Il forziere della camorra? Non ha un euro dentro. Su Cosentino i pm prendono un po' di fischi per fiaschi

Si è messo le mani nei capelli, perché altro non poteva fare Roberto Pepe, manager di lungo corso, quando è entrato per la prima volta nel suo ufficio alla Eco4 di Caserta, la società formalmente pubblica specializzata nel ciclo dei rifiuti che secondo i magistrati pronti ad arrestarlo era di fatto dell’attuale sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino (“la Eco4 songo io” si sarebbe vantato il politico secondo le confessioni dei camorristi pentiti). Basterebbe prendere la disperata relazione di Pepe depositata al registro delle Camere di commercio per conoscere un’altra verità di quella Eco4, che secondo i giudici napoletani è l’architrave dell’accusa verso Cosentino: attraverso i cospicui fondi lì transitati per il riciclo dei rifiuti si sarebbero ingrassati i forzieri della camorra, e nella stessa società grazie a Cosentino e ad altri politici dell’area (nell’ordinanza vengono citati pure Mario Landolfi e Italo Bocchino) sarebbero stati assunti decine e decine di parenti e manovali cari al clan dei casalesi. Bisognerebbe prenderle quelle sei paginette scritte il 15 giugno 2007 da Pepe e leggerle dalla prima all’ultima riga per farsi raccontare una storia che nella richiesta di arresto per Cosentino non è manco citata. “La situazione mi parve difficile già dalla mia prima visita alla sede della società”, scrisse Pepe, “uffici sporchi e disadorni, telefoni muti, computer non funzionanti e, successivamente, sequestrati dalla ditta proprietaria (perché non pagate le rate del nolo)”. La schiera di camorristi assunti? “Il personale è stato sempre scarsamente collaborativo, se non ostile, perché non pagato da mesi”. Il forziere della camorra? “nelle casse della società non vi era un solo euro e qualunque spesa da affrontare, anche la più irrisoria era impossibile. Neanche la carta intestata o bianca era disponibile. Ricordo che il crocifisso per la mia stanza mi fu donato dal dr…”. Niente soldi in cassa, eppure la Eco4 (che poi ha cambiato il suo nome in Egea service) non era ancora fallita: “era esposta a debiti e sotto il tiro di molti creditori, ma era anche depositaria di molti crediti da parte dei comuni i quali però non pagavano e si appellavano ad azioni pretestuose per non onorare i propri impegni”. Come è finita? Che i comuni hanno continuato a non pagare e che tutto quel che c’era se l’è portato via il creditore più svelto, la Flora Ambiente spa che ha ottenuto il fallimento della ex Eco4. Questo finale non è irrilevante, perché l’architrave dell’accusa dei magistrati contro Cosentino poggia proprio su questa Flora Ambiente, appartenente ai fratelli Orsi che sarebbe stata creata proprio per svuotare dai soldi pubblici la Eco4 attraverso un giro di false fatturazioni con la presunta complicità di Cosentino e con la benedizione del clan dei casalesi (prima una famiglia, i Bisognetti e poi un’altra, quella degli Schiavone grazie all’interessamento di vari pentiti e di un personaggio quasi da fumetto, Gigino o’drink). Hanno ragione i giudici di Napoli: effettivamente tutto quel che c’era della Eco4 è finito proprio alla Flora Ambiente. Non però per gli uffici malandrini di Cosentino: per decisione di altri giudici, quelli del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Quella della Eco4 è una delle tante contraddizioni contenute nella richiesta di arresto del sottosegretario all’Economia avanzata dal gip di Napoli. Non è l’unica, se ne rendono conto gli stessi magistrati che procedono. Ballerino è il reato contestato di concorso esterno, tento che tutta la prima parte dell’ordinanza riconosce la confusione giuridica in proposito e cerca a lungo un precedente adatto alla bisogna, trovandolo poi in uno dei tanti processi a Calogero Mannino. Claudicante la stessa necessità di arrestare Cosentino. Anche qui il gip lo riconosce a pagina 354 dell’ordinanza: non c’è pericolo di fuga perché l’indagato è “parlamentare e sottosegretario di governo”.

SOS Magistrati- Gli italiani non ci amano più! Per colpa di Berlusconi...

A seguire i sondaggi non c’è solo Silvio Berlusconi. Da due anni a questa parte quelli sul gradimento sono miele per il presidente del Consiglio italiano che non perde occasione per sbandierarli anche all’estero. Sono fiele invece, quasi un incubo per l’associazione nazionale magistrati guidata da Luca Palamara. Nel direttivo centrale dell’Anm spesso quel dato del 33% di italiani che hanno ancora fiducia nella magistratura veniva citato dalla buonanima del giudice Maurizio Laudi, uno dei magistrati più critici verso la categoria di appartenenza. Quel 33% è apparso come un incubo anche nell’ultimo convegno organizzato da Magistratura democratica il 5 novembre scorso al residence di Ripetta. Lo ha ricordato anche in apertura Rita Sanlorenzo, segretario di Md, descrivendo una “magistratura delegittimata, magistratura che ha perso ormai il consenso dell’opinione pubblica, quello che la sostenne e la supportò negli anni della lotta al terrorismo, negli anni della lotta alla mafia, all’inizio di Mani pulite”. Poi la Sanlorenzo ha provato a farsi coraggio: “la misurazione del consenso è una lente di per sé ingannevole. I magistrati hanno bisogno più che di consenso, della fiducia dei cittadini”. Ma la teoria non sfonda presso i suoi colleghi. Ah i tempi di mani pulite, quando tutto il paese era con noi! Il lamento percorre la magistratura in tutte le sue componenti da mesi e si è fatto lancinante negli ultimi due anni. Facendo scattare l’allarme e cercare le contromisure. Come ha sostenuto durante uno dei direttivi centrali dell’associazione Paolo Corder. Giudice presso il tribunale di Venezia, “occorre un pacchetto di iniziative che possa ridare credibilità alla magistratura di fronte all’opinione pubblica”. E mica è il segno di una profonda autocritica all’interno della categoria. No, perché pochi magistrati pensano che questa caduta radicale di consenso nell’opinione pubblica derivi da comportamenti abnormi di colleghi. In due anni di direttivo centrale dell’Anm solo la buonanima di Laudi ha provato a buttarla lì (ad esempio nel direttivo del 26 giugno scorso a proposito delle intercettazioni disse “Oggi ci si dimentica degli abusi intervenuti in materia, sia per le intercettazioni a strascico che per la loro propalazione all’esterno, e che questi comportamenti hanno fatto sì che larga parte del paese è stufa”). Ma è stato appunto l’unico. Per tutti gli altri la caduta del consenso ha una causa sola: Berlusconi. Anche se quel nome nessuno pronuncia mai direttamente né in pubblico né in privato. La parola più gettonata fra i magistrati è “emergenza democratica”. L’ha evocata Antonio Ingroia al convegno di Md, spiegando che “si può ribaltare il corso degli eventi soltanto ), cercando di creare alleanze interne alla società con le parti più sensibili e consapevoli degli interessi in gioco”. Di “emergenza democratica” ha parlato il segretario di Unicost, Marcello Matera, al direttivo centrale Anm del 17 ottobre scorso: “l’emergenza democratica è tale da imporci di mettere per un momento da parte, in secondo piano, divergenze che ci sono fra noi. Abbiamo tutti la consapevolezza della storia, e non possiamo ignorare che questa fase storica ricorda molto, molto, molto una fase storica che ha interessato la Francia fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Quando con referendum popolare si sono abolite l’assemblea nazionale e le assemblee locali e sono state sostituite da un triconsolato e da prefetti e questori. Solo dieci anni dopo il taglio delle teste della più grande rivoluzione dell’era moderna”. Piacciono ai magistrati i riferimenti storico-letterari che aiutano a drammatizzare ulteriormente. Così al convegno Md Ciro Riviezzo, movimento per la Giustizia e membro del Csm, ha tuonato: “C’è un pensiero unico, siamo in pieno nella logica del pensiero unico. L’opinione avversa non solo viene confutata, ma viene addirittura demonizzata aprioristicamente. Viene esclusa, ritenuta pericolosa. Non dobbiamo aspettare Orwell e il 1984. Ci siamo già dentro”. Usano parole più forti dei politici di opposizione. Ragionano su come ribaltare il corso di Berlusconi e del berlusconismo ormai apertamente, senza finzioni. Francesco Vigorito, giudice del tribunale di Roma, sostiene “Oggi lo stato di diritto è in crisi. Oggi si sostiene che la politica in quanto espressione della volontà popolare sia l’unica forma di democrazia. E lo si dice oggi in una fase in cui la qualità della democrazia ha subito dei colpi perché è cambiato il punto di riferimento generale, la funzione pubblica di governo dell’economia è caduta, c’è stato il passaggio dallo stato sociale allo stato aziendale. Dobbiamo capire che fare, quali sono le vie di uscita. Una domanda che riguarda non solo la magistratura, ma l’intero mondo dell’opinione pubblica progressista. Allora dobbiamo avere più capacità organizzative, fare in modo che la società ci senta come un valore per tutti. E’ un percorso che mai come adesso è urgente compiere”. Ma non sanno come agganciare quella che chiamano “società civile progressista”, non sanno come ritrovare quel consenso popolare senza il quale la spallata diventa difficile. “La magistratura”, dice Giuseppe Santalucia, magistrato di Md alla suprema Corte di Cassazione, “magistratura si trova da un lato compressa da una maggioranza che ha voglia di semplificare il principio di maggioranza decidendo molto di più di quello che è fisiologicamente decidibile, dall’altro si trova esposta ai bisogni di risposta dei cittadini. E quindi ha la necessità di essere efficiente, e quindi necessità di contrastare una maggioranza politica che -come dire- erode spazi”. Il capo del governo, spiega Santalucia, fa ampio uso di popolismo che “critica, ma non dà una risposta, una soluzione quando amplifica la frattura fra il popolo e l’elite. E la magistratura è una delle elite che soffre di più di questa apertura di una frattura populista di una propaganda che si è sempre più rafforzata per la concentrazione dei poteri mediatici in capo a chi detiene ormai da tantissimo tempo il potere politico in Italia. Questo ci espone a una aggressione da cui è assai difficile difendersi”. Anche se la via d’uscita è “riorganizzarsi”, “ridarci efficienza, tornare a fare presa sull’opinione pubblica”, come quasi in coro hanno detto tutti i partecipanti al convegno di Md galvanizzati dalle incitazioni di Stefano Rodotà. E per iniziare ha suggerito un altro membro del Csm, Elisabetta Cesqui: “Dobbiamo combattere quel mantra che ci sta schiacciando, quel sillogismo secondo cui i giudici politicizzati sono di sinistra, per cui tutti i giudici che fanno sentenze contrarie agli interessi di qualcuno sono politicizzati, ergo sono di sinistra”.

