Gattegna sfodera accuse di razzismo per un pezzo che non gli piace: Così banalizza la Shoah



Egregio Direttore,
sono rimasto stupito e costernato nel leggere l’articolo “Talmud tradotto- Berlusconi soffia gli ebrei a Fli” pubblicato da “Libero” l’8 dicembre scorso a firma di Franco Bechis.
E’ grave che un professionista esperto cada in un errore tanto grossolano e che confonda un’importante iniziativa culturale, la cui progettazione risale a diversi mesi fa, con un presunto mercanteggiamento elettorale dell’ultima ora che non è mai avvenuto e mai potrebbe avvenire.
Né l’autore dell’articolo né il giornale da lei rappresentato possono ignorare che per la cultura del nostro Paese sarebbe un grande arricchimento dotarsi della traduzione in italiano del Talmud, un’opera monumentale e fondamentale non solo per gli ebrei ma per l’intera società.
Mi rivolgo a lei per chiederle di riesaminare ciò che è stato pubblicato, tenendo presente che gli ebrei italiani si sono sentiti gravemente offesi nella loro onorabilità e preoccupati per la riproposizione di vecchi stereotipi che in passato hanno prodotto tanti lutti e tanti orrori.
Sarebbe un gesto apprezzabile se questa mia lettera fosse pubblicata sul giornale da lei diretto con il dovuto risalto.
Avv. Renzo Gattegna
presidente Unione comunità ebraiche italiane


Caro avvocato Gattegna, sono ebreo e italiano. E naturalmente non mi sento per nulla offeso da quel che ho scritto e fatico non poco a comprendere come possa esserlo lei o chiunque altro. Non ho mai scritto di un mercanteggiamento della comunità ebraica per il finanziamento della traduzione italiana del Talmud. Né ha senso riferirsi a un mercanteggiamento elettorale, visto che non si vota e la parola “elezioni” in questo momento sembra tabù per chiunque. Ho solo scritto che la scelta (a dicembre, non mesi fa) del governo italiano di trovare un finanziamento straordinario di 5 milioni di euro per tradurre il Talmud avrebbe fatto piacere all’Unione delle comunità ebraiche italiane. La sua lettera dice il contrario: evidentemente mi sono sbagliato. O non le fa piacere il finanziamento, oppure non le fa piacere che sia pubblico il nome del donatore: il governo di Silvio Berlusconi. E’ libero di dispiacersi per quel che vuole. Non le consento però da ebreo, appartenente a una famiglia perseguitata durante la seconda guerra mondiale, in cui chi è sopravvissuto lo ha fatto perché riuscito a fuggire lontano dal paese dove era nato, di banalizzare per una sua piccola polemica una tragedia dell’umanità. Di quali stereotipi, di quali lutti e di quali orrori va cianciando a proposito di un articolo sui finanziamenti alla ricerca? Trovi una sola parola nel testo pubblicato che dia appiglio alla viltà con cui lei replica. Mi stupisce che lei- per la carica che ricopre- possa brandire la Shoah con tale banale leggerezza, solo per dire “Io ho ragione (ed è un suo diritto), e se non mi dà ragione allora lei è un persecutore e perfino razzista (e questa è solo ottusa prepotenza)”. Faccio il giornalista, pubblico notizie e talvolta cerco di fornirne l’interpretazione. Può capitare di sbagliare o di trovare chi non è d’accordo. Lei come tutti ha il diritto di replica o di rettifica. Non di non abusarne, e tanto meno di offendere.

