Murdoch scende in campo a fianco del Papa perchè si è convertito? A guardare il battesimo delle figlie sulle rive del Giordano, sembra di sì
La foto campeggia sulla prima pagina di “Hello!”, una sorta di “Chi” inglese nel gossip familiare delle celebrità mondiali. Rupert Murdoch ritratto insieme alla moglie Wendi Deng , alla regina Rania di Giordania, a Nicole Kidman, sorride nel giorno del battesimo delle due figlie di ultimo letto, le piccole Grace (8 anni) e Chloe (6 anni). La cerimonia si è svolta il 22 marzo scorso sulle rive del fiume Giordano, celebrata da un prete cattolico proprio nell’esatto luogo dove tre dei quattro vangeli (Marco, Luca e Matteo) raccontano che Gesù Cristo avesse ricevuto il battesimo da Giovanni Battista. Madrina di battesimo è stata appunto la Kidman, attrice che non fa mistero della sua fede cattolica. Padrino un attore cattolico australiano, Hugh Jackman. Un fatto non vissuto privatamente, perché l’ampio servizio fotografico che occupa le 18 pagine è certamente stato autorizzato da Murdoch. Tanto da volere sembrare un messaggio al mondo su una possibile conversione del più potente imprenditore dei media internazionali. L’ha interpretato così, ad esempio, l’editorialista del Guardian, Nicholas Blincoe, che ha commentato quelle foto sotto il titolo” Una rinascita per Rupert Murdoch?- Con il battesimo delle sue figlie sulle rive del Giordano forse il capo di News Corp sta segnalando la sua personale conversione”. Certo che alla nascita le due bimbe di Murdoch non sono state battezzate, e farlo dopo anni in modo così suggestivamente simbolico e pubblicizzato è certo segno di una decisione dei genitori lungamente pensata e maturata. Per altro giunge dopo un’altra conversione in seno alla famiglia Murdoch, quella vissuta assai più privatamente del figlio James, vero erede del padre nella News corp, e noto in Italia sia perché si occupa direttamente di Sky, sia per la sua partecipazione all’ultimo Meeting di Rimini, da cui sembra sia rimasto particolarmente segnato.
Sono più di uno quindi gli elementi personali della famiglia di Murdoch che accompagnano la scelta recentissima del Wall Street Journal di scendere in campo nella battaglia mediatica sugli scandali pedofilia per difendere Papa Benedetto XVI. Iln più importante quotidiano finanziario del mondo, posseduto dai Murdoch, ha sfoderato nell’occasione la firma di uno dei suoi più potenti columnist, William McGurn. Non si tratta di un qualsiasi editorialista del gruppo, ma di un cattolico che ha e ha avuto in passato ruoli manageriali in News corporation e che da anni scrive i discorsi più delicati ( i cosiddetti “position papers”) per lo stesso Murdoch. Non lo ha fatto solo fra il giugno 2006 e il febbraio 2008 quando l’allora presidente Usa George W. Bush lo ha chiamato alla Casa Bianca a guidare il team di chi scriveva i suoi discorsi ufficiali, dietro un compenso di 261 mila dollari all’anno.
Potrebbe esserci una scelta editoriale, in parte una scelta politica (Murdoch non ha in simpatia Barack Obama e i media del gruppo non hanno lesinato attacchi al presidente Usa anche sulla linea abortista), ma anche una profonda convinzione personale del tycoon del media in questo sostegno inatteso a Benedetto XVI. D’altra parte i rapporti diplomatici fra Murdoch e il Vaticano sono buoni da molti anni. Fu il magnate anglo-australiano a donare nel dicembre 1999 alla Conferenza episcopale americana i 10 milioni di dollari che servivano alla costruzione della nuova cattedrale di Los Angeles. Nel gennaio dell’anno precedente l’arcivescovo di Los Angeles, il cardinale Roger Mahony, aveva insignito Murdoch dell’ordine pontificio di San Gregorio Magno, con tanto di benedizione papale che scandalizzò molti cattolici romani. E forse sono stati proprio i rapporti che si crearono all’epoca a determinare la nuova svolta religiosa del magnate.
