Anche il Fatto ha la sua travagliata manovra: ha inventato la supertassa e vuole salvare i giornali di partito


Il contributo di solidarietà uscito e poi ieri sera rientrato nella manovra (sopra i 300 mila euro) ha finalmente un padre certo: Giorgio Poidomani, il presidente della società editrice de Il Fatto quotidiano. Anche se diventa difficile comprendere come Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti si siano fatti stregare dalla squadra di Marco Travaglio & c; c tanto da mandare a farsi benedire credo politici di una vita, la regia è inoppugnabile. Che l’idea per primo sia venuta a Poidomani è messo nero su bianco nella relazione sulla gestione del Fatto quotidiano allegata al bilancio del 2010. E anche se il documento integrale è stato depositato solo questa estate, porta la data del 31 marzo 2011, e non lascia dubbi sulla primogenitura del contributo di solidarietà. E’ a pagina 39 della sua relazione che Poidomani tira fuori l’idea dal suo cappello: “Appare anche indispensabile introdurre una tassazione straordinaria, certamente sgradita e forse ingiusta, sui patrimoni e sui redditi elevati”. Eccolo il primo contributo di solidarietà. Si vede che quando Tremonti e Berlusconi hanno letto l’idea e il giudizio dato sulla nuova tassa, (“ingiusta”) hanno pensato che se per il Fatto era ingiusto, per il governo il contributo di solidarietà doveva essere sacrosanto. Peccato però che non abbiano scorso anche il resto della “manovra Poidomani”. Perché il presidente della società editrice de Il Fatto ha disegnato una vera e propria finanziaria nella sua relazione. Tutti gli amministratori nella loro relazione al bilancio in effetti inquadrano l’andamento della propria società nella situazione economica generale sia di mercato che del proprio paese. Quello del Fatto però è andato ben al di là della descrizione. Forse rivelando un’ambizione da editorialista economico che deve essere sfuggita ad Antonio Padellaro, Poidomani si lancia davvero. Si dice preoccupato del patto di stabilità europeo che “comporta interventi stimabili in 50 miliardi di euro all’anno per diversi anni”, e si chiede “come potrà essere raggiunto questo obiettivo?”. Prima risposta- naturale per un amministratore di sinistra (Poidomani ha guidato anche l’Unità)- è andare a caccia degli evasori. Ma a sorpresa non viene ritenuta la strada idonea: “non va dimenticato che una volta messe in campo tutte le procedure per frenare o individuare le grandi evasioni, sono necessari vari anni per superare tutti i gradi di giudizio ed arrivare all’incasso”. Allora ecco la ricetta: fare crescere il Pil. Come? Con la ricetta più berlusconiana che c’è (se il premier mai l’avesse applicata): “uno strumento efficace per raggiungere questo risultato è sicuramente la riduzione delle imposte su lavoro dipendente ed imprese: ne sono una prova gli Stati Uniti, la Francia e la Germania”. Chissà se sul Fatto gli avrebbero mai pubblicato una proposta così. Di certo non il passaggio successivo, dove ci si lamenta del taglio governativo dei contributi statali ai giornali: “è chiaro che le testate minori”, scrive Poidomani in controtendenza, “avranno notevoli difficoltà a raggiungere l’equilibrio economico con l’eliminazione o la sensibile riduzione dei contributi”. E lancia la sua proposta: “una riforma che elimini gli sprechi ed alcune rendite di posizione ma sostenga le tate intrinsecamente sane ed equilibrate”.

E se prima dessimo la caccia agli evasori del condono?

