Il Cavaliere fa nominare da Napolitano un cavaliere tarocco
Con la firma messa in calce alla lista che gli aveva preparato prima delle dimissioni l’ex ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, il primo giugno scorso il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha nominato cavaliere del Lavoro uno dei re del Made in Italy taroccato: un italo-australiano che a Melbourne e dintorni vende con successo il suo “Parmesan”, la “Mozzabella fresca”, gli “cherry bocconcini” e da quest’anno produce sul posto “Italian wine and oil”. Una onorificenza che ha prima creato imbarazzo e poi rabbia nelle fila degli agricoltori italiani e delle loro associazioni di categoria: ma come, il governo spende milioni di euro per difendere il made in Italy alimentare, da anni conduce alla Corte di Giustizia europea una lunga battaglia giudiziaria contro il Parmesan tedesco, e poi va a premiare proprio un campione assoluto di parmigiano e mozzarella taroccati? Uno che più vende, più toglie mercato al vero parmigiano reggiano e alla vera mozzarella di bufala che in Australia- paese di migliaia di emigrati italiani, si potrebbero esportare con facilità?
Il campione del tarocco si chiama Sebastiano Pitruzzello. Classe 1940, siciliano di Sortino. In Australia dal lontano 15 marzo 1963, quando si imbarcò sulla nave Oceania con la fidanzata Lucia per andare a lavorare in fabbrica, alla General Motor di Melbourne. La sua è la storia di lacrime, sudore e successo di molti emigranti italiani. Dollari risparmiati con fatica, e un’idea a lungo coltivata: quei formaggi che aveva imparato a farsi nella sua Sicilia e che come sfizio continuava a confezionare per le serate con gli altri amici immigrati, avrebbero potuto diventare un nuovo lavoro. Fu così che nel 1973 nacque la Pantalica Cheese company, grazie alla decisione del governo australiano di liberalizzare la produzione del latte e dei suoi derivati, che fino a quel momento erano riservati a licenze pubbliche. Così nel giro di pochi anni Sebastiano Pitruzzello insieme ai figli Biagio e Silvio ha fatto fortuna. Ha iniziato con il “fresh pecorino”, poi è passato alla ricotta e di anno in anno si è adeguato ai gusti del mercato. “Smooth ricotta” e “low fat ricotta” per chi chiedeva formaggi leggeri e adatti alle mode delle diete ipocaloriche. Poi ha scoperto che più dell’Italia tirava la Grecia e si è messo a produrre feta, fornendo insieme la ricetta per l’insalata greca. Carezza ai gusti locali con la “cream cheese spread”, una crema di fromaggio da spalmare per la merenda dei ragazzi. Poi è tornata la mania del made in Italy e lui ha sfoggiato il meglio che poteva: forme di “parmesan” fatto alla maniera di Reggio Emilia, e via bustine di grattugiato da usare per “zuppe, salse, pasta e insalate”. Bustina “parmesan cheese- Italian style” per chi poteva permettersi qualche dollaro in più, bustina di “pasta topping- Italian style” per chi aveva meno risorse economiche a disposizione. Già che c’era Pitruzzello ha taroccato anche la Nutella, lanciando sul mercato australiano la “Nut free- Choc ezy” in versione tradizionale e in versione bianco-latte. Per spingere il prodotto si è messo anche a fare pubblicità con uno spot trasmesso in tv sui network nazionali e su quelli locali. Visto che funzionava, ha fatto il bis con lo spot sulla “mozza bella fresca” e sui “cherry bocconcini” da mangiare come “antipasti”, o sulla “pizza, la pasta e le insalate”. A forza di pubblicità, raffinandosi un po’, ha prodotto perfino uno spot istituzionale sulla azienda, e sul suo stile genuino italiano.
Mentre lanciava i formaggi taroccati, Pitruzzello non ha scordato il suo paese di origine. Ha mantenuto rapporti costanti con il consolato italiano di Melbourne e l’ambasciata tricolore di Canberra. Ha sponsorizzato tutte le iniziative dei siciliani emigrati in Australia, e tenuto i rapporti con il suo paese di origine, Sortino, che gli ha dedicato perfino una piazza (e lui ha ricambiato finanziando il monumento ai sortinesi emigrati che vi campeggia). Grazie ai buoni rapporti diplomatici il 27 dicembre del 2000 il presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, su proposta dell’allora presidente del Consiglio, Giuliano Amato, lo fece commendatore. Dal 2005 gli uffici diplomatici italiani in Australia propongono la sua candidatura per il cavalierato del lavoro. Tre volte è andata a vuoto, la quarta ha fatto centro. Ed è stato così che insieme al re del provolone italiano dop, Giandomenico Auricchio, alla grande firma di pandori e panettoni, Aldo Balocco, alla regina del Bardolino, del Soave e del Valpolicella doc- Maria Cristina Loredan Rizzardi- Pitruzzello, principe del formaggio tarocco, è diventato cavaliere della Repubblica italiana.
Ehia ehia voglio quella foto là! Fini si è portato alla Camera il fotografo di fiducia (con tanta nostalgia...)
L’appalto in teoria dovevano
dividerselo in tre, e la spesa prevista per l’intero 2010 era stata messa in
budget per un totale di 307.992 euro. Quello era quanto il collegio dei Questori
della Camera aveva previsto di erogare in cambio di qualche servizio
fotografico per le pubblicazioni e l’archivio interno. Una spesa non
piccolissima, che però doveva coprire sia le foto di ambiente del palazzo che
quelle- ricordo della attività istituzionale del suo presidente pro-tempore,
Gianfranco Fini. Il budget rischia però di andare a farsi benedire, perché uno
dei tre fotografi prescelti, ne ha mangiato già un buon quarto nel solo primo
mese dell’anno. Un paio di mini-servizi commissionati alla Luxardo foto, una
serie di book richiesti a Umberto Battaglia (12.756 euro già impegnati a
febbraio per servizi sugli ambienti del palazzo) e la gran parte assorbita per
le foto della frenetica attività istituzionale e diplomatica di Fini. Visite
ufficiali in Italia e all’estero, incontri istituzionali con presidenti di
Stati e Parlamenti di tutto il mondo, incontri con scolaresche e associazioni.
Bottino pieno per la società che si è assicurata l’esclusiva dell’immagine del
presidente della Camera, la Impero fotografico srl, che in un solo mese ha già
prenotato 75.328 euro della posta complessiva ( i dati sarebbero segreti,
naturalmente, ma ora li possiamo conoscere tutti grazie a una battaglia fatta
sulla trasparenza con tanto di sciopero della fame dalla radicale Rita
Bernardini). Il nome della società dice già qualcosa, con quel riferimento
nostalgico un tempo impreziosito anche da un’aquila imperiale stemma
dell’agenzia. Ma se si fa quello del titolare, si mette a versare lacrimoni
anche donna Assunta: si tratta infatti di Enrico Para, l’ex fotografo di
fiducia di Giorgio Almirante, un monumento vivente della storia postfascista
italiana. Para dal 1980 è il fotografo ufficiale del Secolo d’Italia. Ha
marcato come un francobollo avendone il copyright tutti i leader prima del
movimento sociale e poi di Alleanza Nazionale. Era l’ombra di Almirante, è
diventato una sorta di guardia del corpo di Fini. L’attuale leader della
minoranza del Pdl non vuole fotografia ufficiale che non abbia la firma di
Para, e ha trasmesso questa passione per il suo click anche ai principali amici
e collaboratori. Tanto che Para è diventato fra il 2001 e il 2006 quasi il
fotografo unico delle istituzioni del centro destra. Fini se lo portò dietro a
palazzo Chigi come fotografo ufficiale del vicepresidente del Consiglio e alla
Farnesina come ritrattista del ministro degli Esteri. Francesco Storace ne fece
il fotografo ufficiale della Regione Lazio, Gianni Alemanno ne utilizzò l’opera
al ministero delle Risorse agricole, Altero Matteoli lo chiamò al suo ministero
dell’Ambiente. Naturale che quando Fini è divenuto la terza carica della
Repubblica non abbia voluto altro scatto che quello di Para. E non si è
sottratto certo ai suoi flash,tanto da creare qualche preoccupazione al collegio
dei questori che ha visto lievitare oltre ogni attesa il conto per le
fotografie.
Nonostante le frenetiche
attività istituzionali del presidente della Camera e dei vari ministri che lo
hanno voluto alla loro corte, Para è riuscito a trovare il tempo sia per
continuare l’attività tradizionale della sua Impero fotografico (i redditizi
servizi per i matrimoni), sia per togliersi qualche sfizio. In pochi anni un
libro dietro l’altro. Con Federico Guiglia ha pubblicato ( e dàglie) una
biografia di Fini assai vicina all’agiografia (“Gianfranco Fini, cronaca di un
leader), corredata di tutte le foto scattate negli anni a palazzo Chigi. Con
Mauro Mazza, attuale direttore di Rai Uno, ha dato alle stampe “I ragazzi di
via Milano” dove campeggiava la bellissima foto della squadra di calcio del
secolo, con tutti i futuri leader di An.
Para scatta e non commenta.
Cresciuto in quel mondo, lo ha seguito (e gli è andata bene) senza mai fare
capire cosa pensasse davvero dei vari cambi di pelle della destra italiana.