Se volete il Papa a processo, consegnate Obama a Spataro- La curiosa linea difensiva in Usa dell'avvocato di fiducia del Vaticano
Volete Benedetto XVI in aula come testimone nei processi sulla pedofilia nella chiesa americana? Benissimo, allora ordinate al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di andare a testimoniare a Milano sulle direttive date alla Cia per il rapimento di Abu Omar. A chiedere alla Corte suprema degli Stati Uniti l’applicazione di una sorta di par condicio giudiziaria è niente meno che lo Stato Città del Vaticano. Il paradosso legale è infatti formalmente depositato presso la Corte suprema americana da Jeffrey S. Lena, l’avvocato che coordina la difesa della Chiesa nei processi per pedofilia. La deposizione al processo è stata chiesta per papa Benedetto XVI da un avvocato del Kentucky, William McMurry, insieme a quella del cardinale Tarcisio Bertone, del cardinale William Levada e del nunzio apostolico in Usa, Pietro Sambi. Respinta una prima volta nel 2007 è stata ripresentata con documentazione a sostegno. Così il caso Kentucky è finito davanti alla Corte suprema americana insieme a quello dell’Oregon, in cui un tribunale vorrebbe chiamare a rispondere penalmente e civilmente il Papa e lo Stato Città del Vaticano degli abusi commessi da alcuni preti pedofili. La documentazione legale dei due fronti è approdata ora davanti alla Corte, che non ha ancora calendarizzato l’udienza. Gli avvocati delle vittime degli abusi hanno trasmesso un documento- per altro già rivelato dalla stampa britannica nel 2002- che secondo loro dovrebbe rappresentare la pistola fumante per dimostrare le responsabilità apicali del Vaticano nello scandalo. Si tratta di un documento non firmato di una sessantina di pagine, dal titolo “Crimen sollicitationis” che risale al 1962 e che secondo la tesi accusatoria sarebbe stato approvato dal “Papa buono”, Giovanni XXIII. Il documento fornisce istruzioni ai vescovi su come comportarsi davanti a casi di abusi sessuali o addirittura “comportamenti bestiali” che potessero emergere nell’episcopato. La regola era di proteggere accusati e vittime fino all’accertamento della verità mantenendo il massimo riserbo possibile sull’accaduto. Consigliando comunque di trasferire ad altra sede o altro incarico i sospettati. I procedimenti sarebbero stati immediatamente incardinati presso il Sant’Uffizio e secretati pena scomunica. Stesso segreto (e stessa pena in caso di violazione) avrebbe dovuto riguardare l’identità dei denuncianti e di eventuali testimoni. Denunce anonime dei fatti invece sarebbero state cestinate, a meno che già non gravassero sospetti su quei casi e si ritenesse quindi utile un’inchiesta. Al termine delle indagini riservate, se le accuse venivano ritenute del tutto infondate, ogni documento sarebbe stato distrutto. In caso di accuse indeterminate e senza riscontro, la pratica sarebbe stata archiviata e la documentazione conservata per inchieste future. In caso di prove riscontrate invece il processo sarebbe stato celebrato sentendo anche il colpevole. Queste istruzioni sarebbero state allegate anche a una nuova lettera inviata a tutti i vescovi nel 2001 dal cardinale Joseph Ratzinger, che guidava la congregazione per la dottrina della fede. E quindi secondo gli avvocati delle vittime di abusi dimostrerebbe la responsabilità apicale della Chiesa cattolica nel cercare di circoscrivere e insabbiare lo scandalo pedofilia.
Dello stesso documento offre una lettura diametralmente opposta naturalmente l’avvocato Lena, secondo cui al massimo si dimostrerebbe l’intenzione della Chiesa di fare inchieste serie sui casi di abusi sessuali fin dal 1962 e il riserbo delle indagini sarebbe stato innanzitutto a garanzia delle vittime (sia per le conseguenze sulla vita privata sia per non esporle a tentativi di vendetta). Viene depositata dai legali vaticani anche una interpretazione del documento firmata da un esperto di diritto canonico, il professore Thomas P: Doyle che confuta tutte le tesi di McMurry.
Quanto alla richiesta di testimonianza del Papa al processo, Lena prima rivendica presso la Corte suprema l’immunità diplomatica garantita a un capo di stato straniero come il pontefice, poi spiega che se questa richiesta fosse ritenuta esaudibile, allora avrebbero legittimità le richieste di tutte le corti di paesi stranieri di fare comparire a processo il presidente degli Stati Uniti nei casi di “extraordinary renditions” compiute dalla Cia in quei territori, “come è avvenuto in Italia”. Quanto all’organizzazione piramidale del Vaticano che imporrebbe il coinvolgimento dello Stato estero nell’azione civile intentata dalle vittime di abusi, l’avvocato Lena spiega alla Corte suprema che la Chiesa non è una società per azioni con a capo una holding di diritto vaticano, e che quindi non si può applicare la responsabilità amministrativa per un ente morale. La richiesta invece equipara il Vaticano a una qualsiasi multinazionale, pur non avendone in alcun modo la configurazione giuridica.
Benedetto XVI mangia meno strudel, ma è sereno. E' la Curia ad essere terrorizzata per l'offensiva sulla pedofilia
Chi lo ha visto tutti i giorni nelle ultime settimane racconta di un Benedetto XVI provato, stanco, fisicamente sofferente. Il Papa cammina con fatica perfino all’interno degli appartamenti pontifici, sorride ed assaggia appena un pezzetto dell’amato strudel con le mele annurche che gli preparano le collaboratrici laiche che da anni lo assistono. Mangia poco, spesso non tocca nemmeno quelle mozzarelline di bufala che il suo segretario, padre Georg Gaenswein, gli fa arrivare da Frattamaggiore. Anche la via Crucis seguita in papa mobile, le vacanze estive disdette per la prima volta scegliendo il meno faticoso ritiro di Castelgandolfo rendono evidenti a tutti questa sofferenza. Che non è solo esterna, perché il Papa- racconta chi gli sta più vicino- ha vissuto con grande dolore quel che è stato chiamato lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma non si sente sotto assedio. Joseph Ratzinger è sereno, profondamente sereno. E ha a cuore oggi forse più di prima quella guida pastorale del suo popolo che è probabilmente la vera ragione dello scandalo e di quell’assedio che racconta quotidianamente la stampa di tutto il mondo. E’ la verità del cristianesimo, quell’unione fra fede e ragione raccontata nelle udienze del mercoledì attraverso le vite dei santi ad occupare il Papa. E non lo preoccupa quel che emerge perfino dentro la Chiesa.
