Se quella miniera fosse stata alle porte di Roma...


Se l'incidente cileno fosse successo in una miniera italiana, le cose sarebbero andate così...

I giorno – tutti uniti per salvare i minatori, diretta tv 24h, Bertolaso sul posto.
II giorno – da Bruno Vespa plastico della miniera, con Barbara Palombelli, Belén e Lele Mora.
III giorno – prime difficoltà, ricerca dei colpevoli e delle responsabilità.
Berlusconi: “colpa dei comunisti”;
Di Pietro: “colpa del conflitto d’interessi”;
Bersani: “… ma cosa …è successo??”;
Bossi: “sono tutti terroni, lasciateli la’;
Capezzone: “non è una tragedia, è una grande opportunità ed è merito di questo governo e di questo premier”;
Fini: “mio cognato non c’entra”.
IV giorno – Totti: “dedicherò un gol a tutti i minatori.”
V giorno – Il Papa: “faciamo prekiera ai minatori ke in kvesti ciorni zono vicini al tiavolo!!”
VI giorno – cala l’audience, una finestra in Chi l’ha visto e da Barbara d’Urso, che intervista i figli dei minatori: “dimmi, ti manca papà?”
Dall’ottavo al trentesimo giorno falliscono tutti i tentativi di Bertolaso, che viene nominato così capo mondiale della protezione civile.
Passato un mese, i minatori escono per fatti loro dalla miniera, scavando con le mani.
Un anno dopo, i 33 minatori, già licenziati, vengono incriminati per danneggiamento del sito minerario.

Ma è successo in Cile…

Minzo, sono un rivoluzionario. Ecco perchè vogliono mettermi al muro

 Per cercare di farlo parlare del caso di Santoro,
bisogna proprio tirarlo per i capelli. Ed è impresa im-
possibile, perché di capelli Augusto Minzolini, diretto-
re del Tg1, non abbonda. Poi lui ha ben altri problemi
in testa in queste settimane. «I Simpson, ad esempio». I
Simpson? «Eh, sì, i Simpson ci hanno fatto ballare pa-
recchio a settembre. Non so nemmeno da dove sbu-
cassero, ma sono stati l’avversario più insidioso del
Tg1», spiega tutto serio il direttore della prima testata
Rai. Ma come, non è Mentana con il suo Tg a La 7 a farvi
ballare? «Ah, io stimo molto Enrico e sono pure suo
amico.Malui non cihatolto davvero ascolto.Hafatto
un’operazione furba. Non fa un vero tg,mauna sorta
di talk show sulla politica: 7-8 notizie massimo. E sac-
cheggia il pubblico di Rai Tre, che è più impegnato e va
matto per quelle cose. Sono loro a leccarsi le ferite:
guardi le curve degli ascolti...». Minzo (gli amici e tifosi
lo chiamano così, per tutti gli altri è ironicamente il “di -
rettorissimo”, appellativo coniato da Berlusconi) scio-
rina tabelle e grafici preparati dagli uffici. Ed è vero:
Mentana porta via ascoltatori di Rai 3 e li restituisce alla
fine del suo tg. Cosa che non accade nel week end,
quando su Rai 3 c’è un piatto forte come Fabio Fazio.
Ma noi eravamo andati dal direttore del Tg1 per parla-
re di Santoro. Perché il mondo politico sembra avere
fatto un’equazione: i sostenitori deidue sonoacerrimi
nemici, e brandiscono il nome del direttore Rai più
odiato a vicenda come un’arma. «Volete fare fuori
Santoro? Allora via anche Minzo», dicono gli uni. «Vo-
lete fare fuori Minzo? Prima via Santoro», rispondono
minacciosi gli altri... Mica si può eludere il tema.
Minzolini, che effetto le ha fatto quel “vaffa” di Santo-
ro?

«Ah…Io non l’ho visto. Me l’hanno riferito. Ma io che
c’entro?»
C’entra, c’entra. I suoi nemici dicono che anche lei l’ab -
bia fatta fuori dal vaso con i celebri editoriali...

«Ma io ho mica mai insultato nessuno! E poi Santoro fa
un editoriale alla settimana. Io sono direttore del Tg1
da16 mesieho fatto solo 14 editoriali.Non siamopro-
prio paragonabili. Lui fa uno show, io un tg».
Pensa che sia sproporzionata, come si dice, la decisio-
ne di tenere Santoro via dal video due settimane?

«Io non sono l’azienda, e quindi non posso rispondere
nel merito. Certo è un po’ paradossale che un dipen-
dente possa liberamente insultare il capo-azienda.
Immagini poi se quell’azienda è la Rai, con 14 mila di-
pendenti! Fosse concesso a chiunque saremmo sem-
pre in assemblea ad organizzare il Vaffa del momento.
realizzeremo il manifesto politico di Beppe Grillo...».
I suoi critici dicono però che anche lei faccia un uso
personale della tv, con quegli editoriali...

«Ah, certo di personale c’è la mia testa. Penso e dico
quello che penso. Ma non demonizzo nessuno. Ogni
direttore responsabile di testata esprime la sua opinio-
ne negli editoriali, mica li ho inventati io. Ai miei critici
- come li chiama lei - non importa un fico secco di que-
sto. Vogliono altro...».
Altro?
«Legga Beppe Giulietti che oggi fa una dichiarazione
su come dovrebbe essere la scaletta del Tg1 di stase-
ra, vaticinando “e invece lui non la farà così”. Ec-
co il desiderio: fare la scaletta come se non ci
fosse alcun direttore al Tg...».
Giulietti è un ex giornalista. Magari voleva solo
darle un consiglio professionale...

«Ex giornalista? Mi ricorda un clamoroso
scoopfirmatodalui? Si ricordaanchesoloun
magnifico servizio di Giulietti? Io ricordo solo
che quando faceva il giornalista faceva dei lun-
ghissimi comunicati sindacali... La scaletta vor-
rebbero fare. Come Vincenzo Vita, un lot-
tizzatore che ora deve essersi pentito,
viste le lezioni che ci dà...».
Suvvia, Minzolini. Dove credeva
di essere andato? La Rai è un’azienda politica, un po’ deve stare al gioco...

«Mi sembra un’azienda dove tutto è permesso a una
parte politica e guai se le stesse cose le fa un’altra parte.
Questa èun’azienda cresciutaa panee centro sinistra,
dove la cultura dominante è quella. Fin dalla prima Re-
pubblica: grandi infornate di sinistra dc e vecchio pci.
Tutti ancora lì in posizione dominante».
E lei mica sarà una vittima? È il direttore del Tg 1, il can-
tore di Berlusconi...

«Io cantore? Le sembro l’esponente di un regime?
Quando c’è un regime sono gli oppositori che vengo-
no messi al muro. Sono i rivoluzionari ad essere fucila-
ti. Io sarei il cantore del regime eppure ogni giorno c’è
qualcuno che vuole mettermi al muro. Strano, no? Al-
lora significa che il vero rivoluzionario sono io. E che il
regime è quello di chi mi vuole fucilare. Poi guardi, io
noncanto proprio nulla. Dico quello che penso, e che
pensavo anche quando scrivevo su La Stampa. Sono
stato sempre garantista. E lo sarò sempre».
Anche con Gianfranco Fini?
Sì, anche con Fini. Della casa a Montecarlo
ne abbiamo parlato perché è entrata nel
dibattito politico. Non l’abbiamo trat-
tata come un caso giudiziario. Faccia-
mosolo lacronaca,mica unacampa-
gna».
Lei però è nel mirino dei finiani. Di-
cono che li censura nel tg.

«Ma non è vero! Guardi i dati di set-
tembre sulla par condicio. Ai finiani è
stato concesso il doppio del tem-
po dato alla Lega. E non
è conteggiato lo spazio concesso a Fini, che
fa il presidente della Camera ed è considerato istituzione».
Bella risposta! Adesso vorranno la sua testa i leghisti...
«Mica posso impazzire con la par condicio. Ne tengo
conto, ma bisogna pure che ci siano le notizie. E la “no -
tiziabilità” di una posizione politica».
Però il suo Tg non abbonda di notizie politiche...
«Devo tenere conto anche degli ascolti. Guido un tg
generalista. Se facessiun quartod’oradi politicacome
Mentana, lo share crollerebbe. Già sono costretto a da-
re notizie obbligatorie -non michiedaquali -chenor-
malmente fanno fuggire i telespettatori...».
Così riempe il tg di cronaca rosa e bianca che fanno di-
menticare i veri problemi...

«Guardi, quei servizi sono ripresi quasi sempre dai
giornali del mattino. Che ci criticano ma spesso non
leggono nemmeno le loro pagine. Diamo tante noti-
zie, ma poi alleggeriamo per mantenere gli ascolti. Al-
trimenti tutti fuggono su Canale 5, dove poi c’è Striscia
la Notizia».
Lei ha questo simulacro degli ascolti, ma lo share del
Tg1è caduto. Lilli Gruber dice che ai suoi tempi era so-
pra il 40 per cento...

«Bene, mettiamo di nuovo Lilli Gruber a condurre, e lo
share non si muoverà di un millimetro. È cambiato il
mondo da quell’epoca. C’è la tv digitale, la platea si è
allargata di un milione di ascoltatori, l’offerta si è decu-
plicata. Non possiamo più fare quegli share. Ma gli
ascolti tengono. Vado meglio di un anno fa».
Cioè?
«Ho aumentato la distanza dal mio concorrente diret-
to, il Tg5, che è l’unico altro tg generalista. Cresciamo e
abbiamo modernizzato il prodotto. Rinnovando an-
che i volti dei Tg...».
...epurando conduttori famosi, come la Busi e la Ferra-
rio...

«Epurando? Ma come si fa a parlare di epurazione?
Stavano a condurre da decenni. Io ho dato una possi-
bilità ad altri. Per una vita decine di giornalisti del Tg1
hanno aspettato il loro turno. Che non arrivava mai.
Ora hanno una chance. Come i molti precari che ho
assunto. Ce ne era uno che aveva 52 anni. Emancoso
che idee abbia in testa...».