La bomba è stata gettata quasi in assoluto silenzio dal presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, durante l’audizione di martedì sulla manovra alle commissioni bilancio riunite di Camera e Senato. “a proposito del contributo al risanamento dei conti pubblici da darsi senza pregiudiziali esclusioni”- ha sussurrato Giampaolino-  “deve esseer consentito alla Corte di richiamare la doverosità, oltre che l’opportunità, che venga portato a compimento il troppo lungo processo di riscossione del residuo tuttora dovuto dai condonati del 2002-2003”. Non si tratta di una somma banale. La stesa Corte dei conti in una sua lunga indagine effettuata nel 2008 insieme al dipartimento politiche fiscali del ministero dell’Economia e alla Agenzia delle Entrate, aveva scoperto che dei 26 miliardi di euro di sanatoria dichiarata da chi aveva aderito al condono, ne mancavano all’appello ben 5,2 miliardi. Cosa era accaduto? Che una parte consistente dei contribuenti – persone fisiche e società- che aderirono ai due condoni tombali varati all’epoca da Giulio Tremonti, si limitarono a pagare la prima rata del dovuto non versando più nulla. Una doppia fregatura allo Stato, perché grazie a quel primo gesto il condono era valido e quindi non si poteva più perseguire chi aveva versato quella rata. Ma evidentemente evasori incalliti che da una vita evadevano in quel modo si erano protetti con uno scudo penale e fiscale garantito dallo Stato, ma hanno evaso un’altra volta. Un esercito di evasori della sanatoria con cui avrebbero scontato ogni peccato- veniale o mortale- commesso in passato.
Il buco di quei 5,2 miliardi di euro è stato segnalato per le vie brevi all’esecutivo e al Parlamento nel 2008. Non deve essere scattato però l’allarme rosso. Perché da allora alla data del 31 luglio 2011 sono stati recuperati coattivamente un miliardo e 10,5 milioni di euro. Resta quindi ancora la beffa di 4,2 miliardi di euro mai versati dai condonati dell’epoca.
Altra curiosità: se la Corte dei Conti è arrivata a quella scoperta con un certo ritardo, dai documenti della loro ricerca è chiaro che il governo nel 2006 a condono concluso aveva tutte le dimensioni del buco esistente. A palazzo Chigi c’era Romano Prodi, alla guida della macchina delle Finanze c’era il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco. Entrambi nemici giurati del condono varato da Tremonti e con una pistola fumante in mano a loro disposizione. Ci si sarebbe immaginati una caccia grossa senza pietà ai furbetti del condono. E invece la pistola è stata risposta nel cassetto e non un euro del dovuto recuperato. Strano. Per capirne le ragioni bisognerebbe avere l’elenco dei furbetti, persone fisiche e società. Perché anche nella pancia della sinistra (addirittura quasi tutte le società per azioni dei Democratici di sinistra) quel condono tanto avverso era stato preso al balzo manco fosse miele. E nei bilanci di molte di quelle società effettivamente la prima rata risulta versata. Negli anni successivi non c’è traccia di altri versamenti. Un mistero.
La caccia ai furbetti del condono non ha più appassionato nemmeno il governo attualmente in carica, che pure ha dato missioni difficilissime alla Agenzia delle Entrate per il recupero dell’area di evasione (10 miliardi di euro nel 2010 e ben 20 nel 2011). Eppure se su molte aree di evasione fiscale chi cerca non trova, perché è difficile, l’elenco di chi ha fatto il furbo con il vecchio condono è lì nei cassetti della amministrazione. C’è il nome di chi non ha pagato pensando di farla franca. E per recuperare i 4,2 miliardi di euro che mancano all’appello basta andare a bussare alla sua porta usando maniere spicce e più che giustificate. Forse ci proveranno adesso, perché la denuncia di Giampaolino ha scosso davvero il ministero dell’Economia. Una delle ipotesi è quella di rimodulare ad hoc solo per i furbetti del condono le ganasce fiscali che erano state allentate e di molto in questi ultimi mesi. Meglio andare a caccia lì che fare altri pasticci.

Ci mancava la Rai. Che vuole fare causa al governo per 1,6 miliardi


La Rai sta pensando di intentare una causa da 1,6 miliardi di euro al proprio azionista, con il rischio di creare una nuova voragine nei conti pubblici. Il documento è stato preparato dagli uffici legali e finanziari dell’azienda di viale Mazzini e dovrebbe approdare in consiglio di amministrazione entro poche settimane. La causa riguarda la mancata corresponsione del canone di abbonamento necessario a pagare dal 2005 ad oggi gli oneri da servizio pubblico previsti dal contratto di servizio con lo Stato. A ventilare la maxi-causa era stata il 12 luglio scorso lo stesso direttore generale della Rai, Lorenza Lei, di fronte alla commissione parlamentare di vigilanza presieduta da Sergio Zavoli. “Non c’è dubbio”, aveva spiegato la Lei, “che mi adopererò in tutti i modi per ottenere quanto necessario, visto che in relazione alla separazione contabile, la Rai nei diversi anni ha accumulato crediti nei confronti dello Stato, la cui somma potrebbe aggirarsi intorno a un miliardo di euro”. Sempre il direttore generale aveva anticipato “l’intenzione dei vertici aziendali di valutare in consiglio di amministrazione la possibilità di adire le vie giudiziarie ordinarie al fine del recupero dello sbilancio risultante dalla contabilità separata fra costi dell’offerta di servizio pubblico e ricavi da canone”.
Il direttore generale quantificando a memoria la cifra della possibile causa si era comunque sbagliata per difetto. Qualche conto più vicino alla realtà è indicato nella nota integrativa al bilancio consolidato della Rai per il 2010, approvato proprio alla vigilia dell’ultima estate. Fra i ricavi dalle vendite sono indicati un miliardo e 600 milioni di euro da canone ordinario e 60,9 milioni di euro da canoni speciali (quelli pagati da alberghi, ristoranti, bar e altri esercizi commerciali). In nota si aggiunge che “il meccanismo di determinazione del canone unitario previsto dal testo unico dei servizi dei media audiovisivi e radiofonici (cosiddetta “contabilità separata”) evidenzia una carenza delle risorse da canone per il periodo 2005-2009 per un importo superiore a 1,3 miliardi di euro, di cui oltre 300 milioni di euro riferiti al solo 2009”. A questa somma (1,3 miliardi) vanno aggiunti anche i crediti per mancato trasferimento del canone necessario a pagare il servizio pubblico relativi al 2010. Si stanno ultimando i conteggi, ma sembrano anche in questo caso vicini ai 300 milioni di euro. La somma totale per cui si valuterà l’opzione di recupero giudiziario dal ministero dell’Economia ammonta dunque a 1,6 miliardi di euro.
Ad assicurare la Rai quegli introiti è l’articolo 47 del testo unico sui media televisivi e radiofonici. Che obbliga la Rai alla separazione contabile fra servizio pubblico e commerciale e lo Stato a trasferire all’azienda le risorse pubbliche (ottenute dal canone) necessarie a pagare la spesa da servizio pubblico. Il canone infatti non è stabilito né riscosso dalla Rai. Finisce in cassa al ministero dell’Economia che poi paga il servizio pubblico alla Rai. E’ lo stesso governo a stabilire nel contratto di servizio, poi approvato dalla commissione parlamentare di vigilanza, quali attività inserire nella programmazione come servizio pubblico. La Rai prende atto di quel contratto e lo applica. E ogni anno fa bilanci separati delle attività pubbliche e commerciali. Sottrae la pubblicità incassata anche con spot in programmi di servizio pubblico, si fa certificare da un revisore dei conti esterno (fino all’ultimo anno è stato la Deloitte) la propria contabilità pubblica, e invia il conto al governo. Che dovrebbe semplicemente pagarlo usando i proventi del canone. Ma questo appunto non avviene, perché ogni anno è trasferita una cifra inferiore ai costi di 200-300 milioni di euro. Il canone infatti non basta, anche perché l’evasione è altissima. Proprio nell’audizione di luglio citata il direttore generale della Rai ha svelato come l’evasione del canone ordinario sia arrivata a 550-600 milioni di euro, mentre quella del canone speciale è addirittura il doppio del riscosso: circa 120 milioni di euro. Alla Rai basterebbe la metà di quella cifra per compensare lo sbilancio da servizio pubblico. Ma la caccia agli evasori non compete all’azienda. Che può solo avviare la causa per i crediti nei confronti dell’azionista. Certo, creare adesso a Tremonti una grana da 1,6 miliardi di euro sarebbe un vero colpo basso. Ma in Rai c’è anche un rappresentante della Corte dei Conti, che potrebbe causare qualche problema ai consiglieri se non difendono il patrimonio aziendale.