Qualcosa si capiva fino a un anno fa dando un’occhiata al sito Internet della
sua agenzia foto. Ai novelli sposi proponeva quattro tipi di servizi
fotografici: “Claretta, Rachele, Edda e Rosa”, i nomi dell’amante, della
moglie, della figlia e della mamma di Benito Mussolini. La traccia di una
evidente nostalgia. Che però deve essere saltata all’occhio del suo
committente, che non poteva più permettersela. Meglio riparare, deve avere
pensato il fotografo, che non voleva perdersi per nessuna ragione al mondo il
business della Camera dei deputati. Così i quattro servizi per gli sposi oggi
si chiamano: “Diamante, Topazio, Smeraldo e Rubino”. Cosa non si fa per la
gloria…
Ha negato mille volte. Montezemolo però ha la sua poltrona a Montecitorio
Lui continua a giurare che
no, la politica non è il suo mestiere, e che non scenderà in campo. Ma ormai
c’è la prova provata della evidente bugia ripetuta come una cantilena da Luca
Cordero di Montezemolo. Perché l’ex presidente della Fiat e della Confindustria
a Montecitorio ha già pronta la sua poltrona. Lui non è ancora lì, ma la Camera
già sta pagandogli l’indennità di poltrona. A testimoniarlo è un contratto che
l’amministrazione di Montecitorio ha da poco firmato con il gruppo Montezemolo.
Poltrona Frau si è infatti assicurata in cordata con altre tre aziende del
settore la fornitura di 220 mila euro di poltrone per il terzo palazzo delle
istituzioni presieduto da Gianfranco Fini. L’azienda di Montezemolo ha infatti
vinto una gara per “acquisto di arredi e sedute” fornendo già le prime
poltroncine pregiate ai deputati nel primo quadrimestre. Luca penserà a
poltrone e divani (quelli celebri del Transatlantico dove parlottano nelle pause
onorevoli e giornalisti), i compagni di cordata penseranno alla fornitura di
altri arredi da ufficio. Insieme a Poltrona Frau ci sono infatti la Estel
Office spa della famiglia Stella, la Tecno spa del gruppo Mosconi e la Sedus
stoll che appartiene all’omonimo gruppo internazionale. Altre suppellettili per
gli uffici dei deputati saranno invece fornite (per 100 mila euro) dalla
Eurosalotto Pedrina, dalla Cassina spa e da un gruppo di piccole aziende
minori. Solo di arredi di complemento per gli uffici quest’anno la Camera ha
messo in budget una spesa al milione di euro. Non riguarderà però i famosi
uffici dei deputati sistemati ormai fuori dal palazzo principale, anche perché
sono tutti di recentissima costruzione e con arredi per lo più nuovi fiammanti.
Grazie a quella gara Montezemolo ha già avviato una rivoluzione copernicana nel
sistema politico. Un tempo si conquistava la poltrona del palazzo. Lui invece
ha conquistato il palazzo per la sua poltrona. E quando arriverà potrà sentirsi
già a casa sua.
L'ultima bufala: non si può più intercettare la moglie di Riina. Già, perchè lei al telefono racconta tutto...
Quante intercettazioni telefoniche sono servite a catturare Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano? Quante telefonate hanno tradito i capi della mafia e sono state utilizzate come fonti di prova per la loro condanna nei maxi processi? La risposta è semplice: nemmeno una. Sì, è vero. Per quattro anni gli inquirenti hanno piazzato microspie nella casa di Saveria Provenzano. Per 34.650 ore un ristretto pool di poliziotti ha ascoltato ininterrottamente ogni respiro captato nella casa dove viveva la moglie del capo dei capi della mafia. In quattro anni non è accaduto nulla. Solo una sera di inverno si è sentito piangere e singhiozzare Saveria. E solo l’intuito di un poliziotto ha immaginato che potesse essere accaduto qualcosa al padrino: forse stava male, forse era capitato qualcosa di grave. Dopo, solo dopo, si sarebbe ipotizzato che forse quel singhiozzo seguì la notizia giunta in un misterioso pizzino del cancro alla prostata di Provenzano, del suo ricovero sotto falso nome in una clinica di Marsiglia. Non ci sono telefonate, non ci sono intercettazioni, non ci sono microspie ambientali piazzate dove si voglia che siano state utili a trovare i superlatitanti della mafia, che abbiano tradito i Riina, i Messina Denaro, i Piccolo, i Bagarella. Non c’è una sola telefonata a inchiodare chicchessia nei grandi processi sulla criminalità organizzata. Basta andarsi a riprendere gli atti, leggersi le sentenze, sentire gli inquirenti veri che sono andati per anni caccia dei mafiosi. La caratteristica principale di Cosa nostra è il silenzio. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla al telefono. Ad aprire bocca sono stati i pentiti, raccontando ognuno la sua verità e certo fornendo ai magistrati anche elementi fondamentali nella guerra alla mafia. Ma nessun picciotto che conti si è mai tradito al telefono. Nessuna moglie, nessun figlio di latitante è inciampato in una frase di troppo captata dalla microspia che ben immaginavano di avere in casa, in ufficio, nel negozio o in auto.
Alcuni quotidiani assai agguerriti nella campagna contro la legge del governo per regolamentare le intercettazioni ieri riferivano dell’arma micidiale che avrebbe usato il presidente della Camera, Gianfranco Fini per convincere Umberto Bossi che quella legge sarebbe assai indigesta: “Ma ti rendi conto Umberto”, ricostruiva ieri Il Fatto quotidiano, certo di avere intercettato la telefonata fra Fini e Bossi, “che con questo testo approvato in Senato non si potrebbe mettere una cimice nella macchina della moglie di Riina?”. Chissà se l’intercettazione politica è vera o una delle tante patacche disseminate in questa campagna. Certo è una patacca questa della microspia nell’auto della moglie di Riina. Non solo perché la legge sulle intercettazioni non vieta affatto questa possibilità. Ma perché la moglie di Riina- Ninetta Bagarella- non ha mai avuto auto e quando vi è salita sopra è sempre stato perché altri la scortavano e si mettevano alla guida. Microspie ne hanno messe anche a lei e ai suoi figli, in casa, in lavanderia, nei luoghi di lavoro. Ma inutilmente: non è da quelle che il capitano Ultimo ha avuto la strada per rintracciare il Capo dei capi e giungere al suo arresto nel lontano 1993.
Non ci sono intercettazioni ambientali, non ci sono brogliacci di telefonate fra le prove regine dei processi per la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, o per la strage di via D’Amelio dove a perdere al vita fu Paolo Borsellino. Sì, qualche magistrato siciliano come Antonio Ingroia anche oggi va ripetendo in dibattiti e conferenze insieme ai Marco Travaglio o ai giornalisti dell’antimafia che senza intercettazioni telefoniche non si prenderebbe più neanche un latitante. Ma non è vero. L’unico lavoro sui telefoni in qualche modo collegato alle grandi inchieste sulla criminalità organizzata è stato quello sui tabulati telefonici fatto da Gioacchino Genchi nell’inchiesta sulla strage di Capaci. Non intercettazioni, ma controllo dei tabulati molto tempo dopo i fatti. Lì ha ricostruito qua e là chi stava in contatto con chi e ipotizzato anche una telefonata subito dopo la strage per dare il segnale che tutto era avvenuto secondo i piani. Un indizio importante certo, ma probabilmente se quella telefonata fosse stata intercettata (e assai difficilmente sarebbe potuto avvenire), probabilmente non si sarebbe sentito molto più di un sospiro. E’ una superpatacca quella della legge sulle intercettazioni che manderebbe gambe all’aria la lotta alla mafia. Nei processi le uniche vere telefonate prodotte sono quelle ai politici ritenuti coinvolti. Ad esempio quelle di Silvio Berlusconi o Marcello dell’Utri. Buone a tutti gli usi e a tutte le interpretazioni. Perché parlavano liberamente al telefono. Come i veri mafiosi non fanno mai.
Ma come tirano la cinghia! In Calabria ogni assessore ha fatto assumere un autista che gli era caro
La scelta al momento l’hanno
fatta in sei, ma è possibile che alla fine diventi una caratteristica comune a
tutta la nuova giunta della Regione Calabria, guidata da Giuseppe Scopelliti:
la squadra di governo è stata dotata di un autista personale di fiducia
liberamente scelto al di fuori della pubblica amministrazione. Il primo a
togliere i colleghi dall’imbarazzo è stato il 19 aprile scorso l’assessore
all’Urbanistica, Piero Aiello, in carica da tre giorni. Ha preso carta e penna
e scritto al dirigente dell’ufficio dle personale chiedendo l’assunzione come
autista di fiducia (stipendio base standard della Regione: 35.707,44 euro
all’anno) di Salvatore Ionà, “estraneo alla pubblica amministrazione”. La Regione Calabria naturalmente
ha i suoi autisti regolarmente assunti, ma non erano di fiducia dell’assessore,
che per regolamento regionale ha diritto ha una sua “struttura speciale” di
collaborazione in cui sono consentite immissioni di personale dall’esterno.
Spezzato il ghiaccio, quello dell’autista di fiducia è diventato un cult in
Regione. Il 21 aprile è arrivata la richiesta dell’assessore all’Agricoltura e
alla Forestazione, Michele Trematerra per chiedere l’assunzione dell’autista di
fiducia Giovanni Siciliano. Con lettera del 22 aprile anche l’assessore al
Bilancio, Giacomo Mancini, ha preteso (e poi ottenuto) l’assunzione
dall’esterno del suo chauffeur: Francesco Manna. Il 27 aprile all’ufficio del
personale è arrivata la lettera- con analoga richiesta- scritta dall’avvocato
Francescantonio Stillitani: l’autista prescelto (anche lui estraneo alla
pubblica amministrazione) è stato Emanuele Mancuso. Il 30 aprile altra lettera,
questa volta firmata dal neoassessore alle Attività Produttive, Antonio Caridi.