Ellero: Conosco il proprietario di Montecarlo. Ma non saprete mai chi è


Premessa: conosco Renato Ellero, l’uomo del giorno, da 15 anni. Lui, l’avvocato penalista vicentino protagonista ieri del colpo di scena sulla casa di Montecarlo, fu eletto in Senato con la Lega nel 1994. Se ne andò dopo pochi mesi, quando Umberto Bossi tolse la fiducia a Silvio Berlusconi. Fondò la Lega italiana federalista e per un po’ si ritagliò il ruolo di pontiere fra Berlusconi e Lamberto Dini. Noi giornalisti quando eravamo in cerca di un’intervista frizzante bussavamo alla sua porta. Non deludeva mai. Sparacchiava accuse gravissime, e non faceva mai un nome. Come quella volta che mi disse che avevano tentato di comprarlo. Chi? “Qualcuno che si muoveva in sintonia con il Quirinale”. Ma il nome? “Volessi farlo, finirei in prima pagina su tutti i giornali”. Lo faccia. “No, meglio di no”. Ieri mi è sembrato di rivedere lo stesso film. Ha rivelato di avere un cliente che gli ha mostrato le azioni della famosa Timara, proprietaria della casa di Montecarlo. Ma nomi, no, non ne può fare. E nemmeno mostrare le azioni che “chissà se ha ancora oggi: non lo so”. L’ho chiamato a casa sua. Era assediato da mille telefonate di colleghi: “Bechis, sì. Mi ricordo di lei. Ma abbia pazienza, qui è un caos, non ho manco mangiato, nemmeno fatto pipì, Me la fa fare? Mi richiama fra dieci minuti?”. D’accordo. E invece dieci minuti dopo squilla il mio telefonino. E’ lui, l’uomo del giorno.

Ellero: Chi è?
Libero: Come chi è? Mi sta chiamando lei. Sono Bechis di Libero..

Ellero: Ah, Bechis! Qui è tutto un caos, sto richiamando i numeri che mi hanno chiamato oggi…

Libero: Allora fa prima a prendere le pagine bianche e cominciare con la A…

Ellero: Lei scherza, ma qui mia moglie è incazzata. Io sono sempre regolare come un orologio svizzero, a pranzo a quell’ora… Oggi è saltato tutto.

Libero: Beh, certo, se lei crea quel terremoto, poi non può lamentarsi…

Ellero: Ma io ho fatto un comunicato, ho spiegato tutto. Pensavo fosse chiaro…

Libero: No, non ha chiarito proprio nulla. Lei ha detto che un suo cliente si è presentato da lei facendole vedere le azioni al portatore. Quando è accaduto?

Ellero: Mercoledì

Libero: E quel signore l’aveva mai visto prima?

Ellero: Certo, era un mio cliente…

Libero: Da dieci anni come si dice?

Ellero: Sì, più o meno… Adesso non mi ricordo bene, ma lo conosco da un po’…

Libero: Scusi, ma lei non fa il penalista? Il suo cliente aveva qualche guaio giudiziario?

Ellero: Io sono specialista in penale ma anche in penale societario. Ho fatto un fracco di processi di tangentopoli, uno famoso perché mi mangiai il giudice. Lo attaccai da tutte le parti finchè non  andò via…

Libero: Torniamo al suo cliente. Lo sa che perfino i finiani sono scettici su questa storia?

Ellero: Mah… E’ che io darei anche volentieri una mano a Fini. Ma non posso. Qui non è Renato Ellero in campo, ma l’avvocato Ellero. Io posso anche sapere delle cose che lo possono agevolare. Ma io devo dire solo le cose che il mio cliente mi autorizza a dire… Se lei mi dice che il mio cliente conosce Fini, le rispondo che non conosce né lui né la Tulliani.

Libero: Conosce Giancarlo Tulliani?

Ellero: Può darsi che lo conosca come nome…

Libero:.. certo, gli ha affittato casa…

Ellero: non è stato certo il mio cliente ad affittargliela. Non lui personalmente, voglio dire. Però può darsi che sappia che ha un inquilino lì. Di sicuro non l’ha mai visto né sentito. Questo posso dire…

Libero: Lei può escludere che il suo cliente abbia oggi- come dice- quelle azioni al portatore, però le abbia comprate poco tempo fa da altri?

Ellero: No. Io posso dire che le aveva ieri sera. le aveva mercoledì. Oggi non l’ho sentito. Queste azioni sono al portatore, può anche averle cedute…

Libero: quindi potrebbe averle acquistate quando quell’appartamento era già affittato a Tulliani…

Ellero: Ma quell’appartamento non è stato comprato inizialmente da questa società, la Timara. E’ stato comprato da un’altra società…

Libero: Sì, era la Printemps. Ma amministratori, sede sociale, luogo e giorno della fondazione sono identici. Il suo cliente ne ha una sola delle due?

Ellero: Non posso escludere che il mio cliente le abbia tutte e due. Non lo so. Lei sa che laggiù comprano società come fossero acqua fresca.. Costano niente, sono elementi locali che le fanno in quantità industriale e poi si mettono lì a venderle… Il problema è un altro. Voi tutti volete sapere di Fini e Tulliani. Al mio cliente non gliene frega niente. Mercoledì occasionalmente mi ha fatto vedere quelle azioni mentre parlavamo di un’altra vicenda…

Libero: Perché il suo cliente ha attività in Italia?

Ellero: Dappertutto, le ha dappertutto. Ma non posso dirle di più se no lo espongo a conseguenze…

Libero: … ma deve convincere il suo cliente a dire qualcosa di più. In Italia questa è diventata una questione di Stato…

Ellero: … ma lo è diventata perché siamo uno Stato poco serio che va dietro a queste cazzate…

Libero: non solo in Italia è importante verificare se un leader politico dice bugie o il vero…

Ellero: se Fini ha detto di non conoscere il proprietario di Timara, non ha mentito. Non conosce il mio cliente. Lo so per certo…

Libero: ma non sappiamo se all’epoca della vendita il proprietario della società fosse il suo cliente. Magari il proprietario era Tulliani che poi ha venduto a lui…

Ellero: Ma non lo so…

Libero: Può escluderlo?

Ellero: Dire lo escludo, no. Ma lo escluderei. Non ho parlato di questo con il mio cliente. Ma la sensazione è che lui non avesse la società da qualche giorno… Ne abbiamo parlato così, per modo di dire, discutendo se Tulliani era paraculo o non era paraculo…
Libero: Ah, che bella discussione. E che avete sentenziato?

Ellero: No, dicevo così per dire… Può essere che Tulliani sia andato a proporsi. Ma non con il mio cliente. Glielo dico io che il mio cliente non tratta con un Tulliani. sarà andato da uno a proporre, quello avrà valutato, ne avrà parlato con un altro e quell’altro l’avrà detto al mio cliente. Lui non ha mica tempo da perdere per una stronzata così…

Libero: Scusi e per fare quella che lei chiama una “stronzata” il suo cliente è andato ad aprire due società a Santa Lucia per comprare una casa a Montecarlo?

Ellero: Io non lo so, ma credo che il mio cliente abbia il bagagliaio pieno di società off shore… Bechis, lei ha fatto giornalismo economico, queste cose le sa perfettamente…

Libero: … ma veramente no…

Ellero: lo sa che questi qui si comprano decine di off shore e manco sanno di averle

Libero: Scusi, ma il suo cliente che non perde tempo con queste cose e manco sa perché ne ha decine, viene a trovarla e guarda caso in tasca ha proprio le azioni della Timara. Come faccio a crederle?

Ellero: Ma non le aveva in tasca. In una cartellina.

Libero: E che le aveva a fare?

Ellero: e che ne so io? Magari prima era andato in banca per un prestito o dal commercialista per la dichiarazione dei redditi..

Libero: ma non è residente all’estero? Mica deve fare la dichiarazione dei redditi in Italia…

Ellero: Ah, non lo so questo se la residenza vera è qui o là… Io non lo so e non voglio saperlo. Io gli faccio solo da consulente. Quando lui fa una operazione finanziaria gli dico: guarda che con questo vai dentro, con questo no. Poi lui è libero di fare anche quello con va in carcere. Ma io glielo ho detto prima…

Libero: E questo signore che vive all’estero forse sì forse no, non è veneto, che viene a fare da lei a Vicenza?

Ellero: Sono il suo avvocato…

Libero: ma lei ha lo studio a Vicenza…

Ellero: … ma opero ovunque. Ho lavorato anche con una grossa multinazionale di cui non posso farle il nome..

Libero:… naturalmente. Mai nomi!

Ellero: Ah, io mica ho bisogno di pubblicità. E’ come quando si va in un ristorante dalle parti di un lago sopra Belluno…

Libero: Quale ristorante?
Ellero: Non faccio il nome…

Libero: … ci avrei giurato…

Ellero:… è un ristorante rinomato, si paga 3-400 euro a testa..

Libero: Roba da off shore!

Ellero: … di solito ci si va con l’amante…

Libero: … niente nomi?

Ellero:…è noto in tutto il mondo. Ma è noto a pochi, perché pochi possono spendere così. A me non piace, perché ti danno quelle porzioni da mezze seghe.. Io preferisco cibo da camionisti…

Libero: scusi, ma che c’entra allora il ristorante?

Ellero: è come le off shore…

Libero: Ah, se lo dice lei. Mi parli del suo cliente. Perché l’ha chiamata venerdì sera chiedendole di rivelare che lui è il proprietario di Timara?

Ellero: Perché si è incazzato dopo che aveva sentito il ministro di Santa Lucia che rivelava il nome…

Libero: Il ministro ha rivelato il nome di Tulliani, non quello del suo cliente. Se è vero quello che dice lei, dovrebbe essere felice: il suo anonimato è stato protetto…

Ellero: Ma non doveva fare nessun nome. Il mio cliente si sarebbe incazzato anche se il ministro avesse detto : “il proprietario è Bechis!”. E’ la regola ferrea di Santa Lucia (io dicevo: che l’inverno porta via… Ma il mio cliente mi ha detto che non si dice all’italiana. Si pronuncia Lusìa, non Lucìa, e la rima non viene più). Un governo non può sparare nomi alla cazzo di cane. Ci sono regole nei paradisi fiscali. Se no vadano a pascolare capre…

Libero: Senta Ellero, è vero che stamattina è venuto a trovarla il finiano Conte?

Ellero: Sì, ma con molta discrezione, perché voleva sapere di più. Gli ho offerto un aperitivo, ma non gli ho dato nessuna notizia. Non posso

Libero: ma adesso deve convincere questo cliente a mostrare in pubblico queste azioni al portatore…

Ellero: se lei pensa che io abbia tempo da perdere per queste cazzate, si sbaglia. Se lui vuole darmele, me le dà. Se non vuole non me le dà.

Libero: ma noi se non vediamo, non crediamo…

Ellero: questo è un problema vostro. Lui mi ha chiesto di fare così e io così ho fatto. Oggi non si è fatto sentire, quindi significa che ha ottenuto l’effetto che voleva ottenere. Non ci sarà altro.