Scaroni meglio di Bartali. Con i francesi che si incazzano



Come nella celebre canzone di Paolo Conte, alla fine della guerra in Libia i francesi si incazzano. E a fargli andare di traverso la bile questa volta non è Gino Bartali, ma Paolo Scaroni. Secondo autorevoli indiscrezioni circolate a Parigi un gruppo fra le più importanti imprese francesi, dalla Total alla Eads alla Vinci e Sofrecom ha scritto una piccata lettera all’ex direttore generale degli armamenti (Dga), Jacqués Emmanuel de Lajugie, che da qualche mese sta ricoprendo di fatto il ruolo di consigliere economico del governo francese per gli affari in Medio Oriente. Nella missiva si citano informazioni di prima mano sul recente viaggio in Italia del leader del Cnt libico, Mahmoud Jibril. Secondo i gruppi industriali francesi giovedì 25 agosto a Milano (e non è un mistero) insieme a Silvio Berlusconi e Franco Frattini con Jibril c’era anche Scaroni che avrebbe firmato con il Cnt una raffica di nuovi permessi estrattivi in Libia. Il gruppo di imprese cita poi il successivo viaggio di Scaroni a Bengasi il 29 agosto insieme a una squadra di tecnici pronta a fare ripartire l’estrazione nell’area di El Feel e nella raffineria di Al-Zawiya, anche per provare a rifornire i ribelli che si trovano in questo momento a secco di benzina. Secondo Total e le altre imprese francesi l’Eni è l’unico ad avere messo piede davvero nella nuova Libia – in cui aveva già permessi di estrazione per una produzione giornaliera di 273 mila barili di petrolio- insieme agli spagnoli di Repsol, che avrebbero firmato nuovi permessi estrattivi con il Cnt libico e inviato tecnici per fare ripartire la produzione nell’area di El-Sharara. Inutile dire che alle imprese francesi le notizie sono andate di traverso. Anche perché- come ricordano nella lettera- è vero che la Francia si è mossa per prima cercando di accreditare i suoi a Bengasi e che i top manager di molte imprese sono stati lì accompagnati dalle strutture diplomatiche e dai servizi un paio di volte, l’ultima lo scorso 13 aprile. Ma in quelle occasioni a parte alcune strette di mano e molti discorsi, a casa non è stato portato nulla. Lo stesso Eliseo e la struttura diplomatica francese avevano consigliato a Total & c una certa prudenza, perché non era affatto chiara l’evoluzione della ribellione libica e nemmeno la solidità della controparte. “La stessa composizione nel Ctn”- fa presente la lettera, “era stata considerata provvisoria e instabile, e ci è stato fatto presente che i ribelli non avevano risorse finanziarie per sottoscrivere accordi”. Prudenza dunque, e attesa. Siccome più o meno le stesse informazioni e gli stessi consigli erano stati dati alle imprese britanniche dal ministero della Difesa e dal Foreign Office, i francesi si erano messi l’animo in pace e attendevano fiduciosi la fine della guerra dopo la presa di Tripoli. Le notizie circolate però su italiani e spagnoli e i particolari sugli incontri di Scaroni hanno scatenato la rabbia dei più grandi gruppi francesi. Che hanno così protestato per ora in modo riservato con Sarkozy e con il governo di Parigi proprio alla vigilia dell’incontro internazionale apertosi ieri sulla ricostruzione della Libia. Una rabbia a cui si è aggiunta ieri quella arrivata dalla pubblicazione sul quotidiano Liberation di una indiscrezione che sembrava quasi la risposta alla protesta delle imprese francesi. Il quotidiano di sinistra rivelava nella sua edizione la firma da parte del governo francese sotto un accordo in base a cui Sarkozy e le sue imprese avrebbero ottenuto il 35% dei permessi di estrazione del petrolio libico in cambio dell’appoggio ai ribelli di Bengasi. A sostegno di questo scoop il quotidiano citava una lettera inviata dallo stesso Cnt all’emiro del Qatar lo scorso 3 aprile. Ieri mattina il ministro degli Esteri Alain Juppè ha precisato di non essere a conoscenza di quell’accordo, anche se considerava naturale che il Cnt privilegiasse nella ricostruzione i paesi che avevano sostenuto i ribelli. Poche ore dopo la doccia fredda: il testo della lettera è venuto fuori, ma portava la firma di un non meglio conosciuto “Fronte popolare della Libia”, e il Cnt ieri ha smentito l’esistenza di qualsiasi accordo scritto con la Francia, ribadendo che sono validi solo i documenti con la firma dello stesso Cnt e sostenendo che “i contratti petroliferi non saranno siglati sulla base di favoritismi politici”.