E’ nelle altre stanze vaticane che si vive con timore questo assedio di cui forse alcuni cardinali e alti prelati ingigantiscono oltremodo la portata. Non pochi rifiutano colloqui telefonici e- quando inevitabili- evitano accuratamente giudizi e riferimenti a vicende di cronaca. Perfino gli indirizzi di posta elettronica più riservati sono utilizzati con cautela e sospetto: chi vuole parlare lo fa solo a quattro occhi. Chiedi se immaginano una regia ad organizzare la campagna che monta ormai ha troppe radici diverse: quelle dell’ America puritana e di cultura ebraica, quelle anglicane, quelle semplicemente laiche e anticlericali da cui ti saresti atteso qualsiasi spallata, ma anche quelle cristiane, cattoliche, addirittura nella patria stessa del Pontefice. Sulle prime chi si incontrava in Curia ripeteva quasi rassicurante che forse regia c’era, ma solo per comuni interessi economici. I casi di pedofilia erano noti da anni, in ogni dettaglio proprio quelli che venivano sventolati in queste settimane. Se si alzava il tiro era solo per soldi: fare circolare come indiscreti documenti notori, farli pubblicare sui giornali e poi sfruttarne il clamore era utile a un manipolo di studi legali che puntando il dito sul Vaticano e trovando un giudice disposto a seguirli avrebbero fatto lievitare oltremisura risarcimenti e parcelle. Ma la furia delle onde in tempesta è seguita così devastante, si è unita a venti impetuosi e diversi nazione dopo nazione (si guardi all’Italia, dove il tiro al Papa ha sostituito dopo il flop elettorale immediatamente il tiro a Silvio Berlusconi), che oggi nelle stanze vaticane pochi credono sia solo questione di soldi. Per questo si ripercorrono le tappe di questo pontificato trovando uno dopo l’altro chi e perché soffia su quei venti.
La Chiesa. C’è una data- chiave che spiega da dove nascono gtli attacchi interni al Papa. E’ quasi all’inizio del pontificato di Benedetto XVI: il 22 dicembre 2005, giorno dell’incontro con la curia romana per gli auguri natalizi. E del suo giudizio tagliente sul Concilio Vaticano II, che per il Papa non è stato una “apertura al mondo”, ma nel solco pieno della tradizione millenaria della Chiesa, solo un “passo fatto verso l’età moderna che appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto fra fede e ragione”. Detta così sembra solo una questione dottrinale, e invece all’interno della Chiesa è stato discorso di rottura decisa. Da lì il Papa è stato sentito come un nemico da gran parte dell’ala liberal e progressista degli episcopati. Lì e in altri discorsi sui valori fondamentali, sulla difesa assoluta della vita, si è consumato il vero scontro fra il Papa, il mondo laico e anticlericale (e questo era ovvio) ma soprattutto una parte non marginale della Chiesa. Se oggi la conferenza episcopale tedesca e buona parte di quella austriaca sono anche apertamente critiche del pontificato, il motivo è proprio in quel discorso del dicembre 2005, acqua ghiacciata sull’interpretazione rivoluzionaria del Vaticano II.
Ebrei e mussulmani. Meno teologica e più facile da comprendere l’avversione del mondo mussulmano e di quello ebraico nei confronti del pontefice. Il discorso di Ratisbona incendiò subito l’Islam. La liberalizzazione del rito antico, che ha rispolverato la formula sulla conversione degli ebrei, il recupero della comunità lefebvriana (il vescovo negazionista, ma tutti erano sospettati di dottrina antisemita), l’annuncio prima di recarsi in Sinagoga della beatificazione di Pio XII hanno creato un solco profondo fra Benedetto XVI e i rabbini di tutto il mondo.
Protestanti. Occasioni dirette di scontro non sono state così evidenti. Ma certo non è stato gradito il percorso di avvicinamento e perfino di apertura al rientro degli anglicani in seno alla chiesa cattolica romana. La Costituzione apostolica messa punto dal cardinale William Levada per l’occasione seguiva infatti una richiesta avanzata dalle comunità anglicane più tradizionaliste spaventate per l’apertura dell’ala liberal verso l’ordinazione di donne e omosessuali dichiarati. Più che come un gesto di comunione così quell’apertura del Papa è stata interpretata come un vero e proprio progetto scismatico sulla chiesa anglicana.
Tutto questo teme la Curia, con cui peraltro il papa ha scarsissimi rapporti: gli unici che frequenta settimanalmente e da cui Benedetto XVI coglie umori di palazzo e apprende notizie dal mondo sono infatti il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il cardinale Giovanni Battista Re e il ricordato cardinale Levada. Altre cose arrivano sulla scrivania di Padre Georg grazie a una rassegna stampa filtrata dalla segreteria di Stato e che non sempre giunge nelle mani del Pontefice.