Chaffeur personale dall’esterno: Domenico Laganà, assunto effettivamente dal 5
maggio con decreto n. 7018 di inserimento nel “registro dei decreti dei
dirigenti della Regione Calabria”. Quello stesso giorno all’ufficio del
personale è arrivata un’altra lettera- con analoga richiesta- da parte
dell’assessore all’Ambiente, Francesco Pugliano, che non aveva trovato
all’interno della Regione un autista di fiducia e con la sua richiesta ha fatto
strabuzzare gli occhi ai dirigenti della Regione. Il prescelto infatti è un
omonimo: Francesco Pugliano, nato come l’assessore a Rocca di Neto in provincia
di Crotone. L’assessore però è del 1955 e l’autista è del 1969. Uno faceva il
veterinario prima di arrivare in Regione, l’altro (l’autista) aveva una omonima
impresa agricola.
l'Italia giocava? Solo i Bossi e Calderoli's boys lavoravano come sempre
Durante la disfatta azzurra di Italia- Slovacchia molti nei ministeri erano talmente presi dalla partita da non potere rispondere al telefono. Nella segreteria del ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, solo durante l'intervallo qualcuno si è degnato di rispondere. E solo lo staff della Lega ha risposto al primo colpo: i Bossi e Calderoli boy's non stavano guardando l'Italia. Prova effettuata da Franco Bechis dal primo minuto della partita | |||||||
Ministero | Titolare | Ufficio | Secondi per avere risposta | ||||
Commercio estero | Adolfo Urso | centralino | 1.972 | ||||
Pari Opportunità | Mara Carfagna | segreteria ministro | 1.863 | ||||
Salute | Ferruccio Fazio | centralino | 1.122 | ||||
Sviluppo Economico | int. Silvio Berlusconi | centralino | 274 | ||||
Economia | Giulio Tremonti | centralino | 137 | ||||
Infrastrutture | Altero Matteoli | centralino | 42 | ||||
Turismo | Michela V. Brambilla | centralino | 31 | ||||
Lavoro | Maurizio Sacconi | centralino | 27 | ||||
Giustizia | Angelino Alfano | centralino | 22 | ||||
Politiche Ue | Andrea Ronchi | segreteria ministro | 21 | ||||
Beni Culturali | Sandro Bondi | centralino | 13 | ||||
Difesa | Ignazio La Russa | gabinetto | 12 | ||||
Pubblica istruz |
Maristella Gelmini | centralino | 11 | ||||
Difesa | Esercito | centralino | 11 | ||||
Interno | Roberto Maroni | centralino | 9 | ||||
Ambiente | Stefania Prestigiacomo | centralino | 9 | ||||
Politiche agricole | Giancarlo Galan | centralino | 7 | ||||
Pa e Innovazione | Renato Brunetta | centralino | 6 | ||||
Camera deputati | Gianfranco Fini | centralino | 5 | ||||
Rapporti regioni | Raffaele Fitto | segreteria ministro | 5 | ||||
Gioventù | Giorgia Meloni | segreteria ministro | 4 | ||||
Difesa | Marina militare | centralino | 4 | ||||
Senato | Renato Schifani | centralino | 3 | ||||
Esteri | Franco Frattini | centralino | 3 | ||||
Rapporti Parlamento | Elio Vito | segreteria ministro | 3 | ||||
Attuazione programma | Gianfraco Rotondi | segreteria ministro | 2 | ||||
Difesa | Aeronautica | centralino | 2 | ||||
Pres. Cons. min. | Silvio Berlusconi | centralino | 2 | ||||
Semplificazione | Roberto Calderoli | segreteria ministro | 1 | ||||
Riforme e federalismo | Umberto Bossi | segreteria ministro | 1 | ||||
Comunicazioni | Paolo Romani | numero verde | staccato sempre | ||||
Per il Cavaliere (dopo Topolanek) tassa Zappadu da 30 milioni
Ha dovuto prima staccare un assegno da 24,5 milioni di euro a titolo di finanziamento infruttifero. E poi trovarsi di fronte a una perdita di 7,6 milioni di euro, che è quella con cui si è chiuso il bilancio 2009 della Immobiliare Idra. Silvio Berlusconi ha dovuto pagare a caro prezzo la difesa della sua privacy dopo le incursioni con tanto di tele-obiettivo di Antonello Zappadu, il fotografo che lo ritrasse fra il 2008 e il
Alla pensione dei calciatori ci pensa Simona
L’isola dei famosi ha messo
un mattoncino per costruire la pensione dei calciatori e degli allenatori un
po’ meno famosi degli altri. E’ grazie anche a Magnolia, società di produzione
del celebre programma tv guidato da Simona Ventura, che si tengono in piedi i
conti della previdenza calcistica. Magnolia- che in Italia è rappresentata
dall’ex direttore di Canale 5, Giorgio Gori, è infatti l’inquilino più celebre
dei palazzi della Sport Invest 2000 investimenti immobiliari sportivi spa,
società guidata dall’avvocato Salvatore Catalano (già presidente del collegio
sindacale Rai) e controllata al 100% dal Fondo di accantonamento delle
indennità di fine carriera per i giocatori e gli allenatori di calcio. La Sport Invest 2000 insomma ha il
compito di investire in immobili per mantenere la solvibilità del fondo per il
congedo di allenatori e giocatori di calcio. E lo ha fatto a Roma, Milano e in
altre città, dove ha in portafoglio terreni e fabbricati per 33,7 milioni di
euro. Fra gli immobili anche uno nella capitale, in via della Farnesina, che è
diventato la sede romana di Magnolia che si è garantita la locazione con una
fidejussione da 112.500 euro rilasciata dalla Banca San Paolo di Brescia. E’ il
contratto di affitto più rilevante della Sport invest 2000 e così Gori e
Ventura danno una mano ai calciatori più anziani. In attesa di averli all’Isola
dei famosi…
Papi si è comprato il suo primo comunista: Peppone
Grazie a una lunga e complessa transazione durata più di un decennio Silvio Berlusconi è diventato dal 2009 ufficialmente l’erede di Giovanni Guareschi. O quasi. Fatto sta che gli appartiene in diritto Peppone insieme al suo eterno rivale don Camillo, in versione cinematografica. Pagando 41.562 euro all’anno di royalties infatti la Videodue srl controllata indirettamente (attraverso Dolcedrago) dal premier italiano si è conquistata il diritto di trasmettere dove e quando vuole la serie su don Camillo e Peppone. La piccola tassa finirà (come spiega il bilancio 2009 della Videodue, appena depositato) agli eredi di Renè Barjavel e Julien Duvivier, sceneggiatori della fortunatissima serie interpretata da Fernandel e Gino Cervi.
Come capo azienda ora è meglio Piersilvio di Silvio
Nell’anno più difficile 254
nuovi investitori pubblicitari sui 1.017 complessivi di Publitalia. E un’altra
quarantina già arrivati nel primo trimestre 2010. Non solo, Digitalia 08, la
concessionaria del digitale Mediaset, che ha raggiunto il punto di pareggio già
nel 2009 con un anno di anticipo rispetto alla tabella di marcia. Così
Piersilvio Berlusconi è riuscito proprio nel 2009-2010, in cui la crisi
internazionale ha piegato gran parte delle economie occidentali, a battere
l’orso e a fare assai meglio di quanto non sia riuscito a papà Silvio che con
Giulio Tremonti era alla guida dell’azienda Italia. Mentre i conti pubblici
avevano innestato il passo del gambero lasciando sul campo migliaia di feriti,
Piersilvio ha tenuto la corazzata Mediaset e perfino la creatura più colpita
dalla crisi, Publitalia, sulla cresta dell’onda, facendo addirittura guadagnare
fette di mercato (la concessionaria del primo gruppo di tv private italiana ha
conquistato nel 2009 il 64% del mercato, un punto in più dell’anno precedente).
Proprio mentre Sipra (concessionaria Rai) perdeva il 17,4%, Rcs (Rizzoli
Corriere della Sera) il 17,6%, Il Sole 24 System il 21,5%, Manzoni (Repubblica
e Finegil) il 24 per cento (e la sola Repubblica il 14,5% del proprio fatturato
pubblicitario). Ma la vera scommessa vinta da Piersilvio è proprio quella del
digitale, testimoniata oltre che dal sorprendente risultato di Digitalia 08,
anche dai ricavi 2010 di Mediaset premium, cresciuti del 54,6% nei primi tre
mesi dell’anno sfiorando i 215 milioni di euro e avviandosi ormai a ripagare
anche nel risultato gli investimenti effettuati.
Lippi pareggia, Cannavaro la butta giù. De Rossi la ritira su. La nazionale azzurra quando fa affari è uguale a quella in campo
Tutti insieme fatturano
probabilmente meno dei loro 740. Però non sono da buttare via nemmeno quei 58
milioni di euro che vengono da business diversi che tra un allenamento e l’altro
sono riusciti a mettere in piedi i componenti della Nazionale di calcio che ha
esordito lunedì ai mondiali del Sudafrica. Un allenatore, Marcello Lippi e 23 giocatori. Di loro 11 (Lippi più dieci
giocatori) hanno già pensato al futuro, a quando appenderanno le scarpette al
chiodo. E hanno provato a prepararsi un altro mestiere, perfino a lanciare un
business. Il successo non è stato grandissimo, perché se i 58 milioni di valore
della produzione sono comunque un risultato rispettabile da media azienda, non
altrettanto si può dire del risultato consolidato formato sommando utili e
perdite dei loro bilanci. Perché gli 11 azzurri in campo nel mondo degli affari
nell’ultimo anno si sono rivelati una nazionale perdente. Hanno dovuto sborsare
di tasca loro 198.664 euro, che rappresenta il rosso complessivo della loro
avventura finanziaria. Hanno giocato maluccio, ma come nel campo reale anche
qui è soprattutto questione di formazione. L’allenatore non è una certezza: con
Lippi nel mondo degli affari si può vincere o perdere. Ma alla fine il
risultato dell’anno è un pareggio: sommando utili e perdite delle sue
partecipazioni l’allenatore azzurro è andato in rosso di appena 76 euro. Le due
velocità sono una costante nelle storie degli 11 azzurri businessman. Che incredibilmente
sembrano parallele a quel che si è visto in campo nella partita di esordio con
il Paraguay. Il conto economico della Nazionale è infatti tirato su da uno
spumeggiante Daniele De Rossi (utile consolidato di 539.090 euro), ma tirato
giù da Fabio Cannavaro che alla fine perde più di un milione di euro. Senza i
suoi errori di valutazione la
Nazionale spa sarebbe oggi in attivo.