Anteprima dell'intervista che appare su Libero domenica 26 settembre 2010

Il caso Fini è chiuso. Ha mentito. Vorremo ridere, come diceva lui. Ma c'è da piangere



Gianfranco Fini ha regalato un milione- un milione e mezzo di euro a suo cognato, Giancarlo Tulliani, sottraendolo alle casse del partito che guidava, Alleanza Nazionale. E’ stato Tulliani ad acquistare la celebre casa di Montecarlo con la Printemps Ltd l’11 luglio 2008 ed è stato lui a rivendersela alla Tulliani immobiliare (Timara Ltd) al solo scopo di confondere le tracce sulla proprietà. Dalla vendita di quella casa Alleanza Nazionale ha ricevuto 300 mila euro, una cifra con cui a Montecarlo non si poteva acquistare nemmeno un box auto o una cantina. Prima della vendita c’era stata un’offerta superiore al milione di euro. Oggi con la stessa metratura nella stessa via vengono venduti appartamenti al prezzo di 2,5-3 milioni di euro. E’ chiaro il danno inferto al partito politico e l’ingente vantaggio finanziario consentito al cognato di Fini, che può rivendersi l’immobile ai valori veri di mercato. Ora che il ministro della giustizia dell’isola di Santa Lucia, ai Caraibi, ha certificato la proprietà di Printemps e Timara in una lettera riservata al suo primo ministro, di cui è venuta in possesso la stampa locale, la verità è venuta alla luce: quella casa è passata dalla famiglia politica alla famiglia personale di Fini. Non c’è più bisogno nemmeno di fare perdere tempo e soldi ai magistrati italiani che oltretutto non sarebbero stati in grado di venire a capo di nulla, vista la raffinatezza dell’operazione compiuta in un paradiso fiscale. Sembra grottesca alla luce di questo documento ufficiale del governo di Santa Lucia quella risposta che Fini stesso diede poche settimane fa ad Enrico Mentana che lo intervistava per il Tg di La7: “Non ho nulla da temere perchè non ho nulla da nascondere. Rideremo quando sarà fatta chiarezza dalla magistratura, basta aspettare qualche settimana, qualche mese”. Non è stato necessario tanto tempo, per fortuna. E guardando quella lettera c’è davvero da ridere. Ma non è il presidente della Camera a poterlo fare. Dovremmo ridere noi chiamati “infami”, appellativo che come ricordava giustamente Marco Travaglio, fa parte del gergo usato dai mafiosi per attaccare chi sceglie la verità e lo Stato e non loro. Ma non c’è molto da ridere, perché la questione è assai seria e grave. Quel documento pubblicato dalla stampa caraibica, che certifica la vendita a Tulliani della casa di Montecarlo, dimostra che Fini ha mentito sia davanti al suo partito che di fronte all’opinione pubblica. E’ un peccato grave per un uomo politico, in grado da solo di rovinare carriere in molti paesi del mondo. E’ un peccato più grave se commesso dalla terza carica istituzionale del paese, oltretutto con minacce gravi e a questo punto del tutto ingiustificate alla libertà di espressione e di stampa in Italia. Dopo questa clamorosa bugia svelata dal governo di Santa Lucia, non è più problema di una parte politica la permanenza o meno di Fini alla presidenza della Camera. E’ un problema di tutto il paese, che non  può più essere da lui rappresentato a una così alta carica istituzionale. Il resto ha diritto a chiederlo, anche con azioni giudiziarie, chi ha militato in Alleanza Nazionale anche a prezzo di grandi sacrifici: la restituzione di quella casa. Allo stesso prezzo a cui è stata venduta la prima volta.

Fini vissuto da vicino. 4/ E un giovane Gianfranco si innamorò di Follieri


Al ministero degli Esteri. A Palazzo Chigi, dove era vicepresidente del Consiglio. E ancora in via della Scrofa, dove era tornato preparandosi a una lunga opposizione. Era sempre aperta la porta di Gianfranco Fini per il vecchio amico Giorgio Moschetti, detto Giò il Biondo, l’ex numero due della dc andreottiana a Roma ai tempi di Vittorio Sbardella che aveva sempre aiutato quel leader rampante del Movimento sociale. Da vecchi amici passavano ore a chiacchierare delle vicende politiche in corso. Ma non si trattava sempre di quattro parole davanti al caminetto. Moschetti ha assistito in presa diretta a svolte politiche, a soluzioni di problemi interni, talvolta ha dato una mano nell’organizzare campagne elettorali o nel riattivare una rete di rapporti che mai era venuta meno per risolvere a Fini questo o quel problema. Quando Moschetti a fine novembre 2009 ha inviato al presidente della Camera una mail che lui stesso avrebbe definito agli amici “bruttissima”, sperando di essere ricevuto, ha elencato cinque episodi di quegli anni. Tre riguardavano personalmente Fini e la soluzione di problemi della vecchia e nuova famiglia. Due la soluzione di problemi del partito. Senza avere in mano quel testo di posta elettronica è difficile individuare quei cinque capitoli. Ma da giorni sondando i testimoni di quel lungo rapporto a Roma emergono episodi dei quella curiosa unione politica. Ed episodi a loro raccontati dalla viva voce dei protagonisti che potrebbero costituire la trama di quei cinque titoli. Cinque titoli che hanno destato subito l’attenzione del presidente della Camera dei deputati, che il 7 dicembre scorso concesse l’agognato appuntamento a Moschetti nel suo ufficio a Montecitorio.
Chissà se in quell’elenco appare anche un piccolo romanzo che si è concluso non nel migliore dei modi nei primi mesi del 2008. Quello dell’infatuazione che Fini provò per un giovane finanziere italiano da qualche anno emigrato negli Stati Uniti e destinato a una fortuna tanto rapida quanto lo sarebbero state le sue disavventure. Il giovane rampante si chiama Raffaello Follieri. Oggi sta scontando una condanna a 4 anno e mezzo di carcere negli Stati Uniti. Ma per qualche anno è stato uomo-copertina di molti magazine del mondo. Un po’ per le sue fortune finanziarie (che si sarebbero rivelate tarocche), un po’ per la storia sentimentale che lo legò all’attrice Anne Hathaway, deliziosa protagonista de “Il diavolo veste Prada”. Negli States Follieri aveva messo in piedi un piccolo gruppo finanziario, specializzato nel comprare e rivendere gli immobili delle diocesi colpite dallo scandalo pedofilia. Aveva preso come consulente Andrea Sodano, nipote dell’allora segretario di Stato Vaticano, e così aveva accreditato un suo rapporto stretto con la Santa Sede. Più tardi si sarebbe scoperto anche un altro millantato credito: Follieri aveva sostenuto di essere il fiduciario degli affari finanziari del Vaticano negli Stati Uniti,e così aveva abbindolato banche, finanzieri e perfino Bill Clinton. Per reggere la parte aveva naturalmente bisogno di venire di tanto in tanto in Italia, a Roma, a discutere con  i suoi “superiori”. In Vaticano passava un assegno mensile a un impiegato di una congregazione della Santa Sede, Antonio Mainiero detto Tony, che gli apriva fuori orario Musei Vaticani e giardini del palazzo consentendo di mostrare ad attoniti ospiti tutta l’influenza di Follieri. Nei viaggi romani il rampante finanziere è riuscito a fare il giro di qualche salotto. Gira che ti gira, chissà come ha incontrato anche Francesco Proietti Cosimi, detto Checchino. Allora era il principale assistente di Fini, che poi lo scaricò quando insieme ad altri esponenti di An fu intercettato dal pm di Potenza John Woodcock nella cosiddetta inchiesta su “Vallettopoli”. Poi il rapporto fra i due si è in parte ricucito, Checchino è stato ricandidato da Fini nel 2008, è diventato senatore e ha ripagato il suo leader seguendolo ora nella scissione dei gruppi di Futuro e Libertà.
Fu Proietti Cosimi quindi a portare il rampante Follieri a Fini, cui il giovane risultò subito assai simpatico e interessante. Follieri provò a fare fruttare rete di conoscenze e rapporti trovati nella capitale. Aprì una società lussemburghese con il suo nome, con quella sottoscrisse il capitale di una finanziaria italiana basata a Roma e vi mise il fidato Mainiero ad amministrarla. Era una immobiliare, e con Checchino pensò bene di cogliere al volo le eventuali occasioni che si sarebbero presentate con le dismissioni del mattone da parte di alcuni grandi gruppi pubblici. Fu durante una delle tante visite di Moschetti a palazzo che Fini confessò l’entusiasmo per quella nuova conoscenza, un ragazzo sveglio, bravo a fare affari, introdotto perfino nella politica internazionale. Un italiano all’estero che ce l’aveva finalmente fatta ed era pieno di miliardi. Disse che Checchino stava pensando a una joint venture con Follieri, coinvolgendo anche alcuni parenti di Fini specializzati in ristrutturazioni immobiliari. Parenti acquisiti, perché il legame di sangue era con la prima moglie, Daniela Di Sotto. “So che Massimo Sarmi alle Poste sta preparando un piano di dismissioni immobiliari”, disse il presidente di Alleanza Nazionale, facendo capire all’interlocutore che avrebbe favorito un incontro fra Poste e Follieri group. Moschetti non seppe poi a quale livello l’incontro ci fosse stato. Ma intuì che Sarmi, persona assai cortese, ma anche assai ferrata nella matematica, capì che due più due fa quattro, ma Follieri+Poste non sarebbe stata una buona operazione. Scelta assai lungimirante, visto il decorso delle vicende. Sfumato l’affare non vennero meno i rapporti di cortesia. Chissà se rafforzati nel frattempo dall’evolversi delle vicende sentimentali del futuro presidente della Camera. Negli Stati Uniti infatti Follieri cementò un rapporto con Frank Stella e la sua National Italian American Foundation (Niaf). Tanto che la fondazione principe degli italo-americani assegnò al giovane Follieri un ambito riconoscimento pubblico festeggiandolo insieme a George Bush padre. Stella, come è emerso in questi giorni, era anche il referente americano della Wind Rose International, società immobiliare fondata da Sergio, Giancarlo ed Elisabetta Tulliani e che ha sede a Roma al piano terra della palazzina dove è andato a vivere dal 2007 Fini. Se con le Poste l’affare sfumò, la finanziaria di Follieri almeno un immobile riuscì a comprare nel centro di Roma, a due passi da Trinità dei Monti. Ed è una fortuna per i creditori, visto che tutto è finito a gambe all’aria, compreso il tentativo di liquidazione di papà Pasquale dopo l’arresto americano del figlio, e la finanziaria romana è fallita nel febbraio di questo 2010.
Di politica parlava quindi Fini nei suoi incontri con Moschetti. Ma anche di affari, che sembravano sempre stare a cuore al futuro presidente della Camera. Affari nazionali e internazionali. E affari di famiglia. Della vecchia e della nuova famiglia…