Miss Sixty, il marchio che in una notte ha fatto il giro di Europa

Che capodanno, quello di dieci anni fa per Vittorio Hassan, il fondatore di un piccolo impero di moda per giovanissimi. Era il 31 gennaio 1998 quando l’imprenditore abruzzese vendette per un miliardo di vecchie lire a una società lussemburghese, la Fronsac investment holding, i suoi marchi principali: Miss Sixty, Sixty, Murphy & Nye, Energy Refrigiwear, Killah, Baracuta e altri. Il mattino dopo, all’alba del primo gennaio 1999 Hassan e il gruppo Sixty hanno acquistato il diritto di distribuzione di tutti i marchio che fino al giorno prima erano di loro proprietà. A vendere quel diritto è stata una società ungherese, la Pentaflash. Li aveva comprati durante la notte di Capodanno da una società olandese, la Aldrigen Trading and Licensing, che ha sua volta li aveva acquistati da una società di Madeira, la Nightingale Marketing e Commercio. Insomma, una notte da ricordare per Miss Sixty che si è fatta il giro di Europa prima di tornare a casa. Ma quel viaggio dopo dieci anni rischia di costare parecchio ad Hassan, a cui oggi l’Agenzia per le Entrate di Attilio Befera contesta una evasione fiscale di circa 50 milioni di euro negli anni proprio legata a quella rapidissima estero vestizione dei marchi così popolari fra i teen agers. Secondo il verbale della Agenzia delle Entrate infatti quel giro d’Europa è stato realizzato con un solo scopo: trasferire in paesi con forti vantaggi fiscali l’incasso delle royalties sui marchi. Ad avere messo gli ispettori del fisco italiano su quella pista per altro è stato lo stesso bilancio del gruppo Sixty del 1999, in cui vengono pagate alla società ungherese ultima titolare dei marchi 4,7 miliardi di lire di diritti di distribuzione, e cioè 5 volte quanto pochi mesi prima Hassan aveva incassato vendendo gli stessi marchi. Un’operazione che evidentemente non stava in piedi. L’Agenzia delle Entrate ha atteso una volta iniziate le prime indagini che passasse il periodo del condono fiscale a cui le società del gruppo Sixty però non hanno aderito e poi ha iniziato a procedere, pur senza arrivare a scoprire il vero azionista della società lussemburghese a cui quella notte per prima furono ceduti i marchi: era una finanziaria –schermo residente alle Bahamas che era ed è restata anomima. Il verbale di contestazione dell’Agenzia delle Entrate è arrivato nelle settimane scorse alla procura della Repubblica di Teramo (dove è stata trasferita la sede legale, un tempo a Chieti) che con l’aiuto della guardia di Finanza ha aperto un fascicolo penale iscrivendo a registro degli indagati Hassan per dichiarazione infedele (le fiamme gialle hanno escluso l’esistenza di una ipotesi di dichiarazione fraudolenta). Al di là di come procederà il contenzioso fiscale, il caso è il primo di un’offensiva lanciata dal fisco italiano nei confronti del settore del lusso e del fashion, in cui il fenomeno dell’esterovestizione dei marchi e perfino delle società di distribuzione sembra assai diffuso. Qualche preoccupazione comincia a serpeggiare anche fra i grandi gruppi della moda italiana che per altro non stanno attraversando un buon momento di mercato e sono spesso costretti a chiudere attività e ristrutturare i settori di business. Il gruppo Sixty spa ha chiuso il 2008 con un fatturato di 419 milioni di euro e un risultato negativo per 19 milioni di euro dovuto essenzialmente a partite finanziarie straordinarie e alla svalutazione di partecipate per 24 milioni di euro. Il margine operativo era infatti positivo di 18 milioni di euro, anche se in calo rispetto ai 44,8 milioni dell’anno precedente. Nel bilancio non si cita la vicenda dei marchi, ma si dà notizia di una doppia verifica fiscale da parte della Agenzia delle Entrate de l’Aquila. Una relativa al 2003 notificata a dicembre 2008 e una successiva per gli anni 2004-2007 non ancora notificata. Secondo i documenti giunti in società la contestazione riguarda imposte emerse per 21 milioni di euro. Il gruppo Sixty ha presentato istanza di autotutela e annunciato il ricorso per la contestazione notificata, ma non ha operato accantonamenti in bilancio sostenendo “prive di qualsiasi fondamento giuridico” le pretese dell’Agenzia delle Entrate, su consiglio dei consulenti fiscali prof. Giorgio De Nova e prof. Marco Piazza dello studio Biscozzi e Nobili che assistono Hassan.

C'è un pm che vuole ribaltare Berlusconi e tutto tace

Immigrati e intercettazioni telefoniche sono emergenze fittizie. “L’emergenza reale è quella democratica”. Parola di Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo che sostiene- pur senza citare un nome, che chi oggi è al governo dell’Italia ha “demolito i pilastri dello Stato”, che prima ha “assediato, poi assaltato e occupato per i suoi interessi privati”. Di più, ha favorito per interessi privati l’invasione “di spazi della politica da parte di poteri criminali che hanno penetrato le istituzioni”. Così, secondo la ricetta espressa da Ingroia a un convegno di Magistratura democratica a Roma, oggi i magistrati debbono “riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica” per “ribaltare il corso degli eventi soltanto mettendo le premesse per la nascita e la crescita una politica con la P maiuscola”. Parole forti, con passaggi ancora più clamorosi, che Ingroia ha pronunciato a Roma al residence di Ripetta davanti allo stato maggiore di Md, a due membri del Csm e a Stefano Rodotà. Il magistrato di Palermo che ha condotto l’indagine su Marcello dell’Utri sostiene che era meglio il rapporto fra politica e mafia all’epoca di Giulio Andreotti: “Nella cosiddetta prima trattativa c’era una politica che- uno Stato, diciamo così, che intrecciava i rapporti con pezzi dei poteri criminali per finalità- diciamo così, di ordine pubblico (quindi politici e non privati). Nella cosiddetta seconda trattativa lo Stato è scomparso e ci sono interessi privati che si siedono al tavolo degli interessi criminali per contrattare privatamente i rispettivi obiettivi”. Ingroia ha esordito nel silenzio generale (e con qualche applauso) spiegando che “Noi abbiamo davanti una sistematica demolizione dei pilastri dello Stato. Cioè quello che rende le cose a mio parere particolarmente drammatiche è che noi non abbiamo una politica che vuole sottoporre la magistratura sotto il controllo della politica. Oggi non abbiamo politica. E non abbiamo Stato. Cioè il ruolo di mediazione, con tutti i difetti e le accentuazioni che la politica svolse nella prima repubblica. Semplicemente non c’è più. Lo Stato e la politica sono stati oggetto prima di un assedio, poi di un assalto, di interessi privati e quindi oggi lo Stato è occupato da interessi privati, che non fanno politica, ma realizzano soltanto i propri interessi”. E ancora, scagliandosi contro le ipotesi di riforme istituzionali appena tratteggiate dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: “noi siamo oggi senza politica, ma solo in mano di interessi privati che della politica si sono impossessati. I colpi subiti dallo stato di diritto con l’accentramento del potere dell’esecutivo non sono solo finalizzati a costruire uno Stato secondo un modello diverso da quello istituzionale costruito dalla Corte Costituzionale . Si tratta semplicemente di una scelta nella quale un nucleo di interessi personali e privati ha individuato il potere l’esecutivo come quello che gli consente di fare meglio i proprio interessi. E secondo questi interessi ha modellato un nuovo modello di Stato e un nuovo modello istituzionale.” Ed ecco la ricetta del magistrato anti-Berlusconi: “Dobbiamo riuscire a ristabilire un contatto con la parte migliore della società e dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica non c’è più, perché parte di questo disegno è distruggere l’opinione pubblica, trasformandola in soggetti sui quali viene riversato il pensiero unico, la verità unica. Il dispregio dell’opinione altrui, dei fatti: trasformare tutti i fatti in opinioni, in modo che tutto sia opinabile e nulla sia vero. Di fronte a questo quadro, che fare? Avere consapevolezza che si può ribaltare il corso degli eventi…”.

Tasse, gli industriali hanno già avuto troppi sconti. Tocca alle famiglie

La stragrande maggioranza degli italiani, circa il 68% dei lavoratori dipendenti, paga più tasse oggi di tre anni fa. La stragrande maggioranza delle imprese- tutti i grandi gruppi, la maggioranza assoluta di quelli medi e perfino una percentuale consistente di quelle piccole paga meno tasse oggi di tre anni fa. Forse è da questo dato che dovrebbe partire Silvio Berlusconi e con lui il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti prima di prendere una decisione su un eventuale programma di riduzione del carico fiscale. Se urgenza c’è- dati alla mano- non è quella di una riduzione dell’Irap, ma quella di una riduzione dell’Irpef su gran parte dei redditi. Il sistema fiscale oggi in vigore sulle persone fisiche è quello disegnato da Vincenzo Visco nella finanziaria 2007, stravolgendo quell’inizio di riduzione della pressione fiscale avviato da Berlusconi e Tremonti durante la legislatura precedente. Oggi l’Irpef è quella di Visco, nonostante un anno e mezzo di governo Berlusconi. Il sistema di tassazione sulle imprese invece è stato ritoccato al ribasso prima dal governo di centro destra e poi ulteriormente da quello di centrosinistra, che non si può proprio dire sia stato avaro con le imprese e particolarmente con le grandi imprese. Tre anni fa l’aliquota base Irap era del 4,25%. Oggi è al 3,90% che si applica oltretutto su un perimetro più ristretto grazie a nuove norme sulla parziale deducibilità di interessi passivi (deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi e l’eccedenza fino al 30% del risultato operativo lordo dell’impresa) e a quelle sulla riduzione del cuneo fiscale per le imprese stabilito con la finanziaria 2008 (si può dedurre 4.600 euro per ogni lavoratore dipendente impiegato a tempo indeterminato nel periodo di imposta- e prima non era consentito farlo). Il reddito di impresa era tassato con l’Irpeg, al 34,5%. Poi è stata introdotta l’Ires, con aliquota del 33%. Oggi l’aliquota Ires è del 27,5%. La tassazione media sugli utili dei primi 25 gruppi industriali italiani era nel 2004 del 42,6%, nel 2008 è stata del 26,6%. Un lavoratore dipendente non può raccontare lo stesso percorso in discesa. Nel 2001 la maggioranza degli italiani votò Berlusconi grazie allo slogan elettorale “Meno tasse per tutti”. Ci fu l’11 settembre, poi il crack Enron, la grande depressione dei mercati azionari e l’operazione fisco leggero non fu possibile così come era stata immaginata. Quando Tremonti vi mise mano, semplificando aliquote e procedendo alla prima riduzione, perse la poltrona su pressing proprio dei sostenitori del taglio all’Irap. Era il 2004, per un po’ non si fece né un taglio né l’altro, poi uno scaglione di riduzione dell’Irpef. Il tempo di assaporare quel caffè al giorno offerto dal fisco italiano, e Berlusconi ha perso le elezioni. Al comando è salito Romano Prodi che ha varato la sua finanziaria dalle cento tasse. Alle finanze comandava il viceministro Visco, che ha stracciato la riformina Irpef di Tremonti, e l’ha rifatta a modo suo intorcigliandosi fra un errore e l’altro. Rimise cinque aliquote Irpef, cancellò il sistema vigente di deduzioni (che abbassano il reddito imponibile) e reintrodusse quello delle detrazioni (togliendo cioè direttamente dalla imposta dovuta). La sua idea era di fare pagare meno tasse ai redditi sotto i 40 mila euro e più tasse a quelli sopra quella soglia. Già alla prima prova della busta paga di gennaio 2007 gli italiani scoprirono che i calcoli erano campati in aria. Il complesso di norme Visco era neutro per i redditi fra i 20 e i 25 mila euro lordi, peggiorativo per tutti i redditi sopra quella soglia. Mancava però ancora un elemento, quello delle addizionali Irpef comunali e regionali. Il servizio Bilancio della Camera aveva per altro già messo in guardia il governo dell’epoca: attenti, perché avendo eliminato le deduzioni, anche a parità di aliquota delle addizionali, queste aumenteranno di 406 milioni di euro, perché senza deduzioni verranno calcolate su un reddito imponibile più alto. Cifra generosa quella prevista, perché in realtà nel 2007 il 75% degli enti locali ha aumentato le proprie addizionali. Risultato? Per avere un beneficio certo dalla riforma Visco i lavoratori dipendenti non avrebbero dovuto guadagnare più di 10 mila euro lordi all’anno. Fra 10 e 15 mila rispetto al 2006 la condizione era neutra o peggiorativa a seconda dei carichi familiari avuti. Sopra i 15 mila nella stragrande maggioranza dei casi i lavoratori italiani dal 2007 pagano più tasse di prima. Come reagì il governo di centro sinistra? Prima dicendo che non era vero nulla. Poi, dopo mesi, riconoscendo l’errore e promettendo “ripareremo”. Ma nulla fu fatto nella finanziaria 2008, e l’errore contribuì alla vittoria elettorale di Berlusconi. Non fu ininfluente per quel successo la promessa di ridurre la pressione fiscale. Ma dopo pochi mesi è scoppiata la crisi dei mercati finanziari. Nella finanziaria 2009 non c’è stato spazio per correggere almeno quell’errore dell’Irpef di Visco. E’ arrivato il decreto anticrisi del novembre 2008: sull’Irpef nulla, ma sull’Irap sì. E’ stato concessa la deduzione del 10 per cento dell’Irap pagata dall’Ires, sulla quota imponibile relativa agli interessi passivi e oneri assimilati (al netto degli interessi attivi) e sulla quota di spese per il personale dipendente e assimilato al netto delle deduzioni già spettanti. Sono argomenti un po’ tecnici ma il risultato è semplice: le imprese che strepitano perché si riduca l’Irap pagano già meno tasse (e hanno già ottenuto in parte quello che chiedono). Le persone fisiche che lavorano (finchè un lavoro c’è) e tacciono, ne pagano di più. Anche un bambino capirebbe dove è più urgente mettere mano per riparare a un’ingiustizia fiscale. Vogliamo aggiungere un altro elemento? Quei capitali ora rimpatriati con lo scudo fiscale a una tassazione di assoluto favore (sulla carta il 5%, ma grazie al buon marketing degli intermediari sostanzialmente allo 0%), apparterranno più a chi chiede “giù l’Irap” o a quella massa silenziosa che guadagna 15, 20, 25 o 30 mila euro lordi l’anno e a cui il fisco ha ingiustamente portato via di più promettendo l’esatto contrario? E allora, non è il caso di pensare prima di tutto all’Irpef? Meditino Berlusconi e Tremonti. Perché l’equità fiscale non può partire da un gesto in questo momento iniquo.