Caccia agli evasori? Ottimo sulla carta. Ma quell'emendamento farà macelli



Lo slogan- che ha il marchio di Giulio Tremonti- non è male: “invece di un contributo di solidarietà avremo un contributo dall’evasione”. Certo: sostituire una nuova tassa messa su chi pagava già le tasse, con misure per fare pagare chi normalmente le evade è un’ottima idea. Non è di sinistra, di centro né di destra: è semplicemente giusto. Se il quadro è questo, i contenuti del pacchetto anti-evasione approdato ieri come emendamento governativo alla manovra, non strappano gli applausi. Alcune norme sono confuse, altre perfino pericolose per la libertà di tutti, altre irrealizzabili e molte vanno nella giusta direzione, speriamo con altrettanta efficacia.
Il primo difetto è sulle coperture: i conti non tornano. Tremonti ieri ha sostenuto che le norme anti-evasione compensano il mancato gettito del contributo di solidarietà, poi però il governo ha depositato la relazione tecnica e si è scoperto che nei tre anni la caccia agli evasori porterà 1,1 miliardo di euro contro i 3,8 del contributo di solidarietà. Resterebbero da trovare quindi 2,7 miliardi di euro, e non sono pochi.
Il secondo difetto è nel testo scritto sulla norma più semplice. Come previsto dalle anticipazioni della vigilia, saranno resi pubblici i redditi degli italiani a cura dei Comuni. Si può condividere o meno la scelta. Nell’aprile 2006 l’Agenzia delle Entrate mise on line i redditi di tutta Italia. Al ministero stava facendo le valigie Vincenzo Visco, e tutto il centro destra tuonò gridando allo scandalo. Vero che alcuni degli stessi che allora si indignarono oggi applaudono la misura (ad esempio l’attuale sindaco di Roma, Gianni Alemanno), molti però storcono ancora il naso. Il testo presentato dovrebbe farlo storcere a tutti. Perché si annuncia un decreto del presidente del Consiglio dei ministri in cui saranno “stabiliti criteri e modalità per la pubblicazione, sul sito del Comune, dei dati relativi alle dichiarazioni anche con riferimento a determinate categorie di contribuenti ovvero di reddito”. Categorie di contribuenti? Categorie di reddito? Ma possibile che questa estate al governo non riesca una ciambella con il buco giusto? E’ lo stesso film che stiamo vedendo da settimane. Se si decide una cosa la si fa, senza tanti fronzoli, se o ma. E’ invece qui è come sulle pensioni: per fare finta di non toccarle, toccandole, ci si è inventati la via tortuosa sui riscatti di laurea e servizio militare, dandosela poi a gambe levate di fronte alla rabbia dei cittadini. Se il testo rimane questo, diventerebbe un abuso. Si scelga di mettere on line i redditi di tutti gli italiani, e lo faccia la Agenzia delle Entrate. Affidare questo compito ai comuni vuole dire discriminare contribuente da contribuente: non tutti hanno siti Internet, non tutti hanno uomini e risorse tecniche ed economiche per compiere quella operazione. La trasparenza o vale per tutti, o deve essere stabilita dalla legge e non a capocchia per alcune categorie di cittadini che debbono essere più trasparenti degli altri (i politici ad esempio). Ma è evidente cosa accadrebbe facendo scegliere a ciascun comune, a questa o quella maggioranza politica il mostro da sbattere on line. Stanno sull’anima gli avvocati? E allora mettiamo solo loro. E così via. Come anche è senza senso scegliere fra “categorie di redditi”. Tutti o nessuno. Tanto più che gli evasori o hanno redditi zero, e quindi non compaiono in lista. O hanno redditi bassi, che contrastano con il loro tenore di vita. Sul tema anche un’avvertenza: l’operazione richiederebbe una modifica della legge sulla privacy. Perché con quella attuale è vietata. Lo certificò nel 2008 il Garante, ma soprattutto le inchieste delle varie procure della Repubblica per violazione della legge sulla privacy. Costarono il posto al direttore dell’epoca dell’Agenzia delle Entrate, Massimo Romano. Ultima annotazione: nessun altro paese del mondo mette on line i redditi dei propri contribuenti. Lo fa solo con le liste degli evasori una volta scoperti. Ci sarà un perché.
Seconda misura che lascia perplessi: la caccia agli evasori è affidata ai Comuni, che possono tenersi d’ora in avanti il cento per cento di quello che scopriranno. Ottimo. Meno buona la condizione imposta: entro il 31 dicembre 2011 dovranno tutti dotarsi di consigli tributari, altrimenti non un euro scoperto potrà finire nelle loro casse. I consigli tributari furono inventati per decreto luogotenenziale nel 1945 nell’Italia che ancora non era stata liberata dai nazisti. Poi sono scomparsi. Li hanno rispolverati decenni dopo per la legge “manette agli evasori”. Dovrebbero essere elettivi. Con tanto di campagna elettorale in ciascun quartiere del comune. Un costo pazzesco. Quando Tremonti li ha rispolverati nel 2010, dando fra 90 e 120 giorni ai comuni per istituirli obbligatoriamente (senza però sanzioni in caso di niet), quelli lo hanno mandato a quel paese. La maggioranza dei Comuni non li ha istituiti. Perché farli con le regole sarebbe costato troppo. Nominarli direttamente si prestava a ricorsi e andava a finire come è finita: sono zeppi di politici trombati, e comunque hanno tutti poltrone divisi fra i partiti che amministrano i comuni. Ora che si imponga nel momento in cui si vorrebbero diminuire i costi della politica, un catafalco di questo tipo è un controsenso in sé. Affidare poi alle seconde fila della casta la grande caccia agli evasori è minimo minimo una pia illusione. Vogliamo scommettere che da lì non arriverà un euro?
Infine la norma sul carcere per chi evade 3 milioni di euro. Principio giusto, e tetto accettabile per le persone fisiche e per le piccole e medie imprese. Diverso il caso delle grandi imprese: rispetto al fatturato la cifra potrebbe essere relativamente bassa. E con  la legge sulla responsabilità penale delle imprese, tutti i rappresentanti in consiglio di amministrazione potrebbero finire in carcere per un contenzioso fiscale. Forse è esagerato.