4- continua

Fini vissuto da vicino. 3/Quella mano chiesta per la pubblicità degli amici

Eccola lì, la foto che stava in un angolo della scrivania di Giorgio Moschetti nell’ufficio dove Gianfranco Fini andava a trovarlo nel lontano 1993 cercando dal segretario amministrativo dell’ex dc romana prima una spinta e poi un aiuto per la corsa alle elezioni di sindaco di Roma contro Francesco Rutelli. Chissà se scappò a Fini l’occhio su quella foto che ritraeva l’ultimo sindaco di Roma della dc andreottiana, Pietro Giubilo, con il suo addetto stampa dell’epoca e un ragazzo di una tv romana che sbucava alle spalle. Era Andrea Ronchi, futuro portavoce di An, futuro ministro, protagonista ancora in erba di quella che sarebbe diventata la scissione di Futuro e Libertà nella destra italiana. Fini vide la foto sicuramente il 18 ottobre 1993, quando tornò da Moschetti dopo essere già sceso in campo a lamentarsi di non essere preso sul serio dall’establishment dell’epoca. L’allora numero uno del Movimento sociale era deluso perché a una puntata su Canale 5 del Maurizio Costanzo show erano stati invitati tutti gli aspiranti sindaci della capitale, meno Fini. C’era bisogno di qualche appoggio in più, altrimenti la candidatura rischiava di essere un buco nell’acqua. Sarà stato per la foto trovata sulla scrivania, ma fra tante cose quel giorno i due parlarono anche di Ronchi. Moschetti lo conosceva da tempo, sia come giornalista sia perché aveva una società di pubbliche relazioni insieme alla moglie Simonetta con cui ogni tanto cercava di prendere qualche lavoro nella Roma andreottiana, in Comune o nelle società municipalizzate. Fini non poteva sapere che tutti quegli incontri con Moschetti venivano registrati da una microspia piazzata nell’ufficio da un organo di polizia giudiziaria. Non lo sapeva nessuno dei protagonisti, naturalmente, finchè un collaboratore di Moschetti (che all’epoca era senatore) non la individuò e con una certa ingenuità il segretario amministrativo dell’ex dc la portò al primo commissariato di Roma centro sporgendo regolare denuncia. Molti, molti anni dopo- chissà come- quelle registrazioni che non poterono essere utilizzate nei procedimenti tornarono miracolosamente in mano al registrato che certo le ha ascoltate con amara curiosità e chissà se dopo se ne sarà disfatto. Una cosa era sicura: in quei frammenti audio c’era materiale per riscrivere la storia in modo assai diverso di quanto non abbiano consegnato le cronache. Ci sono anche tutti i particolari di quel finanziamento di 1,3 miliardi di lire dell’epoca (ad essere precisi un miliardo e 350 milioni di lire) pensato per la campagna elettorale del prefetto scelto dalla ex dc, che con Mino Martinazzoli si era trasformata in partito popolare, e che invece prese la direzione del movimento sociale, ad aiutare la scalata di Fini ai vertici della politica nazionale. C’è anche il colloquio di Moschetti con due imprenditori romani, vecchie conoscenze del senatore dc, che erano pronti a puntare le loro risorse economiche sulla campagna elettorale popolare. Trovarono dall’interlocutore una risposta che li sorprese, e fece capire loro che il mondo stava proprio cambiando: “Sul Ppi? Buttate via i vostri soldi. E’ Fini quello su cui puntare”.
Favore non da poco ricevuto dagli eredi di Andreotti giunti al loro capolinea politico. E un po’ di riconoscenza Fini ebbe. Ascoltando le raccomandazioni su quel giornalista-pubblicitario, Ronchi, che presto gli sarebbe stato assai utile. Fu Moschetti a parlargliene assai prima di Gaetano Rebecchini. E fu una fortuna perché negli anni Ronchi si sarebbe rivelato per Fini una risorsa fondamentale. Messo un po’ da parte fra il 1994 e il 1996, fu Fini a parlare a Moschetti di Ronchi poco prima delle elezioni di quell’anno. Quando stava per lasciare il governo di Lamberto Dini fu fatto un tentativo in extremis di esecutivo ad ampio spettro costituzionale, affidato alla regia di Antonio Maccanico. Il governo era quasi fatto. Ma all’ultimo lo fece saltare Fini. Così lo raccontò Maccanico agli amici: “ Sono tornato a casa in via della Scrofa e ho incontrato Fini sulle scale, che mi ha detto di averci ripensato. Non si fa”. Quel giorno in via della Scrofa arrivò il vecchio amico e confidente Moschetti. Chiese a Fini il perché di quel no. Lui gli rispose:  “Vogliono fare un governo solo di massoni”. Moschetti scherzando disse: “ma se ci sono anche esponenti vicini all’Opus Dei!”. Fini rispose: “Perché, l’Opus Dei non è massoneria?”. Fu quel giorno che l’ormai presidente di Alleanza nazionale confessò all’amico ex senatore dc di avere dei problemi da sistemare su una partita di immobili, senza specificare se si trattava di mattoni del partito o di famiglia. Ma disse che stava dandogli una mano proprio Ronchi, attraverso alcune società estere da lui conosciute per la sua attività professionale. C’era sempre bisogno di una mano, dalle parti di via della Scrofa. Moschetti aveva ancora tante relazioni utili dopo avere militato ai massimi livelli nella dc capitolina per tanti lustri, fino a diventarne il quasi leader- sia pure senza fare ombra a Vittorio Sbardella. Di una mano aveva bisogno Fini sugli immobili, di una mano aveva bisogno Ronchi per le attività professionali che erano ormai a largo raggio. Si occupava di pubbliche relazioni e di campagne pubblicitarie attraverso la Apr pubblicità e marketing, che negli anni avrebbe conquistato cuore e portafoglio delle società pubbliche: Poste, Eni, Enel e così via. Ronchi insieme alla moglie Simonetta Sechi ed altri soci possedeva anche altre società meno note, ma assai attive a Roma, come la Baam srl e la Olifer srl (gestì per un certo periodo il Jazz caffè, poi gli affari andarono peggio e fallì quando Ronchi se ne era già disfatto). Con il giovane rampante politico di An destinato a scalare tutti i gradini del successo politico si imbarcò all’epoca un altro personaggio cresciuto all’ombra di Fini negli anni. Si chiama Ferruccio Ferranti, oggi è amministratore delegato del Poligrafico dello Stato. E’ stato anche amministratore di Sviluppo Italia e prima ancora amministratore della Consip, la società che centralizza gli acquisti per conto dello Stato. Una carriera rapidissima sotto l’ombra di Fini. E non è un caso se Ferranti nel tempo libero oggi riesce a sedere anche nel consiglio della Fondazione Fare Futuro, il pensatoio da cui è partita la prima secessione finiana. Ma all’epoca dei secondi anni Novanta, quando Fini chiedeva di tanto in tanto “una mano” a Moschetti, la folgorante carriera di Ferranti era ai nastri di partenza. Era più noto per essere il marito di Piera Salabè, figlia di Adolfo, l’architetto del Sisde e dei misteri di Oscar Luigi Scalfaro alla fine della Prima Repubblica, e il socio di Ronchi nelle agenzie di pr e pubblicità a caccia di commesse pubbliche. Sarà stato Moschetti, sarà stato il potere di Fini e del suo partito, ma arrivarono uno dopo l’altro gli agognati contratti prima dalle imprese pubbliche capitoline e poi dai grandi gruppi pubblici nazionali. I fatturati aumentarono anno dopo anno. E quel ragazzino che il numero due della dc romana fece vedere in foto a Fini in quel lontano 1993 sarebbe diventato l’ombra del leader. Pronto a concentrare nelle sue mani nel 2005 tutto il potere dei colonnelli e ora a diventare il gran ciambellano della secessione di Futuro e Libertà. Una scalata lunga anni. In cui mai Fini e Moschetti si sono persi di vista. Dai lunghi colloqui del 2004, alla vigilia della decapitazione di Giulio Tremonti per un incidente su Sviluppo Italia. A quelli di qualche anno più tardi, quando la strada di Moschetti ha incrociato quella della nuova famiglia di Fini. Trovando sulla sua strada Sergio Tulliani e uno strano progetto industriale che aveva immaginato per l’Acea…


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Due parole sullo scandalo per Gianfranco Fini



Debbo due parole a chi, sul mio blog o nei profili di Facebook, protesta con più o meno garbo per l'eccesso di informazioni su Gianfranco Fini. Non ho mai avuto dubbi in vita mia sulla legittimità delle indagini giornalistiche a proposito di chiunque chieda la fiducia degli elettori e ricopra incarichi elettivi, di governo o istituzionali a qualsiasi livello. Nessuno di loro ha diritto alla privacy, come nessuno dei suoi familiari. Posso capire che per loro sia antipatico, ma non comprendo come gli eletti non considerino per primi un dovere assoluto la trasparenza anche sulla attività della propria famiglia. Questa regola valeva per Silvio Berlusconi (e io per primo ho raccontato fin dal 1994 tutto quel che riuscivo a sapere su beni, attività e patrimoni di Veronica Lario e dei figli di Berlusconi). Valeva per Romano Prodi, per Fausto Bertinotti, per Pierferdinando Casini, per Marco Follini, per Massimo D'Alema e per i loro familiari di cui ho sempre raccontato nei giornali su cui ho scritto attività, patrimoni, avventure. Posso capire che per loro sia fastidioso (avrei la stessa reazione), ma è una delle regole della democrazia, una pena del contrappasso del potere. C'è chi l'ha capito e per primo ha cercato trasparenza in questi anni. E' un piccolo passo, ma gran parte dei deputati e dei senatori eletti hanno messo a disposizione del pubblico la situazione patrimoniale e reddituale propria e dei propri familiari. Fini, pure essendo diventato presidente della Camera, non ha reso pubblico nulla su Elisabetta Tulliani. E già questo è un motivo naturale di maggiore curiosità. E' stato grazie a sacrosanti servizi giornalistici che è potuto emergere il motivo reale di quella scarsa trasparenza: patrimoni e affari di famiglia nascondono grandi dubbi e operazioni poco trasparenti se non imbarazzanti. Ad oggi il presidente della Camera ha preferito l'imbarazzo e la nebbia a una semplice spiegazione. Quando si vende un immobile, si tratta con qualcuno e si sa chi compra. Quindi sarebbe bastata una semplice risposta. Altrimenti tutti i dubbi sono leciti e si alimentano di questa poca chiarezza. Chi si cela dietro la società proprietaria dell'immobile di Montecarlo, la Timara ltd? Quella sigla non vuole per caso dire "Tulliani immobiliare a responsabilità anonima?" o qualcosa di simile? Dubbio giustificato dal fatto che Gincarlo Tulliani fondò una società per lavorare con la Rai e la chiamò Giant enterteinment. E Giant significava "Giancarlo Tulliani". Piccola cosa? Può essere. Ma a ingigantirla è stata la scelta di fuggire quella risposta. Più si fugge, più si alimentano dubbi e ombre. 
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con le scelte politiche di Fini. E' legittimo che lui non sopporti più Silvio Berlusconi, è legittimo che sia stato deluso dal Pdl e pensi a una nuova strada politica, anche a farsi un partito nuovo. Avendo chiesto i voti per una strada che non condivide più, io credo che sarebbe giusto anche rivolgersi agli elettori e farsi confermare dal voto la nuova scelta. Ma non c'è nulla di scandaloso nel cambiare idea, ci sarà chi condivide e chi no come in ogni atto. Non c'è dubbio però che Fini si sia messo così, in modo evidente, al centro della politica italiana. E quando uno lo fa, non può lamentarsi dell'eccesso di attenzione nei suoi confronti. E' chiaro che interessa di più quel che fa lui piuttosto di un altro. E' al centro dell'attenzione e quel che dice viene vagliato e pesato più di altro. Ha scelto anche dei temi politici per il suo divorzio. Il primo è stato quello della legalità. Non stupisca che proprio quello venga verificato più di altri. In una democrazia sana quello dovrebbero fare i giornali. Anche Antonio Di Pietro ha scelto quella bandiera, il cuore della sua attività politica. E così la libera stampa gliene ha chiesto le ragioni più che ad altri. Una persecuzione? No, è questo il ruolo naturale della stampa. Se Berlusconi dice "io sono alla guida del partito che ha abbassato le tasse" e questo non è vero, i giornali si riempiranno di servizi su questa o quella tassa alzata, altro che abbassata. Avviene sempre così. E certo Berlusconi e Prodi sono stati vagliati e rivoltati come calzini dalla stampa in questi anni. Cosa è questa immunità che oggi si rivendica per Fini? Questa sì è innaturale e ingiustificata. E- permettetemelo- questa sì puzza non poco di regime. Molto più di quelle leggi bavaglio mai entrate in vigore...