Tremonti e il rigore, Draghi e il rigor mortis

Se c’è un numero da non pronunciare in presenza di Giulio Tremonti è il 47. “Morto che parla”, avrebbe scherzato Totò, ma quel 47 che agita i sonni del ministro dell’Economia è tutt’altro che un fantasma. Anzi, è vivo, vivissimo nonostante i 62 anni di età. Sessantadue anni come quelli portati magnificamente da Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia che nel ’47 è nato il giorno 3 settembre. Sessantadue anni e tre mesi in più di Draghi come quel decreto luogotenenziale del 4 giugno 1947, n.408 che mai nessuno ha abrogato e che stabilì che un Governatore della Banca d’Italia poteva autosospendersi dalle funzioni per assumere provvisoriamente l’incarico di ministro o sottosegretario di Stato. Sembra preistoria: l’Italia repubblicana era ai suoi primi passi, Enrico De Nicola ancora Capo provvisorio dello Stato e quel decreto luogotenenziale- come spesso accade in Italia, era assolutamente ad personam. Tanto che fu soprannominato “decreto Einaudi”. Fu Alcide De Gasperi a volere quella norma, per convincere il Governatore di via Nazionale ad entrare nel suo IV governo. E con l’idea della autosospensione e del possibile rientro nella carica, De Gasperi ci riuscì. Luigi Einaudi divenne ministro del Tesoro e delle Finanze del suo governo e qualche mese dopo anche titolare di quel Bilancio che fu creato apposta per lui. Come stabiliva il decreto luogotenenziale mentre Einaudi provvisoriamente faceva il ministro, le funzioni di Governatore della Banca d’Italia erano trasferite al direttore generale o in caso di suo impedimento al vicedirettore generale (all’epoca ce ne era solo uno, oggi sono tre). Il direttore generale c’era- eccome- e rispondeva al nome di Donato Menichella. Divenne il facente funzioni di Governatore mentre Einaudi provvisoriamente veniva prestato alla politica e siccome in Italia provvisorietà va rima con eternità, Menichella presto si trasformò in Governatore a tutto tondo: nel maggio 1948 infatti Einaudi fu eletto presidente della Repubblica e a quel punto si dimise dalla Banca d’Italia. Storia e non preistoria, perché a turbare Tremonti è proprio il fatto che quel decreto luogotenziale sia stato tirato fuori dai polverosi archivi dall’ufficio legislativo di palazzo Chigi e inserito in una delle cartelle di documentazione destinate al presidente del Consiglio dei ministri. Silvio Berlusconi l’ha letto, ne ha fatto verificare la corrispondenza ai tempi e l’eventuale contrasto con norme successive e ha così appreso che anche oggi il Governatore della Banca d’Italia potrebbe legalmente autosospendersi e assumere un incarico da ministro. Secondo il dossier di palazzo Chigi quel decreto luogotenenziale era già stato tirato fuori dai polverosi archivi nella primavera del 2000, all’indomani delle elezioni regionali e delle dimissioni da presidente del Consiglio di Massimo D’Alema. Molte forze politiche provarono a corteggiare per finire la legislatura un impegno diretto del Governatore di Banca d’Italia dell’epoca, Antonio Fazio. E perché il pressing fosse più convincente si ritirò fuori l’ipotesi di una autosospensione provvisoria dalle funzioni con successiva reintegrazione. Non se ne fece nulla, ma i giuristi concordarono: si può fare. Berlusconi ce l’ha così chiaro che giovedì scorso, telefonando verso la mezzanotte italiana a un parlamentare del Pdl dalla dacia di Vladimir Putin che lo ospitava, ha borbottato la sua irritazione per il “caso Tremonti” e buttato là l’ipotesi di un Mario Draghi superministro dell’Economia spiegando che manco erano necessarie le dimissioni dalla Banca d’Italia perché c’è “il precedente Einaudi”. Una battuta sibilata, certo, di quelle che con i fedelissimi scappano a Berlusconi quando perde la pazienza. E che con Tremonti il premier avesse perso la pazienza è chiaro da numerose testimonianze dei fedelissimi in questi giorni. C’è anche chi lo ha sentito sbottare facendo altre soluzioni: “si sente protetto dalla Lega? Voglio vedere che dice la Lega se al posto di Tremonti io nomino un Giancarlo Giorgetti…”. Ma appunto si tratta di frasi in libertà che segnalano soprattutto la tensione che si è vissuta intorno al caso Tremonti. Berlusconi sa bene che quel rischio Italia sui titoli pubblici si correrebbe davvero sostituendo un Tremonti con un Giorgetti. Cosa che naturalmente non avverrebbe- anzi- in caso di sostituzione di Tremonti con Draghi. Berlusconi apprezza non poco Draghi, e negli ultimi tempi ripete spesso una battuta che attribuisce al Governatore: “Anche io concordo con la politica di rigore, ma se il rigore non si accompagna allo sviluppo rischia di essere solo rigor mortis”. Ma l’apprezzamento al momento non si è trasformato in un’offerta concreta ( e nemmeno in un sondaggio sulla disponibilità di Draghi), con annessa decisione di spodestare Tremonti. Il dossier Einaudi resterà lì sulla scrivania del premier pronto ad essere riaperto alla bisogna. Meglio se dopo le prossime regionali.

La lupa di Maria

C’era un rito per chi accompagnava Maria Angiolillo sulle scale di trinità dei Monti quando usciva dalla sua splendida casa, il salotto più importante di Roma. Bisognava accompagnarla nella hall dell’Hassler, l’albergo che era la sua seconda abitazione e la meta abituale per i pranzi più informali con gli amici. Il rito era accarezzare le orecchie e il muso della lupa in bronzo, copia perfetta di quella dei musei Capitolini. “Porta fortuna”, assicurava Maria. E guai a non seguirla nel gesto. E di fortuna la signora di Roma, quella alla cui tavola si sono fatti e disfatti governi, nominati direttori di giornali, chiuse guerre finanziarie, combinati grandi affari, ne ha avuta. Non ci sarà stato nessuno a portarla dalla sua lupa prima di affrontare quel piccolo intervento al Gemelli da cui non si è più ripresa. Oppure quella carezza c’è stata. E il dono è stato l’ultima fortuna: Maria Girani, vedova del fondatore del quotidiano Il Tempo di Roma, da ieri mattina ha potuto riabbracciare il suo Renato Angiolillo dopo una vita spesa in solitudine nel suo ricordo. Ogni volta che ne parlava le luccicavano ancora i grandi occhi, le mancava proprio Renato. Anche quando raccontava agli amici qualche sua birbonata di troppo, e quella volta in ospedale che da una giovane fanciulla era arrivato un mazzo di fiori freschi, con tanto di bigliettino. Volati subito dalla finestra. Se ne è andata la signora dei salotti romani, dicevano tutti ieri. E più che un salotto il suo (di proprietà di un ente pubblico) era davvero- come si dice- la terza Camera della Repubblica italiana. Anzi, qualcosa di più, perché in quella casa sono sfilate prima e seconda Repubblica, la storia dell’industria e della finanza italiana, tutte le generazioni di giornalisti e manager pubblici e privati. Diplomatici, magistrati, artisti, scrittori, musicisti. E monsignori, vescovi, cardinali. Due sere al mese organizzava le cene spesso per conoscere il nuovo potente di turno. Era curiosa, Maria. Ma anche spietata nei giudizi. Non le piacevano i due massimi protagonisti della seconda Repubblica, Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Quest’ultimo fu invitato una sera, si presentò impacciato mazzo di fiori in mano il giorno prima e Maria- che era sola in casa- andò ad aprire in vestaglia. Non glielo ha mai perdonato. Di Berlusconi non amava ostentazione ed eccessi. Le piaceva però che fosse ricchissimo, aspetto che valutava sempre nella speranza di piazzare con l’ultimo tycoon qualche amica in crisi sentimentale. Riuscire a fare coronare una storia di amore fra amici o semplici conoscenti, non trascurando l’aspetto economico, era una delle sue passioni. Come cercare di portare pace fra grandi litiganti. Non nelle celebri serate, ma in riservatissimi pranzi a casa sua invitava i nemici e li faceva sfogare. Una volta capitò con Francesco Storace e un imprenditore. “Si sentivano le urla a distanza”, raccontava lei. Ma anche quella volta il metodo Angiolillo funzionò: fecero pace. Per lustri frequentò il salotto di Maria l’uomo che incarnava la prima Repubblica: Giulio Andreotti. Ed era di casa anche Gianni Letta, con cui c’era un rapporto speciale: qualsiasi problema lei avesse (mai per se stessa. Per i suoi ospiti) chiamava Gianni e pretendeva la soluzione immediata. Se non arrivava sbuffava e insisteva, perché Maria sapeva essere allo stesso tempo dolcissima e burbera. Conosceva- anzi aveva creato- il bon ton, ma sapeva mandare a stendere con grazia ed efficacia come nessun altro al mondo. Aveva una passione per Il Tempo-perché l’aveva fondato Renato- e si coccolava come fossero figli suoi vecchi e nuovi giornalisti della testata. Era il loro migliore sindacalista. Per quello aveva una passione particolare per i giornalisti. Quello che più la corteggiava era Bruno Vespa, ma erano molti i fedelissimi del salotto. Tutti i grandi direttori sono passati da lì. Ma un rapporto particolare c’era con Ferruccio De Bortoli, Pierluigi Magnaschi, Pietro Calabrese, Cesara Buonamici, Carlo Rossella e Antonio Di Bella (che la divertiva moltissimo). Rossella e Calabrese per un po’ finirono in disgrazia: Maria era convinta fossero loro ad avvisare Umberto Pizzi delle cene mensili. Si arrabbiava delle foto ai suoi ospiti (qualcuno preferiva non fare sapere) e soprattutto dei testi che le accompagnavano sul sito Internet www.dagospia.com. (una volta scrisse che gli ospiti erano stati male per quel che avevano mangiato e lei andò su mille furie). Ogni tanto faceva qualche piazzata al povero Pizzi, ma gli voleva bene. E alla fine ha fatto pace perfino con Roberto D’Agostino. Centinaia di ospiti, pochissimi gli amici. Prima fra tutte Sandra Carraro, che la accompagnava ovunque. E poi naturalmente Francesco Caltagirone Bellavista, che la aiutava a preparare le celebri serate. Anche fra i giornalisti ne aveva due su tutti nel cuore: Stefano Folli e soprattutto Alfonso Dell’Erario. Erano come due figli per lei- Dell’Erario il prediletto, l’unico a cui lei diceva (e chissà se mai l’ha fatto)- avrebbe potuto dettare le sue memorie.