Giulio crocefisso dalle tasse di Tremonti



Prima delle elezioni del 2008 fatturava 281 mila euro. Oggi, nonostante la crisi, il suo giro d’affari è raddoppiato: 572.226 euro. Tre anni fa aveva un patrimonio di 1,2 milioni di euro. Oggi è dieci volte superiore: 11,2 milioni. I debiti che allora erano di poco inferiori a mezzo milione, oggi sono scesi a 307 mila euro. C’era tutto, davvero tutto per fare dell’Immobiliare di via Crocefisso a Milano una gallina dalle uova d’oro, pronta finalmente a macinare utili. Ma la società non aveva fatto i conti con l’uomo del fisco, che come un avvoltoio è passato di lì, si è portato via tutti i guadagni e ha perfino lasciato un conto salato da pagare: 225.556 euro di perdite. Chi legge penserà: quell’imprenditore immobiliare dopo questa esperienza avrà mandato tanti di quegli accidenti a Giulio Tremonti. E sbaglia. Perché il proprietario di quella immobiliare tartassata dal fisco è proprio il signor fisco in persona: Tremonti Giulio, che ha l’86% delle azioni, mentre il restante 14%è saldamente in mano a Fausta Beltrametti, la moglie del ministro dell’Economia. E’ l’unico caso in Italia in cui gli improperi verso la rapacità del fisco possono essere pronunciati solo davanti a uno specchio.
A guardare i conti al 31 dicembre 2010 della Immobiliare di via Crocefisso (il bilancio è stato depositato solo venerdì al registro delle Camere di commercio),però il colpevole è proprio il tax rate. Anche per scelte tecniche o degli azionisti o degli amministratori della società (il bilancio è firmato dal presidente, Marco Paracchi). Perché il 31 dicembre del 2007 alla voce imposte c’era un tondissimo zero. A guidare le Finanze all’epoca c’era il viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco, acerrimo nemico di Tremonti. Pur di non versare a lui un solo euro, fu scelto di rimandare agli anni futuri il pagamento delle imposte. Così quest’anno in bilancio è stato registrato alla voce “oneri straordinari” il pagamento delle imposte pregresse pari a 225.494 euro, cifra quasi identica alla perdita finale in bilancio. In più c’erano anche 19.421 euro di imposte correnti di esercizio: 7.344 euro di Irap e 12.077 euro di Ires. E poco conta che si vanti un credito Iva verso l’erario di 85.489 euro: quello verrà saldato a tempo debito.
Il Tremonti che deve fare i conti con le sue supertasse è notizia che farà gongolare milioni di altri contribuenti, ma che non getta certo nel dramma il ministro dell’Economia. Anche perché l’eccesso di peso fiscale che la società ha dovuto sopportare è in gran parte legato ai benefici avuti da una delle prime leggi varate da Tremonti quando è tornato al governo in questa legislatura: quella sulla rivalutazione degli immobili. Al momento del varo della legge la Immobiliare Crocefisso ne possedeva due attraverso leasing. Il costo storico era di poco superiore al milione di euro. Gli immobili sono stati rivalutati di 2,9 milioni di euro e portati così a 3,9 milioni. Poi sono state accantonati 912.373 euro per le imposte differite sulla quota rivalutata (799 mila euro di Ires e 113 mila euro di Irap). Il valore lordo delle immobilizzazioni materiali, che incide sul patrimonio netto della società, però è cresciuto assai di più: da 1,1 a 11,6 milioni di euro. La differenza è tutta in un buon affare colto dal ministro dell’Economia sul mercato immobiliare e portato a termine l’11 giugno 2009. Dando un’occhiata alle occasioni che si coglievano fra le pieghe dei guai del gruppo Risanamento di Luigi Zunino (che un mese dopo si sarebbe dimesso da tutte le cariche per evitare il fallimento), la società di Tremonti aveva adocchiato una palazzina in via Clerici. Che poi è stata acquistata dalla Nuova Parva in liquidazione controllata da Zunino e dalle banche creditrici. Non è noto il valore della transazione, ma a bilancio risulta nel 2009 un versamento fatto da Tremonti e dalla consorte per 8,1 milioni di euro “a titolo di finanziamento infruttifero in conto futuro aumento di capitale, destinato all’acquisto di unità immobiliari”. Comprata la palazzina in via Clerici, le immobilizzazioni materiali sono cresciute di 7.450.878 euro, che dovrebbe essere il presumibile valore di acquisto.