Fini e la legalità/ 1993, il cassiere della dc disobbedì a Sbardella e versò a Fini 1,3 miliardi di lire

Vi chiedo “di dare una mano a Gianfranco Fini”. Fu questo l’appello che l’8 agosto 1991 in un tavolo del ristorante al Bolognese in piazza del Popolo a Roma, Michele Marchio, capo indiscusso del Movimento sociale a Roma rivolse a Giorgio Moschetti, tesoriere della dc romana. Fini aveva da poco riconquistato la guida del partito, che solo un anno prima gli aveva sottratto l’avversario dell’epoca, Pino Rauti. Il delfino di Giorgio Almirante aveva mostrato alla sua prima esperienza di guida politica una fragilità inattesa. Bisognava porvi rimedio, evitare ulteriori rischi. Per questo Marchio bussò alla porta della dc romana, di cui era leader indiscusso Vittorio Sbardella e di cui aveva le chiavi della cassa proprio Moschetti. Al pranzo partecipò lo stesso Fini, mentre Marchio fu accompagnato in auto dal giovane assistente, Francesco Storace, all’inizio di una lunga e promettente carriera politica. Fu in quella occasione che scattò il feeling fra Fini e Moschetti. Ed è in quell’incontro- in quel pranzo- che sono state poste le radici di un connubio ventennale. E’ lì- come rivelato ieri da Libero- che sono nati rapporti anche assai riservati fra i due uomini politici. Da quel momento Moschetti diventa il custode di molti segreti della storia di Fini. Quel pranzo è all’origine di una lunga storia che porterà all’incontro fra i due del 7 dicembre 2009 nell’ufficio del presidente della Camera. Un incontro a lungo chiesto invano da Moschetti. E ottenuto al volo solo quando a fine novembre 2009 all’ex segretario amministrativo della dc romana viene in mente di inviare una mail in cinque punti. Cinque titoli di un dossier che racconta la storia comune. Cinque vicende politico-finanziarie che ripercorrono gli anni trascorsi insieme.
Iniziò nel 1991 quell’avventura comune. A Fini servivano appoggi, strutture, accreditamento per rendere meno fragile la sua riconquistata guida del Movimento sociale italiano. Serviva anche un accreditamento con i veri poteri di Roma. “Qui comandano i palazzinari”, gli spiegò Moschetti che li conosceva tutti ed era abituato a bussare alle loro porte per avere sostegno anche finanziario. Da quel momento la rete di amicizie e di supporti fu in piccola parte condivisa con il nuovo politico emergente. Che avrebbe avuto presto la sua grande occasione. Era la fine del mese di agosto 1993, forse i primi giorni di settembre, bisognerebbe chiedere con precisione ai tre testimoni che oggi sono ancora vivi e possono confermare. Certo fu prima della domenica di chiusura della festa della destra a Mirabello (anche quell’anno capitò il 5 settembre). Fini salì nell’ufficio di Moschetti accompagnato da Donato La Morte. In quei giorni si stavano decidendo i candidati per le elezioni al comune di Roma. In campo c’era Francesco Rutelli. La dc- quell’estate diventata partito popolare con Mino Martinazzoli- non aveva ancora scelto. Sembrava dovesse scendere in campo Rocco Buttiglione, ma non si decideva. Se no il candidato sarebbe diventato il prefetto di Roma, come poi accadde. Fini voleva offrire i suoi voti alla dc, e chiese a Moschetti di convincere Martinazzoli a non rifiutarli. Il segretario della dc romana scosse la testa: “Gianfranco, non hai capito la situazione. Io ho già tre avvisi di garanzia e mi stanno portando il quarto. Non vedi il clima? Devi provare a correre tu per le elezioni”. Fini sorrise timidamente. Si avviò alla porta insieme a La Morte, vecchio amico di Moschetti perché per lunghi anni era stato consigliere provinciale della dc a Roma. Poi proprio sull’uscio guardò il segretario amministrativo della dc romana: “Ma secondo te, se mi presento da solo, quanti voti prendo?”. Moschetti rispose secco: “Il 36 per cento!”. Finì sgranò gli occhi: “ma tu mi darai una mano?”. E ottenute assicurazioni, se ne andò. Si rividero a lungo durante la campagna elettorale e anche per l’organizzazione delle successive politiche del 1994.
Fu qualche tempo dopo che spuntò fuori un giallo che fece intuire quale fosse stata “quella mano” che Moschetti doveva dare a Fini nella corsa a sindaco di Roma del 1993. Un deputato della Lega Nord tirò fuori la copia di una lettera a firma di Giulio Caradonna, leader missino dell’epoca, in cui si sosteneva che a Fini arrivarono due miliardi di vecchie lire dalla corrente andreottiana di Sbardella. Fu una rivelazione a tarda sera. Alle cinque del mattino Fini tirò giù dal letto Moschetti. Con Donato La Morte si videro tutti insieme a concordarono di smentire formalmente tutto. Fu un capitano dei carabinieri a raccogliere la smentita, attraverso la formula dell’auto-querela che Fini aveva fatto a se stesso. La vicenda sarebbe proseguita qualche anno anche con l’assoluzione di Caradonna, visto che una perizia calligrafica mostrò che non era sua la perizia calligrafica in calce a quella lettera. Così si chiuse la vicenda. Ma la versione all’epoca concordata fu di comodo. Lo avrebbe confessato anche anni dopo ad amici lo stesso Moschetti. Più che falsa la versione era imprecisa. Non di due miliardi si trattò. Ma di un miliardo e 300 milioni di vecchie lire che effettivamente finanziarono in nero (mai registrati) la campagna elettorale di Fini. Non fu Sbardella a stabilire quel contributo. Anzi. Lo Squalo era in rotta con Andreotti da qualche tempo. Chiese a Moschetti quindi di finanziare la corsa elettorale del candidato scelto dal ppi, il prefetto di Roma. Ma il segretario amministrativo, che aveva già deciso in cuor suo di restare fedele ad Andreotti e di non seguire Sbardella nell’ultimo strappo, disobbedì allo Squalo. Forse anche con un certo acume politico, comprese che il futuro apparteneva a Fini, che Tangentopoli stava spazzando via per sempre la vecchia dc. E quel miliardo e trecento milioni puntò sulla corsa di Fini. Non servì a farlo vincere. Ma da lì iniziò davvero la seconda Repubblica, quindi la scommessa non fu affatto persa. Chissà se è in quel miliardo e 300 milioni che si può trovare uno dei capitoli del dossier che tante preoccupazioni è in grado di creare al presidente della Camera. Certo in quel gesto si è cementato il rapporto segreto fra l’ex segretario amministrativo della dc romana e il nuovo leader della destra italiana in rapidissima ascesa. Fu il primo mattone. Presto ne sarebbero seguiti altri. Anche nella confusa fase della caduta del primo governo di Silvio Berlusconi e del tentativo di costruire un governo di unità nazionale guidato da Antonio Maccanico. In quel biennio Moschetti da un lato dovette occuparsi dei suoi processi, dall’altro seguì a distanza le vicende finanziarie del partito che sarebbe diventato Alleanza Nazionale. Facendo da chioccia anche a un pulcino della nidiata, Andrea Ronchi, che Fini aveva dovuto mettere da parte per un po’. Ma che Moschetti da anni guardava con una certa simpatia, avendolo visto crescere all’ombra del cupolone. 2-continua- Il resto domani nottee nei giorni successivi- E su Libero da domani in avanti

Fini e la legalità/ Il presidente della Camera è sotto scacco dell'ex cassiere della dc di Sbardella