De Benedetti non è più Re Mida. E ora ha le mani bucate. Profondo rosso in Lussemburgo

Carlo De Benedetti ha perso la manina d’oro che aveva costruito negli anni gran parte della sua fama. L’uomo che sapeva cavalcare l’onda dei mercatio finanziari in qualsiasi condizione, tanto da essersi costruito la fama del rapace in grado di guadagnare sempre quando gli altri si leccavano le ferite, è finito ko nell’anno della grande crisi internazionale. Qualcosa si era già intuito nella primavera scorsa e a settembre, quando sono stati resi pubblici i bilanci 2008 e le semestrali 2009 delle due finanziarie più importanti del gruppo, Cir e Cofide. Mettendo tutto insieme però alla verità non ci si arrivava con chiarezza. E’ stato grazie alla maggiore dose di trasparenza cui è stato costretto il Lussemburgo che ha messo in rete buona parte della documentazione delle finanziarie italiane là residenti, che è emersa la sorpresa. E’ stata proprio la sua specialità principale, la speculazione finanziaria, ad avere creato la delusione principale quest’anno per De Benedetti. Fra perdite nette e svalutazioni resesi necessarie il Lussemburgo che un tempo serviva a proteggere gli utili e risparmiare un po’ di tasse, quest’anno ha scaricato sull’impero De Benedetti più di 210 milioni di euro di perdite. Non è la cifra principale, ma ha un valore simbolico che fa ben capire: l’ingegnere è rimasto incastrato anche nel crack della Lehman Brothers. Di più: nel 2008, a poche settimane dal disastro, la Cir international sa ha aumentato il valore della propria partecipazione nella Lehman brothers merchant banking partners IV l.p. di ulteriori 286 mila euro. Cifra piccola, minuscola rispetto agli oltre 101 milioni di euro persi con la lussemburghese della Cir, ma che più di ogni altra operazione segnala come sia scomparso il celebre fiuto dell’Ingegnere per gli affari. Deve avere capito poco della crisi finanziaria in atto. Non solo per le perdite che ovunque le lussemburghesi di casa hanno accumulato: 39 milioni la Ciga, un altro milione e 600 mila euro la Cofide international, poco meno di 14 milioni di euro la Cir investment affiliate. Ma è costata cara un’altra avventura finanziaria chiusa fra mille ferite in fretta e furia: quella della Oakwood Global Finance controllata da Cir imnternational e da Cir investment. Dopo le perdite accumulate con hedge funds e derivati, l’Ingegnere ha dovuto cambiare il piano finanziario e la missione della Oakwood dicendo addio ad ogni business sulla speculazione e facendola specializzare in assai più tranquilli finanziamenti con cessione del quinto dello stipendio. Ma per il dirottamento ha dovuto svalutare la partecipazione di ulteriori 54 milioni di euro “a causa dell’aggravarsi della situazione economica mondiale”. Ferite grosse anche nella Ciga Lussemburgo, e se le perdite non sono state più ingenti è perché per limitare i danni l’Ingegnere ha prima ricapitalizzato e poi apportato a patrimonio una controllata portoghese, la Cir fund Lda per non fare crollare il patrimonio netto della società. Cosa che invece è accaduta con la Cir investment, che grazie ad alcuni investimenti sbagliati e alle perdite su alcuni derivati ha visto aumentare sensibilmente l’indebitamento e quasi azzerare il patrimonio netto. Non vanno meglio le cose nei conti dell’altra finanziaria lussemburghese della famiglia, la Cofide international, dove se i guai sono stati limitati a una perdita inferiore ai due milioni di euro, è anche per il prestito di 32 milioni di euro fatto dalla capogruppo italiana e poi parzialmente rimborsato nel primo semestre 2009 (circa la metà). Senza quel salvagente qualche problema ci sarebbe stato: la crisi del mercato internazionale aveva anche prosciugato la liquidità sui conti correnti della società, mangiando circa 6 milioni di euro nel giro dell’ultimo anno. Nei bilanci delle quattro lussemburghesi ammontano a circa 6 milioni di euro complessivi le perdite dirette sui derivati. Ma sono poca cosa a fronte della robusta svalutazione delle partecipazioni effettuata da Cir international, che ha anche azzerato definitivamente il valore del controllo della Banque Dumenil Leblè sa. Per fare fronte ai problemi finanziari e coprire parte delle perdite registrate alla fine dello scorso mese di marzo la holding Cir italiana dell’Ingegnere ha dovuto erogare alla cugine lussemburghese un finanziamento del valore di 130 milioni di euro. Complessivamente le perdite lussemburghesi dell’ingegnere accumulate negli anni ammontano a 419,4 milioni di euro e non sono state contabilizzate ai fini impositivi perché “non sussistono al momento condizioni che possano confortare sulla certezza della loro recuperabilità”. Si potrebbe sempre fare una causa in Lussemburgo per perdita di chance...

E chi mai abolisce il lodo D'Alema, Latorre, Bindi, Casini?

All’indomani della bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta Massimo D’Alema ha sospirato come fa chi mastica di legge e certe cose le ha sempre capite: “La sentenza ripara ad un vulnus che era evidente nella legge: la lesione del principio di uguaglianza fra tutti i cittadini”. Certo che il leader ombra del Pd la sapeva lunga: sono anni che lo ripete. Lo disse sei anni fa quando si affacciò in Parlamento il lodo Maccanico. Lo aveva ripetuto qualche mese dopo quando quel testo si trasformò in Lodo Schifani: “è incostituzionale. Viola il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. Chissà se D’Alema ha mai letto le carte del mini processo che gli ha fatto il 3 novembre 2008 la commissione giuridica del Parlamento europeo guidata da Klaus- Hiener Lehne. Processo fortunato, perché di fronte alle pretese del tribunale di Milano che chiedeva l’autorizzazione a procedere per utilizzare le intercettazioni telefoniche D’Alema-Consorte nell’inchiesta sui furbetti del quartierino, la sentenza è stata la rigorosa applicazione del “lodo-Strasburgo”: a quel paese i giudici, non si toglie l’immunità a D’Alema. Ma se il leader del Pd avesse letto quelle carte, sarebbe trasalito: perché per non mandarlo in pasto ai giudici come un qualsiasi cittadino italiano, i suoi colleghi di Strasburgo hanno fatto riferimento ai privilegi concessi da una legge italiana: la legge 20 giugno 2003, n. 140. E sapete come si chiama in altro modo quella legge? Lodo Schifani. Perché al suo interno stabiliva privilegi per la alte cariche dello Stato (e le norme sono state bocciate dalla Corte suprema), ma anche privilegi per tutti gli altri eletti, e grazie a quelli si è salvato D’Alema. Tutti uguali davanti alla legge? Certo- e per le proteste del Pdl dopo la bocciatura del lodo Alfano è insorta anche Rosy Bindi, protagonista di uno scontro televisivo al fulmicotone con Silvio Berlusconi. La Bindi proprio ieri ha assicurato che mai e poi mai il Pd avrebbe voluto reintrodurre la piena immunità parlamentare: se no si viola il principio di uguaglianza di tutti i cittadini. Non parlava naturalmente di se stessa. Non era cittadina, ma ministro della Repubblica quando il 6 aprile 1998 ha goduto del celebre “lodo Montecitorio”. Un giudice screanzato della procura di Napoli la voleva mettere sotto processo al tribunale dei ministri per falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e abuso di ufficio per avere gestito con una certa allegria le nomine all’istituto Fondazione senatore Pascale di Napoli da ministro della Sanità. Che disse la Rosy all’epoca: “indaghi pure signor giudice, come farebbe per qualsiasi cittadino?” Manco per sogno, invocò e ottenne l’immunità parlamentare. E la Camera la sottrasse alla giustizia. Per la stessa vicenda di D’Alema (inchiesta furbetti del quartierino) erano coinvolti altri due suoi colleghi di partito. Piero Fassino, che disse ai giudici “indagate pure, non ho nulla da nascondere” e chiese ed ottenne da Montecitorio il via libera. E Nicola Latorre che invece ha goduto dello scudo del “lodo palazzo Madama”: il Senato il 27 marzo 2009 ha mandato a stendere i magistrati milanesi perfino tirando loro le orecchie con una reprimenda identica al comunicato del Pdl dopo la bocciatura del lodo Alfano: “avete violato il principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato”. Qualche anno prima avevano utilizzato il rassicurante “lodo Montecitorio” altri due deputati del Pd, convinti evidentemente che quando la giustizia lambisce la propria vita meglio lasciare perdere i grandi principi e mettersi al riparo di un bello scudo. Lo ha utilizzato il 18 dicembre 1998 Salvatore Margiotta, coinvolto nell’inchiesta della procura di Potenza sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. Persone intercettate con lui al telefono furono arrestate, e le accuse erano pesanti: associazioni per delinquere, concorso in turbativa di asta e corruzione. Ma lui non fu gettato in pasto ai giudici. Tre anni dopo- era il 25 luglio 2001- stessa fortuna per Riccardo Marone: il tribunale di Napoli voleva sospenderlo dai pubblici uffici con l’accusa di concorso in abuso di ufficio, in falso ideologico aggravato e continuato e in truffa aggravata. Ma i suoi colleghi alla Camera gli hanno fatto scudo, e i magistrati sono rimasti a bocca asciutta. Anche gli Udc grazie ai lodi Parlamentari si sono evitati bei guai con la giustizia. E’ accaduto al ligure Vittorio Adolfo, che è sfuggito al tribunale di Sanremo (ipotesi di reato corruzione propria continuata, turbata libertà degli incanti e truffa). Come lui si è salvato Michele Ranieli (concorso in concussione con l’ex direttore generale della Asl locale) protetto dai giudici di Vibo Valentia. E’ andata peggio all’abruzzese Remo di Giandomenico. Accusato di corruzione e concussione, è stato salvato dal lodo Montecitorio nel febbraio 2006. Ma la legislatura è finita lì. E Pierferdinando Casini non ricandidandolo ne ha segnato il destino: qualche settimana dopo è stato comunque arrestato dalla procura di Larino. Anche Antonio Di Pietro non è stato uguale come tutti di fronte alla legge. Davanti a un suo collega- il giudice Filippo Verde- che voleva da lui 210 mila euro, è fuggito chiedendo il lodo Strasburgo: immunità da parlamentare europeo. Uan volta ottenuto, la beffa: Di Pietro ha ammesso che aveva pure ragione il giudice Verde. Lo aveva accusato di avere trafficato con il lodo Mondadori e lui non c’entrava nulla. Tutta colpa di un “copia e incolla” sbagliato. L’avesse fatto con lui uno qualsiasi dei giornalisti italiani oggi dovrebbe vendersi casa per ripagargli il danno. Ma appunto, un giornalista è solo un giornalista. Di Pietro appartiene a una casta superiore. E – dimenticavamo- naturalmente “tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”.