Franco Bechis

Berlusconi trova 5 milioni e lì dà alle comunità ebraiche per tradurre il Talmud


Gianfranco Fini ci ha impiegato una vita per scrollarsi dalle spalle il passato e conquistarsi il favore di una delle comunità più piccole, ma potenti del paese: quella ebraica. Ci sono voluti anni di abiure e distacchi, pazienti lavori diplomatici degli amici Alessandro Ruben e Giancarlo Elia Valori che furono alla base del suo antico viaggio in Israele. A Silvio Berlusconi è bastato un secondo e quattro righe di testo per conquistare da quella piccola, ma potente comunità non solo simpatia, ma gratitudine e riconoscenza proprio un uno dei momenti più difficili e delicati della vita del governo. Lo scorso tre dicembre infatti il governo Berlusconi ha mandato in Senato a firma del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini (fedelissima berlusconiana) le scelte del ministero e dell’intero esecutivo per finanziare in ogni settore la ricerca: dalla scienza alle lettere, dalle arti alla tecnologia. La somma trovata, pur fra le pieghe dei tagli imposti da Giulio Tremonti, è rilevante: un miliardo e 754 milioni di euro. Ed è anche più alta di quella proposta l’anno precedente (era un miliardo e 628 milioni di euro), contrariamente a quel che si dice in convegni non solo delle forze di opposizione. E’ in quel fiume di fondi pubblici che spunta una decisione piccola ma importantissima per la comunità ebraica: il fondo governativo per la ricerca ha deciso di finanziare un progetto che il Cnr ha siglato con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane- Collegio rabbinico nazionale. Si mette a disposizione un milione di euro per il 2011 e se ne garantiscono già altri quattro milioni fino al 2015 (qualsiasi governo sarà tenuto a rispettare la decisione) per “la traduzione integrale in lingua italiana, con commento e testo originale a fronte, del Talmud, opera fondamentale e testo esclusivo della cultura ebraica”. Il Talmud accanto alla Torah è il principale testo sacro della tradizione ebraica ed è un’opera monumentale. Letteralmente la parola Talmud significa “insegnamento” ed è in sostanza la “Torah orale” rivelata sul monte Sinai a Mosè e da lui trasmessa di generazione in generazione fino a quando non fu messa per iscritto da maestri e sapienti dopo la distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme, nel timore che gli israeliti potessero scomparire. Scritto in aramaico è stato tradotto dal rabbino Adin Steinsaltz in ebraico moderno, un lavoro che ha visto schierati con lui i massimi esperti di testi sacri ebraici e che è durato 50 anni, con alcune traduzioni terminate proprio in questo 2010. Quella traduzione ha naturalmente contribuito a diffondere il Talmud fra gli ebrei di tutto il mondo in modo più comprensibile di quanto non fosse avvenuto finora. Grazie al rabbino Steinsaltz il testo sacro è stato tradotto più agevolmente anche in francese, russo, tedesco e inglese. In italiano esistono solo alcune parzialissime traduzioni, ma il lavoro sarà più semplice di quello di Steinsaltz perché basterà partire dall’ebraico moderno e dalle interpretazioni del testo già adottate in questi 50 anni (era la parte più difficile). Vista la complessità dell’opera, non deve stupire l’impegno finanziario per la traduzione in italiano (5 milioni di euro), visto che per cinque anni dovrà lavorare una squadra di trenta professionisti. La scelta del governo e del Cnr ha ovviamente scatenato l’entusiasmo sia del rabbino capo di Roma, rav Riccardo di Segni sia del direttore del collegio rabbinico, Gianfranco Di Segni (che è biologo molecolare proprio al Cnr) secondo cui “con la traduzione si potrebbe rendere accessibile ai più il talmud. Potrebbe essere un primo passo per spingere molte persone ad intraprendere il difficile cammino dello studio dei trattati indispensabili per comprendere la nostra realtà”.
Se il favore della comunità ebraica italiana non è cosa da poco conto per Berlusconi in un momento politicamente così delicato, nel decreto per la ricerca del 3 dicembre scorso non ci sono solo le assegnazioni straordinarie al Cnr per il progetto Talmud, ma anche altri piccoli e grandi finanziamenti molto significativi per la ricerca: come i primi fondi per il progetto “bandiera Epigenomica” (costo di 30 milioni in tre anni) per “lo sviluppo della scienza genetica, con particolare riferimento alla teoria del sequenziamento del Dna e del Rna”. A grandi capitoli sarà comunque il Cnr il maggiore beneficiario dei fondi per la ricerca (627 milioni di euro) seguito dall’Agenzia spaziale italiana (574 milioni), dall’Istituto nazionale di fisica nucleare di Frascati (308 milioni di euro) e dall’Istituto nazionale di astrofisica (103 milioni di euro). Sempre nell’ambito del finanziamento al Cnr sono stati trovati anche 300 mila euro a titolo di “contributo straordinario per attività di ricerche internazionali con Israele nell’ambito del programma di ricerche Lens”.