C’è un misterioso dossier in cinque capitoli che tiene sotto scacco Gianfranco Fini. Cinque vicende politico-finanziarie che preoccupano da tempo il presidente della Camera dei deputati. C’era un semplice titolo per ognuna di quelle cinque vicende nel messaggio di posta elettronica che a fine novembre 2009 apparve nella casella alla Camera della segretaria particolare di Fini, Rita Marino. A inviarlo un mittente con tanto di nome e cognome: Giorgio Moschetti. Oggi è un libero cittadino, ma per decenni è stato un vecchio lupo della politica nella capitale. Fu il segretario amministrativo della dc capitolina, corrente andreottiana, quando re di Roma era Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”. Nel 1992 Moschetti, soprannominato “Giò er biondo” per la capigliatura splendente (oggi tendente al platino) fu anche eletto senatore. Una fortuna, perché c’era ancora l’immunità parlamentare. Quell’anno scoppiò tangentopoli e il tesoriere della dc romana, insieme al segretario amministrativo del partito a livello nazionale, Severino Citaristi, fu colpito da una gragnuola di avvisi di garanzia e anche di una richiesta di arresto, che il Senato respinse. Per anni fu travolto da inchieste e processi, uscendone fuori definitivamente cinque anni fa, anche ottenendo assoluzioni sui reati più gravi (ad esempio le tangenti Intermetro). Moschetti è appunto un libero cittadino. La sua dc è scomparsa nella notte dei tempi, ma la passione per la politica non è mai venuta meno. Come Sbardella conosceva bene il vecchio Msi. Alla fine degli anni Ottanta diede anche una mano a Fini, su richiesta dell’ex senatore Michele Marchio. Divennero amici, si frequentarono. Lavorarono insieme anche se mai questo rapporto fu reso pubblico. La frequentazione non è venuta meno negli anni Novanta, ed è continuata fino a tempi più recenti. Incontri nella sede di An in via della Scrofa, al ministero degli Esteri, a palazzo Chigi all’epoca di Fini vicepresidente del Consiglio, anche i passi ufficiali raccontano quella lunga frequentazione fra i due. Spesso Fini chiedeva consigli al vecchio amico, altre volte ha utilizzato la sua rete di rapporti e conoscenze per fare crescere il suo partito a Roma. Un ottimo rapporto. Ma nel 2009 qualcosa deve essere cambiato. Per mesi Moschetti chiese un appuntamento al presidente della Camera. Numerose le telefonate con la Marino, sempre molto cortesi. Ma l’appuntamento non veniva mai fissato. Finchè in quel mese di novembre la segreteria della presidenza della Camera chiese alla segretaria di Moschetti di inviare un messaggio di posta elettronica con la richiesta di appuntamento, così sarebbe stato messo in scadenzario e avrebbe avuto una riposta ufficiale. A Moschetti- che chissà come ne era a conoscenza- venne in mente quel misterioso dossier. Scrisse la mail con la richiesta di appuntamento e per motivarlo vi allegò quei cinque titoli, tre che riguardavano personalmente il presidente della Camera e due il suo partito. Cinque titoli che sembrarono la più classica delle parole magiche: una sorta di “Apriti Sesamo” in grado di forzare qualsiasi resistenza protocollare. La mail fu spedita e nemmeno un’ora dopo squillò il telefono nell’ufficio dell’ex tesoriere della dc romana: “il presidente della Camera è lieto di incontrarla nel suo ufficio a Montecitorio la mattina del 7 dicembre prossimo”.
Quel 7 dicembre di primo mattino si spalancarono davvero le porte di Montecitorio per “Giò er biondo”. Fini fu calorosissimo. Non fece alcun accenno al contenuto di quel messaggio di posta elettronica. Fece vedere le foto familiari a Moschetti, le bambine avute con Elisabetta Tulliani, parlò un po’ della situazione politica, scherzò sui microfoni e su un incidente che era avvenuto qualche giorno prima, quello della chiacchierata informale sul pentito Gaspare Spatuzza rubata dalle telecamere a un convegno in cui Fini sedeva a fianco del procuratore capo di Pescara, Salvatore Trifuoggi. L’incontro con Moschetti si stava piacevolmente prolungando, quando fu interrotto da una richiesta ufficiale dei capogruppo dell’opposizione che volevano vedere urgentemente il presidente della Camera per sciogliere un braccio di ferro in corso sulla legge finanziaria. Il tempo stringeva, così Fini chiese subito al vecchio amico: “Allora, Giorgio, che vuoi fare nella vita?”. Moschetti non perse tempo: “Vorrei essere scongelato. Ho passato una vita a occuparmi dei miei processi. Si sono ammalati anche i miei figli per questo. Da cinque anni ho chiuso ogni pendenza giudiziaria. Mi sembra naturale tornare a vivere, ridare dignità alla mia famiglia…”. Fini sorrise: “Che vorresti fare?”. E Moschetti disse che lui non aveva bisogno di soldi, né voleva incarichi politici, ma solo qualcosa per recuperare il prestigio perduto: “Una presidenza, ad esempio. Ho visto che a Giuliano Amato avete dato la Treccani…”. Fini rispose che per certe nomine contava il governo, ma disse che da lì a pochi mesi ci sarebbero state le elezioni regionali e sicuramente sarebbe venuto fuori qualcosa di interessante anche per Moschetti. Gli chiese di pazientare qualche mese, volle avere un giudizio anche sul candidato che stava per scendere in campo per il Pdl nel Lazio, Renata Polverini. Moschetti rispose: “a dire il vero non la conosco. L’ho vista come tanti qualche volta in tv. Mi raccomando però non fare lo stesso errore del mio amico  Gianfranco Bettini che si è trasformato in un campione dell’antipolitica candidando per ben due volte un giornalista alla guida della Regione Lazio”. Fini sorrise, cominciò a raccontare delle difficoltà del quadro politico. Gli disse che aveva visto da poco Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Bruno Tabacci e fece una battuta che colpì Moschetti: “Sai, Giorgio… qui vogliamo rifare la tua dc…”. Il presidente della Camera raccontò al suo interlocutore che comunque il quadro politico era destinato a un vero e proprio terremoto: “dopo le regionali cambierà tutto”. Fu a quel punto che bussò alla porta la fedelissima Marino: “Presidente, ci sono i capigruppo dell’opposizione che la aspettano”. Fini cortesemente si congedò, ma promise affettuosamente all’interlocutore che si sarebbe mantenuto in contatto con lui “per quelle cose che ci siamo detti”. Dopo quell’incontro Moschetti e Fini si sentirono ancora il 18 gennaio 2010 e durante la campagna elettorale per le regionali. Poi sui rapporti fra i due è calato il silenzio. Non sul dossier in cinque capitoli, che resta sospeso sul capo della politica romana. Ma che cosa c’era di tanto importante per Fini in quei capitoli? Non c’è speranza di ottenere informazioni dirette da qualcuno dei protagonisti. Negherebbero uno di avere inviato il messaggio di posta elettronica e l’altro di averlo ricevuto. Solo l’incontro del 7 dicembre non può essere smentito. Forse per capire di più questo giallo che sta alimentando la politica italiana, basterebbe ripercorrere passo dopo passo venti anni di frequentazioni fra Fini e Moschetti. Lì potrebbe esserci se non la risposta la traccia giusta per provare a comprendere quel dossier in cinque capitoli. E allora iniziamo questo viaggio nella memoria. Tornando a un caldissimo giorno di agosto del lontano 1991. L’8 agosto 1991. Piazza del popolo, a Roma. Ristorante dal Bolognese. C’è un tavolo prenotato e stanno arrivando gli ospiti. Il primo ad arrivare è un giovane politico missino, Gianfranco Fini. Il secondo è Giorgio Moschetti, cassiere della dc romana di Vittorio Sbardella. Il terzo è il leader del Msi romano, il senatore Michele Marchio. A dire il vero c’è anche una quarta persona, all’epoca meno nota. E’ lui che ha guidato fin lì l’auto di Marchio, di cui è fedele assistente. Un giovane promettente, destinato a fare carriera. Si chiama Francesco Storace… 1- continua

Fini e la legalità/ La Contini rivela: impose lui il candidato del boss che pagò 100 mila euro al partito

La parola decisiva ai magistrati l’ha detta in un interrogatorio formale del 16 maggio 2008 Barbara Debra Contini. Convocata davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo che cercava di capire qualcosa di più sulle irregolarità riscontate nella candidatura a senatore di Nicola Di Girolamo, la Contini assicurò “è stata una candidatura adottata direttamente dal presidente Fini”. Parole taglienti come il ghiaccio, che oggi sono allegate al fascicolo processuale dell’ex senatore coinvolto nello scandalo Fastweb- Telekom con accuse pesanti di concorso in riciclaggio e di brogli elettorali con la complicità della ‘ndrangheta. Qualche giorno fa, il 30 agosto, la procura di Roma ha deciso di mandare a giudizio immediato l’ex senatore che fu costretto a dimettersi nella primavera scorsa quando è scoppiato lo scandalo, finendo in carcere dopo avere perso l’immunità parlamentare. La prima udienza del processo è già stata fissata per il 2 novembre prossimo. Ma per Di Girolamo è possibile uno stralcio e se ci sarà l’ok dei pm anche il patteggiamento o il rito abbreviato. L’ex senatore infatti da mesi ha iniziato a collaborare con i magistrati sia sul troncone principale dell’inchiesta, sia sull’origine e le modalità della sua candidatura al Senato nella circoscrizione estera europea. C’è già stata una decina di interrogatori, ed è probabile che prima di dare il proprio assenso al patteggiamento i pubblici ministeri ne vogliano fare ancora qualcuno proprio sulla vicenda politica. Di Girolamo ha spiegato quel che già i magistrati avevano letto nelle intercettazioni. E cioè che la sua candidatura era stata ideata da Gennaro Mobkel, l’ex neofascista divenuto il boss al centro dell’inchiesta, avendo tirato le fila di tutte le operazioni illecite scoperte. Mobkel avvicinò un vecchio amico, Stefano Andrini (dirigente pubblico a Roma, costretto alle dimissioni dopo l’esplosione dello scandalo), che fece da tramite fra Di Girolamo e Marco Zacchera (An), uno dei tre coordinatori del Pdl che doveva occuparsi delle candidature degli italiani all’estero. Gli altri due erano appunto la Contini (Forza Italia) e Stefano Stefani (Lega). In più intercettazioni telefoniche e ambientali Mobkel sostiene parlando con amici e altri sodali di avere pagato "una piotta" solo per ottenere il sì di An alla candidatura di Di Girolamo. Le ricostruzioni sono confuse, in parte dice di averlo fatto lui direttamente, in altre occasioni sostiene che il pagamento lo avrebbe fatto lo stesso Di Girolamo. Gli inquirenti traducono dal romanesco "na piotta" identificando la cifra in 100 mila euro. Ma in altre intercettazioni allegate Mobkel ripete in più occasioni di avere pagato per la candidatura di Di Girolamo più di un milione di euro. Può essere che nella cifra siano compresi i costi della campagna elettorale. In un caso sostiene di avere dato per la mediazione con An ad Andrini 50 mila euro. Ma negli interrogatori in carcere Mobkel non ha voluto rispondere sul punto. Lo farà nel processo o nel prossimo interrogatorio nella speranza di ottenere il patteggiamento lo stesso Di Girolamo. Ai magistrati infatti interessa molto capire a chi andarono quei soldi e per quali strade il boss romano avesse costruito con l'appoggio di An quella che lui stesso chiamava  "l'inizio di una scalata al potere". Per questo diventa oggi molto imbarazzante quella versione fornita dalla Contini ai magistrati romani: "Mi erano state fatte delle segnalazioni formali sulla circostanza che Di Girolamo non era conosciuto nelle comunità europee all'estero. Segnalai a Zacchera qusta circostanza chiedendogli di verificare e di valutare attentamente il nome. Zacchera mi rispose che la decisione era stata adottata direttamente dal Presidente Fini e Zacchera assicurava, contrariamente alle voci giuntemi la stima complessiva che Di Girolamo avrebbe avuto a suo dire in Europa". Dichiarazione imbarazzante, anche perchè nelle intercettazioni allegate il nome di Fini compare in moltissime occasioni. Anche all'indomani dell'elezione, quando chiama Di Girolamo per un incontro faccia a faccia. Il senatore a quel punto non è più intercettabile, e quindi non esistono brogliacci sulle chiaccherate. Ma all'incontro fa riferimento Mobkel con altri interlocutori, rivelamndo pure che Fini aveva ricevuto dall'ambasciata italiana in Belgio una lettera di supporto a Di Girolamo per futuri incarichi. Sarà tutta materia da dipanare al processo, a meno che la definitiva chiarezza non arrivi dai prossimi interrogatori dell'ex senatore. Certo quel processo diventa una ulteriore macigno nella battaglia per la legalità messa al centro della sua nuova avventura politica dall'attuale presidente della Camera