Berlusconi compra casa vicino alla tomba di Nerone- E a Macherio cintura Veronica

Forse è stato il suo ultimo regalo di Natale. Il 5 dicembre 2008 Silvio Berlusconi ha fatto staccare dai suoi manager della Immobiliare Idra un assegno da 300 mila euro, destinato al comune di Macherio. Una bella cifra che serviva a convincere il sindaco della piccola cittadina a sollevare il Cavaliere da un vecchio impegno: costruire sul terreno di fronte alla villa dove abita Veronica Lario un piccolo complesso da affidare in gestione al comune per la “realizzazione di iniziative culturali quali mostre, dibattiti e convegni” con “almeno 10 iniziative nel corso di ciascun anno solare”. Certo, la signora Lario in Berlusconi ha sempre amato la cultura, ma avere i convegni di fronte alla porta di casa probabilmente non sarebbe stato il massimo della vita. E quasi certamente il livello delle iniziative a Macherio non ambitissimo. Così- per l’ultima volta-pochi giorni prima del Natale Silvio ha fatto il suo regalo a Veronica: con l’indennizzo da 300 mila euro davanti a casa solo verde e tranquillità. Apprezzato o meno che fosse quel dono, il clima fra i due coniugi si sarebbe presto guastato fino alla frana dell’aprile scorso, quando esploso il caso Noemi è arrivata la richiesta di divorzio di Veronica. E che il clima fra i coniugi fosse radicalmente cambiato l’han capito a chiare lettere il 28 agosto scorso gli amministratori del comune di Macherio. Che si sono visti parare davanti gli amministratori della stessa Idra immobiliare di Berlusconi, che è proprietaria delle tre grandi ville di Silvio: quella di Macherio, quella di Arcore e villa Certosa a Porto Rotondo. “Vi ricordate quei terreni vicino alla casa di Veronica? Beh, si potrebbe fare altro”. E così hanno ceduto alla piccola comunità gratuitamente il diritto di realizzare proprio intorno alla villa della ex signora Berlusconi “una pista ciclopedonale” fra via Lambro e la recinzione della villa. Se prima il rischio era di avere un po’ di confusione davanti alla porta di casa una decina di volte l’anno, ora tutti i cittadini potranno pedalare ogni giorno davanti a villa Veronica sbirciando incuriositi. La povera ex first lady potrà però rifugiarsi durante la costruzione negli altri suoi possedimenti personali (li ha comprati lei attraverso la Finanziaria il Poggio), come la casa di Londra a Kensigton o quella di New York a due isolati dalla Quinta strada. O magari andare a fare visita a mamma Flora Bartolini (questo il vero cognome di Veronica, che fu battezzata Miriam) nella splendida villa Erminia che l’anziana signora ha acquistato nel marzo scorso dal Gruppo Beni immobili di Brescia a Sirmione, sulle rive del lago di Garda. Ma anche Silvio ha nel frattempo arricchito il proprio patrimonio immobiliare. Proprio quando stava esplodendo la vicenda Noemi, il 30 aprile scorso, il presidente del Consiglio aveva mandato i manager di una sua altra società, la Immobiliare due ville, a fermare un appartamento in un discreto complesso immobiliare immerso nel verde a poche centinaia di metri dalla via Cassia a Roma. Un diritto di opzione che il premier ha esercitato il 23 settembre scorso, mentre attendeva con qualche nervosimo il responso della Corte costituzionale sul lodo Alfano. Top secret il costo della transazione, ma si sa che si tratta di un piano intero in una piccola palazzina a due passi dalla tomba dell’imperatore romano Nerone, nell’omonima traversa della via Cassia. Nell’acquiostgo è stato compreso anche il garage e una vasta cantina. Nell’atto di vendita solo l’indicazione sul trasferimento che si effettua “a corpo nello stato di fatto in cui gli immobili attualmente si trovano, con ogni diritto, accessione, pertinenza, servitù e comunione, compresi i proporzionali diritti di comproprietà sulle parti comuni della palazzina quali risultano dalla legge e dal regolamento condominiale”. I lavori di ristrutturazione della residenza immersa in un verde spettacolare inizieranno nelle prossime settimane, ma non è detto che l’appartamento verrà utilizzato dal presidente del Consiglio. Spesso dopo averli acquistati nelle capitale (ne ha una decina), Berlusconi li cede in uso gratuito ai suoi più stretti collaboratori. E’ stata comunque una estate intensa sotto il profilo immobiliare per Silvio. Ad Arcore, proprio di fronte a villa San Martino, nel cuore di agosto ha chiuso un accordo commerciale con Enel distribuzione, affittando una porzione di terreno vicino alla sua abitazione principale per costruirvi una piccola centralina elettrica destinata a servire buona parte degli abitanti del paese. Questa volta però non è gratis, e anche se è stgato tenuto riservato l’importo, Berlusconi ha stipulato un vero e proprio contratto di affitto annuale con il colosso dell’energia italiana guidato da Fulvio Conti e governato dal suo azionista principale, quel ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti. Novità anche in Sardegna, dove il cavaliere è finalmente riuscito a mettere fine a una lite annosa con la propria vicina di casa, la signora Maristella Cipriani. Che i due avessero finalmente fumato il calumet della pace è apparso chiaro a tutti nel maggio scorso, quando Berlusconi candidò la Cipriani nelle liste del Pdl al Parlamento europeo. Avventura che non andò a buon fine (non è stata eletta), e che provò poi a sanare mettendo una buona parola con il neo presidente della provincia di Milano, Guido Podestà, per inserire la Cipriani in qualche assessorato. An che qui un buco nell’acqua. Ma la pace si è concretizzata in altro modo. Già a maggio in un preliminare di acquisto firmato insieme alla proposta della candidatura Berlusconi si è impegnato ad acquistare dalla Cipriani quei terreni di confine utilizzati per la vigilanza armata a tutela della sicurezza del premier che tante liti avevano causato in questi anni. La promessa è stata poi rispettata il 14 agosto scorso, con una piccola sorpresa. Non solo Berlusconi ha pagato alla Cipriani il disturbo arrecato con l’acquisto di quei terreni, ma ha pure aggiunto in dono alla signora altri terreni della Idra a titolo di compensazione. Impegnandosi pure a non piazzare più vicino a casa Cipriani “apparecchiature e impianti rumorosi che rechino disturbo alla limitrofa proprietà a rimuovere quelli attualmente esistenti allo scopo di rendere meno fastidiosi i rumori e possibilmente eliminarli del tutto”. In cambio la signora ha ritirato tutte le cause civili e amministrative nei confronti del premier.

Quei parrucconi costano 50 milioni

Giovedì all’ora di pranzo, a poche centinaia di metri dal Quirinale, un uomo grande e grosso dai capelli bianchissimi e con baffi grigio scuro in gran contrasto, si stava facendo piccolo piccolo in una piazzetta della capitale sotto il peso di voluminosi bagagli davanti a una donna assai più minuta. Lei, sguardo furioso sotto un paio di grandi occhiali, agitava la mano nell’aria quasi minacciando l’uomo che riprendeva a grandi gesti, forse irritata anche dall’attesa. Quell’uomo che annuiva con la testa cercando di calmare la moglie era Giuseppe Tesauro, giudice della Corte costituzionale. E forse in quel momento avrebbe voluto trovarsi davanti Silvio Berlusconi piuttosto che la madre dei suoi tre figli. La scenata sarebbe stata meno plateale. Per fortuna dopo pochi minuti è sbucato dal traffico l’autista, sollevando i coniugi Tesauro dal peso dei bagagli e riportando apparentemente la calma in famiglia. Chissà se l’autista sapeva di avere davanti a sé non solo uno dei protagonisti del momento, un giudice che con il suo no aveva appena bocciato il lodo Alfano infiammando la politica italiana. Ma un’uomo d’oro, che vale 3,5 milioni di euro. Sì, perché quella è la cifra che ogni anno gli italiani spendono per mantenere Tesauro come ogni altro giudice della Corte costituzionale. Tre milioni e mezzo, il costo record di una carica istituzionale in Italia. In quella cifra c’è lo stipendio di un giudice costituzionale (tutt’altro che disprezzabile: 552 mila euro l’anno), quello del suo staff e della intera macchina organizzativa per assicurare il funzionamento della suprema corte. E’ più del doppio di quanto costa ogni senatore della Repubblica italiana, inclusi quelli nominati a vita: 1,6 milioni di euro all’anno. E due volte e mezza il costo di un deputato: 1,5 milioni. La Corte Costituzionale è in proporzione alle sue dimensioni l’organo più costoso della Repubblica italiana, anche se dovrebbe essere il contrario. Il suo compito infatti è esaminare le leggi, talvolta cassarle, altre volte approvarle, ma in moltissimi casi costringere il potere legislativo a modificarle, facendo semmai lievitare i costi di Camera e Senato costrette a ripetere tutto l’iter da capo. E’ accaduto decine e decine di volte negli ultimi anni. Con una sorta di miracolo matematico: a lavorare di più grazie alle decisioni della Corte sono stati i parlamentari, ma a lievitare più di tutti sono stati proprio i costi dei giudizi costituzionali. Oggi il funzionamento della Corte costituzionale, secondo il bilancio di previsione dell’istituzione e anche secondo il recentissimo disegno di legge di assestamento dei conti pubblici costa agli italiani 52,7 milioni di euro. In assoluto più del doppio di un altro organo a rilevanza costituzionale come il Consiglio superiore della Magistratura. Ma è una cifra record anche per gli incrementi. Nell’ultimo anno la dotazione pubblica è cresciuta del 12,82%, e non c’è proprio paragone con l’aumento della dotazione di tutti gli altri organi di pari rango. Camera, Senato e Quirinale hanno cresciuto le loro dotazioni nei limiti dell’inflazione programmata, e cioè dell’1,50%. Csm, Consiglio di Stato, Tar, Corte dei Conti e Cnel hanno visto invece ridurre le proprie spese talvolta anche in maniera considerevole nell’anno della grande crisi finanziaria. A crescere un po’ di più è stato solo l’assegno personale del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, passato dai 226.561 euro del 2008 agli attuali 235.171 euro, con un aumento del 3,80%. Crescita comunque assai inferiore a quella della dotazione dei giudizi costituzionali. La spesa per fare funzionare la Corte suprema è lievitata in questi anni al pari delle polemiche anche roventi che hanno accompagnato le sue decisioni. Basti pensare che nel 2001 lo stesso organismo era costato 33,5 milioni di euro. In sette anni l’aumento è stato del 57,21 per cento. E l’unica crescita simile fra gli organi costituzionali o a rilevanza costituzionale è stata quella della spesa per il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura: era di 18,9 milioni di euro nel 2001, è di 29,6 milioni di euro nel 2009, con un aumento percentuale del 56,7%. Sono cari evidentemente i giudici, perché una istituzione al centro delle polemiche di questi anni sulla casta, come la Camera dei deputati, ha visto lievitare le spese per il proprio funzionamento del 32,39 per cento. Più dell’inflazione reale, ma quasi la metà di quel che è avvenuto con i giudici. E sono proprio i supremi magistrati a rappresentare in proporzione il capitolo di spesa più cresciuto e rilevante anche rispetto al bilancio della stessa Corte costituzionale. Per i loro stipendi nel 2009 se ne sono andati 8,2 milioni di euro, di cui 6,6 solo di retribuzione. Per le loro pensioni altri 4,7 milioni di euro (per un importo medio di 263.888 euro annui). Quasi un quarto del bilancio della Corte se ne va per le esigenze dei giudizi costituzionali, un’altra metà per le spese dei 359 assunti o incaricati a termine che dovrebbero supportare le decisioni degli altissimi magistrati. La maggiore parte di loro- 216- sono di ruolo, 65 sono comandati, per la sicurezza sono distaccati lì altri 49 carabinieri e 3 vigili del fuoco, 5 sono con contratto a termine e 21 consulenti con incarichi conferiti la cui spesa è quasi raddoppiata nell’ultimo triennio. Lavoreranno tanto gli altissimi magistrati, ma quest’anno prima del lodo Alfano devono essere stati impegnati soprattutto fuori dalla Corte: la spesa per convegni, congressi e cerimonie è infatti quasi triplicata passando da 82 mila a 215 mila euro. Cresciuta notevolmente (forse legata proprio alla convegnistica) la spesa per l’insegnamento interno di lingue straniere: da 17.500 a 24 mila euro. Ma i corsi non devono avere prodotto grandi risultati, visto che contemporaneamente è raddoppiata la spesa per traduttori e interpreti: da 16 mila a 32 mila euro.