Ciampi e Scalfaro si fecero scappare anche il boss di Gomorra



Il capo del clan dei Casalesi, il protagonista principale delle vicende di Gomorra raccontate da Roberto Saviano, scrisse nell’agosto del 1993 al presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro chiedendogli la revoca del regime carcerario duro previsto dal 41 bis. Francesco Schiavone detto Sandokan dunque supplicò insieme ad altri tre boss della camorra Scalfaro di “revocare il trattamento penitenziario a cui siamo sottoposti e di ripristinare la legalità. La lettera di Schiavone fu resa pubblica l’11 agosto di quell’anno, poche settimane prima che il ministro della Giustizia Giovanni Conso firmasse la revoca del carcere duro per 140 boss mafiosi. E’ un nuovo inquietante particolare che emerge fra le pieghe di quell’anno oscuro in cui il governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (chiamato “governo del Presidente” anche perché voluto fermamente da Scalfaro) accettò di fatto le condizioni che la criminalità organizzata aveva dettato nella stagione degli attentati e delle stragi. Per Schiavone in realtà non ci fu bisogno di quella revoca, perché fu la magistratura dell’epoca ad alleggerire la condizione carceraria del capo del clan dei Casalesi. Il 17 ottobre del 1993 infatti i giudici della Corte di Appello di Napoli presero la clamorosa decisione di alleggerire la sua pena già comminata nell’attesa dei processi chiave ancora in corso (per cui sarebbe stato poi condannato all’ergastolo), scarcerandolo e limitandosi a firmare un provvedimento di sorveglianza speciale per tre anni. Il giorno stesso della scarcerazione Schiavone detto Sandokan si è reso latitante. E così proprio mentre si apprestava a firmare la resa alle condizioni imposte dalla criminalità organizzata il governo Scalfaro-Ciampi-Conso si fece sfuggire di mano uno dei più pericolosi camorristi esistenti, il capo del clan dei Casalesi.
Resta ancora un giallo per altro la ragione per cui l’allora ministro della Giustizia, Conso, firmò quell’anno come guardasigilli di Ciampi due provvedimenti di maxi-revoca del 41 bis a boss della Camorra e della mafia. Il primo fu il 14 maggio e riguardò 140 detenuti delle carceri di Secondigliano e di Poggioreale. Il secondo avvenne il 5 novembre e alleggerì la condizione carceraria per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone.Davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe Pisanu l’ex ministro della Giustizia del governo Ciampi ha ricordato soltanto il secondo provvedimento di revoca del regime carcerario duro ai boss, dimenticando il primo. E ha sostenuto di averlo adottato in segreto e in solitudine, per verificare se quel segnale di disponibilità fosse utile a mettere fine alla stagione stragista di Cosa Nostra. Conso però ha omesso molti particolari di quell’anno emersi anche documentalmente nelle ore successive. A parte il primo provvedimento di revoca, esisteva anche un verbale del comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico in cui prima l’ex capo della polizia, Vincenzo Parisi (legatissimo a Scalfaro) e poi l’allora direttore delle carceri italiane, Nicolò Amato, proposero l’abolizione o l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi. La commissione antimafia ha per questo deciso di riconvocare Conso insieme ad altri esponenti delle istituzioni dell’epoca (Nicolò Amato e Ciampi). Ieri sera il Tg1 ha provato a intervistare telegfonicamente sul tema lo stesso imbarazzatissimo Conso. L’ex ministro ha risposto al telefono, prima fingendo di non essere in casa: “No, mio padre non c’è”, ha balbettato (Conso ha 88 anni, ndr). Poi ha ammesso la sua identità e si è scusato, spiegando che l’argomento è troppo delicato per concedere interviste, e che chiarirà i dubbi emersi nelle sedi istituzionali: in antimafia e presso la procura della Repubblica di Firenze, che sta conducendo una indagine sulle presunte trattative dell’epoca fra Stato e Mafia.
Fra i testimoni dell’epoca è probabile che venga sentito anche l’allora capo della Dia, prefetto Gianni De Gennaro. Anche perché poche settimane prima del provvedimento di clemenza ai boss mafiosi firmato dal governo Ciampi proprio De Gennaro concesse a La Stampa una allarmatissima intervista così titolata: “Dopo le stragi Cosa Nostra punta al golpe”. De Gennaro così lesse stragi e attentati di quell’estate: “I boss potrebbero essersi convinti che il terrore sia l’unica strada per invertire la tendenza contraria, fidando nell’effetto paura per fiaccare il consenso sociale alla linea governativa. Ma le finalità sono anche di natura più concreta e immediata, per esempio quelle di fare modificare l’atteggiamento istituzionale, cambiando alcune norme di recente emanazione. Una di queste- non l’unica- mi pare possa essere l’articolo 41 bis che regola le modalità di detenzione per i mafiosi. La carcerazione differenziata mette in crisi Cosa Nostra: il mafioso finalmente non comunica con l’esterno e, soprattutto, perde l’aureola di onnipotente anche fra le sbarre. Non è un caso che fra gli attentati sventati ve ne sia uno che stava per essere attuato contro 14 agenti di custodia di Pianosa. Se Cosa Nostra voleva reagire, è segno che il 41 bis non le piace”.
Quindi poche settimane prima della seconda clamorosa calata di braghe di fronte ai boss mafiosi da parte del governo Scalfaro-Ciampi-Conso il direttore della Dia aveva chiesto semmai di non mollare sul 41 bis, spiegandone semmai la grande efficacia. Diventa ancora più misteriosa allora la scelta del governo dell’epoca.