Ma anche se a gocce e filtrato da racconti altrui, il Papa conosce bene quel che sta avvenendo nel mondo e nella Chiesa. Un vescovo gli ha riferito anche parole allarmate scritte in una lettera privata dall’ex presidente del Senato, Marcello Pera: “come è possibile che un miliardo di cristiani assistano in silenzio ed impotenti al tentativo di distruggere il Papa, senza rendersi conto che dopo questo non ci sarà più salvezza per nessuno?”. Certo, Benedetto XVI vive con dolore i fatti avvenuti nel suo gregge perché ne è il pastore. Ma non è preoccupato dell’assedio. Come ha ripetuto a chi ha incontrato anche in questi giorni: “è solo Cristo che assedia la Chiesa”.
Bertolaso a confronto con Prodi in Umbria ha fatto davvero il miracolo!
Quanti dei 22.604 sfollati
del terremoto in Umbria del 26 settembre 1997 un anno dopo hanno avuto
sistemazione in una casa? Nemmeno uno. E alla data del 26 settembre 1999, a due anni esatti dal
sisma? A quella data era stata consegnata una abitazione, una villetta in
legno, a 28 famiglie sulle 9.285 colpite dal sisma. Un ano dopo, e cioè a tre
anni dal sisma, risultavano consegnati alloggi alternativi a 821 nuclei
familiari dei 9.285 originari. Per mesi i terremotati umbri hanno vissuto in
tenda, poi sono arrivati i container. E quelli sono restati per anni. Al 31
dicembre 2009, e cioè dodici anni e tre mesi dopo il sisma, ancora 8 famiglie
vivevano nei containers.
In Abruzzo gli sfollati hanno
toccato la vetta di 67.459 persone, 35.690 delle quali sistemate in tendopoli,
gli altri in hotel e case private. Otto mesi dopo in tenda non c’era più
nessuno. A un anno dal terremoto il problema di una abitazione permanente
riguarda solo 1.750 persone che in gran parte hanno visto classificata la loro
abitazione come inagibile dopo il mese di agosto 2009. Non sono né in tenda né
per strada: ospiti in albergo o in alloggi temporanei ad affitto agevolato.
Tutti gli altri hanno avuto sistemazione in una vera casa, spesso costruita a
tempo record. Quelle previste nel progetto C.a.s.e. (complessi antisismici
sostenibili e ecocompatibili) sono state tutte realizzate e consegnate: 4.449
abitazioni completamente arredate per 15 mila persone. In più il progetto Map,
villette in legno, previsto per 8.500 persone, è già stato realizzato in ampia
parte e consegnato a 5.700 persone. Tanto per fare un raffronto, le prime
villette in legno in Umbria hanno iniziato a sostituire i containers solo nel 2001, a quattro anni esatti
dal terremoto. L’Osservatorio sulla ricostruzione della Regione Umbria così
dopo mesi descriveva il “successo”: “Noi che
sappiamo cosa significa aver paura della terra che trema, noi che
dormiamo fuori anche se le nostre case sono agibili, invidiamo "la gente
dei container", loro non devono preoccuparsi più della terra che trema,
hanno un'abitazione sicura. Poi il tempo passa, la paura si attenua, allora i
container sono sì un ambiente sicuro e protetto ma piccolo, caldo in estate e
freddo in inverno (…)Passano gli anni, e aumenta il disagio di vivere nel
container, ma stanno per arrivare le casette di legno, e le case in muratura ed
altre soluzioni alternative al container. Entro il 2001 i villaggi di container
vengono trasformati in villaggi fatti prevalentemente da casette molto più
confortevoli e per molti il container resta solo un ricordo, per i più piccoli
l'unico ricordo della propria abitazione per molti vecchi l'ultimo ricordo e
per molti il ricordo di un forte disagio ma un grande insegnamento: tutti
possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”. Cioè quattro anni in una
stamberga di latta che diventa una ghiacciaia di inverno e un forno di estate,
e bisognava pure ringraziare il governo di Romano Prodi, quello di Massimo D’Alema,
quello di Giuliano Amato e la giunta rossa umbra perché vivendo da clochard si
poteva scoprire che “tutti possiamo vivere con molto meno di ciò che abbiamo”.
Altro che rivolta delle carriole, ci sarebbe stata da fare. Ma laggiù nessuno è
stato così sciacallo da mettersene alla testa e organizzarla. Bisogna avere
anche lo stomaco per fare cose così, e nel centro destra nessuno se l’è sentita
di speculare così sui guai dei terremotati.
In Umbria l’unica cosa che tentarono di
fare subito era la concessione di contributi diretti per la riparazione di
edifici privati attraverso programmi denominati di “ricostruzione leggera”, ma
anche lì l’amore smodato della sinistra di governo per la burocrazia mandò
gambe all’aria l’intero progetto. Ecco come lo spiega la relazione stessa
dell’Osservatorio: “Dopo la presentazione, entro i termini, delle domande e la
pubblicazione, in fasi successive, di quelle finanziate, è iniziata, nel periodo aprile-agosto 1998, la progettazione degli
interventi da concludersi entro novembre 1998 (120 giorni dalla pubblicazione). Tale termine è stato
prorogato per consentire l’integrazione dei progetti ed è stato fissato a febbraio 2000 il termine ultimo per il rilascio delle
concessioni contributive”. Quel che si poteva fare in pochi mesi è stato così
sbloccato solo in due anni e mezzo. Nel solo comune de L’Aquila a un anno dal
sisma hanno già ricevuto senza tante pastoie burocratiche contributi definitivi
per riparazione e ricostruzione simile a quella “leggera” dell’Umbria 6.242
persone sulle circa 9 mila che avevano fatto domanda. Altre 27.316 persone hanno
ricevuto il cosiddetto “Cas”, contributo di autonoma sistemazione che può
arrivare fino a 700 euro al mese.