Ma quale scandalo! Tutti hanno infilzato a modo loro la Corte Costituzionale

Il Francesco Rutelli che ieri invitava alla moderazione ammonendo “'E' il momento di tenere i nervi saldi: ciascuno rispetti le decisioni che vengono prese dalle istituzioni della Repubblica” deve essersi dimenticato del Rutelli Francesco che il 13 settembre 1984 sostava davanti alla sede della Corte Costituzionale coperto da cartelli e urlando “Via i piduisti dalla Corte!”. E si chiamava sempre Francesco Rutelli il capogruppo dell’allora partito radicale che un paio di anni dopo tuonava contro “l’ennesima gravissima prevaricazione partitocratica della Corte Costituzionale” che non gli aveva ammesso i referendum anti-caccia a lui così cari. Parolone grosse che hanno fatto la storia dei radicali, oggi costola (o meglio costoletta) del Partito democratico nelle cui fila è stato eletto un manipolo di parlamentari. Marco Pannella ha apostrofato lungo gli anni i giudici della Corte come esponenti della “partitocrazia”, addirittura “golpisti”. E divenuto un po’ più anziano ha moderato i toni (1999): “Non credo che la Corte abbia un' etica nè un' economia giuridico-costituzionale.Vota in base agli affaracci suoi, che in genere sono ignobilmente politici…”. Radicali ed ex radicali hanno sempre spinto sui toni, e via via nessuno si è più scandalizzato. Ma la critica anche accesa delle sentenze della Consulta è una costante anche nel centrosinistra che in queste ore veste i panni dell’indignato speciale di fronte alla rabbia del centrodestra. Mica tanto tempo fa… Era il 9 luglio scorso quando la Corte decise di annullare un rinvio a giudizio di Altero Matteoli per una vicenda di abusi edilizi a Livorno. Chi ci aveva costruito una mezza campagna politica contro ammutolì. Il pd Lanfranco Tenaglia- già ministro ombra della giustizia sotto la guida di Walter Veltroni- la giudica “sorprendente. Non si possono allargare in questo modo le prerogative ministeriali”. Antonio Di Pietro come sempre un po’ più duro: “Una decisione che fa insorgere. Ancora una volta vale il principio per cui la casta la farà sempre franca al contrario dei poveri cristi”. Pochi mesi prima si irritava per una sentenza della Corte sulla defenestrazione dalla Rai del consigliere Angelo Maria Petroni il responsabile Pd dell’informazione, Fabrizio Morri “mi sembra incredibile”. Ma poi si consolava. “ma non esulti il Pdl, mica da ragione a loro fino in fondo”. Le sentenze della Corte fanno infuriare, altro che silenzio, quando deludono le attese di un fronte politico. Proprio quell’Udc che oggi invita a non commentare la decisione sul Lodo Alfano, quando la Corte ha deciso sulla procreazione assistita in modo difforme alle attese, non è stata tenera. Il suo presidente, Rocco Buttiglione (2 aprile 2009), tuonò “Credo sia ora che qualcuno dica che la Corte sbaglia, ed è culturalmente vecchia. Invade competenze degli organi elettivi, invece di attenersi a un orientamento di self restraint”. Colpi di fioretto certo, da professore. Ma poi la considerazione non è tanto diversa da quella di Silvio Berlusconi sulla bocciatura del lodo Alfano. Per altro quando su temi simili la Consulta un anno prima aveva deciso in senso opposto cassando un provvedimento del governo Prodi, era insorto un altro radicale finito nel centro sinistra, Maurizio Turco. Tuonando: “Non so se arrivare ad evocare un nuovo golpe bianco della Consulta, ma certo posso richiamare le tante volte che nel giudicare l' ammissibilita' del referendum la Consulta è venuta meno ai propri doveri e si è data dei diritti che non aveva, stravolgendo il nostro sistema e sostituendosi al potere legislativo come fa con questa sentenza'' Anche i magistrati talvolta si sono fatti prendere la mano dopo una decisione non gradita della Corte. Se ieri tutti se la ridevano sotto i baffi a Milano procedendo impettiti per i corridoi di palazzo di giustizia, qualche mese prima, all’indomani di una decisione sgradita sul caso Abu Omar, i due pm milanesi Armando Spataro e Fernando Pomarici accusavano la Consulta di politicizzazione: “si sono appiattiti sul governo”. E meglio avrebbero detto “sui governi”, perché le tesi accolte erano quelle di due esecutivi, quello a guida Berlusconi e quello guidato da Romano Prodi. E così continuavano: “''Pur giudicando un fatto illecito il sequestro, condividendo l'opinione del parlamento europeo esclude che si tratti di fatto eversivo dell'ordine costituzionale, perchè è un fatto che è avvenuto una sola volta. Quante volte deve accadere perchè diventi un fatto eversivo dell'ordine costituzionale?”. Un anno prima- eravamo nel luglio 2007- la sola decisione della Consulta di esaminare la sospensione del giudizio della Corte dei conti della Sardegna sul bilancio della Regione aveva scatenato l’allora presidente Pd Renato Soru: “E’ solo un attacco politico nei miei confronti, frutto della volontà di protagonismo eccessiva dei magistrati”. Soru è l’editore della stessa Unità che il giorno della firma del lodo Alfano attaccò frontalmente Giorgio Napolitano. Cose consentite, solo se il fuoco è amico.

Berlusconi non è un cittadino normale. Con tutte quelle cause è più pericoloso di Totò Riina e Al Capone

Ci sono numeri che parlano da soli. Centonove processi, 2.500 udienze, 530 perquisizioni e acquisizioni di documenti da parte della Guardia di Finanza. Oltre duecentomilioni di euro spesi per la propria difesa. Questi numeri non raccontano la storia giudiziaria di Totò Riina e della cupola della mafia. Sono la fotografia dell’assedio giudiziario a Silvio Berlusconi fra il 1994 ed oggi. Non esiste un paragone possibile nella storia giudiziaria di Italia. Non esiste un cittadino finito come l’attuale presidente del Consiglio nel mirino della magistratura. E non è solo storia italiana: a 102 processi non sono stati sottoposti né i criminali nazisti né Al Capone. Ecco a cosa serviva il lodo Alfano: a rendere- almeno per un po’ di tempo- il cittadino Berlusconi un po’ più simile a tutti gli altri cittadini italiani. Per altro c’è una sola indagine sulle 109 che hanno coinvolto Berlusconi legata alla sua attività politica: quella sulla presunta compravendita dei senatori nel 2007 per fare cadere il governo di Romano Prodi. Quella indagine si è fermata in udienza preliminare proprio per il lodo Alfano. E ha danneggiato Berlusconi, perché forse per la prima volta la stessa pubblica accusa aveva chiesto l’archiviazione della pratica, non ravvisandone alcun fondamento. Gli altri 108 procedimenti sono relativi all’imprenditore Berlusconi, al ruolo da lui ricoperto in Fininvest. La maggiore parte è nata durante Mani pulite, quando molti imprenditori sono finiti nel mirino della magistratura. Accadde a Cesare Romiti in Fiat (ed era un manager operativo), a Carlo De Benedetti, a Salvatore Ligresti, a decine e decine di costruttori e imprenditori. Qualcuno fu indagato, qualcuno altro arrestato. De Benedetti trascorse qualche ora- il tempo necessario per un lungo interrogatorio- nel carcere di Regina Coeli dove fu portato dopo qualche giorno di latitanza. A Raul Gardini costò la vita, distrutto dal timore di un arresto dopo essere stato distrutto come imprenditore da altri poteri forti dell’epoca (in testa Enrico Cuccia e la sua Mediobanca) che gli avevano sfilato il secondo gruppo industriale e finanziario del paese. Ma in tutti gli altri non si ricorda un accanimento giudiziario paragonabile a quello subito dall’imprenditore Berlusconi. Che a differenza degli altri il Cavaliere sia sceso in politica non dovrebbe pesare nulla per magistrati che hanno il solo compito di accertare i fatti ed individuare possibili reati. Se si confrontano i fascicoli giudiziari di tutti i grandi imprenditori dell’epoca, non c’è paragone possibile. La maggiore parte dei procedimenti avviati nei confronti di Berlusconi per altro si basa su uno dei teoremi classici di Mani pulite: non poteva non sapere. Anche quando singoli reati compiuti all’interno del gruppo Fininvest sono stati accertati, non si è trovata prova diretta di un coinvolgimento di chi ne era prima presidente e poi solo azionista di maggioranza. Quell’apodittico “Non poteva non sapere” fu invece scartato per altri grandi protagonisti dell’impresa pubblica e privata dell’epoca. Due esempi su tutti: il gruppo Fiat dove la magistratura non osò mai coinvolgere l’avvocato Gianni Agnelli nelle numerose inchieste che portarono ad indagare e processare numeri due e tre come Romiti e Francesco Paolo Mattioli. E il gruppo Iri, dove le inchieste portarono via a carrettate manager di lungo corso, sostenendo che ovunque si pagavano tangenti, e l’unico ad esserne all’oscuro era il presidente dell’epoca, Romano Prodi. Il futuro capo dell’Ulivo incappò una sola notte in un faccia a faccia con Antonio Di Pietro, di cui non uscì mai verbale. Qualcuno nei corridoi ascoltò le grida dei pm, e non se ne seppe più nulla. Lì tutto terminò. Centonove procedimenti che spesso nascono l’uno dalle ceneri dell’altro. Quando si teme la prescrizione, le procure definiscono nuove ipotesi di reato sugli stessi identici fatti. La vicenda dei diritti televisivi pagati da Fininvest alle major all’estero ne ha già generato almeno una decina. L’ultimo procedimento è ancora in culla, e tramontate decine di altre ipotesi, è stato rivelato alla vigilia della decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano: gli stessi fatti già non accertati (in regolari processi senza scudo penale) negli anni 2004-2007 oggi si sono trasformati in una fantomatica accusa di appropriazione indebita. Non ancora formulata “per non fare pressioni sulla Corte”.