In barca con il boss? Non era Briatore, ma il figlio di Ciampi


 Per sostituire Silvio Berlusconi e affrontare la grave situazione economica e istituzionale il Partito democratico vorrebbe un governo come quello che nel 1993 calò le braghe di fronte alla mafia dandola vinta alla massima organizzazione criminale italiana: il governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi. Proprio nelle ore in cui emerge la grave responsabilità di quell’esecutivo che disapplicò il 41bis (il carcere duro ai boss) come i mafiosi volevano, ricattando lo Stato di strage in strage, uno dei leder del Pd, Walter Veltroni, se ne è uscito con una proposta incredibile: “Si deve dare vita a un governo istituzionale che, come il governo Ciampi, rassereni e dia sicurezza al Paese. Chi vuole votare ora è nemico dell’Italia”. Va bene che il Pd è ormai famoso per non averne azzeccata mai una da quando è nato, ma l’uscita di Veltroni ha fatto strabuzzare gli occhi a molti dei suoi. Proprio quando dentro il partito si stava perfino accarezzando l’idea di accasare (c’è chi dice perfino come leader) un uomo-simbolo dell’antimafia come Roberto Saviano, è sembrato follia uscirsene con quel “modello governo Ciampi” proprio nel bel mezzo delle rivelazioni sui favori fatti dall’esecutivo in quel 1993 ai boss di Cosa Nostra accettando di fatto le condizioni poste dal papello Ciancimino trovato un anno fa. Prudenza avrebbe consigliato di cancellare perfino il ricordo di quel governo, che tutto fece meno che rassicurare l’Italia, ma il Pd- si sa- è fatto così: se trova l’occasione per un hara-kiri ci si butta a capofitto.
Proprio mentre Veltroni confessava al Corriere il suo modello, ieri davanti al pm fiorentino della Dna, Gabriele Chelazzi, si è svolto l’interrogatorio di Nicolò Amato, che nel 1993 era direttore delle carceri italiane. L’ex collaboratore del ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, ha confermato che la decisione di disapplicare il carcere duro ai mafiosi venne proposta dall’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, un fedelissimo del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, e che vi furono anche “pressanti insistenze” per la revoca della carcerazione dura da parte del Viminale, che era guidato da Nicola Mancino. Grazie a questo pressing il governo Ciampi adottò due decreti di revoca del carcere duro ai mafiosi. Uno a maggio e l’altro a novembre e i destinatari erano in tutto 280 boss detenuti nelle carceri di Secondigliano, di Poggioreale e dell’Ucciardone.
Amato ha confermato parzialmente la versione di Conso, dicendo che non vi fu trattativa con le organizzazioni mafiose (non avrebbe per altro potuto dire diversamente), ma discussione politica sì, tutta nelle sedi istituzionali. Lo scopo sarebbe stato quello già rivelato dall’ex ministro della Giustizia: fare finire la stagione delle stragi allentando la morsa di quel 41bis che a tutti era chiaro fosse all’origine degli attentati e degli assassinii del 1992-’93.
Ci sarà da indagare naturalmente sulle versioni e sui motivi di quella scelta, ma intanto i nuovi fatti emersi, le testimonianze e le documentazioni per la prima volta acquisite agli atti sono in grado di riscrivere la storia di quegli anni e probabilmente buona parte della storia di Italia così come l’abbiamo conosciuta. Sentenze comprese.
La vicenda dei rapporti fra Stato e Mafia invece di essere studiata e indagata con prudenza viene spesso utilizzata in modo distorta come manganello di uno schieramento contro l’altro. Ha brandito questo argomento in modo maldestro lo stesso Saviano contro la Lega, scatenando le ira del ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Incidente simile è accaduto ai primi di novembre al Fatto quotidiano ditretto da Antonio Padellaro. Che ha pubblicato l’anticipazione di un libro-intervista alla prima moglie di Flavio Briatore titolando “Quando Mr. Billionaire frequentava i mafiosi” e prendendosi una querela dal diretto interessato. Il Fatto si scandalizzava per la presunta frequentazione da parte di Briatore alla fine degli anni Ottanta di due personaggi: Gaetano Corallo, il re del casinò delle Antille e Rosario Spadaro, re degli hotel delle Antille. Erano loro i mafiosi individuati dal Fatto, e Briatore ha querelato perché sostiene di non averli mai frequentati.
In effetti i due personaggi frequentavano all’epoca il bel mondo. Non la famiglia Briatore, però. Si trattava della famiglia Ciampi. E in particolare del rampollo di Carlo Azeglio, Claudio, che all’epoca era dirigente dell’ufficio di New York della Bnl, in mezzo a mille polemiche per non avere controllato la filiale di Atlanta ed evitato lo scandalo internazionale dei fondi all’Iraq. Ciampi jr aveva rapporti strettissimi con Spadaro, tanto da essere stato intercettato dall’Alto commissario antimafia, Domenico Sica (le carte sono ancora in archivio) numerose volte al telefono con lui e nell’estate del 1989 addirittura mentre erano insieme in barca. Un missino dell’epoca, per anni fiero oppositore di Gianfranco Fini e ora finito fra le sue braccia, il barone Tommaso Staiti di Cuddia, presentò una interrogazione parlamentare che fece molto rumore, ipotizzando che nelle Antille con Spadaro fosse finito anche il governatore della Banca di Italia, Carlo Azeglio Ciampi. In effetti nelle telefonate con Ciampi jr c’erano numerosi riferimenti di Spadaro a un imminente incontro con “il Governatore”. Interrogati poi i due sostennero che il riferimento era al Governatore della isola di Sant Marteen. Ciampi jr per diradare le ombre che si addensavano sul padre ammise la frequentazione con Spadaro, prima sostenendo “non ho letto da nessuna parte che Spadaro sia stato giudicato colpevole di qualche reato”, poi aggiungendo: “Rosario è cliente della Bnl da molti anni, più di dieci. Siccome io mi occupo dell’area commerciale, mi sembra naturale che io abbia contatti con lui. Credo non sia reato e tantomeno peccato andare in barca con qualcuno..”. Spadaro è stato arrestato due volte. Nel 1993 dalla polizia olandese nelle Antille per un’inchiesta sulle tangenti. Nello stesso anno è stato indagato dalla procura di Messina per traffico internazionale di armi. Nel 2005 Spadaro è stato arrestato una seconda volta per ordine della procura antimafia di Reggio Calabria nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”. Reati che non hanno portato al momento a condanne in via definitiva. Resta il fatto che Spadaro in barca andava con il figlio di Ciampi e non con Briatore. Banale particolare che però insieme a quelli ben più seri e sostanziosi che emergono fra i segreti dell’attività del governo Ciampi nei confronti della mafia, racconta una storia assai diversa dalla favola ufficiale narrata. Particolare che sconsiglia vivamente di utilizzare questi temi in modo strumentale: spesso si rivelano armi a doppio taglio.