Gli undici azzurri hanno
imparato a fare davvero un po’ di tutto nella vita. Molti si sono buttati nel
mattone, costituendo immobiliari, ma anche utilizzando sistemi più sofisticati
come i fondi del settore o il leasing. Alcuni hanno cercato di valorizzare il
proprio marchio di origine, acquisendo società sportive, palestre, o società
organizzatrici di pr. Altri hanno provato con fantasia a fare tutt’altro: c’è
chi alleva bovini e chi pesci e crostacei, chi gestisce catene di ristoranti e
chi prova con spiagge e locali notturni , chi idea campagne pubblicitarie e
perfino chi ha messo un piedino nel business energetico del futuro: quello
dell’eolico e delle energie rinnovabili. Ecco nome per nome le attività.
Marcello Lippi. Guadagna bei
soldini con la Mammamia srl, la società proprietaria del Twiga di Forte dei
Marmi, che Lippi possiede insieme a Paolo Brosio ma soprattutto alla Laridel
partecipations di Flavio Briatore e alla Dani comunicazioni di Daniela
Santanchè. Ma li perde al momento con le altre attività. Che vanno dallo Health
and sport International center di Firenze alla Capraia diving service (corsi
sportivi) alla immobiliare di famiglia Dast all’altra immobiliare fiorentina
Promoinvest, in contenzioso con il comune di Firenze che da tempo non rilascia
le autorizzazioni che servono per un immobile da acquistare in via dei
Cimatori. Lippi si è anche buttato nel campo delle energie alternative con al
sua Sviluppo Energia pulita srl.
Ivan Gattuso. Possiede una
società immobiliare con la moglie, con immobili in Calabria e a Varese. Ha una
omonima srl a Corigliano per l’allevamento di pesci a crostacei e ha poi
fondato con un socio la Gattuso e
Bianchi srl per la vendita di pesci e crostacei. Il socio si chiama Andrea
Bianchi e curiosamente per associarsi a Gattuso ha dovuto presentare un
attestato di partecipazione a jun corso per la qualifica di responsabile
dell’autocontrollo. Gattuso ha messo in piedi una catena alimentare completa:
il pesce lo coltiva, lo vende e poi lo serve al ristorante attraverso la sue
Ottantasette srl
Giampaolo Pazzini. Per ora
l’attaccante della Sampdoria si limita all’immobiliare. E’ sua la twenty-nine
srl di Montecatini. Ma il portafoglio non è affatto da buttare via: un
fabbricato a Firenze e 17 in
provincia di Pistoia, in gran parte a Montecatini.
Vincenzo
Iaquinta.L’attaccante bianconero con la famiglia (soprattutto con il papà,
molto giovane, classe 1957) conduce un’azienda di costruzioni edili omonima. E
proprio prima del mondiale ha fondato la Champions Re spa,
attiva nel leasing immobiliare: fra i soci ci sono anche calciatori o ex
calciatori come Sebastian Giovinco e Matteo Guardalben e un procuratore di
calcio come Luca Pasqualin.
Fabio Quagliarella. Per ora
il suo è solo un esordio nel mondo degli affari: ha costituito e gestisce con
la famiglia un’azienda immobiliare, la Faviad srl la cui sede è da poco stata trasferita
a Roma.
Giorgio Chiellini. Ha
costituito a Livorno con il fratello Claudio una società, la Twin Group srl,
specializzata in organizzazione di eventi e pubbliche relazioni. E va piuttosto
bene, visto che ha chiuso in utile di 43 mila euro.
Daniele De Rossi. Ha due
immobiliari con la moglie (Aleutine 106 e Gaia immobiliare 2005) e una società
che fa da agenzia per spettacolo e sport, la Dagat srl. Da poco ha costituito anche la Wgt srl che si occupa di
“gestione di piano bar, discoteche, enoteche e pubs”.
Gianluca Zambrotta. Ha una
immobiliare, la Giza
srl con alcune proprietà a Como, a la Young Boys srl che ha tentato di acquistare
all’asta giudiziaria il centro sportivo di San Fermo della Battaglia, ma il
tribunale di Como si è messo di traverso.
Gianluigi Buffon. L’ultima
sua avventura è stata l’acquisto dell’Hotel Stella della Versilia srl a Massa,
proprietaria dell’omonimo albergo. Ha anche immobiliari come la Buffon & co e la Suolo & ambiente srl.
Anche lui però è in contenzioso come Lippi con il comune di Carrara e Massa che
non gli lascia costruire una strada essenziale per recuperare un immobile in
disuso di proprietà. Così le ruspe sono ferme e la società nell’attesa continua
a perdere soldi.
Angelo Palombo. A parte
l’immobiliare di famiglia, la P &P
immobiliare, possiede la Palo
17 srl. Già dal nome non sembra ci sia troppa fantasia. Eppure dovrebbe ideare
campagne pubblicitarie. In attesa dell’idea vincente, perde soldi.
Fabio Cannavaro. Più che un
giocatore è un’industria. Ha due capogruppo: una immobiliare (Cma immobiliare
srl) e una holding di partecipazioni (Cma holding e servizi). Si è salvato dal
fallimento delle farmacie Maddaloni, che hanno ottenuto da poco il concordato
preventivo. Il suo impero spazia dall’immobiliare (Margot srl) , ai trasporti
marittimi (Fd service srl), ai servizi societari (Gm global trading), allo sfruttamento dei diritti di immagine
(Fenix srl), all’allevamento e produzione di latte (La Fattoria gaia,
Biancolatte srl) alla gestione di spiagge (Pharaon srl) e di ristoranti (Como 8
srl, Fn number One, Vittoria srl, Le Millionaire srl, Le Millionair e Caserta
srl). Le ultime tre società di ristorazione aperte (Millionaire 4, Millionaire
5 e Sveva srl) hanno nella compagine un socio di rilievo: Antonio Martusciello,
già coordinatore campano di Forza Italia e ancora oggi uno dei leader del Pdl
in Regione.
Tremonti, guerra santa ai carrozzoni. Però salva il suo...
Venti enti pubblici sciolti per decreto. Duecentotrentadue associazioni, fondazioni, istituti e centri di varia cultura e umanità per cui d’ora in avanti sarà assai difficile ottenere un contributo pubblico. La finanziaria tutta tagli di Giulio Tremonti non ha fatto poco nella sua parte di eliminazione degli sprechi. Eppure la notizia vera non è in quei 20 che volano via e in quei 232 messi in parziale quarantena (il Tesoro comunque conserverà il 30% dei fondi erogati a loro da corrispondere a quelli più bisognosi e meritevoli). La vera notizia è quella degli enti che rimangono. Sono dieci volte quelli che si sciolgono. O le fondazioni, le associazioni e gli istituti che continueranno a vivere di contributo pubblico: un elenco anche qui dieci volte più lungo di quello che deve stringere la cinghia. Solo il ministro dell’Economia, dopo anni di privatizzazioni e liberalizzazioni, è ancora azionista diretto di una trentina di società pubbliche, che a loro volta ne controllano decine di altre. Tutte fondamentali e utilissime, naturalmente. E chissà se Tremonti conosce la fondamentale missione di Studiare Sviluppo srl, che lui controlla al 100%. Se gli è sfuggita, faccia un giretto sul sito Internet della società. Lo spiegano i manager sotto la pomposa voce “mission” (perché usare l’italiano nel tempio della finanza pubblica di Roma è ormai proibito). Eccola: “Studiare Sviluppo, soggetto strumentale di Amministrazioni centrali, realizza attività orientate principalmente verso settori tematici e progettuali coerenti con gli interessi prioritari e gli obiettivi strategici dei propri referenti istituzionali”. Avete capito qualcosa? Direi di no. Allora facciamoci spiegare meglio: “In particolare, la Società opera a valere su due linee di intervento: supporto ad Amministrazioni o Enti pubblici, sul territorio nazionale, nella programmazione e gestione di strumenti di sviluppo territoriale e locale; partecipazione a progetti internazionali, finanziati prevalentemente dall’Unione Europea, relativi a consulenza istituzionale, institutional building e assistenza tecnica a Governi e Amministrazioni pubbliche di Paesi terzi”. Ancora nulla? Sembra l’ultimo inutile carrozzone dello Stato italiano? I manager di Studiare Sviluppo pensano di essere fondamentali: “la Società gestisce iniziative che si caratterizzano per il loro contenuto innovativo e sperimentale, e rispetto alle quali l’azione permette all’Amministrazione di ricavare utili indicazioni di policy sulla materia trattata”. Per carità di patria bisognerebbe non procedere oltre. E tacere uno dei progetti fondamentali che il Tesoro sta finanziando. Si chiama “Storie interrotte” e “consiste nella diffusione, con diversi mezzi di divulgazione e comunicazione (sperimentazione scolastica, produzione teatrale, trasmissioni radiofoniche tematiche, produzioni editoriali, audio-riviste, web), della conoscenza del ruolo, del pensiero e dell’azione di cinque figure-chiave originarie del Sud d’Italia, che hanno segnato la storia nazionale: Francesco Crispi, Francesco Saverio Nitti, Donato Menichella, Luigi Sturzo e Giuseppe Di Vittorio”. Davanti a un monumento simile all’inutilità di cui Tremonti è unico azionista e che sopravvive anche a una finanziaria come questa, allora si capisce meglio il piagnucolìo delle vittime dei tagli. Viene quasi voglia di solidarizzare con chi si è visto portare via il contributo pubblico o ridurre i gettoni di presenza. Perché a lui sì e a studiare sviluppo no? Domande che restano senza risposta. E che possono essere ripetute all’infinito. I carrozzoni sono centinaia e centinaia. Ma perché lo è il comitato nazionale per la nascita di Cesare Pavese cui Tremonti ha tolto i 33.600 euro del finanziamento dei Beni culturali e non lo è invece quello per le celebrazioni della nascita di Amintore Fanfani, rifinanziato senza battere ciglio con 60 mila euro? E per gli amanti del genere restano in vita con soldi pubblici anche il comitato per il centenario della nascita di Mario Pannunzio (222 mila euro), quello per i 400 anni della morte di padre Matteo Ricci (180 mila euro), quello per lo studio e la valorizzazione del Tesoro di San Gennaro (174 mila euro), quello per ricordare la nascita di Massimo Mila (90 mila euro), di Paolo Bonomi (60 mila euro), di Mario Tobino (90 mila euro) e decine di altri. Basta non essere stati proprio nessuno ed essere morti o nati da almeno un secolo, che anche in tempi di magra come questi continuano ad arrivare finanziamenti pubblici: 5 milioni nel 2010 a questo scopo. Brindano perché salvano il tesoretto gli altri duemila sfuggiti all’occhio di Tremonti. Il Centro di ecologia teorica, come la Fondazione Gramsci Romagna che beffa l’omonima fondazione nazionale, depennata dalla lista. L’associazione combattenti e reduci insieme ai partigiani salvi per un soffio. Niente fondi alla Fondazione Adriano Olivetti, ma arrivano 48 mila euro al Comitato per i 100 anni della nascita della Olivetti spa. Chiusi i rubinetti alla Pro civitate cristiana di Assisi, ma affluiscono fondi pubblici nelle casse del Forum per i problemi della pace e della guerra. L’elenco è infinito, e lo offriremo giorno dopo giorno ai lettori di Libero. Certo, se si vuole tagliare, non mancheranno altre occasioni.