Così la cricca degli appalti era di casa negli uffici di Fini


Sono due i passi rilasciati dall’ufficio di sicurezza della Camera dei deputati che legano Gianfranco Fini alla cricca degli appalti pubblici. Sono stati rilasciati fra la fine di novembre 2009 e il gennaio 2010 per recarsi nell’ufficio del presidente della assemblea di Montecitorio a Francesco De Vito Piscicelli, l’imprenditore che con Diego Anemone è diventato il più noto alle cronache della nuova tangentopoli. De Vito Piscicelli è infatti l’imprenditore intercettato con il cognato mentre rideva e si fregava le mani la notte del terremoto de L’Aquila pensando a quanti affari avrebbe potuto realizzare con le sue imprese. Non è noto se in quelle occasioni avesse avuto un incontro diretto con Fini. E’ invece documentato- grazie a lunghe intercettazioni e pedinamenti dei carabinieri del Ros- l’incontro con Rita Marino, segretaria particolare del presidente della Camera che fu al suo fianco sia nel Msi che in An nei lunghi anni in cui Fini guidò quel partito. La Marino è risultata determinante per sbloccare con procedura anomala un pagamento da 1,5 milioni di euro a De Vito Piscicelli per uno degli appalti per i mondiali di nuoto, quello per la realizzazione della piscina di Valco San Paolo, poi finita nel mirino della magistratura. La segretaria di Fini mostra nelle telefonate intercettate un’antica conoscenza con De Vito Piscicelli e si dà un gran da fare per sbloccare la sua pratica. Sono numerose le telefonate intercettate che dimostrano un intervento diretto della Marino con la ragioneria del Comune di Roma per sbloccare il pagamento privilegiato per l’imprenditore amico. Non è impresa da poco, anche perché i lavori per la piscina non sono stati fatti a regola d’arte: a un certo punto lo stesso imprenditore si accorse di una crepa nella struttura e cercò di porvi riparo come poteva. Il responsabile sicurezza del cantiere, Giampaolo Gandola, fu intercettato mentre confessava: “Non c’è un ponteggio a norma, non c’è proprio un c… Figlio mio, qui non andiamo in procuram, andiamo a Regina Coeli…”. Per pagare quei lavori la delibera prevedeva l’accensione di un mutuo (con erogazioni quindi rateali), lasciando solo 1,7 milioni di euro a disposizione della struttura commissariale dei mondiali presso il Comune di Roma per le urgenze. Grazie all’intervento decisivo della segretaria di Fini (è la stessa persona di fiducia che il presidente della Camera inviò a Montecarlo per dare un’occhiata prima della vendita all’appartamento poi finito in mano a Giancarlo Tulliani) al solo De Vito Piscicelli il 20 gennaio scorso fu erogato usando quei fondi un anticipo da 1,5 milioni di euro. Secondo le indagini degli acquirenti alla Marino certamente è stato dato per il disturbo in occasione del Natale un monile acquistato da De Vito Piscicelli alla gioielleria Bonanni di Roma. L’imprenditore fece a Natale scorso solo due regali di valore. Uno destinato ad Angelo Balducci e uno alla segretaria di Fini.

Ecco tutte le intercettazioni della segretaria di Fini
 


24.11.2009 ore 10.48
Centralino Camera dei Deputati
PISCICELLI:... Buongiorno signorina .. De Vito Piscicelli ... avevo chiesto della dottoressa Marino .... segreteria del presidente
MARINO:...pronto
PISCICELLI:...Rita buongiorno come sta?
MARINO:...buongiorno bene grazie ... ha ricevuto tutto?
PISCICELLI:...non ancora... non ancora
MARINO:...e va bè
PISCICELLI:...va bè ci vuole ancora qualche giorno
MARINO:...arriva arriva
PISCICELLI: ... senta dottoressa avevo bisogno di vederla un minuto per una cosa vitale ... di una cosa importante che le devo parlare
MARINO:...e io sono qua
PISCICELLI:...mi dica lei quando vengo a disturbarla ... domani mattina per lei va bene?
MARINO:...quando vuole
PISCICELLI:...allora domani alle ... 10 e mezza 11 va bene?
MARINO:...domani un attimo ... allora domani è 25 ... sì sì va benissimo
PISCICELLI:...allora alle 10 e mezza sono da lei ....
MARINO:...okay
PISCICELLI:...grazie sempre Rita .. buona giornata arrivederla

9 dicembre 2009
La mattina del 9 dicembre, l’ing. Enrico BENTIVOGLIO (RUP dei lavori di Valco San Paolo), seguendo certamente un procedura anomala, chiede a PISCICELLI come poter contattare il capo della segreteria del sindaco di Roma per conto dell’ing. Mauro DELLA GIOVAMPAOLA (…) PISCICELLI, compiacendosi dell’importante ruolo di collegamento che gli viene riconosciuto, ribatte che occorre prima fare un passaggio insieme a Mauro (DELLA GIOVAMPAOLA) presso Rita MARINO: “(sospiro, ndr) ... aspetta un momento ... un attimo solo ... eh ... (sospiro) ... vuole andare dal sindaco ... vuole andare ? …(…) … e dobbiamo andare un attimo...dobbiamo fare un passaggio diverso… mi devo mettere in attività subito ... prendere Mauro …(…) … prendere Mauro... dobbiamo andare da Rita MARINO e ... va be dai, mò mi organizzo già …(…) … va bene mi organizzo …

18 dicembre 2009
 La mattina del 18 dicembre, PISCICELLI chiede alla sua segretaria Veronica se i regali di Natale sono pronti: “...Veronica …(…) … che abbiamo fatto poi con quei ... cosi di Natale lì ... è tutto pronto? Veronica risponde che quelli destinati a BALDUCCI (Angelo) e a Rita MARINO sono pronti sulla scrivania in ufficio ... allora quei due ... aspetti ... quello di BALDUCCI … (…)… e quello di … (...) … di Rita MARINO stanno sulla sua scrivania ….

23 dicembre 2009- Ore 13,55
Nel primo pomeriggio del 23 dicembre l’arch. Paolo ZINI rappresenta a PISCICELLI la necessità di sollecitare l’”amica”, facendo riferimento a Rita MARINO, in relazione allo sblocco dei pagamenti del SAL :”... senti ...come ... come ... come va? ... non glielo vuoi fare uno squilletto alla ... alla tua amica? …(…) … ma ha fatto qualcosa o no? PISCICELLI ribatte di aver visto la donna proprio il giorno prima “eh ma l'ho vista ieri… perchè a te che ti risulta?” L’arch. ZINI lascia intendere che ha riscontrato qualche ostacolo per cui ritiene opportuno fare un richiamo : “ no, mi risulta che c'è bisogno di uno squilletto …”PISCICELLI assicura che provvederà ad effettuare la richiesta chiamata. Effettivamente dopo qualche minuto PISCICELLI chiama la dr.ssa Rita MARINO
MARINO:... pronto
PISCICELLI:... Rita buongiorno
MARINO:... buongiorno
PISCICELLI:... io la disturbo ancora
MARINO:... no ... io ho telefonato ... m'hanno detto che se ne occupavano ... quindi insomma per ... come si era rimasti d'accordo ... fine anno
PISCICELLI:... entro l'anno ce lo fanno
Questa rassicurante notizia appena ricevuta, PISCICELLI alle ore 15.00 immediatamente successive, la riporta all’arch. Paolo ZINI : “ti volevo solo dire che ho riparlato con la signora … la quale mi dice che ha già avuto la chiamata di ritorno ... che l'altro ieri quando sono andato ha chiamato. Ieri ha chiamato lei e stamattina ha avuto la chiamata di ritorno e dice che entro fine anno, come promesso, verrà fatto … Ma tu hai avuto sentore negativo?”.  L’arch. ZINI risponde che in ogni caso la sollecitazione non è superflua: “Sì, no, comunque serviva … serviva ... okay?