Scalfaro-Ciampi: da 20 anni fanno la morale a tutti, ma furono loro a calarsi le braghe davanti alla Mafia

Fu per un articolo che Salvo Lima fu assassinato. Fu per lo stesso articolo che saltarono in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che Oscar Luigi Scalfaro divenne capo dello Stato, che esplosero le bombe al Velabro e all’Accademia dei Georgofili. L’articolo è il 41bis dell’ordinamento penitenziario, che isola i boss mafiosi dai contatti con le loro famiglie e dai pizzini dei capi in libertà. Sappiamo da anni dalle inchieste giudiziarie, dai pentiti e dai documenti ritrovati che le stragi e gli attentati del 1992-’93  erano il pressing di Cosa Nostra per ottenere l’abolizione di quel 41bis. Questo sta scritto anche nel famoso papello Ciancimino ritrovato per caso poco più di un anno fa e che sarebbe lì a mostrare la trattativa in corso fra Stato e Mafia. Quel che non era noto invece è che la mafia vinse quel braccio di ferro con lo Stato. E che ad arrendersi fu lo Stato rappresentato al Quirinale proprio da Scalfaro, a palazzo Chigi da Carlo Azeglio Ciampi, al Viminale da Nicola Mancino, al ministero della Giustizia da Giovanni Conso, alla direzione della polizia da un fedelissimo di Scalfaro come Vincenzo Parisi. Fu quello Stato ad arrendersi alla mafia e a dargliela vinta, senza abolire il 41bis ma disapplicandolo di nascosto prima nel maggio e poi nel novembre 1993 a ben 280 boss di Cosa Nostra, metà dei quali erano detenuti a Palermo nel carcere dell’Ucciardone. Nella sua audizione della scorsa settimana davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe Pisanu l’allora ministro della Giustizia, Conso, ha candidamente ammesso di avere deciso di liberare dal giogo del 41 bis nel novembre 1993 quei 140 boss della mafia di propria autonoma scelta, non consultandosi con alcuno e solo per vedere se con un gesto- diciamo così, di distensione- finivano le stragi.  Già l’ammissione in sé ha fatto franare il castello dei teoremi giudiziari di molte procure italiane. Queste sostenevano infatti che fino agli anni Ottanta il referente unico della mafia fosse Giulio Andreotti, poi pentito fino a diventare addirittura il padre del 41 bis. Andreotti- continua il teorema- fu punito per questo con l’assassinio di Lima, cui seguirono quelli di Falcone e Borsellino. A quel punto di strage in strage- continuava il teorema- Cosa Nostra provò a intavolare una trattativa con pezzi dello Stato. E attraverso Ciancimino raggiunse Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi che si preparava a diventare politico e non voleva stragi fra i piedi, per raggiungere lo scopo. Certo, il teorema vacillava perché una volta andato al governo Berlusconi confermò il 41 bis e iniziò anzi una dura lotta alla mafia culminata con un discorso a Palermo nell’ottobre 1994 che fu esaltato perfino da Attilio Bolzoni su Repubblica. Le inchieste cercavano per chiudere la partita qualche documento o qualche atto riportabile a Berlusconi per dimostrare che sì, la trattativa era reale e il 41bis stava per essere abolito. Ora l’ammissione di Conso manda tutto all’aria perché se trattativa mai fosse esistita, le richieste della mafia furono esaudite dal governo Scalfaro-Ciampi-Mancino-Conso. Un bel guaio per dietrologi, magistrati, campioni dell’antimafia, perfino per i vari Roberto Saviano: la loro tesi sui rapporti fra mafia e politica sta diventando un boomerang. E ora rischia di colpire proprio chi da venti anni fa la morale e insegna la retta vita a tutti gli altri italiani. La mafia voleva una cosa e l’ha ottenuta da quel governo, non da altri. Conso ha certamente aperto una autostrada alla verità storica, ma la sua versione fa acqua da molte parti. Lui ha ammesso quell’episodio del novembre 1993, ma è saltato fuori anche un decreto precedente di revoca del 41 bis ad altri 140 boss del 14 maggio 1993, la sera stessa dell’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro. Quindi sono stati due i decreti del governo Ciampi a disapplicare il 41bis ai mafiosi. Il primo, quello dimenticato da Conso, fu suggerito misteriosamente in una riunione del 12 febbraio 1993 dall’allora capo della polizia, Parisi (era l’ombra di Scalfaro) e sostenuto dal direttore delle carceri Nicolò Amato. A differenza dei teoremi giudiziari precedenti, ci sono documenti e fatti che provano quanto è avvenuto nel 1993. Ciampi era capo del governo. Richiesto ora di un commento si è rifiutato di intervenire con una dichiarazione facendo però sapere in privato che lui non c’entrava e che aveva ereditato una proposta simile dal governo precedente di Giuliano Amato, in cui Conso e Mancino erano già ministri. La versione Ciampi è plausibile semmai per il primo decreto, quello di maggio. Ma per il secondo, firmato sei mesi dopo (a novembre) Giuliano Amato non può centrare proprio nulla. Credibile la versione di Conso, allora, di avere deciso tutto in solitudine e di nascosto? Mica tanto. Come faceva ad essere quella revoca del 41 bis nascosta al direttore dell’Ucciardone e al magistrato di sorveglianza del carcere? Impossibile. Come impossibile che fosse nascosta ai pubblici ministeri di Palermo che un anno prima avevano chiesto l’applicazione del 41bis per quei boss mafiosi. Impossibile che quella decisione fosse ignota al procuratore capo di Palermo, che dal 15 gennaio 1993 era Giancarlo Caselli, né al procuratore aggiunto Guido Lo Forte e ai pm Roberto Scarpinato e Gioacchino Natoli.  Eppure nessuno protestò, nessuno rese pubblico per venti anni che lo Stato nell’anno di Scalfaro-Ciampi-Mancino-Conso-Parisi e Caselli aveva ceduto alla mafia, dandogliela vinta sul 41 bis. Strano che i pm che di solito insorgono per queste cose e scatenano campagne stampa, si chiusero in un mutismo assoluto. Strano, eppure comprensibile: se avessero rivelato gli atti a loro conoscenza, si sarebbe sbriciolato fra le loro mani l’atto di accusa nei confronti di Andreotti che avevano appena firmato.  Anche per questo bisogna riscrivere la storia di Italia degli ultimi venti anni.