Dalla Rai a Della Valle tutti incappati nel cracl Lehman

La lista è lunghissima, gli importi spesso a sei cifre- anche se in dollari. E’ un piccolo esercito quello degli italiani in fila con il cappello in mano per il fallimento della Lehman Brothers. Sono in tutto 678 quelli che entro la tgerza settimana di settembre hanno presentato domanda di risarcimento diretta o indiretta ai curatori fallimentari della banca americana che ha suonato il gong per la crisi finanziaria internazionale. Ci sono società, singole persone, manager e dipendenti della filiale italiana della Lehman. Quasi tutte le banche italiane, Banca Intesa, Monte dei Paschi, Unicredit, Ubi , Mediobanca e Banca popolare di Milano in testa. Lo Stato, in primis il ministero dell’Economia e le sue società controllate. Praticamente tutti i grandi gruppi imprenditoriali italiani: Fiat, De Benedetti, Berlusconi, Benetton, Ligresti, Pesenti, Telecom Italia, Ferrero, De Longhi, Della Valle e decine di altri. Il record ce l’ha il ramo italiano della Zurich life, con 194 milioni di dollari di crediti verso Lehman. Ma non scherzano nemmeno la Cassa depositi e prestiti con i suoi 133 milioni, Carimonte con 113 e Telecom Italia con 68 milioni. E’ già un caso politico l’esposizione della Regione Marche che chiede al fallimento 72,4 milioni di dollari dopo avere assicurato all’indomani del crack di avere una esposizione ridicola e rischiare al massimo due milioni di euro. E’ in buona compagnia, perché nella lista dei creditori ci sono anche altre due regioni, il Lazio e la Sicilia, che hanno presentato domanda tenendo riservato l’importo richiesto. Con una cifra non particolarmente alta, 526 mila dollari, c’è anche la Rai che è stata fra le prime società italiane a insinuarsi nel fallimento già nel gennaio 2009. A suscitare qualche perplessità più che l’importo è la documentazione allegata. A parte una lettera per rivendicare il dovujto firmata dal direttore degli affari legali dell’azienda di viale Mazzini, Rubens Esposito, una tabella elenca le 21 operazioni intercorse fra la tv pubblica italiana finanziata dal canone di tutti i cittadini e la Lehman brothers: alcune (11) riguardano finanziamenti- anche derivati- alla capogruppo, altre (10) la controllata Rai cinema. E’ quasi andata bene alla fine se sui 56 e oltre milioni di dollari di rapporti con Lehman Rai rischia di rimetterci solo una mezza milionata. Certo, anche personaggi che con la finanza ci sanno fare da una vita si sono bruciati le dita con Lehman. Ci è cascato Carlo De Benedetti con la sua Cir International sa, qualche guaio hanno subito perfino i suoi banchieri e commercialisti di fiducia, quei Segre che controllano la Bim di Torino. Fra le persone fisiche la più famosa ad avere presentato il conto è Andrea Della Valle- fratello di Diego e presidente uscente della Fiorentina- che con Lehman ha rimesso 3,5 milioni di dollari di investimenti personali. Mancano all’appello delle sue tasche sei strumenti finanziari sottoscritti fra il 2003 e il 2008, l’ultimo proprio alla vigilia del naufragio della banca americana. Ma anche questo non è un caso isolato. E d’altra parte al tribunale fallimentare di Milano la Lehman era stata inserita nel novembre 2007 dal presidente della sezione, Bartolomeo Quatraro, fra le società che potevano offrire i loro servizi ai creditori. Titoli e strumenti finanziari erano ritenuti dagli esperti altamente affidabili e quasi privi di rischio. Nell’elenco c’è più di un singolo investitore italiano che allega anche la lettera-beffa (una è di Banca Aletti, che ci ha rimesso non poco del suo) che all’improvviso comunicava al cliente che milioni di risparmi erano passati a valutazione di alto rischio. La settimana dopo quei soldi erano semplicemente svaniti insieme alle casse che i dipendenti della Lehman portavano in strada. Un capitolo a parte meritano le richieste di risarcimento presentate dagli stessi top manager e dirigenti del gruppo Lehman. In un un lungo elenco di poveri dipendenti che reclamano il dovuto: liquidazione e pagamento degli ultimi stipendi,. Svettano i 15 milioni di dollari chiesti da Ruggero Magnoni e le decine e decine di milioni vantati come crediti dai suoi colleghi. Vogliono perfino il pagamento dei bonus legati a maxi-operazioni con cui hanno piazzato derivati a banche, società ed enti pubblici in Italia. Bonus per avere messo nei guai più di un ente locale del loro paese.

Quel giudice ha buon cuore: fa uno sconto di 200 milioni a Berlusconi. Senza motivo

Ci sono almeno 26 pagine di troppo nelle 146 scritte dal giudice monocratico Raimondo Mesiano per condannare la Fininvest di Silvio Berlusconi a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 749 milioni di euro per avere perso la chance di nominare oltre a quello del L’Espresso anche il direttore di Panorama. Sono di troppo perché sono ripetute due volte. La prima quando si spiegano le richieste dell’Ingegnere. La seconda volta quando ascoltate le parti il giudice monocratico spiega che cosa ha deciso e perché lo ha fatto. La tesi di una parte è diventata sentenza. E’ qui il tallone di Achille principale di questo processo che ha portato fra mille polemiche al più grande risarcimento mai concesso da un tribunale italiano. E’ un po’ come se in un processo penale il tribunale facesse copia e incolla della requisitoria del pm trasformandola in sentenza. Certo, può accadere ed è accaduto, quando nelle aule di giustizia il diritto alla difesa, l’escussione di testi, le eccezioni, i fatti nuovi, i contesti, le controprove a nulla servono perché ci si è innamorati della tesi dell’accusa. In quei casi però se il pm chiede dieci anni di carcere, il tribunale dieci ne commina. Nel caso della sentenza per il risarcimento sul cosiddetto lodo Mondadori quel che non si capisce allora è proprio la pena finale. Il giudice Mesiano (che pure deve essere andato di fretta: in più pagine della sentenza sbaglia perfino il nome della casa editrice, chiamata “Mondatori”) non ne passa una agli avvocati della Fininvest. Spiega che la sentenza di corte d’appello che diede torto a De Benedetti costringendolo poi a trattare con Berlusconi la spartizione della grande Mondadori (aveva in pancia pure Espresso e Repubblica) fu solo effetto di corruzione del giudice che presiedeva un collegio, Vittorio Metta. Affermazione apodittica, che reinterpreta perfino il processo penale di cui manco si sono acquisite integralmente le carte. Corrotto il giudice, corrotta la sua sentenza che cassava il celebre lodo che avrebbe consegnato la Mondadori a De Benedetti. Ma se quel giudizio fu carta straccia- come sostiene il giudice Mesiano- perché mai concedere alla Cir solo il risarcimento per avere perso la chance di nominare insieme i direttori di Espresso, Repubblica, Panorama, Donna Moderna e tante altre testate di successo? Se la sentenza che ridiede la Mondadori a Berlusconi fu corrotta, bisognerebbe restituire tutto a De Benedetti senza tanti giri di parole. Invece Mesiano sceglie la strada della “chance” perduta dall’Ingegnere, che gli avvocati della Cir si erano immaginati solo nel caso le loro tesi principali fossero state rigettate (e non lo sono state). Detta in parole semplici: se quel giudice che diede ragione a Berlusconi non fosse stato corrotto da avvocati amici di Berlusconi, quante chance avrebbe avuto De Benedetti di vincere anche in appello e tenersi tutto? La risposta pratica ve la do io- ed è contenuta perfino nella sentenza-: nessuna. Eravamo ancora nella prima Repubblica. Comandavano Giulio Andreotti, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. E come riferisce lo stesso De Benedetti tutti e tre avevano fatto sapere ai due contendenti che Mondadori+Repubblica+Espresso a uno solo sarebbe stato impossibile. Avrebbero scritto una legge antitrust ad hoc per impedirlo. Ma il giudice Mesiano che anche questo ha letto nelle testimonianze processuali ha deciso del tutto a casaccio (non spiega perché) che De Benedetti avrebbe avuto l’80% delle chance di conquistare tutto. Così concede alla Fininvest uno sconto di circa 200 milioni di euro. Se De Benedetti avesse avuto il 100% delle chance il risarcimento sarebbe stato poco sotto il miliardo di euro, quel che secondo Mesiano vale la mancata conquista della Mondadori. Anche qui, valutazione del tutto a casaccio. Perché oggi l’intera Mondadori vale in borsa meno di quella cifra. E dentro ha cose che all’epoca non aveva: ad esempio la Silvio Berlusconi editore ( Chi, Sorrisi e Canzoni). Ci sono ipotesi giuridiche un po’ spinte nella sentenza. Come quella di giustificare il ritardo con cui De Benedetti si è accorto del danno subito chiedendone il risarcimento, paragonando il povero ingegnere a un malato di Aids che solo dopo anni si è accorto di essersi beccato il virus in seguito a trasfusione (pagina 57). O quando si spiega che l’assegnazione di quel caso non doveva essere al giudice Metta, perché questo aveva troppo potere come diceva un volantino dell’epoca di Magistratura democratica (fatto dato per certo ma non provato perché lo stesso giudice Mesiano ammette di non avere reperito più quel volantino). Voli grotteschi a parte la sentenza che accoglie in toto la tesi Cir pecca soprattutto di vuoto di memoria storica. Non si ricorda che azionisti della Amef e della Mondadori erano riuniti in un patto di sindacato comunicato al mercato e a tutti i piccoli azionisti. Che quel patto fu violato in segreto da De Benedetti a danno di tutti gli altri soci (Berlusconi ma anche i Merloni, i Rocca e Leonardo e Mimma Mondadori) e di tutti i piccoli azionisti Mondadori e Amef. Che presa la Mondadori violando il patto di sindacato Amef e gli accordi comunicati al mercato, De Benedetti la fuse con Repubblica ed Espresso, facendo pagare a tutti i soci – volenti o nolenti- della Mondadori- 410 miliardi di lire dell’epoca a Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Anche quello potrebbe essere un danno patrimoniale subito dagli azionisti Mondadori dell’epoca. Si disse che i due – Scalfari e Carracciolo- avevano rinunciato ai premi di maggioranza a favore dei piccoli azionisti. Poi vennero fuori carteggi segreti che regolavano assai diversamente la partita. Ed erano firmati da una parte dall’azionista del gruppo Espresso- Repubblica, Caracciolo, che vendeva. E dall’altra dall’acquirente: il nuovo presidente della Mondadori, Caracciolo. ( Da Libero- 7 ottobre 2009)

Ma che sciocchezza l'appello "io non userò lo scudo" firmato da Bersani e Franceschini

