente e da cui Benedetto XVI coglie umori di palazzo e apprende notizie dal mondo sono infatti il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il cardinale Giovanni Battista Re e il ricordato cardinale Levada. Altre cose arrivano sulla scrivania di Padre Georg grazie a una rassegna stampa filtrata dalla segreteria di Stato e che non sempre giunge nelle mani del Pontefice. Ma anche se a gocce e filtrato da racconti altrui, il Papa conosce bene quel che sta avvenendo nel mondo e nella Chiesa. Un vescovo gli ha riferito anche parole allarmate scritte in una lettera privata dall’ex presidente del Senato, Marcello Pera: “come è possibile che un miliardo di cristiani assistano in silenzio ed impotenti al tentativo di distruggere il Papa, senza rendersi conto che dopo questo non ci sarà più salvezza per nessuno?”. Certo, Benedetto XVI vive con dolore i fatti avvenuti nel suo gregge perché ne è il pastore. Ma non è preoccupato dell’assedio. Come ha ripetuto a chi ha incontrato anche in questi giorni: “è solo Cristo che assedia la Chiesa”.

Bertolaso a confronto con Prodi in Umbria ha fatto davvero il miracolo!


Quanti dei 22.604 sfollati del terremoto in Umbria del 26 settembre 1997 un anno dopo hanno avuto sistemazione in una casa? Nemmeno uno. E alla data del 26 settembre 1999, a due anni esatti dal sisma? A quella data era stata consegnata una abitazione, una villetta in legno, a 28 famiglie sulle 9.285 colpite dal sisma. Un ano dopo, e cioè a tre anni dal sisma, risultavano consegnati alloggi alternativi a 821 nuclei familiari dei 9.285 originari. Per mesi i terremotati umbri hanno vissuto in tenda, poi sono arrivati i container. E quelli sono restati per anni. Al 31 dicembre 2009, e cioè dodici anni e tre mesi dopo il sisma, ancora 8 famiglie vivevano nei containers.
In Abruzzo gli sfollati hanno toccato la vetta di 67.459 persone, 35.690 delle quali sistemate in tendopoli, gli altri in hotel e case private. Otto mesi dopo in tenda non c’era più nessuno. A un anno dal terremoto il problema di una abitazione permanente riguarda solo 1.750 persone che in gran parte hanno visto classificata la loro abitazione come inagibile dopo il mese di agosto 2009. Non sono né in tenda né per strada: ospiti in albergo o in alloggi temporanei ad affitto agevolato. Tutti gli altri hanno avuto sistemazione in una vera casa, spesso costruita a tempo record. Quelle previste nel progetto C.a.s.e. (complessi antisismici sostenibili e ecocompatibili) sono state tutte realizzate e consegnate: 4.449 abitazioni completamente arredate per 15 mila persone. In più il progetto Map, villette in legno, previsto per 8.500 persone, è già stato realizzato in ampia parte e consegnato a 5.700 persone. Tanto per fare un raffronto, le prime villette in legno in Umbria hanno iniziato a sostituire i containers solo nel 2001, a quattro anni esatti dal terremoto. L’Osservatorio sulla ricostruzione della Regione Umbria così dopo mesi descriveva il “successo”: “Noi che sappiamo cosa significa aver paura della  terra che trema, noi che dormiamo fuori anche se le nostre case sono agibili, invidiamo "la gente dei container", loro non devono preoccuparsi più della terra che trema, hanno un'abitazione sicura. Poi il tempo passa, la paura si attenua, allora i container sono sì un ambiente sicuro e protetto ma piccolo, caldo in estate e freddo in inverno (…)Passano gli anni, e aumenta il disagio di vivere nel container, ma stanno per arrivare le casette di legno, e le case in muratura ed altre soluzioni alternative al container. Entro il 2001 i villaggi di container vengono trasformati in villaggi fatti prevalentemente da casette molto più confortevoli e per molti il container resta solo un ricordo, per i più piccoli l'unico ricordo della propria abitazione per molti vecchi l'ultimo ricordo e per molti il ricordo di un forte disagio ma un grande insegnamento: tutti possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”. Cioè quattro anni in una stamberga di latta che diventa una ghiacciaia di inverno e un forno di estate, e bisognava pure ringraziare il governo di Romano Prodi, quello di Massimo D’Alema, quello di Giuliano Amato e la giunta rossa umbra perché vivendo da clochard si poteva scoprire che “tutti possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”. Altro che rivolta delle carriole, ci sarebbe stata da fare. Ma laggiù nessuno è stato così sciacallo da mettersene alla testa e organizzarla. Bisogna avere anche lo stomaco per fare cose così, e nel centro destra nessuno se l’è sentita di speculare così sui guai dei terremotati.
In Umbria l’unica cosa che tentarono di fare subito era la concessione di contributi diretti per la riparazione di edifici privati attraverso programmi denominati di “ricostruzione leggera”, ma anche lì l’amore smodato della sinistra di governo per la burocrazia mandò gambe all’aria l’intero progetto. Ecco come lo spiega la relazione stessa dell’Osservatorio: “Dopo la presentazione, entro i termini, delle domande e la pubblicazione, in fasi successive, di quelle finanziate, è iniziata, nel periodo aprile-agosto 1998, la progettazione degli interventi da concludersi entro novembre 1998 (120 giorni dalla pubblicazione). Tale termine è stato prorogato per consentire l’integrazione dei progetti ed è stato fissato a febbraio 2000 il termine ultimo per il rilascio delle concessioni contributive”. Quel che si poteva fare in pochi mesi è stato così sbloccato solo in due anni e mezzo. Nel solo comune de L’Aquila a un anno dal sisma hanno già ricevuto senza tante pastoie burocratiche contributi definitivi per riparazione e ricostruzione simile a quella “leggera” dell’Umbria 6.242 persone sulle circa 9 mila che avevano fatto domanda. Altre 27.316 persone hanno ricevuto il cosiddetto “Cas”, contributo di autonoma sistemazione che può arrivare fino a 700 euro al mese.
Per arrivare a qualcosa di vagamente paragonabile a quello realizzato finora in Abruzzo per l’Umbria ci è voluto più di un lustro, e non è stata quella la gestione più scandalosa di una ricostruzione post terremoto in Italia.