Conso svela: fu il governo Ciampi-Scalfaro ad accontentare i boss mafiosi/ 1.


Giovanni Conso non è solo uno dei più importanti giuristi viventi (forse il più grande esperto di procedura penale), è anche un’icona vivente della storia d’Italia. Un’icona di quell’Italia che si considera perbene, migliore. Ha guidato il Csm, è stato voluto a quella Corte Costituzionale di cui è ancora presidente emerito da Sandro Pertini. E’ stato il simbolo del governo del Presidente quando al Quirinale regnava Oscar Luigi Scalfaro, che lo impose a Giuliano Amato come ministro della Giustizia in sostituzione di Claudio Martelli e poi a Carlo Azeglio Ciampi nel governo di emergenza che sarebbe seguito. E’ cattolico, ma era considerato di area repubblicana e per questo amato e idolatrato anche da chi proveniva dalle altre aree culturali del Cln, quella azionista e quella comunista. Per questo Conso è la madonnina ideale, il santino perfetto di quella armata che in queste settimane si è coalizzata contro Silvio Berlusconi. E invece proprio uno così, che ogni 12 febbraio da 30 anni si reca al Csm per commemorare Vittorio Bachelet (ogni tanto si vede pure Rosy Bindi, che fu sua assistente), giovedì 11 novembre ha tirato uno scherzetto da prete a tutta la banda. Conso si è presentato davanti alla commissione antimafia guidata da Beppe Pisanu e raccontato perché nel novembre 1993 non fu rinnovato il regime di carcere duro (il 41 bis dell’ordinamento penitenziario) a ben 140 detenuti mafiosi nel carcere dell’Ucciardone. Attenti, perché quel fatto è un po’ il pilastro della riscrittura della storia di Italia che stanno compiendo da qualche anno le procure di Palermo e Firenze (che indagano su stragi e attentati del 1992- 1993). E’ il cuore del teorema giudiziario base, che partendo da rivelazioni di pentiti come Gaspare Spatuzza e dai celebri papelli di Vito Ciancimino custoditi dal figlio Massimo, ipotizza che Silvio Berlusconi prima di trasformarsi in politico avesse stretto un patto di sangue con i vertici di Cosa Nostra. Per farlo avrebbe utilizzato Marcello Dell’Utri, un po’ di servizi più o meno deviati, dirigenti dell’amministrazione come Nicolò Amato e il co-fondatore dei Ros, Mario Mori. Il patto prevedeva da una parte l’abbandono di Cosa Nostra della opzione stragista e dall’altra la concessione ai boss di un regime carcerario meno duro. Questo è il centro delle tesi giudiziarie che percorrono mezza Italia e che avevano trovato una sponda non da poco perfino nell’ultima relazione della commissione antimafia scritta da Pisanu. Conso giovedìn scorso si è presentato lì e con la soavità di un santino vivente a cui nessuno osa replicare, ha distrutto in un colpo solo l’intera operazione politico-giudiziaria in corso. “Trattativa?Ricatto?”, si è stupito l’ex guardasigilli di Ciampi, “ Per quanto riguarda il sottoscritto e posso garantirlo sotto ogni forma di giuramento che non c’è mai stato il più lontano- da parte mia- barlume di trattativa. In via di principio non avrei mai trattato con nessuno di questi appartenenti a questa parte anti-Stato”. E allora chi ha deciso di non prorogare quel 41-bis ai boss di Palermo? “Io, me ne assumo tutta la responsabilità”, ha spiegato senza esitazioni Conso. E perché? “Per vedere di frenare la minaccia di altre stragi…L’arresto di Totò Riina (avvenuto nel gennaio 1993, ndr) che era il capo indiscusso e di altri suoi accoliti, ha avuto un ruolo determinante nel cambiare un po’ le strategie della stessa mafia. Con il capo della mafia in carcere il potere è passato al suo vice, che aveva una visione diversa, molto economica. Aveva dichiarato, rivolgendosi ai suoi: “Io nell’assumere questo incarico direi che la mafia deve puntare sull’aspetto economico. La sua potenza va dimostrata non facendo stragi, ma utilizzando il suo fascino, il suo peso, sul piano economico. Invadendo appunto i settori economici. Quindi un cambiamento di strategia che allontanava dalle stragi… Io, in assoluta solitudine, avevo preso questa determinazione, magari rischiando…. Sperando in bene… E’ andata bene”.
Conso ha spiegato di essere pronto anche sotto qualsiasi forma di giuramento a escludere di avere mai fatto cenno di questa sua scelta né a collaboratori né a vertici di polizia. Non lo disse nemmeno ai suoi colleghi di governo “altrimenti il giorno dopo sarebbe finito tutto sui giornali”.
Una deposizione- quella di Conso- dunque micidiale per chiunque avesse sposato le tesi della trattativa fra Stato e mafia e dei possibili complotti bersluconiani. L’audizione è stata una mazzata per i magistrati di Palermo e Firenze e per le due gazzette che più di altre avevano soffiato sul fuoco delle loro tesi: il Fatto quotidiano di Marco Travaglio e la Repubblica di Giuseppe D’Avanzo (le firme che più si erano esposte). Si trovano di fronte alla verità di una loro icona, e non possono sparare come di solito si fa sulla credibilità personale del testimone. Hanno accusato il colpo e da qualche giorno provano a metterci una toppa. Prima sottolineando l’anziana età di Conso (88 anni, ma è lucidissimo). Poi l’incongruenza di parte della sua ricostruzione: il vice di Riina è ricordato come Bernardo Provenzano, ma all’epoca la stampa aveva dato per morto il boss. Non è vero: ci sono ampie cronache di Repubblica che lo identificano come successore di Riina, anche dopo la pubblicazione in dieci righe di una misteriosa deposizione a Palermo di teste che sarebbe stato a conoscenza della morte di Provenzano (non gli avevano creduto né magistrati né giornalisti). Infine ecco spuntare nuovi documenti in grado di smentire la ricostruzione di Conso, come un verbale del Dap del 12 febbraio 1993 in cui si fece riferimento alla possibilità di attenuare il 41bis. Quel 12 febbraio Conso era al Csm come privato cittadino. Da lì venne tirato fuori da Scalfaro e Amato che poche ore dopo lo fecero giurare come nuovo guardasigilli. Quindi quell’appunto del Dap- se vero- poteva essergli del tutto oscuro. L’estensore- Nicolò Amato- per altro fu sollevato dall’incarico a giugno perché troppo garantista (lo era stato tutta la vita) per decisione di Scalfaro, Nicola Mancino e dello stesso Conso. A novembre quando quel 41bis non fu rinnovato per i 140 boss dell’Ucciardone, quasi nessuno dei presunti protagonisti della trattativa fra Stato e Mafia era più in carica. La verità di Conso dunque è difficile da picconare. Anche se costringe a gettare a mare anni di teoremi giudiziari che ora poggiano sul nulla.