Per arrivare a qualcosa di
vagamente paragonabile a quello realizzato finora in Abruzzo per l’Umbria ci è
voluto più di un lustro, e non è stata quella la gestione più scandalosa di una
ricostruzione post terremoto in Italia.
Epifani tira la cinghia. La crisi morde anche i conti della Cgil. E Vodafone le lancia una ciambella
La crisi finanziaria ha
colpito anche la Cgil ,
facendo franare per colpa della cassa integrazione e della disoccupazione quel
monte-premi sicuro delle trattenute sindacali automatiche che da sempre tiene
in piedi i conti del primo sindacato italiano. Per questo nel 2009 Guglielmo
Epifani e i suoi stretti collaboratori hanno dovuto tirare la cinghia con un
piano di ristrutturazione interna che ha tagliato costi e personale della Cgil
ricavando però risorse da destinare alla nuova missione: “l’attività politica”.
Lo rivela un documento riservato interno sulle finanze della Cgil compilato da
uno dei suoi massimi dirigenti, Enrico Panini, segretario confederale con
delega anche sulle politiche amministrative e finanziarie. Primo punto del
documento proprio l’effetto della crisi sui conti Cgil: “l’esplosione della cassa
integrazione”, scrive Panini, “ comporterà una riduzione delle risorse per gli
effetti che essa produce sulle deleghe sindacali; alle conseguenze che
deriveranno dal mancato rinnovo di tanti rapporti di lavoro precari; agli
effetti della riduzione dell’occupazione. A tutto ciò si devono aggiungere diverse questioni relative al tesseramento.
Basti ricordare che stanno andando in pensione generazioni con rapporti di
lavoro a tempo indeterminato e con retribuzioni alte, che vengono sostituite
con nuovi iscritti che sono, quando va bene, all’inizio della loro carriera o
che hanno rapporti di lavoro discontinui. Contemporaneamente nel passaggio
attivi/pensionati perdiamo ogni anno migliaia di deleghe che non passano allo
SPI”, e cioè al sindacato pensionati della Cgil. Proprio quello pizzicato a
Piacenza a riparare a questa caduta di consensi con falsi tesseramenti. Le
tessere dei pensionati ammontavano per la Cgil a oltre 13 milioni di euro nel 2008, ma si
sono ridotte a 10,8 milioni di euro nel 2009. La situazione finanziaria
preoccupa molto i massimi dirigenti Cgil, tanto è che Panini spiega: “dobbiamo
cominciare a fare i conti – per la prima volta dal dopoguerra – con una
consistente riduzione delle entrate che durerà per un periodo non breve”.
Il piano messo a punto nel 2009 prevede taglio dei
costi a tutti i livelli come è avvenuto nelle aziende. E’ un sindacalista a
scrivere, ma sembra di leggere un top manager di qualche multinazionale: “in
alcuni casi viviamo decisamente sopra le nostre disponibilità, o assumiamo
impegni di spesa non coperti adeguatamente, e tutto ciò è inaccettabile. Registro,
inoltre, per la totale assenza di una cultura di sistema nelle nostre politiche
sull’uso delle risorse, sprechi molto consistenti”. Panini ricorda come la
prima riorganizzazione sia avvenuta nel settembre 2008 con la creazione di una
rete telefonica Cgil che ha fatto risparmiare 50 mila euro con il passaggio da
Tim a Vodafone su tutto il territorio nazionale eccetto la Lombardia (lì le penali
di Tim per la rescissione anticipata dei contratti sarebbero state molto alte),
sostituendo con un solo contratto ben 700 tipologie contrattuali diverse “che
semplicemente comportavano il fatto che a parlare fra di noi ognuno di noi
spendeva una follia”. Altri tagli di spesa con la riorganizzazione dei Caaf: “Attualmente
abbiamo in uso, per compilare un 730 uguale in tutt’Italia, ben cinque
applicativi fiscali. Il solo costo di manutenzione ordinaria è stimato, per
difetto, in due milioni di euro ogni anno. Risorse letteralmente buttate dalla
finestra. Abbiamo circa 90 società fiscale, oltre a quindici Caaf regionali. La
sola decisione di ridurre in modo significativo le società fiscali
comporterebbe un risparmio stimato fra i dieci ed i quindici milioni di euro
all’anno. Considerate che il numero delle società fiscali che chiudono in rosso
i loro bilanci sta aumentando e che il Governo sta scaricando costi consistenti
sui servizi fiscali. A fronte di una situazione che si fa più difficile noi
continuiamo a buttare risorse dalla
finestra quando si potrebbe evitare”. Altre misure immaginate, oltre a quello
dell’aumento dei contributi per allargare le entrate, anche il controllo delle
spese per abbonamenti a riviste e libri vari e sui viaggi dei dirigenti del
sindacato ( il taglio solo qui nel 2009 è stato di 320 mila euro) e perfino la
riduzione delle spese per il personale: “un deciso contenimento dell’organico
del Centro confederale, con una migliore organizzazione, una progressiva
riduzione del personale investendo all’interno di questa riduzione su una
presenza di compagne e giovani”. Aboliti
i 100 mila euro circa che si spendevano ogni anno per tradurre i documenti Cgil
nelle regioni bilingue: anche in Alto Adige se li leggeranno ora in italiano.