Domani metterò la mia firma sotto un bel manifesto impegnandomi a rifiutare fino alla fine dei miei giorni un parto cesareo. Che diamine! I figli devono nascere naturalmente. E se si soffre un po’ con il parto naturale, che importa a me? Sono un maschietto, non partorirò mai. Ecco, nella migliore delle ipotesi vale come la mia firma al manifesto anti-cesareo quella messa di gran carriera da Pierluigi Bersani, Dario Franceschini e Ignazio Marino all’appello di un collega senatore del Pd “Non ci faremo scudo- Noi non utilizzeremo mai lo scudo fiscale”. Perché se non hanno in tutti questi anni tenuto all’estero i propri risparmi dando una fregatura al fisco italiano naturalmente non possono usare lo scudo fiscale, come io non potrei fare un parto cesareo. Se invece tutti loro sono evasori e all’improvviso hanno avuto un rigurgito di buona coscienza e sono disposti a rimpatriare i loro capitali pagando tutte le tasse, le more e le sanzioni dovute, giù il cappello. Ma non serve la firma a un appello. Sottoscrivano pubblicamente (davanti alle telecamere Rai, Paolo Garimberti e Sergio Zavoli obblighino anche il Tg1 di Augusto Minzolini ad essere presente) una liberatoria da concedere al direttore delle Agenzia delle Entrate. Franceschini, Bersani, Marino e tutti gli appellanti rinuncino all’anonimato concesso dallo scudo fiscale. Così se loro ne faranno uso, tutti i cittadini italiani sapranno che avranno predicato in un modo e razzolato in un altro. Finchè esiste l’anonimato siamo tutti buoni a dire “che schifo quello scudo fiscale, io non lo utilizzerò mai”. Tanto nessuno mai saprà se l’avremo usato o no. La proposta era stata lanciata da una firma di punta del Corrierone della Sera, Salvatore Bragantini, che da quelle colonne si era rivolto a governo e parlamentari con un appello “a tutti gli uomini pubblici: impegnatevi a non usare lo scudo”. Siccome nel Pd c’è un po’ di confusione e la sindrome di Stoccolma è sempre in agguato, presa la prima copia in edicola del Corriere, sono corsi tutti ad aderire all’appello senza pensare nemmeno un secondo a cosa volesse dire. “E se lo fa Antonio Di Pietro prima di noi?”.E così il senatore Pd Francesco Sanna è stato il primo a sottoscrivere, inviandolo al leader della sua corrente, Pierluigi Bersani. Scudo fiscale? Quello per cui abbiamo fatto una figuraccia con tutte quelle assenze in parlamento? Azz, firmo subito. E se Bersani firma, può essere da meno Franceschini? Naturalmente no. Due candidati su tre alla segreteria han firmato. Che fa Ignazio Marino? Tris. Firma pure lui. E già che c’è firma pure Pierferdinando Casini, che non si dica che l’Udc non fa opposizione a questo governo. Malati di appellite acuta, senza nemmeno capire in che groviglio si ficcavano, hanno firmato Enrico Letta, Marco Follini, Bruno Tabacci, Arturo Parisi, Vannino Chiti, Marianna Madia, Giorgio Tonini, Enzo Carra e decine di altri. Perfino l’Udc Mauro Libè, che fu uno degli assenti al voto finale sullo scudo fiscale. Possibile che decine di politici navigati non si rendano conto dell’assoluto non senso di un appello che dice “io non riporterò i miei soldi in Italia pagando una mini tassa”, se quei soldi fuori Italia non si sono tenuti frodando il fisco? Sembra impossibile, ma a parte il terrore per Di Pietro e per l’indignazione esplosa negli elettori del Pd per i comportamenti parlamentari dei loro rappresentanti, c’è forse un pizzico di cattiva coscienza in quella corsa alla firma inutile e addirittura controproducente. Perché la vicenda dello scudo fiscale ricorda molto da vicino quella di qualche anno fa del condono tombale di Giulio Tremonti. Anche allora le opposizioni insorsero, Ds e Margherita (poi divenuti Pd) usarono toni forti: “un favore fatto agli evasori e ai mafiosi”. Poi si scoprì che quelli che urlavano di più fecero il condono tombale. Lo utilizzarono le società editrici del Popolo e de l’Unità, le librerie Rinascita, quattro società dei Ds, gli Editori Riuniti (quelli che pubblicavano i libri di Marco Travaglio), perfino i Caaf Cgil del Lazio e della Basilicata. Quel condono che scandalizzava Romano Prodi fu utilizzato dalla Aquitania srl, società della moglie Flavia e dalla Sircana & partners del portavoce dell’Ulivo, Silvio Sircana. Lo fecero e alcuni di loro non pagarono nemmeno il poco dovuto. Si fecero rateizzare il condono, pagarono la prima rata e per le altre buonanotte al secchio. Quando oggi emerge che mancano in cassa ancora 5 miliardi di euro di vecchi condoni fiscali, ci sono anche loro. Quelli che si fanno belli con gli appelli e prendono tutti un po’ in giro.

C'è il regime, Eugenio e Pippo confinati alla prima di Baaria

Qualche sera fa due anziani signori, uno con la barba bianca- e per questo assai saggio- l’altro con un noto toupè che da lustri ferma l’inesorabile incedere del tempo si sono trovati in fondo a una sala cinematografica a Roma. Si sono guardati in faccia preoccupati e hanno sentenziato: “Siamo in un regime”. Uno dei due anziani signori era il fondatore di un giornale che è diventato ormai un partito: Eugenio Scalfari. L’altro era il volto del conduttore vivente più noto nella storia della tv pubblica italiana: Pippo Baudo. Il racconto di quella memorabile sera vissuta al confino di una prima cinematografica nell’anno secondo della terza presa del potere di Silvio Berlusconi, era la chicca – un po’ nascosta- dell’editoriale domenicale di Scalfari su Repubblica: “Sono stato all’anteprima di Baaria di Giuseppe Tornatore dedicata a Giorgio Napolitano. La sala era gremita e gli onori di casa li facevano i dirigenti di Medusa e di Mediaset com’era giusto che fosse perché il film l’hanno prodotto loro. E chi altri avrebbe potuto in Italia? Un film di sinistra senza ammiccamenti.Entrando ho visto al mio fianco Pippo Baudo. Mi ha detto: “C’è il regime al completo”. Era vero, ma quando il regime è costretto ad applaudire il talento culturale di chi gli si oppone, vuol dire che qualche cosa si sta muovendo”. Il regime, già. E in effetti quella sera in sala oltre ai due anziani carbonari c’erano (secondo le cronache mondane) a parte il Capo dello Stato nelle prime fila: Massimo D’Alema con la moglie Linda Giuva, Fausto e Lella Bertinotti, Luca Cordero di Montenzemolo con la moglie Ludovica, Walter Veltroni, Nicola Zingaretti, Piero Marrazzo, Achille Occhetto, Bianca Berlinguer, Antonio Di Bella, Giuliano Ferrara, Clemente Mimun, Gianni Riotta, Ettore Bernabè… e poi sì, anche Gianni Letta e la sua signora Maddalena e Fedele Confalonieri. “C’è il regime al completo”. Detta così potrebbe sembrare una barzelletta. Ancora più divertente perché se la sono raccontata un signore come Scalfari che ha provato- spesso senza successo- per lustri a fare e disfare governi, vertici delle partecipazioni statali, accordi finanziari e industriali usando il gruppo editoriale che ha contribuito a fondare come un vero e improprio soggetto politico. E davanti a lui quel Baudo che per 47 anni ha occupato i teleschermi della tv di Stato (salvo qualche scorribanda- profumatamente pagata- sui teleschermi del Biscione), per 13 volte condotto il Festival di Sanremo, per anni ha dominato la domenica pomeriggio tv e ogni volta che gli dicevano “dai, Pippo, proviamo uno più giovane. Fai una pausa?”, la buttava in politica e urlava “sono arrivate le epurazioni, c’è la pulizia etnica”. Fa ridere vedere i due uomini che più hanno rappresentato il regime della stampa e della tv andare in ghingheri a una cerimonia di regime e dirsi appunto “ma qui c’è tutto il regime!”. Ma non fa ridere affatto, perché la questione è assai seria. E’ identica a quella tassa “Michele Santoro” che la tv di Stato e tutti i cittadini debbono pagare da venti anni. Lui occupa i teleschermi ogni anno, fa quel che vuole in barba a regole, editti, aziende, governi e il regime siamo noi che non possiamo sfuggirgli e pure siamo costretti a finanziarlo. Nove giornali su dieci pubblicano da decenni gli stessi pensieri, le stesse idee, difendono lo stesso identico diritto di espressione e se provi altrove a dire una cosa contraria- magari alzando la voce perché è difficile farsi sentire lì in mezzo- il regime sei tu. Il prossimo tre ottobre il sindacato unico dei giornalisti porterà in piazza i nove decimi delle testate giornalistiche e televisive italiane. Una grande manifestazione di libertà. Contro quell’altro decimo che naturalmente è “il regime”. Sì, il regime. Quello che fa buttare un libro di testo che non sia in linea con il 99 per cento degli altri adottati e imposti in scuole e università. E se qualcuno si alza in piedi e prova a dire “ma se rivedessimo i criteri dei libri di testo?”, eccolo il fascista, l’uomo del regime. Quello che soffoca il libero pensiero, così libero che ha impedito in un’università italiana perfino il diritto di parola a un Papa. Sì, c’è davvero un regime in Italia. Ed è quello che non solo non permette ad alcun altro diritto di parola. Ma che punta il suo dito contro te se provi con coraggio a prendertelo

Ma sì, mandiamo un vaffa alla Rai

Ma sì, mandiamolo questo vaffa alla Rai e al suo canone. Paolo Garimberti si indignerà, ma il modo per smettere legalmente di pagare il canone è spiegato perfino da lui sul sito ufficiale dell'azienda di viale Mazzini (http://www.abbonamenti.rai.it/Ordinari/IlCanoneOrdinari.aspx#DisdAbb) ed è un diritto di tutti i cittadini farlo. E credo sia giunto il momento per un segnale da inviare da più di una parte. C'è un caso Michele Santoro- Marco Travaglio, ma anche un caso Bruno Vespa, e di casi ormai ce ne sono a decine. Qui non è più questione di banale lottizzazione: in fondo quella in malo modo e con una forma per cui bisognava turarsi il naso, garantiva diritti di molti, quasi tutti. Rappresentava idee diverse, ma largamente diffuse. Ma oggi i veri partiti che hanno occupato la Rai non sono quelli palesemente rappresentati in Parlamento. L'informazione della tv di Stato e la sua programmazione di punta sono in mano al Partito dei magistrati, al Partito di Repubblica, al Partito di Mediaset e al Partito di questo o quel conduttore. Che cosa ha più di interesse pubblico una televisione così? Sì, è giunto il momento di dare davvero un segnale sul canone. Che faccia capire la lezione. La disdetta legale è un'arma politica finora poco utilizzata (ci ha pensato solo Beppe Grillo in passato), e che a parte i 5, 16 euro da versare per chiedere di sigillare il proprio televisore, comporta pochi disagi al cittadino che la fa: il giorno che mai davvero qualcuno venisse a mettere quei sigilli, basta andare a ripagare il canone per farseli togliere e tornare a guardare la tv come si vuole. Ma e qualche brivido freddo sarà corso sulla schiena dei tanti e tanti militanti e dirigenti e beneficiari del partitone Rai, magari l'andazzo attuale finirà. E allora mandiamolo questo vaffa alla Rai!