Pompei? Quel crollo è benedetto. Parola di archeologo

Avrà pianto perfino il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ma quel crollo che si è verificato a Pompei è tutt'altro che drammatico. Anzi, è una benedizione artistica, perchè quel che è venuto giù è una sorta di mostro architettonico. Parola di Andrea Carandini, presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali e soprattutto uno dei massimi archeologi viventi, noto per avere scoperto a Roma le mure del Palatino. Carandini, cui il presidente della Repubblica hga conferito quattro anni fa la medaglia d'oro ai Benemeriti della Cultura e dell'Arte, ha spiegato in assoluta controtendenza la sua opinione a Francesco Graziani, conduttore di Baobab su Radio Uno. Secondo Carandini a crollare è un impianto in cemento armato costruito dai restauratori nel 1947. "Il  dolore monumentale va anche circoscritto, perchè quello che è crollato è il restauro di Maiori della fine degli anni '40... quello che è crollato per fortuna è questo. Non è un danno. Per assurdo è in sè un bene perchè noi dobbiamo levarle queste struttiure in cemento". Carandini sostiene che bisognerebbe fare crollare anche tutte le altre strutture, a iniziare dalla casa del fauno, per ricostruirle in legno lamellare

Metodo Tarquinio: al direttore di Avvenire non va giù il pasticcio etico di Fini e manda un avviso a Casini

Al direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, non è piaciuto un granchè il discorso di Gianfranco Fini a Bastia Umbra. E lo confessa senza mezzi termini a un lettore nella rubrica delle lettere dle quotidiano dei vescovi, sotto il titolo "Un rischioso futurismo familiare". Secondo Tarquinio "il partito moderno, anzi futurista, di Gianfranco Fini, ultima evoluzione della destra post-fascista faticosamente nata dalle ceneri del Msi-Dn, sta rivelando di portare nel suo Dna qualcosa di strutturalmente e- per quanto ci riguarda- di inaccettabilmente vecchio: la pretesa radicaleggiante di dividere il mondo in buoni e cattivi, in arretrati e progrediti culturalmente, sulla base di una premessa e di un pregiudizio ideologico". Tarquinio cita la confusione finiana sulla famiglia (intesa non come Tullianos, ma come famiglia italiana allargata inserita nel programma politico) e sulle leggi sull'etica. Temi rilevanti che rendono Fini politicamente molto distante dai cattolici italiani. Tarquinio però va oltre la critica al programma futurista. E alla fine si chiede: "Come potremmo non annotare e tenere in debita considerazione tutto questo? E proprio guardando al futuro oltre che al presente, come potrebbero non tenerne conto con lucidità i potenziali interlocutori politici di Fini?". Un messaggio non proprio subliminale diretto a Pierferdinando Casini e all'Udc: quell'alleanza non s'ha da fare...