Tagliati del tutto nel 2009 i 100 mila euro di finanziamento assicurato ad
organizzazioni dei consumatori come Sunia e Federconsumatori.
In questo quadro di lacrime e sangue, anche a costo
di sacrificare i lavoratori interni del sindacato, sono state trovate risorse
per la nuova missione Cgil, chiamata “investire sulle politica”. Sui questo
piatto che non dovrebbe apparire nel menù tradizionale di una attività
sindacale Epifani ha gettato nel 2009 una fiche consistente: “+ 720 mila euro
in iniziative, dalla conferenza di programma a manifestazioni nazionali e
incremento delle risorse per l’attività relativa ad immigrazione e disabilità”.
Secondo il documento interno “che il ruolo della CGIL in questa fase richiede
di indirizzare molte più risorse verso l’iniziativa politica. Ma dare
attuazione alle nostre decisioni sul versante politico comporta una
destinazione consistente di risorse sulle voci relative all’iniziativa politica
e ciò dovrà essere previsto, salvo cambi di fase non preventivabili ad oggi,
per più anni”.
La Bonino si vendica e disattiva il bancomat della Cgil
A vederla così sembra quasi
una perfida vendetta contro il Pd che non l’ha supportata a dovere nel Lazio.
Assegnato in commissione Lavoro, stampato il 2 aprile a pochi giorni dal
verdetto delle regionali, è piombato come un missile su palazzo Madama il
disegno di legge di Emma Bonino e dei radicali (a firma Donatella Porretti e
Marco Perduca) di riforma dei sindacati. Missile vero per Cgil e Cisl e Uil
perché oltre a obbligare tutte le confederazioni sindacali a una certa
democrazia interna e a una trasparenza di bilancio identica a quella delle
società per azioni il ddl radicale stabilisce il divieto “di ogni trattenuta
sindacale, anche se derivante da contratto di lavoro”. Alla Cgil e a tutte le
altre confederazioni quindi si potrà aderire come a un partito politico o a un
club: solo su base volontaria e con versamento diretto. Una tragedia per tutti
i sindacati, visto che i loro bilanci custoditi gelosamente nel segreto delle
confederazioni (salvo sintetiche note pubblicate) si reggono in gran parte
proprio su quelle trattenute sindacali automatiche contrattate più che con i
lavoratori con i datori di lavoro. Nel bilancio 2008 della Uil i proventi da
tesseramento ammontavano a 11,2 milioni di euro, oltre a 2,3 milioni di crediti
da tesseramento. Nel documento contabile della Cisl per lo stesso anno sono
indicati 19,7 milioni di euro di ricavi per “quote di tessere annuali di
competenza confederazioni” e nello stato patrimoniale fra le attività 28,5
milioni di euro di “crediti per tessere”. In quello Cgil del 2006, l’ultimo
reso pubblico i ricavi da tessere erano in tutto 22,9 milioni di euro e i
crediti alla stessa voce verso le strutture ammontavano ad altri 3,9 milioni di
euro. Ma tutte queste somme sono da considerare per grande difetto, perché
quelle poche note inserite nei prospetti di bilancio resi pubblici non
fotografano la verità sindacale. Potrebbe farlo un eventuale bilancio
consolidato che non esiste, ma che così comprenderebbe tutte le strutture
territoriali e di categoria dei sindacati. Si pensi che il reale fatturato
della Cgil e spa secondo stime rese pubbliche e non smentite ufficialmente è
assai più vicino al miliardo di euro che non a quella trentina di milioni
indicati nei prospetti del bilancio nazionale. Più della metà di quel giro di
affari dovrebbe arrivare proprio dalle trattenute sindacali dirette sui 5,7
milioni di iscritti Cgil dichiarati nel 2009. Abolire la trattenuta sindacale
automatica è proprio come togliere il bancomat ai sindacati, Cgil in testa.
Così invece della cassa continua da cui prelevare rischierebbero davvero la
bancarotta. Perché la volontarietà del contributo diretto costringerebbe ogni
volta i tesserati anche più affezionati a riflettere su cosa possano ricevere
in cambio di quel gettone generosamente erogato.
Il ddl Bonino prevede il
riconoscimento della personalità giuridica dei sindacati in cambio della quale
si stabiliscono norme per la democrazia interna e obblighi di trasparenza.