con questa manovra mi autosospendo da elettore di centro destra



Da ieri sera l’Italia è arrivata al primo posto nel mondo. Nell’attimo di un decreto legge ha scalato tutti i posti della classifica ed è diventata prima al mondo per tasse sulle persone fisiche. Sette aliquote fiscali, dal 23% fino al massimo del 53% per almeno i due prossimi anni. Tredici punti più della Grecia, della Francia e della Gran Bretagna. Dieci punti più della Spagna, otto più della Danimarca e della Germania, perfino 5 più della Norvegia e sei più della Finlandia. Ma basta il raffronto con i tedeschi, che sulle tasse non scherzano affatto: aliquota del 42% fra 52.882 e 250 mila euro, del 45% sopra i 250 mila euro. Da ieri in Italia è tassato al 48% chi guadagna fra 90.001 e 150 mila euro e al 53% chi guadagna da 150.001 euro in su. È  il record del mondo.

Il centro destra di Silvio Berlusconi vinse le elezioni del 2001 al grido “meno tasse per tutti”. Promise due sole aliquote, una al 23% e l’altra al 33% spiegando che con tasse più alte è inevitabile evadere. Alle due aliquote non arrivò, ma almeno scese a 4 (23%, 33%, 39% e 43%). Nel 2006 vinse le elezioni Romano Prodi e ricambiò tutto grazie a Vincenzo Visco: cinque aliquote (23%, 27%, 38%, 41% e 43%). Gli italiani si ribellarono, il centrodestra li portò in piazza, costrinse il governo ad elezioni anticipate e assicurò: cambiamo subito il fisco di Visco. Nei primi tre anni non ha toccato una virgola.

COME LA SINISTRADa ieri ha aggiunto due nuove aliquote portando le tasse al record dei record. Le ha ribattezzate “contributi di solidarietà” e assicura che saranno temporanee. C’è chi dice della durata di due, chi spinge per almeno tre anni. Oltre al danno c'è dunque anche la beffa lessicale: quelle sono tasse, non contributi. E si aggiungono alle tasse locali record, anche quelle conseguenze delle manovre finanziarie. Se ora l’aliquota Irpef più alta a livello nazionale è del 53%, per un cittadino di Roma sarà oggi del 55,30% e probabilmente dal primo gennaio prossimo del 55,60% perché la Regione Lazio, che si vede tagliare ulteriori trasferimenti, sarà costretta a riportare l’addizionale regionale Irpef dall’1,40% attuale all’1,70% che già chiese ai suoi abitanti nel 2010.

Negli incubi ricorrenti degli italiani forse apparivano tasse simili in un governo di Giuliano Amato, l’uomo che nel lontano 1992 mise le mani sui conti bancari degli italiani portando via di notte il sei per mille. A fatica si potevano temere esiti così nefasti votando un governo di Vincenzo Visco, che ha l’immagine di un Dracula del fisco anche più di quel che effettivamente abbia combinato. Ma un governo Berlusconi nemmeno negli incubi sarebbe apparso così vorace. Il fisco era la sua bandiera esistenziale, e vederla così rovinosamente ammainata ieri era davvero inimmaginabile.

CRISI NERA
Dicono che non ci fosse via di uscita, che i morsi della speculazione e il pressing di Ue e Bce non offrivano alternative. Che la situazione sia difficile, è vero. Ma quando si vota un governo è anche perché  si sceglie una politica economica che soprattutto in casi simili si vuole vedere. Se Berlusconi e Tremonti al dunque utilizzano le stesse ricette di Prodi e Visco, che cambia votare uno schieramento o l’altro? È  grazie a scelte così che la politica diventa incomprensibile, sempre più lontana dai cittadini. Con un’aggravante: è falso che non esistessero altre strade percorribili. A che cosa serve aumentare le tasse in modo così esponenziale? A fare cassa subito. Le tasse hanno sempre questo vantaggio: oggi le decreti, domani le hai nei tuoi forzieri. C’era questo bisogno immediato? Allora il tema non era la speculazione, ma qualche errore di calcolo nei conti pubblici attuali. E allora andrebbe spiegato a fondo, magari chiedendo scusa come fanno i manager giapponesi. Un bell’inchino e il capo cosparso di cenere davanti agli italiani. Però non ci sono solo le tasse a dare sollievo di cassa immediato. Anche il blocco della spesa ha lo stesso effetto. Basterebbe bloccare le finestre di uscita delle pensioni di anzianità e accompagnare il provvedimento con una corsa verso quota 100 (35 anni di contributi e 65 anni di età) assai più rapida di quanto non preveda oggi la normativa. Questa sarebbe stata una riforma strutturale che da anni chiede l’Europa, e a cui comunque non potremo sfuggire.