Sacconi senzatetto, Romani però conquista la palestrina
Nel governo c’è anche qualcuno che non segue le indicazioni della casa madre. Qualcuno che non ha investito sul mattone per seguire l’esempio del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. A ribellarsi (o almeno a celare diabolicamente la proprietà dei propri investimenti) anche un pezzo da novanta come il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Nessuna casa è ufficialmente intestata a lui in alcuna parte di Italia, e altrettanto dicasi della gentile graziosa consorte, che fa il direttore generale di Confindustria. Insomma, o il ministro preferisce stare in affitto o ha gabbato noi e le banche dati del catasto con qualche trucco. Come lui pochi altri nel governo: non ci sono immobili intestati al ministro Andrea Ronchi, ma la spiegazione qui l’ha offerta il diretto interessato: la casa c’era, da poco però è stata donata alla figliola che ne aveva più bisogno di papà, pronto ad arrangiarsi in affitto. Nessuna casa riconducibile a un vecchio professionista della politica, come Enzo Scotti, che oggi è ancora sottosegretario agli Esteri, e nessuna riportabile direttamente al sottosegretario al Tesoro, Luigi Casero. Due buchi perfino ai Trasporti, dove risultano senza casa di proprietà i sottosegretari Bartolomeo Giachino, detto Mino e il suo collega Giuseppe Maria Reina.
Se un gruppetto di ministri e vice dichiara zero mattoni, c’è in compenso chi nelle fila del governo ha pensato non solo a casa, ma a qualche affare immobiliare alternativo. Lo ha fatto da pochissimo il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, che oggi è in pole position per sostituire alle attività Produttive Claudio Scajola, che proprio la casa si è portato via. Romani si è comprato una palestra privata a Cusano Milanino: 67 metri quadrati e un po’ di terreno intorno, un bell’affare. Che però non deve essere piaciuto molto al fisco italiano. Nel gennaio scorso come un avvoltoio è zompata lì sopra Equitalia Esatri (concessionaria di Milano) iscrivendo ipoteca legale per un contenzioso con il viceministro da 26.292,52 euro. Lui appena se ne è accorto ha messo mano al portafoglio e saldato da gran signore il debito. Così l’ipoteca è stata cancellata del tutto lo scorso 4 marzo.
Se un gruppetto di ministri e vice dichiara zero mattoni, c’è in compenso chi nelle fila del governo ha pensato non solo a casa, ma a qualche affare immobiliare alternativo. Lo ha fatto da pochissimo il viceministro alle Comunicazioni, Paolo Romani, che oggi è in pole position per sostituire alle attività Produttive Claudio Scajola, che proprio la casa si è portato via. Romani si è comprato una palestra privata a Cusano Milanino: 67 metri quadrati e un po’ di terreno intorno, un bell’affare. Che però non deve essere piaciuto molto al fisco italiano. Nel gennaio scorso come un avvoltoio è zompata lì sopra Equitalia Esatri (concessionaria di Milano) iscrivendo ipoteca legale per un contenzioso con il viceministro da 26.292,52 euro. Lui appena se ne è accorto ha messo mano al portafoglio e saldato da gran signore il debito. Così l’ipoteca è stata cancellata del tutto lo scorso 4 marzo.
Compagni, tutti in campagna! Ecco le seconde, terze e quarte case dei leader della sinistra
Compagni, si va in campagna! E se non si trova il casalino toscano, umbro o pugliese che fa tanto chic, allora si va al mare! A sinistra è esplosa da qualche anno la moda della seconda o terza casa di proprietà, purchè silenziosa, accogliente e accomodante le buone letture. Grazie alla moda è tutto un fiorire di affaroni immobiliari che contagiano senza distinzione di credo nouvelle e ancient vague del Pd, vecchi comunisti all’amatriciana, rifondaroli dell’ultima ora e radical chic che sorridono ormai trionfanti per avere imposto ad ogni portafoglio il trend preferito. Il luogo preferito dagli agenti immobiliari rossi- si sa- è quello spicchio di terra fra campagna e mare in Toscana, poco oltre il confine con il Lazio. Tanto per intenderci, Capalbio e dintorni. Hanno lì casa (qualcuno la prima, altri la seconda e la terza) Furio Colombo e Alice Oxman, Giorgio Napolitano e Claudio Petruccioli con rispettive consorti, ma a pochi chilometri la truppa si ingrossa. Cìè Giuliano Amato con signora che da anni svernano e passano l’estate ad Ansedonia, chissà se ancora a giocare un buon tennis. C’è Piero Fassino che con un mutuo si è ristrutturato un casale dalle parti di Scansano, dove va con la moglie Anna Serafini quando gli viene a noia la casa romana a due passi dal Pantheon (che battaglie con i locali della piazza che non chiudono mai i battenti, né di sabato né di domenica!). C’è un professore rivoluzionario attualmente in prestito all’Italia dei Valori, come Pancho Pardi che ha in pochi chilometri ha ben due case: una nell’esclusivo Monte Argentario, regno della compianta Susanna Agnelli, e l’altra davanti alla spiaggia della Giannella, quasi attaccata ad Orbetello. Pulsa lì il cuore della seconda casa di sinistra. Ma non pochi hanno scelto l’Umbria. Vi è approdato con la consorte l’ex presidente della Camera ed ex padre di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti: relax nella magione di Massa Martana, sui colli perugini per fuggire dalla casona dei Parioli e dal suo traffico insolente. Bertinotti da anni ha pure un’alternativa piena di magia, come la seconda casa (quella umbra è la terza) di Dolceacqua all’ombra del castello e vicino alle rive del fiume che vi passa in mezzo. Incantevole, ma un po’ lontanina per chi abita a Roma: si è praticamente a Ventimiglia, sul confine con la Francia. Ottima- certo- in questi giorni, se si vuole cfare un salto a Cannes e vedersi Draquila, l’ultima diabolica invenzione della amata Sabina Guzzanti.
Sulle colline umbre oziano volentieri nella seconda o terza magione altri protagonisti delle migliori stagioni della sinistra. Come Andrea Manzella, a Città della Pieve, Tommaso Padoa Schioppa e la sua compagna Barbara Spinelli fra Orvieto e Parrano, in provincia di Terni. O Giovanna Melandri a Ficulle, nel casale donatole dalla seconda moglie del padre. A metà strada fra i toscani e gli umbri si aggira invece Giuseppe Fioroni, che nella sua Viterbo ha possedimenti immobiliari in più di un paese (sono cinque le case a lui intestate). Preferiscono il mare e il ritorno nelle terre natie invece Umberto Ranieri, che ha acquistato a Maiori sulla spiaggia salernitana la sua terza casa (le altre a Roma e Napoli). O Alfonso Pecoraro Scanio che può fermarsi a dormire quando vuole in due case nel salernitano, in quella di Napoli o in quella della capitale. A sinistra non dispiace neppure la Puglia. Ci abita ovviamente Niki Vendola, governatore della Regione, anche se non è molto che ha comprato una sua casa a Terlizzi. Ci viene Vincenzo Visco, a Martinafranca in provincia di Taranto, quando non preferisce raggiungere la sua seconda casa in Pantelleria. Ci ha messo piede dal febbraio scorso anche un altro ex presidente della Camera, Luciano Violante, che ha acquistato a Francavilla Fontana, provincia di Brindisi, forse un po’ stanco delle vacanze un po’ in grigio nella sua seconda casa di Cogne, in Valle D’Aosta.