Il testo integrale a questo link


http://www.avvenire.it/Lettere/futurismofamiliare_201011090832252570000.htm

La mia ultima volta al Tg3


Giovedì 4 novembre squilla il mio telefonino. E' una gentile redattrice del Tg3 che chiede la disponibilità a partecipare alla edizione notturna di Linea Notte condotta da Bianca Berlinguer. Mi informo di che si parla e su quali siano gli altri ospiti. Mi dicono che ci saranno con me tre esponenti politici: Rosy Bindi (Pd), Gaetano Quagliariello (Pdl) e Roberto Rosso, fresco acquisto del Fli. Li conosco tutti e tre e accetto l'invito. Fra le 16 e le 23 e 30 il Tg3 mi chiama altre tre volte per sincerarsi che arrivi a Saxa Rubra con mezzi miei e all'ora giusta. Quando arrivo faccio per andare in studio e mi fermano: "no, lei non ci sta, lì è già pieno. Facciamo un collegamento con un altro ospite in un altro stanzino". Come pieno? In quattro ci stiamo... Così apprendo che gli ospiti sono in tutto sei e non 4 (in un'ora di trasmissione con servizi e rassegna stampa praticamente non si può esporreb un pensiero compiuto in così tanti). Sono cambiati quasi tutti, e nessuno me l'ha detto, C'è Rosy Bindi (unica sopravvisuta), poi Adolfo Urso (Fli), Gianfranco Rotondi (Pdl), lo scrittore Alberto Asor Rosa (fuori quota ufficialmente), e nello stanzino della punizione con me anche Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica. Quando ci vediamo scopro che nessuno dei due sapeva della presenza dell'altro e che anche lui era stato invitato sulla base di ospiti che poi non c'erano. Grottescamente i tecnici del Tg3 chiedono a me e Giannini di ignorarci e non parlarci. Abbiamo ciascuno una telecamera puntata come fossimo in due studi diversi, tipo uno a Milano e l'altro a Palermo. Una truffa per i telespettatori, ma la tv è sempre finzione. La par condicio è assicurata così: La Bindi è contro Berlusconi. Urso è contro Berlusconi. Giannini è contro Berlusconi. Rotondi lo difende. Bechis, essendo vicedirettore di Libero dovrebbe fare la stessa cosa (anche se non ne avevo intenzione). Asor Rosa è un intellettuale, di sinistra, ma anche autore dell'Einaudi di Berlusconi. sarà super partes. Infatti gli cedono la parola come si fa a un santone. Dice - super partes- "Ogni giorno che passa il proseguimento dell'era berlusconiana porta sempre di più il Paese verso la catastrofe". Per fortuna non tutto il Paese: si salva l'Einaudi di Berlusconi che così può pagare anticipi e diritti di autore ad Asor Rosa. Al 32° minuto nel finto studio sulla luna la Berlinguer chiede anche a me cosa pensi. Inizio a dire una cosa su Gianfranco Fini e sulle sue eterne giravolte. Inizio a citare un caso, la Berlinguer mi toglie la parola e fa subito replicare Urso. Io non posso controreplicare. Provo più volte a dire qualcosa e a chiedere di intervenire, ma non ho l'audio. Prima di me ha parlato Giannini. Fanno un giro di opinioni, poi un secondo giro. Tocca a Giannini. Dice cose su cui viorrei dire la mia, chiedo la parola. Non ho microfono e la Berlinguer non m i considera più. Devo stare lì muto (vietato parlare criticamente di Fini: è il nuovo idolo di TeleKabul) a fare la foglia di fico della loro par condicio? Ma chi me lo fa fare? Mi alzo e me ne vado. E' scortese, pazienza. Ho sbagliato io ad accettare l'invito. Ma ora lo so.

La vera storia della casa di Rosy Bindi

Martedì 2 novembre a Ballarò mi è capitato di ricordare a Rosy Bindi che della privacy dei politici si fa uso e consumo a seconda delle convenienze. Non deve averne Silvio Berlusconi, ma quando mi è capitato di occuparmi di come proprio Rosy Bindi avesse ottenuto una casa dietro piazza del Popolo dall'Inail nel 2000 comprandosela poi nel 2006 aprofittando delle cartolarizzazioni del ministero dell'Economia, mi sono trovato di fronte al muro della privacy. Con fatica ho scoperto poi il prezzo di acquisto- 421 mila euro- che era assai inferiore a quello di mercato dell'epoca (739.810 euro secondo la valutazione di Stima-Cerved). La Bindi si è indignata perchè lei non sarebbe accostabile al caso di Claudio Scajola. E in effetti non lo è. Ha fatto di meglio. Perchè i politici prima lottizzano l'Inail, poi invece di aderire a un bando come fanno tutti i cittadini, chiedono ai manager lottizzati di triovargli una casetta in centro di Roma a poco prezzo a due passi dalla Camera. E quando è il momento buono l'acquistano anche con un meraviglioso sconto. Naturalmente così passano davanti a chi ne avrebbe più bisogno. Chissenefrega. Per altro la Bindi passò davanti anche a un collega deputato, Vincenzo Zaccheo, oggi finiano. Che se la prese talmente da volere riempire di pugni il manager Inail che aveva favorito la Bindi. Come racconta lo stesso Zaccheo nella telefonata che potete sentire tutti nel file audio video allegato... Buon ascolto