ELETTORI TRADITI
Era addirittura prevista dalla rivoluzione liberale berlusconiana, non avrebbe tradito alcuna bandiera. Tanto valeva usare l’emergenza per attuarla con decisione. Non lo si è fatto per preservare un buon rapporto con i sindacati, che evidentemente Berlusconi preferisce agli elettori di centrodestra. Altri tagli di spesa hanno valore simbolico, e confusamente appaiono nella manovra. Ma in gran parte poggiano sulla terza robusta diminuzione dei trasferimenti verso gli enti locali. Così se la devono vedere loro, e pagarne pegno politico con i cittadini. Bella idea, e allora a che diavolo serve un governo nazionale se alla prima occasione sa solo scaricare tutto sugli altri?

Visto che la bandiere vengono ammainate al primo venticello, vorrei chiedere al governo che senso ha a questo punto sventolare ancora quella del no alla patrimoniale. Aumentando Irpef e tassazione delle rendite finanziarie di fatto mezza patrimoniale è già attuata. Con un difetto: colpisce e duramente, non i ricchi, ma i ricchi già noti al fisco, perché pagano tutte le tasse sull’unghia. Saranno costretti a farlo o magari sono pure scemi e ci tengono a contribuire al loro paese. Nell’una e nell’altra condizione non si intravede un buon motivo per prenderli a sonori ceffoni come si è fatto. Se si fosse decisa una patrimoniale straordinaria sugli immobili con esclusione delle prime case, forse molti di quei cittadini onesti sarebbero stati colpiti lo stesso, ma almeno sarebbero stati costretti a pagare anche gli evasori fiscali. Fra le due era perfino più equa la patrimoniale.

Può anche essere che dalla bozza arrivata in consiglio dei ministri ieri sera alla legge vera e propria che sarà pubblicata in Gazzetta ufficiale dopo voto parlamentare, qualche stortura venga pure raddrizzata. Non c’è da avere gran fiducia, ma si può attendere. Personalmente nel frattempo di fronte a questa manovra con una formula che va di moda adesso, mi autosospendo da elettore del centrodestra.

I guai tanto per cambiare vengono dagli Usa. La novità è la Merkel grande dittatrice d'Europa



La crisi che sta terremotando i mercati di tutto il mondo in queste ore è al fondo una crisi di liquidità dei grandi fondi americani. Non hanno risorse per pagare le pensioni, e stanno vendendo tutto ciò che hanno in portafoglio. I titoli sono in vendita, e non c'è nessuno che li compra. Se i mercati finanziari scendono, il motivo di fondo è questo. L'ondata di vendite americane ha messo in moto il panico sui mercati. E in una situazione simile la speculazione ha buon gioco. Osserva dove c'è un punto debole del sistema, e lo attacca, perchè quello altre difese non ha che alzare i rendimenti. E' quel che sta accadendo nell'area dell'euro. I titoli di Stato sono le prede più facili da cacciare, perchè sono il punto debole dei vari paesi coinvolti. Messi sotto pressione quelli di Grecia, Spagna e Portogallo nei mesi e nelle settimane scorse, l'attacco ha messo nel mirino quelli italiani (non è un mistero che il debito pubblico sia il tallone di Achille di Roma), ma fra ieri e l'altro ieri anche quelli francesi. Fa un po' sorridere immaginare come molta della stampa italiana ieri sembrava fare, che questa tempesta potesse essere calmata, arginata o rinfocolata da attese o delusioni venute dal discorso di Silvio Berlusconi davanti alle Camere. L'origine di quel che accade non è nelle singole politiche economiche e tanto meno nell'assetto politico-istituzionale di questo o quel paese. Anche se l'Italia domattina raddoppiasse le tasse a tutti i suoi cittadini, inserisse una patrimoniale, aumentasse l'età pensionabile per uomini e donne subito, non fermerebbe i mercati. Berlusconi ha fatto bene ad incontrare le parti sociali e ad immaginare con loro un piano di riforma. Si possono sentire anche le piccole e grandi richieste delle varie Emma Marcegaglia, Susanna Camusso come di Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, coop, artigiani, commercianti e così via. Perchè il governo di un paese procede anche in condizioni difficili come queste e in fondo ne deve prescindere, altrimenti il governo non esisterebbe più. Si possono condividere o respingere le proposte delle parti sociali, ma bisogna avere una certezza: rispetto alla navigazione del Paese e di fronte alla tempesta sui mercati, quelle non sono e non possono essere la risposta. Banalmente sono inutili, come lo sarebbe gettare quale mollica di pane per calmare la fame dei pescecani.
La strada battuta in queste ore da Berlusconi e dal suo ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era l'unica percorribile. Il premier ha cercato insieme ai suoi colleghi europei alleati per dare una risposta alla crisi di liquidità: con i fondi americani che vendono a piene mani, bisogna trovare qualcuno che compri a questi prezzi. Ci si è rivolti alla Cina, che ha la potenza di fuoco necessaria, e Berlusconi ha lanciato l'sos al suo amico Vladimir Putin, perchè anche la Russia è fra i pochi paesi del mondo che può lanciare quel salvagente. Qualcosa del genere è accaduto nei mercati finanziari internazionali nelle ultime ore, ma c'è stata una amara sorpresa non prevista: è scesa in campo anche la Germania di Angela Merkel. Non per dare una mano ai generosi difensori, ma sul fronte opposto: all'attacco. I tedeschi si sono messi a vendere vanificando gran parte della manovra difensiva in corso. Qualcosa si era intuito già giovedì, quando all'interno della Bce il rappresentante tedesco è stato l'unico a votare contro la decisione di immettere liquidità nel sistema sostenendo i titoli di Stato dei paesi europei più deboli: al momento Irlanda e Spagna. Ma si pensava che questa ritrosia fosse nel solco della tradizionale prudenza della Germania, stufa di cavare le castagne dal fuoco del sistema come è accaduto in tutti questi anni. E invece sembra che la Merkel stia facendo di tutto per piegare l'area dell'euro, forse allo scopo di farla saltare, forse per soggiogarla definitivamente. Questo è il tema su cui è al lavoro Tremonti: cercare di ricostituire un'alleanza europea, trascinando o meno la Germania nella trincea in cui bisognerà resistere nei prossimi giorni. E' evidente a tutti che l'Unione monetaria europea non esiste: fosse reale, sarebbe impossibile a chiunque attaccare i singoli paesi dell'area, come è accaduto con Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo e ora con l'Italia lambendo perfino la Francia. Fosse un' Unione avrebbe unito oltre le monete anche i pil e i debiti pubblici (in quella precentuale del 60% del Pil stabilita dal trattato di Maastricht) che oggi sarebbero garantiti da assai meno fragili titoli di Stato europei, quegli Eurobond che sono l'unica soluzione possibile.
Non ci sono molte ore per cercare di mettere una pezza a quel castello europeo che si sta sgretolando nelle fondamenta. I governi- anche quello italiano- sono allertati, perchè è attesa una massiccia ondata di vendite sui mercati e con essa un attacco micidiale della speculazione fra l'11 e il 12 agosto prossimi. Bisogna tirare su le difese, mettere argini nei punti più deboli del sistema, se è il caso isolare la Germania e metterla di fronte alle scelte di campo subito.
I conti pubblici italiani in questo campo di battaglia sono solo un piccolo argine da alzare alla bisogna. Se l'attacco dovesse concentrarsi più massiccio in quel punto, si potranno alzare. Come? O anticipando l'obiettivo del pareggio di bilancio e con esso parte della manovra già conosciuta, o utilizzando una leva dolorosa, ma efficacissima sui mercati finanziari internazionali (perchè comprensibile a tutti): quella della riduzione della spesa previdenziale bloccando le uscite pensionistiche ed elevando in modo più rapido e deciso l'età pensionabile. Per le donne, ma anche per gli uomini. Ieri è morta a Verona la nonna d'Italia. Si chiamava Venere Pizzinato, e aveva 114 anni: era la donna più anziana di Europa. Nata il 23 novembre 1896, passando attraverso mille guai, era diventata prima cassiera e poi amministratrice di un bar a Milano, in Galleria. Nel 1947 è andata in pensione, all'età di 50 anni. Ha ricevuto la pensione fino a questo mese di agosto: per 64 anni. La sua è una storia limite, certo. Ma dimostra che le attese di vita si sono innalzate, e di molto. E che l'età pensionabile delle donne può essere innalzata in un battibaleno, senza fare alcuna ingiustizia sociale.