Nello statuto dei nuovi sindacati debbono essere indicati “gli organi dirigenti
e le relative competenze, le procedure per l’approvazione degli atti che
impegnano il sindacato, i diritti e i doveri degli iscritti, la previsione di
un bilanciamento delle presenze di genere negli organi collegiali nella misura
massima dei due terzi e la garanzia di presenza delle minoranze negli stessi,
le misure disciplinari adottabili e le corrispondenti procedure di ricorso”. Si
stabilisce l’obbligo di redazione e pubblicazione del bilancio annuale del
sindacato, corredato di nota integrativa secondo quanto stabilisce il codice
civile per le società per azioni. E’ obbligatoria la pubblicazione del bilancio
entro il 30 giugno di ogni anno “si almeno tre quotidiani a diffusione
nazionale e corredato da una sintesi della relazione sulla gestione e della
nota integrativa”. In caso di violazione di questi obblighi di trasparenza
oltre a una sanzione amministrativa pecuniaria compresa fra 50 mila e 500 mila
euro ai sindacati inadempienti con decreto verranno sospese le “contribuzioni a
favore del sindacato o dell’associazione”. Dopo norme di agevolazione fiscale
per le libere contribuzioni detraibili dalla dichiarazione dei redditi dei
contribuenti fra 100 e 100 mila euro e l’esenzione fiscale per le attività
sindacali proprie, arriva la mazzata dell’articolo 5 sulle trattenute
sindacali: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge è
vietata ogni forma di trattenuta sindacale, anche se derivante da contratto di
lavoro. Il pagamento delle quote associative ai sindacati da parte del
lavoratore dipendente o autonomo avviene attraverso diretto versamento
volontario. La legge 4 giugno 1973, n. 311, è abrogata”. Un testo chiaro e
netto, che sicuramente risulterà indigesto al Pd, ma che farà convolare a nozze
il Pdl rischiando così grazie ai radicali di fare trovare in Parlamento la
stessa maggioranza che si è trovata in commissione di vigilanza per applicare
radicalmente al par condicio in questa campagna elettorale facendo sospendere
tutti i talk show.
Caso pedofilia, Papa sotto tiro per portargli via qualche miliardo di euro
C’è una sola cifra
ufficiale fino ad oggi rivelata sull’entità dei risarcimenti che la Chiesa americana ha dovuto
pagare per i casi di pedofilia. E’ contenuta nel rapporto stilato dalla John JAY
College of Criminal Justice per la conferenza episcopale americana. Fino al
2002 ha
censito pagamenti totali per 572 milioni di dollari, 499 effettuati direttamente
dalle diocesi coinvolte e 72,3 sopportati da ordini religiosi. Al rapporto ogni
anno vengono allegati i nuovi risarcimenti ottenuti con trattativa diretta e
talvolta anche in seguito a veri e propri processi: il costo totale sopportato
dalla Chiesa americana fino ad oggi si avvicina al miliardo di dollari. Ed è una
cifra calcolata per difetto: molte diocesi hanno perferito tenere segreti i
patteggiamenti su casi che non erano esplosi sulla stampa locale. D’altra parte
bastano già i casi censiti ufficialmente: sono ben 4.392 nei soli Stati Uniti i
sacerdoti o i religiosi accusati di pedofilia. Per ognuno di loro su un database
pubblico all’indirizzo Internet http://app.bishop-accountability.org è archiviata tutta la documentazione raccolta negli
anni. Lì da anni sono depositati tutti i documenti relativi al caso di padre
Murphy della diocesi di Milwaukee. Anche i carteggi fra gli arcivescovi e il
cardinale Tarcisio Bertone, all’epoca segretario della Congregazione della
dottrina della Fede. Quel che sta agitando in queste ore il New York Times non è
dunque uno scoop giornalistico: gli avvocati di cinque vittime degli abusi
sessuali hanno fornito documentazione che era ampiamente pubblica (addirittura
on line) e pubblicata dalla stampa locale. Perché allora imbastire una nuova
campagna sulla base di documenti editi, già discussi e che fra il 2002 e il 2004
avevano ricevuto spiegazioni e versioni dei diretti interessati (anche queste
archiviate)? Il motivo è facile da intuire, senza correre dietro a troppi
complotti difficili da dimostrare. Il grosso dei casi di pedofilia negli Stati
Uniti è stato gestito da cinque studi legali con sede principale in America e
ramificazioni internazionali. Alcune di queste law firm hanno preso la difesa di
vittime di presunti abusi sessuali da parte della Chiesa anche in Irlanda. Non è
noto, ma è possibile che qualche studio stia valutando anche i casi tedeschi.
Fino ad ora i cinque studi legali principali hanno ottenuto dalle trattative sui
risarcimenti con le varie diocesi americane 43 milioni di dollari di fatturato,
e non capita naturalmente tutti i giorni. Una cifra rilevante, che rappresenta
la parte principale di una torta da 65 milioni di dollari (il resto è diviso fra
singoli studi legali di provincia). Ma il monte-risarcimenti finora è stato
contenuto proprio dalla decisione di delegare le trattative ad ogni singola
diocesi. Anche quando le Conferenze episcopali hanno affrontato la piaga della
pedofilia con pubbliche scuse, la linea dei legali di parte è stata quella di
addossare la responsabilità ai singoli al massimo riconoscendo le colpe dei
vertici di alcune diocesi, subito rimossi. Una linea che finora è riuscita a
fare limitare i danni e anche l’entità stessa dei risarcimenti. Alzare il tiro
sul Vaticano e ottenere un’ammissione di responsabilità da parte delle più alte
gerarchie o addirittura da parte del Pontefice, farebbe lievitare sensibilmente
il monte-cause, probabilmente provocando la bancarotta dello Stato del Vaticano.