30.12.2009, ore 10.48,

ZINI:... eccomi
PISCICELLI:... io il messaggio l'ho avuto ieri però non ho ben capito che vuol dire
ZINI:... eh niente io ieri sono stato mezza giornata lì e ho preso... gli ho fatto fare... firmare, dire ... ho preso... ho mandato tutto al Comune... alla ragioneria
PISCICELLI:... ah!
ZINI:... Perchè come al solito ... se non gli stai sopra le cose non le fanno
PISCICELLI:... e quindi è andato in ragioneria
ZINI:... sì, però adesso bo! , niente... una bottarella ci vorrebbe
PISCICELLI:... gliela devo far dare?
ZINI:... eh sì ... sì, sì ... gli dici che le cose si erano fermate... arenate come al solito, nonostante tutto e che siamo riusciti a far mandare il pagamento in ragioneria
PISCICELLI:... secondo te se non rompo le palle a questa non si muove niente?
ZINI:... no, no, no... penso di no... penso di no ... sono gli ultimi due giorni ... non gli entra proprio niente in mente a nessuno
Immediatamente PISCICELLI cerca di mettersi in contatto con la dottoressa Rita MARINO . L’operatrice del centralino gli risponde che la dottoressa Marino non è rintracciabile

4 gennaio 2010
La mattina del 4 gennaio, PISCICELLI chiede all’arch. Paolo ZINI a chi si deve rivolgere per avere un sollecito pagamento del suo SAL : “ Volevo sapere se avevi qualche notizia o a chi mi potevo rivolgere …” Paolo ZINI ribatte di aver già investito della questione il dr. PAGLIARULO (della Ragioneria del comune di Roma (…) PISCICELLI, premettendo di aver interessato per la questione anche Rita MARINO, teme di creare una sorta di cortocircuito mettendo in campo altri soggetti per lo stesso scopo: “Ma non lo so se accavallare le cose adesso perchè c'era Rita pure che se n'era occupata, ti ricordi no? ... non lo so…va  bo’”

11 gennaio 2010
La mattina dell’11 gennaio, sollecitata da PISCICELLI in merito al pagamento dello stato di avanzamento, la dr.ssa Rita MARINO riferisce che la questione si sbloccherà entro pochi giorni
PISCICELLI:...buongiorno signorina ... per cortesia la segreteria del presidente ..la dottoressa MARINO
Operatrice:...chi devo annunciare?
PISCICELLI:...Francesco De Vito Piscicelli ... (omissis)
MARINO:... pronto
PISCICELLI:... dottoressa buongiorno
MARINO:... sì, buongiorno, allora io ho parlato ... mi dicevano che c'era stato un ... un qualche cosa di cui si era bloccato... e che avevano bisogno ancora di qualche giorno
PISCICELLI:... eh, eh
MARINO:... quindi appena erano nelle condizioni avrebbero provveduto a saldare il tutto
PISCICELLI:... grazie mille
MARINO:... aspettiamo ancora un pò e vediamo cosa accade
PISCICELLI:... grazie Rita... arrivederci, grazie arrivederci

12 gennaio 2010
PISCICELLI, chiede all’ing. RINALDI di interessare anche il dr. LUCARELLI (Antonio), per fare in modo che gli venga pagata la sua fattura con un’anticipazione di cassa: “ senti Claudio ... tu secondo me devi parlare con LUCARELLI che peraltro mi conosce … m'ha conosciuto che mi mandò la segretaria di FINI lì,  perchè devono fare….almeno solo per la fattura mia … un'anticipazione di cassa…”
PISCICELLI chiama GENTILE Vincenzo, amministratore unico della SIEME srl di Napoli, impresa sub-appaltatrice impegnata per i lavori della piscina di Valco San Paolo, per informarlo che sta per incassare 1.500.000 di euro come prima tranche su uno stato di avanzamento e tratteggia le difficoltà che ha dovuto superare per raggiungere questo risultato: “Ti rendi conto che veramente guarda il nostro lavoro veramente ... era tutto fatto, tutto pronto ... il mandato alla ragioneria del Comune di Roma mi chiama la mia amica (Rita MARINO ndr) della segreteria di Gianfranco (FINI ndr) e va be! ... dice ... ...corro là vado a vedere e questi mi dicono ... " ... ( ...) … dico ... " ma voi che state dicendo ? " ... apriamo le carte, guardiamo le carte era un mutuo veramente ( ..) allora mò andava Claudio RINALDI stamattina alle 11 a dare l'autorizzazione al Comune che quando fanno il mutuo pagheranno quei soldi a loro e poi ce li gireranno a noi, ma il milione e mezzo disponibile di pagarlo subito a noi ... capito ? ... tu ti rendi conto ?”
Alle ore 15.12 PISCICELLI riceve dalla dottoressa Rita MARINO la notizia che la questione del pagamento del SAL si sta evolvendo in senso favorevole ...
MARINO:...pronto
PISCICELLI:...Rita?
MARINO:...si
PISCICELLI:...Rita buongiorno è Francesco PISCICELLI
MARINO:...ingegnere no la stava cercando la segreteria di ALEMANNO
PISCICELLI:...si
MARINO:...perchè ... hanno sbloccato quella vicenda
PISCICELLI:...ah bene
MARINO:...e quindi però ... adesso io ho dato il numero a lei … la cercherà
PISCICELLI:...va bene perfetto ... grazie mille Rita
 

La Tulliani ci provò con il giornalismo. Ma la carriera finì perchè pizzicata a copiare


Immobiliarista, come tutto il resto della famiglia, grazie alla Wind Rose International finita ora al centro della battaglia legale con Luciano Gaucci. Avvocato dopo essersi laureata in giurisprudenza, anche se ha esercitato la professione poco o nulla. Showgirl grazie a qualche buona entratura in Rai, ma dopo qualche programma è finita l’avventura lasciando nella tv di Stato spazi ben più redditizi al fratello Giancarlo e a mamma Francesca. Fra le tante strade professionali tentate da Elisabetta Tulliani ce ne è anche una che è finita quasi sul nascere: quella della giornalista. Ne resta traccia fra l’estate e l’autunno del 2006 nell’archivio (che è anche on line) del quotidiano Il Tempo, all’epoca diretto da Gaetano Pedullà. La Tulliani desiderava, dopo l’iscrizione all’ordine degli avvocati, anche quella all’ordine dei giornalisti, elenco pubblicisti. E iniziò la collaborazione, specializzandosi in economia e finanza. Poi scrisse qualche articolo di cronaca e perfino uno di politica, proprio quello su cui scivolò scatenando perfino il cdr del quotidiano e dovendo infine interrompere la sua collaborazione. La Tulliani non scriveva in redazione (nessuno ne ricorda l’assidua presenza), ma fra settembre e ottobre di quell’anno sfornò articoli a ripetizione. Apparvero con la sua firma- necessaria per raggiungere l’agognato tesserino da pubblicista- ma non sempre erano farina del suo sacco. L’11 ottobre 2006 apparve ad esempio su Il Tempo un articolo della Tulliani sull’inchiesta delle Iene a proposito dei deputati che facevano uso di droga. Titolo: “L’associazione Polo tecnico vuole sapere chi sono i pusher degli onorevoli- Esposto alla procura di Roma per fare aprire un’inchiesta”. Il testo però è identico, parola per parola, perfino nella punteggiatura, a un dispaccio dell’Ansa delle 19.02 della sera precedente dal titolo “Droga: Iene; Polo tecnico, esposto per permettere l’inchiesta”. Un piccolo plagio, perché senza un minimo di editing redazionale sui giornali non si dovrebbe firmare con il proprio nome il lavoro fatto da altri. Ma nessuno se ne accorse. Nonostante l’incidente di quel giorno non fosse né il primo né l’ultimo: la Tulliani aveva il vizietto di appropriarsi del lavoro altrui mettendovi impropriamente il suo timbro in calce. Il  27 settembre stesso incidente nella sezione economia del quotidiano romano. Articolo sull’indagine Ue per i trasferimenti dello Stato italiano alle Poste. Il testo è  firmato Elisabetta Tulliani, ma è identico, senza modifica nemmeno della punteggiatura, al dispaccio Ansa delle 17,42 del giorno precedente, siglato Cao. Anche in questo caso appropriazione del lavoro altrui. Stesso incidente il 18 settembre 2006. Su Il Tempo esce un articolo della Tulliani sullo sciopero degli avvocati contro il decreto Bersani sulle liberalizzazioni. Lei- pur tentando la strada da giornalista- è già avvocato, e la materia dovrebbe ispirarla. Ma nell’articolo pubblicato a sua firma non c’è nemmeno un aggettivo scelto dalla giornalista in erba: si tratta come sempre della copia precisa alla virgola del dispaccio Ansa delle 15,43 del 17 settembre, titolato “Competitività: avvocati, al via settimana di sciopero”, siglato FH-NM. Un paio di giorni prima, il 15 settembre, solito metodo. Sul Tempo è uscito a firma Tulliani il dispaccio dell’Ansa sulle acquisizioni di Unipol mandato in rete  alle 18,24 della sera precedente. Stesse parole, stessa punteggiatura, ma diversa fatica: la Tulliani ha copiato solo metà del dispaccio Ansa. Poi ha messo un punto e l’articolo si è interrotto sul più bello (o forse è uno scherzetto fattole in redazione). Cerca che ti cerca, salta fuori anche un articolo della Tulliani di cui non si trova traccia negli archivi delle varie agenzie di stampa. Potrebbe essere davvero un Gronchi rosa, l’unico dove l’avvocato e futura compagna del presidente della Camera potrebbe avere messo farina del suo sacco. E’ un articolo di politica, fra l’analisi e il commento. I nomi sono diversi, ma se si cambiassero, potrebbe essere scritto oggi. “Pierferdinando Casini è riuscito laddove neanche Prodi sarebbe riuscito. E’ bastato il suo ennesimo attacco alla leadership di Berlusconi per ricompattare Forza, An e Lega. Tutti contro l’Udc. Mercoledì a Pesaro, parlando con i suoi prima di partecipare alle feste dell’Unità, il leader dell’Udc non aveva usato metafore: ‘Non vogliamo vivere e morire con Berlusconi’. Ieri- puntuali- sono arrivate le reazioni. Non quella di Silvio Berlusconi che ha trascorso l’intera giornata insieme a Umberto Bossi in Sardegna…”. Sembra una premonizione di quel che si vede. All’epoca Casini, ora Fini. E in entrambi i casi Berlusconi e Bossi insieme a fine estate in una villa del Cavaliere. Analisi politica perfino raffinata, quasi da fare dimenticare l’evidente violazione del diritto d’autore fin lì perpetrata ai danni dei poveri redattori dell’Ansa.  Ma anche quella non era farina del suo sacco. A distanza di anni resta ancora un giallo. Perché quell’articolo era stato scritto da una delle prime firme interne de Il Tempo. Ma fu pubblicato con la firma di Elisabetta Tulliani. Se ne accorse l’autore, che protestò. Insorse il cdr chiedendo spiegazioni. La questione fu risolta all’interno e da lì a poco fu staccata la spina alla fotocopiatrice Tulliani, mettendo fine ai sogni da pubblicista. Nella redazione il caso avvelenò il rapporto con il direttore, con un braccio di ferro che da lì a poco sarebbe costato la poltrona a Pedullà, che si è rifatto conquistando la direzione di un polo tv interregionale della famiglia Caltagirone.


Sul balcone di casa Fini a Roma un'aquila fascista?



Questa è la foto pubblicata da Libero di uno dei terrazzini della casa di Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani a Roma. In grado di aprire un altro giallo. Presa con il tele-obiettivo l'aquila di legno che vi campeggia sulla parete sembra poggiare proprio su un fascio littorio. Come se i simboli rinnegati in pubblico dall'ex leader di An siano gelosamente custoditi in privato. Non ci sono dubbi invece sul busto bronzeo appoggiato alla balconata: non è quello di Benito Mussolini (anche se l'uomo bronzeo di cui si vede la nuca sembra privo di capigliatura)....