Sulle colline umbre oziano volentieri nella seconda o terza magione altri protagonisti delle migliori stagioni della sinistra. Come Andrea Manzella, a Città della Pieve, Tommaso Padoa Schioppa e la sua compagna Barbara Spinelli fra Orvieto e Parrano, in provincia di Terni. O Giovanna Melandri a Ficulle, nel casale donatole dalla seconda moglie del padre. A metà strada fra i toscani e gli umbri si aggira invece Giuseppe Fioroni, che nella sua Viterbo ha possedimenti immobiliari in più di un paese (sono cinque le case a lui intestate). Preferiscono il mare e il ritorno nelle terre natie invece Umberto Ranieri, che ha acquistato a Maiori sulla spiaggia salernitana la sua terza casa (le altre a Roma e Napoli). O Alfonso Pecoraro Scanio che può fermarsi a dormire quando vuole in due case nel salernitano, in quella di Napoli o in quella della capitale. A sinistra non dispiace neppure la Puglia. Ci abita ovviamente Niki Vendola, governatore della Regione, anche se non è molto che ha comprato una sua casa a Terlizzi. Ci viene Vincenzo Visco, a Martinafranca in provincia di Taranto, quando non preferisce raggiungere la sua seconda casa in Pantelleria. Ci ha messo piede dal febbraio scorso anche un altro ex presidente della Camera, Luciano Violante, che ha acquistato a Francavilla Fontana, provincia di Brindisi, forse un po’ stanco delle vacanze un po’ in grigio nella sua seconda casa di Cogne, in Valle D’Aosta.
Urso re del mutuo: ne ha due da 2,4 milioni di euro
Adolfo Urso, viceministro del Commercio estero e segretario della Fondazione fare futuro, ha stabilito nel 2009 un primato assoluto. E’ il parlamentare sulle cui spalle grava il mutuo casa più alto della storia. Ne ha due: uno per sé e un altro per uno dei due figli. Entrambi accesi con il Banco di Napoli di Montecitorio per l’80 per cento del valore dell’immobile acquistato. Due alloggi centralissimi, uno il doppio dell’altro, a Prati, due passi dal Palazzaccio. Il primo mutuo trentennale è da 1,6 milioni di euro. Quello per il figlio nella stessa casa è da 800 mila euro. In tutto fanno 2,4 milioni di euro. Il prezzo ufficiale per l’acquisto dei due appartamenti è stato di 3 milioni di euro. Una bella somma. Chiedendo alle principali banche italiane ieri (attraverso mutui on line) di farci una proposta di finanziamento per quell’acquisto, abbiamo trovato molte porte sbarrate. Dichiarando la stessa età del viceministro Urso (53 anni), il primo problema è stato trovare chi finanziasse un acquisto così rilevante. Hanno detto di no 8 banche su 14. Le altre sei hanno invece detto di no alla durata del mutuo: per avere l’ammortamento in 30 bisognerebbe avere meno di 45 anni. Uniche proposte arrivate: rimborso in 20 anni con rate fra 11 e 12 mila euro al mese. Circa il doppio dell’indennità parlamentare ufficialmente dichiarata. Come ha fatto allora Urso? L’unica è stata chiederlo al diretto interessato. Che non si è tirato indietro, anzi. E’ stato prodigo di particolari. All’inizio ha protestato: “Ma come? Io seguo la linea di Fedele Confalonieri e facendo il viceministro ho comprato casa con un regolare mutuo, come chiede lui, e proprio sulla mia casa venite ad indagare?”. Ma poi cortesemente spiega tutto: “Primo, io ho due figli di cui sono orgoglioso che da quando hanno 18 anni si sono messi a lavorare regolarmente. Anche mia moglie, da cui sono separato, ha sempre lavorato. Secondo: ho cercato casa a lungo, e poi ho trovato quella che mi piaceva, sia per me che per uno dei miei figli. Una è il doppio dell’altra. Zona prestigiosa, certo. Quarto piano, ma non è un attico: affaccio sull’interno. Non dico che è brutta, l’ho comprata perché mi piaceva: ma penso di avere pagato il prezzo giusto: circa due milioni per una, circa un milione per l’altra. Nel 2009 dopo il boom del mercato immobiliare, i prezzi hanno iniziato a scendere un po’”. E il mutuo? “Tutto trasparente. Finanziato l’80 per cento del valore dell’immobile. Contratto trentennale a tasso variabile, ho anche l’accordo per estenderlo a 40 anni!”, Beh, non capita tutti i giorni di trovare una banca che scommetta di trovarti ancora lì a pagare le tue belle rate oltre i 90 anni… A proposito, quanto pesano queste rate? “Vado a memoria: 5.600 euro al mese per la mia casa e 2.800 euro al mese per quella di mio figlio”. Fanno 8.400 euro al mese. Ma è sicuro di poterseli permettere sempre? “Ah”, sorride Urso, “certo senza lo stipendio da parlamentare e l’indennità da viceministro avrei qualche difficoltà a pagare le rate. Ma io ho fatto una scommessa sulla durata lunga del governo di Silvio Berlusconi, e anche il mio mutuo è lì a testimoniarlo”. Già, perché se il governo cade, dovrà pensarci Fare Futuro a quelle rate… “Ma no, che dice? Fare futuro mai. Non si mischia così pubblico e privato. Per altro è sempre stata la mia linea. Sono orgoglioso di non avere mai chiesto finanziamenti pubblici per la mia rivista politica e di avere fatto la stessa cosa con la fondazione Fare futuro: solo sostegni privati. Ma poi glielo ho detto: il governo durerà a lungo, il rischio non c’è. E in ogni caso i miei figli lavorano duro e sono proprio bravi”.
Bondi si riconquista Arcore
Per un tempo indefinito, ma per lui lunghissimo, il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi ha tenuto di perdere la sua preziosa casa di Arcore, quasi di fronte alla villa dove abita il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Tutta colpa della più classica delle vicende coniugali. La bella casa era stata infatti acquistata quando il ministro andava d’amore e d’accordo con la moglie, Maria Gabriella Podestà. E come avviene in questi casi i due cuori si sono uniti in una capanna formalmente intestata al 50 per cento ciascuno. Proprietà un po’ di Bondi, un po’ della Podestà. Poi il matrimonio del ministro- si sa, non violiamo alcuna privacy- ha subito le sue traversie, fino alla piena burrasca. Bondi vive con una nuova compagna, la collega azzurra Manuela Repetto, e il suo matrimonio è finito con una separazione legale. Prima di Berlusconi dunque Bondi ha dovuto fare i conti con gli avvocati della separazione. E ha corso quel brivido: di perdere- perché spettante alla moglie- quell’abitazione con affaccio sulla residenza del presidente del Consiglio. Eventualità questa da fare tremare le vene dei polsi. Assolutamente da scongiurare. E così è stato: con grande pazienza il ministro dei Beni culturali ha ottenuto la separazione consensuale, e con atto del 31 agosto scorso depositato il 2 settembre 2009, ha riavuto indietro anche quel 50% di casa Arcore che non possedeva. Un bene che evidentemente non aveva prezzo, e infatti non è stato valutato dal notaio che effettuava il trasferimento di proprietà. Ma nell’atto è stato scritto un saggio “mai più”, e cioè che mai più Bondi cederà ad altri quel pezzo di casa di Arcore. All’atto è allegato “l’espresso accordo che il trascrivendo trasferimento non verrà meno in caso di riconciliazione dei coniugi”. Anche se con la prima moglie dovesse fare pace, casa Bondi sarà solo del ministro per sempre…
Le 350 abitazioni dei casalinghi del governo Berlusconi
I ministri del governo di Silvio Berlusconi sono diventati tutti perfetti casalinghi. Possono lavorare al ministero, andare in giro per convegni o anche restare a casa. In una delle loro tante case: ne hanno 126, in media fra 5 e 6 ciascuno. Certo, nessuno di loro batte il capo del governo che ha una decine di ville di rappresentanza e molti più appartamenti disseminati in giro per il mondo. Ma anche senza avere i milioni o i miliardi che escono dalle tasche, ministri, viceministri e sottosegretari hanno certamente un buon fiuto immobiliare. Tutti insieme- secondo i dati di Sister-Agenzia del Territorio, posseggono la bellezza di 348 fabbricati (126 ministri e viceministri e 222 i sottosegretari), a cui si aggiungono 295 appezzamenti di terreno (154 i ministri e 141 i sottosegretari). Fanno in tutto 643 proprietà immobiliari, e anche se in quel numero ci sono pure rustici, box auto indipendenti e soffitte magari da ristrutturare, fa sempre una bella impressione: se non una città, riunendole tutte insieme si fa un bel paese solo per il governo. La passione per il mattone sembra per altro coincidere proprio con l’attività politica e l’ingresso nell’esecutivo. Quasi tutti hanno acquistato casa a Roma, anche se ne avevano già nella città natale e magari in campagna, al mare o in montagna. Qualcuno l’affarone l’ha fatto proprio durante l’ultimo governo. Quello più prezioso l’ha portato a casa (proprio così), il viceministro del Commercio Estero, il finiano Adolfo Urso. Più che una casa, un complesso immobiliare centralissimo vicino al Palazzaccio, dove ha sede la Corte di Cassazione. Urso ha acquistato dal gruppo Refin casa (9,5 vani), cantina, locali annessi e un preziosissimo box auto a fine maggio del 2009. Top secret il prezzo, ma qualcosa dice il supermutuo ipotecario che lo stesso giorno il viceministro ha stipulato con Intesa-San Paolo ex Banco di Napoli. L’importo è il più alto che sia mai stato concesso a un membro del Parlamento: 1,6 milioni di euro spalmabile in 30 anni (anche per alleggerire rate che comunque valgono assai più dell’indennità parlamentare) a un tasso di interesse annuo del 5,5%. Con quel mutuo non restano grandi risorse per altri acquisti, così il proprietario dell’immobile di deve essere intenerito e qualche giorno fa, con atto depositato il 6 maggio 2010, ha ceduto ad Urso gratuitamente i diritti reali sul lastrico solare dell’immobile. Tanta generosità non hanno trovato invece i suoi colleghi di governo che in questo biennio hanno deciso all’unisono di prendere casa (o una nuova casa). Mara Carfagna a Roma abitava già dal 2001, ma sulla Cortina di Ampezzo che è un po’ lontana dalla sede ministeriale. Una casetta: 2,5 vani comprata con un mutuo Bnl da 77.648 euro. Ma erano i primi tempi nella capitale e qualche sacrificio bisognava pure fare. Diventata ministro, la Carfagna ha iniziato a cercare una casa più di rappresentanza e anche più vicina al lavoro. L’ha trovata proprio a quattro passi, all’inizio del 2009. Prima ha venduto la sua vecchia casetta a una società medica di Napoli, la Nice srl di Valeria De Magistris. Poi ha acquistato da una signora venezuelana la nuova casa centralissima: quinto piano, grande vista e 7,5 vani. Prezzo? L’ha rivelato la stessa Carfagna: 930 mila euro.