Non sono in pochi a ritenere che il pressing straordinario che si verifica in
queste settimane abbia innanzitutto ragioni economiche. Gli interessi sono
notevoli, e non solo quelli degli studi legali. Negli Stati Uniti in bancarotta
o quasi è già andata negli anni passati la diocesi di Boston. Per fare fronte
alle cause già definite, ai patteggiamenti e alle cause di pedofilia ancora in
corso, ha dovuto mettere in vendita uno a uno gli immobili di un patrimonio che
era stato valutato in 500 milioni di dollari. Con la pistola alla tempia e la
necessità di fare cassa, è stato venduto più o meno alla metà del suo valore.
C’è addirittura un gruppo imprenditoriale nato e cresciuto sul business della
pedofilia negli Stati Uniti: quello italo-americano dei Follieri. Il giovane
erede Raffaello alla fine si è messo nei guai ed è stato arrestato due anni fa
con accuse assai pesanti. Ma nel frattempo è riuscito a fare incetta di immobili
(anche grazie ad alcune vantate entrature vaticane) dalle principali diocesi
coinvolte negli scandali, comprandoli in tre casi in blocco a un prezzo scontato
oltre il 50% i valori di mercato e poi rivendendo il tutto con ampio guadagno.
Follieri non è l’unico. E a molti fa gola una torta che se il Vaticano venisse
messo ko potrebbe valere qualche decina di miliardi di
euro.
Santoro e Annozero sono il peggio. Fanno danni alla giustizia. A dirlo non è il cav, ma una toga rossa
Chissà se Edmondo Bruti Liberati, procuratore aggiunto di Milano ed esponente di spicco di Magistratura democratica ieri sera ha visto anche il nuovo processo via web tv e satellite imbastito da Michele Santoro a Bologna. Un mix fra processo politico a Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi e di un processo vero, una docu-fiction con primo attore Marco Travaglio e per sceneggiatura le carte della procura di Trani. In scena anche i soliti attori che recitavano coordinati da Sandro Ruotolo i brogliacci delle intercettazioni. Chissà se l’ha visto. Perché cosa ne pensi anche una delle più autorevoli “toghe rosse” di Italia, non è più un mistero. Bruti Liberati lo ha detto fuori dai denti il 23 marzo scorso, partecipando a un seminario di formazione del Csm a Roma. Spiegando che Annozero e Santoro sono nocivi alla giustizia, e come per i fumatori di tabacco, bisognerebbe proprio dire loro di smettere. “Con le trasmissioni di Matrix su Erba”, ha detto Bruti Liberati, “è stato insidiato il primato, per me negativo, fino ad allora detenuto da Porta a Porta: si è passati decisamente al genere della docu-fiction, con verbali di intercettazione recitati da attori. Ma poiché la gara al peggio è sempre aperta, ecco Michele Santoro che con Annozero si spinge oltre e la docu-fiction si espande con la messa in scena di interi verbali di dichiarazioni recitati da attori, il tutto sotto gli occhi di una nuova sua compagnia di giro”. Benvenuta allora, secondo il procuratore aggiunto di Milano, la decisione dell’Autorità di garanzia nelle comunicazioni che ha posto un freno alle docu-fiction giudiziarie. Ma Bruti Liberati va oltre, perché secondo lui bisognerebbe impedire anche ai magistrati per dovere deontologico di partecipare ad Anno zero o trasmissioni simili se si mandano in onda docu-fiction giudiziarie. L’imperativo è uno solo, secondo il procuratore aggiunto di Milano: “il magistrato non coopera, nemmeno con la sua semplice presenza, a legittimare trasmissioni nelle quali si imbastisce il processo parallelo”. Bruti Liberati è nettissimo: “dai delitti di sangue si è passati ai processi di mafia, criminalità organizzata e criminalità economica, affrontati anche essi con il canone della spettacolarizzazione, che ha trovato nuovi moduli. La presenza di magistrati in trasmissioni di questo tipo a prescindere dalle dichiarazioni che rendono e anche se la vicenda non è trattata dal loro ufficio, ineluttabilmente conferisce autorevolezza al processo parallelo. Ed è il colmo che, sempre ‘a fin di bene’, si intende, per evidenziare la vera VERITA’ (maiuscolo testuale, ndr), siano proprio magistrati a sponsorizzare il processo parallelo. Da certi contesti invece un magistrato, a mio avviso, deve puramente e semplicemente tenersi alla larga. Agli inviti a partecipare a certi dibattiti televisivi è possibile rispondere NO grazie (anche se ciò- e ne ho avuta personale esperienza, suscita lo sbalordimento degli interlocutori, abituati a ricevere pressanti sollecitazioni a partecipare piuttosto che dinieghi)”. Secondo il procuratore aggiunto di Milano i magistrati non debbono accettare nemmeno la proposta di una “dichiarazione pre-registrata”, perché sarà comunque “oggetto di un montaggio e rimane incontrollabile il come la dichiarazione preregistrata sarà inserita nel corso della trasmissione”.
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