Il capo del clan dei
Casalesi, il protagonista principale delle vicende di Gomorra raccontate da
Roberto Saviano, scrisse nell’agosto del 1993 al presidente della Repubblica,
Oscar Luigi Scalfaro chiedendogli la revoca del regime carcerario duro previsto
dal 41 bis. Francesco Schiavone detto Sandokan dunque supplicò insieme ad altri
tre boss della camorra Scalfaro di “revocare il trattamento penitenziario a cui
siamo sottoposti e di ripristinare la legalità. La lettera di Schiavone fu resa
pubblica l’11 agosto di quell’anno, poche settimane prima che il ministro della
Giustizia Giovanni Conso firmasse la revoca del carcere duro per 140 boss
mafiosi. E’ un nuovo inquietante particolare che emerge fra le pieghe di
quell’anno oscuro in cui il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi
(chiamato “governo del Presidente” anche perché voluto fermamente da Scalfaro)
accettò di fatto le condizioni che la criminalità organizzata aveva dettato
nella stagione degli attentati e delle stragi. Per Schiavone in realtà non ci
fu bisogno di quella revoca, perché fu la magistratura dell’epoca ad
alleggerire la condizione carceraria del capo del clan dei Casalesi. Il 17
ottobre del 1993 infatti i giudici della Corte di Appello di Napoli presero la
clamorosa decisione di alleggerire la sua pena già comminata nell’attesa dei
processi chiave ancora in corso (per cui sarebbe stato poi condannato
all’ergastolo), scarcerandolo e limitandosi a firmare un provvedimento di
sorveglianza speciale per tre anni. Il giorno stesso della scarcerazione
Schiavone detto Sandokan si è reso latitante. E così proprio mentre si
apprestava a firmare la resa alle condizioni imposte dalla criminalità
organizzata il governo Scalfaro-Ciampi-Conso si fece sfuggire di mano uno dei
più pericolosi camorristi esistenti, il capo del clan dei Casalesi.
Resta ancora un giallo per
altro la ragione per cui l’allora ministro della Giustizia, Conso, firmò
quell’anno come guardasigilli di Ciampi due provvedimenti di maxi-revoca del 41
bis a boss della Camorra e della mafia. Il primo fu il 14 maggio e riguardò 140
detenuti delle carceri di Secondigliano e di Poggioreale. Il secondo avvenne il
5 novembre e alleggerì la condizione carceraria per 140 detenuti del carcere
palermitano dell’Ucciardone.Davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe
Pisanu l’ex ministro della Giustizia del governo Ciampi ha ricordato soltanto
il secondo provvedimento di revoca del regime carcerario duro ai boss, dimenticando
il primo. E ha sostenuto di averlo adottato in segreto e in solitudine, per
verificare se quel segnale di disponibilità fosse utile a mettere fine alla
stagione stragista di Cosa Nostra. Conso però ha omesso molti particolari di
quell’anno emersi anche documentalmente nelle ore successive. A parte il primo
provvedimento di revoca, esisteva anche un verbale del comitato per la
sicurezza e l’ordine pubblico in cui prima l’ex capo della polizia, Vincenzo
Parisi (legatissimo a Scalfaro) e poi l’allora direttore delle carceri
italiane, Nicolò Amato, proposero l’abolizione o l’attenuazione del carcere
duro per i mafiosi. La commissione antimafia ha per questo deciso di
riconvocare Conso insieme ad altri esponenti delle istituzioni dell’epoca
(Nicolò Amato e Ciampi). Ieri sera il Tg1 ha provato a intervistare
telegfonicamente sul tema lo stesso imbarazzatissimo Conso. L’ex ministro ha
risposto al telefono, prima fingendo di non essere in casa: “No, mio padre non
c’è”, ha balbettato (Conso ha 88 anni, ndr). Poi ha ammesso la sua identità e
si è scusato, spiegando che l’argomento è troppo delicato per concedere
interviste, e che chiarirà i dubbi emersi nelle sedi istituzionali: in
antimafia e presso la procura della Repubblica di Firenze, che sta conducendo una
indagine sulle presunte trattative dell’epoca fra Stato e Mafia.
Fra i testimoni dell’epoca è
probabile che venga sentito anche l’allora capo della Dia, prefetto Gianni De
Gennaro. Anche perché poche settimane prima del provvedimento di clemenza ai
boss mafiosi firmato dal governo Ciampi proprio De Gennaro concesse a La Stampa
una allarmatissima intervista così titolata: “Dopo le stragi Cosa Nostra punta
al golpe”. De Gennaro così lesse stragi e attentati di quell’estate: “I boss
potrebbero essersi convinti che il terrore sia l’unica strada per invertire la
tendenza contraria, fidando nell’effetto paura per fiaccare il consenso sociale
alla linea governativa. Ma le finalità sono anche di natura più concreta e
immediata, per esempio quelle di fare modificare l’atteggiamento istituzionale,
cambiando alcune norme di recente emanazione. Una di queste- non l’unica- mi
pare possa essere l’articolo 41 bis che regola le modalità di detenzione per i
mafiosi. La carcerazione differenziata mette in crisi Cosa Nostra: il mafioso
finalmente non comunica con l’esterno e, soprattutto, perde l’aureola di
onnipotente anche fra le sbarre. Non è un caso che fra gli attentati sventati
ve ne sia uno che stava per essere attuato contro 14 agenti di custodia di
Pianosa. Se Cosa Nostra voleva reagire, è segno che il 41 bis non le piace”.
Quindi poche settimane prima
della seconda clamorosa calata di braghe di fronte ai boss mafiosi da parte del
governo Scalfaro-Ciampi-Conso il direttore della Dia aveva chiesto semmai di
non mollare sul 41 bis, spiegandone semmai la grande efficacia. Diventa ancora
più misteriosa allora la scelta del governo dell’epoca.