Affare immobiliare poco dopo l’insediamento anche per Gianfranco Rotondi, uno che a proprietà immobiliari non scherza (ha case ad Avellino, Firenze, Roma e Teramo). Era da poco al governo, e la transazione si è conclusa ad inizio agosto del 2008, proprio nella sua Avellino. Bella casa, su due piani e un’autorimessa da 50 metri quadrati. L’ha venduta a Rotondi la Edil Av srl per 550 mila euro. Il ministro ha però chiesto e ottenuto dal Banco di Napoli un mutuo da 440 mila euro da restituire in 30 anni al tasso di interesse annuo del 5,67%.
Anche Renato Brunetta, rapido come la solito, non si è fatto sfuggire qualche buon affare nei pochi momenti lasciati liberi dalla continua caccia ai fannulloni. Lui lavora come un matto, ma a dare un’occhiata al patrimonio è fra i più casalinghi dell’esecutivo: ha infatti case nel perugino (Monte castello di Vibio), a Roma, Venezia, Ravello e nelle Cinque terre. Proprio qui, a Riomaggiore, Brunetta ha realizzato il suo ultimo affare. Sarà per i suoi pressanti impegni, ma l’atto porta la data del 24 dicembre 2009. Ha acquistato sia il terreno che un fabbricato in corso di ristrutturazione da cui godersi uno dei panorami costieri più straordinari di Italia (fa concorrenza alla sua altra casa di Ravello). Nessuna indicazione di prezzo, ma non depone a favore di Brunetta il cognome del venditore: si chiamava Stefano Pecunia. Fra i ministri che hanno comprato casa da quando sono al governo un posticino l’ha conquistato anche Giorgia Meloni, che nel gennaio 2009 ha conquistato il suo piccolo rifugio all’Ardeatino per 370 mila euro e grazie a un mutuo Banco di Napoli da 151.572 euro, durata quinquennale e tasso del 3,63%.
Murdoch scende in campo a fianco del Papa perchè si è convertito? A guardare il battesimo delle figlie sulle rive del Giordano, sembra di sì
La foto campeggia sulla prima pagina di “Hello!”, una sorta di “Chi” inglese nel gossip familiare delle celebrità mondiali. Rupert Murdoch ritratto insieme alla moglie Wendi Deng , alla regina Rania di Giordania, a Nicole Kidman, sorride nel giorno del battesimo delle due figlie di ultimo letto, le piccole Grace (8 anni) e Chloe (6 anni). La cerimonia si è svolta il 22 marzo scorso sulle rive del fiume Giordano, celebrata da un prete cattolico proprio nell’esatto luogo dove tre dei quattro vangeli (Marco, Luca e Matteo) raccontano che Gesù Cristo avesse ricevuto il battesimo da Giovanni Battista. Madrina di battesimo è stata appunto la Kidman, attrice che non fa mistero della sua fede cattolica. Padrino un attore cattolico australiano, Hugh Jackman. Un fatto non vissuto privatamente, perché l’ampio servizio fotografico che occupa le 18 pagine è certamente stato autorizzato da Murdoch. Tanto da volere sembrare un messaggio al mondo su una possibile conversione del più potente imprenditore dei media internazionali. L’ha interpretato così, ad esempio, l’editorialista del Guardian, Nicholas Blincoe, che ha commentato quelle foto sotto il titolo” Una rinascita per Rupert Murdoch?- Con il battesimo delle sue figlie sulle rive del Giordano forse il capo di News Corp sta segnalando la sua personale conversione”. Certo che alla nascita le due bimbe di Murdoch non sono state battezzate, e farlo dopo anni in modo così suggestivamente simbolico e pubblicizzato è certo segno di una decisione dei genitori lungamente pensata e maturata. Per altro giunge dopo un’altra conversione in seno alla famiglia Murdoch, quella vissuta assai più privatamente del figlio James, vero erede del padre nella News corp, e noto in Italia sia perché si occupa direttamente di Sky, sia per la sua partecipazione all’ultimo Meeting di Rimini, da cui sembra sia rimasto particolarmente segnato.
Sono più di uno quindi gli elementi personali della famiglia di Murdoch che accompagnano la scelta recentissima del Wall Street Journal di scendere in campo nella battaglia mediatica sugli scandali pedofilia per difendere Papa Benedetto XVI. Iln più importante quotidiano finanziario del mondo, posseduto dai Murdoch, ha sfoderato nell’occasione la firma di uno dei suoi più potenti columnist, William McGurn. Non si tratta di un qualsiasi editorialista del gruppo, ma di un cattolico che ha e ha avuto in passato ruoli manageriali in News corporation e che da anni scrive i discorsi più delicati ( i cosiddetti “position papers”) per lo stesso Murdoch. Non lo ha fatto solo fra il giugno 2006 e il febbraio 2008 quando l’allora presidente Usa George W. Bush lo ha chiamato alla Casa Bianca a guidare il team di chi scriveva i suoi discorsi ufficiali, dietro un compenso di 261 mila dollari all’anno.
Potrebbe esserci una scelta editoriale, in parte una scelta politica (Murdoch non ha in simpatia Barack Obama e i media del gruppo non hanno lesinato attacchi al presidente Usa anche sulla linea abortista), ma anche una profonda convinzione personale del tycoon del media in questo sostegno inatteso a Benedetto XVI. D’altra parte i rapporti diplomatici fra Murdoch e il Vaticano sono buoni da molti anni. Fu il magnate anglo-australiano a donare nel dicembre 1999 alla Conferenza episcopale americana i 10 milioni di dollari che servivano alla costruzione della nuova cattedrale di Los Angeles. Nel gennaio dell’anno precedente l’arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, aveva insignito Murdoch dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno, con tanto di benedizione papale che scandalizzò molti cattolici romani. E forse sono stati proprio i rapporti che si crearono all’epoca a determinare la nuova svolta religiosa del magnate.
Se volete il Papa a processo, consegnate Obama a Spataro- La curiosa linea difensiva in Usa dell'avvocato di fiducia del Vaticano
Volete Benedetto XVI in aula come testimone nei processi sulla pedofilia nella chiesa americana? Benissimo, allora ordinate al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di andare a testimoniare a Milano sulle direttive date alla Cia per il rapimento di Abu Omar. A chiedere alla Corte suprema degli Stati Uniti l’applicazione di una sorta di par condicio giudiziaria è niente meno che lo Stato Città del Vaticano. Il paradosso legale è infatti formalmente depositato presso la Corte suprema americana da Jeffrey S. Lena, l’avvocato che coordina la difesa della Chiesa nei processi per pedofilia. La deposizione al processo è stata chiesta per papa Benedetto XVI da un avvocato del Kentucky, William McMurry, insieme a quella del cardinale Tarcisio Bertone, del cardinale William Levada e del nunzio apostolico in Usa, Pietro Sambi. Respinta una prima volta nel 2007 è stata ripresentata con documentazione a sostegno. Così il caso Kentucky è finito davanti alla Corte suprema americana insieme a quello dell’Oregon, in cui un tribunale vorrebbe chiamare a rispondere penalmente e civilmente il Papa e lo Stato Città del Vaticano degli abusi commessi da alcuni preti pedofili. La documentazione legale dei due fronti è approdata ora davanti alla Corte, che non ha ancora calendarizzato l’udienza. Gli avvocati delle vittime degli abusi hanno trasmesso un documento- per altro già rivelato dalla stampa britannica nel 2002- che secondo loro dovrebbe rappresentare la pistola fumante per dimostrare le responsabilità apicali del Vaticano nello scandalo. Si tratta di un documento non firmato di una sessantina di pagine, dal titolo “Crimen sollicitationis” che risale al 1962 e che secondo la tesi accusatoria sarebbe stato approvato dal “Papa buono”, Giovanni XXIII. Il documento fornisce istruzioni ai vescovi su come comportarsi davanti a casi di abusi sessuali o addirittura “comportamenti bestiali” che potessero emergere nell’episcopato. La regola era di proteggere accusati e vittime fino all’accertamento della verità mantenendo il massimo riserbo possibile sull’accaduto. Consigliando comunque di trasferire ad altra sede o altro incarico i sospettati. I procedimenti sarebbero stati immediatamente incardinati presso il Sant’Uffizio e secretati pena scomunica. Stesso segreto (e stessa pena in caso di violazione) avrebbe dovuto riguardare l’identità dei denuncianti e di eventuali testimoni. Denunce anonime dei fatti invece sarebbero state cestinate, a meno che già non gravassero sospetti su quei casi e si ritenesse quindi utile un’inchiesta. Al termine delle indagini riservate, se le accuse venivano ritenute del tutto infondate, ogni documento sarebbe stato distrutto. In caso di accuse indeterminate e senza riscontro, la pratica sarebbe stata archiviata e la documentazione conservata per inchieste future. In caso di prove riscontrate invece il processo sarebbe stato celebrato sentendo anche il colpevole. Queste istruzioni sarebbero state allegate anche a una nuova lettera inviata a tutti i vescovi nel 2001 dal cardinale Joseph Ratzinger, che guidava la congregazione per la dottrina della fede. E quindi secondo gli avvocati delle vittime di abusi dimostrerebbe la responsabilità apicale della Chiesa cattolica nel cercare di circoscrivere e insabbiare lo scandalo pedofilia.
Dello stesso documento offre una lettura diametralmente opposta naturalmente l’avvocato Lena, secondo cui al massimo si dimostrerebbe l’intenzione della Chiesa di fare inchieste serie sui casi di abusi sessuali fin dal 1962 e il riserbo delle indagini sarebbe stato innanzitutto a garanzia delle vittime (sia per le conseguenze sulla vita privata sia per non esporle a tentativi di vendetta). Viene depositata dai legali vaticani anche una interpretazione del documento firmata da un esperto di diritto canonico, il professore Thomas P: Doyle che confuta tutte le tesi di McMurry.
Quanto alla richiesta di testimonianza del Papa al processo, Lena prima rivendica presso la Corte suprema l’immunità diplomatica garantita a un capo di stato straniero come il pontefice, poi spiega che se questa richiesta fosse ritenuta esaudibile, allora avrebbero legittimità le richieste di tutte le corti di paesi stranieri di fare comparire a processo il presidente degli Stati Uniti nei casi di “extraordinary renditions” compiute dalla Cia in quei territori, “come è avvenuto in Italia”. Quanto all’organizzazione piramidale del Vaticano che imporrebbe il coinvolgimento dello Stato estero nell’azione civile intentata dalle vittime di abusi, l’avvocato Lena spiega alla Corte suprema che la Chiesa non è una società per azioni con a capo una holding di diritto vaticano, e che quindi non si può applicare la responsabilità amministrativa per un ente morale. La richiesta invece equipara il Vaticano a una qualsiasi multinazionale, pur non avendone in alcun modo la configurazione giuridica.
Benedetto XVI mangia meno strudel, ma è sereno. E' la Curia ad essere terrorizzata per l'offensiva sulla pedofilia
Chi lo ha visto tutti i giorni nelle ultime settimane racconta di un Benedetto XVI provato, stanco, fisicamente sofferente. Il Papa cammina con fatica perfino all’interno degli appartamenti pontifici, sorride ed assaggia appena un pezzetto dell’amato strudel con le mele annurche che gli preparano le collaboratrici laiche che da anni lo assistono. Mangia poco, spesso non tocca nemmeno quelle mozzarelline di bufala che il suo segretario, padre Georg Gaenswein, gli fa arrivare da Frattamaggiore. Anche la via Crucis seguita in papa mobile, le vacanze estive disdette per la prima volta scegliendo il meno faticoso ritiro di Castelgandolfo rendono evidenti a tutti questa sofferenza. Che non è solo esterna, perché il Papa- racconta chi gli sta più vicino- ha vissuto con grande dolore quel che è stato chiamato lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma non si sente sotto assedio. Joseph Ratzinger è sereno, profondamente sereno. E ha a cuore oggi forse più di prima quella guida pastorale del suo popolo che è probabilmente la vera ragione dello scandalo e di quell’assedio che racconta quotidianamente la stampa di tutto il mondo. E’ la verità del cristianesimo, quell’unione fra fede e ragione raccontata nelle udienze del mercoledì attraverso le vite dei santi ad occupare il Papa. E non lo preoccupa quel che emerge perfino dentro la Chiesa.
E’ nelle altre stanze vaticane che si vive con timore questo assedio di cui forse alcuni cardinali e alti prelati ingigantiscono oltremodo la portata. Non pochi rifiutano colloqui telefonici e- quando inevitabili- evitano accuratamente giudizi e riferimenti a vicende di cronaca. Perfino gli indirizzi di posta elettronica più riservati sono utilizzati con cautela e sospetto: chi vuole parlare lo fa solo a quattro occhi. Chiedi se immaginano una regia ad organizzare la campagna che monta ormai ha troppe radici diverse: quelle dell’ America puritana e di cultura ebraica, quelle anglicane, quelle semplicemente laiche e anticlericali da cui ti saresti atteso qualsiasi spallata, ma anche quelle cristiane, cattoliche, addirittura nella patria stessa del Pontefice. Sulle prime chi si incontrava in Curia ripeteva quasi rassicurante che forse regia c’era, ma solo per comuni interessi economici. I casi di pedofilia erano noti da anni, in ogni dettaglio proprio quelli che venivano sventolati in queste settimane. Se si alzava il tiro era solo per soldi: fare circolare come indiscreti documenti notori, farli pubblicare sui giornali e poi sfruttarne il clamore era utile a un manipolo di studi legali che puntando il dito sul Vaticano e trovando un giudice disposto a seguirli avrebbero fatto lievitare oltremisura risarcimenti e parcelle. Ma la furia delle onde in tempesta è seguita così devastante, si è unita a venti impetuosi e diversi nazione dopo nazione (si guardi all’Italia, dove il tiro al Papa ha sostituito dopo il flop elettorale immediatamente il tiro a Silvio Berlusconi), che oggi nelle stanze vaticane pochi credono sia solo questione di soldi. Per questo si ripercorrono le tappe di questo pontificato trovando uno dopo l’altro chi e perché soffia su quei venti.
La Chiesa. C’è una data- chiave che spiega da dove nascono gtli attacchi interni al Papa. E’ quasi all’inizio del pontificato di Benedetto XVI: il 22 dicembre 2005, giorno dell’incontro con la curia romana per gli auguri natalizi. E del suo giudizio tagliente sul Concilio Vaticano II, che per il Papa non è stato una “apertura al mondo”, ma nel solco pieno della tradizione millenaria della Chiesa, solo un “passo fatto verso l’età moderna che appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto fra fede e ragione”. Detta così sembra solo una questione dottrinale, e invece all’interno della Chiesa è stato discorso di rottura decisa. Da lì il Papa è stato sentito come un nemico da gran parte dell’ala liberal e progressista degli episcopati. Lì e in altri discorsi sui valori fondamentali, sulla difesa assoluta della vita, si è consumato il vero scontro fra il Papa, il mondo laico e anticlericale (e questo era ovvio) ma soprattutto una parte non marginale della Chiesa. Se oggi la conferenza episcopale tedesca e buona parte di quella austriaca sono anche apertamente critiche del pontificato, il motivo è proprio in quel discorso del dicembre 2005, acqua ghiacciata sull’interpretazione rivoluzionaria del Vaticano II.
Ebrei e mussulmani. Meno teologica e più facile da comprendere l’avversione del mondo mussulmano e di quello ebraico nei confronti del pontefice. Il discorso di Ratisbona incendiò subito l’Islam. La liberalizzazione del rito antico, che ha rispolverato la formula sulla conversione degli ebrei, il recupero della comunità lefebvriana (il vescovo negazionista, ma tutti erano sospettati di dottrina antisemita), l’annuncio prima di recarsi in Sinagoga della beatificazione di Pio XII hanno creato un solco profondo fra Benedetto XVI e i rabbini di tutto il mondo.
Protestanti. Occasioni dirette di scontro non sono state così evidenti. Ma certo non è stato gradito il percorso di avvicinamento e perfino di apertura al rientro degli anglicani in seno alla chiesa cattolica romana. La Costituzione apostolica messa punto dal cardinale William Levada per l’occasione seguiva infatti una richiesta avanzata dalle comunità anglicane più tradizionaliste spaventate per l’apertura dell’ala liberal verso l’ordinazione di donne e omosessuali dichiarati. Più che come un gesto di comunione così quell’apertura del Papa è stata interpretata come un vero e proprio progetto scismatico sulla chiesa anglicana.
Tutto questo teme la Curia, con cui peraltro il papa ha scarsissimi rapporti: gli unici che frequenta settimanalmente e da cui Benedetto XVI coglie umori di palazzo e apprende notizie dal mondo sono infatti il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il cardinale Giovanni Battista Re e il ricordato cardinale Levada. Altre cose arrivano sulla scrivania di Padre Georg grazie a una rassegna stampa filtrata dalla segreteria di Stato e che non sempre giunge nelle mani del Pontefice.
Ma anche se a gocce e filtrato da racconti altrui, il Papa conosce bene quel che sta avvenendo nel mondo e nella Chiesa. Un vescovo gli ha riferito anche parole allarmate scritte in una lettera privata dall’ex presidente del Senato, Marcello Pera: “come è possibile che un miliardo di cristiani assistano in silenzio ed impotenti al tentativo di distruggere il Papa, senza rendersi conto che dopo questo non ci sarà più salvezza per nessuno?”. Certo, Benedetto XVI vive con dolore i fatti avvenuti nel suo gregge perché ne è il pastore. Ma non è preoccupato dell’assedio. Come ha ripetuto a chi ha incontrato anche in questi giorni: “è solo Cristo che assedia la Chiesa”.
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