Lette e rilette le pagine di Woodcock, mi sono convinto: faccio parte della P4

 
Lette e rilette tutte le centinaia di pagine di Henry John Woodcock sulla nuova inchiesta che fa tremare il mondo, ho una certezza: faccio parte della P4 e forse ne ero pure ignaro. Non c’è un nome di quelli citati, compulsati, interrogati, indagati e perfino arrestati in questi mesi che io non conosca. Di più: sono stato al telefono con molti di loro, con qualcuno a pranzo, con altri a cena. Ho avuto colloqui clandestini davanti alla Libreria Feltrinelli in Galleria Alberto Sordi, anche perche per anni ho lavorato in giornali che avevano la sede lì. Conosco il capo della P4, Luigi Bisignani almeno dalla fine degli anni Ottanta. Gli ho parlato decine di volte. Ho preso aperitivi, caffè e fatto chiacchiere, tante chiacchiere con lui. E’ molto simpatico. Ho conosciuto Alfonso Papa invitato a pranzo dalla compianta donna Maria Angiolillo nel giardino dell’hotel Hassler. Con noi di volta in volta c’erano altri, magistrati, politici, imprenditori e giornalisti. Qualcuno in primo piano fra le carte della P4. A qualcun altro i magistrati non sono ancora arrivati, e quindi taccio perché è giusto che Woodcock e compagnia si sudino il loro bel lavoro. Conosco Gianni Letta, l’ho incontrato ben più di una volta fuori e dentro il palazzo. Con ingenuità ho perfino pensato di potere avere da lui qualche primizia. Ma è come spremere un sasso: impossibile. Conosco seconde e terzae fila di quella P4. Tutti. E quindi per forza ci sono dentro fino al collo. Mi consola un solo fatto: nella mia situazione ce ne sono almeno qualche altro centinaio che i pm segugi non hanno ancora pizzicato. Bisognerà fare una retata. Portare a Napoli per la gioia di Umberto Bossi mezzo palazzo e tutti i suoi dintorni, altro che ministeri via da Roma.
Sono nato a Torino, ma quando nel 1990 il lavoro mi ha portato a Roma ho capito che fare il giornalista qui è cosa del tutto diversa. Nella capitale anche i muri hanno relazioni, parlano, e sanno tutto di tutti. Le notizie circolano come il vento. Ad ogni angolo trovi uno che la sa lunga, che dopo due minuti ti dice “amico mio”, lascia cadere con sicurezza segreti inconfessabili, gossip comprovati. Il vero problema è che siccome tutti sono così, è difficile distinguere. Non si sa mai se una notizia sia vera o solo una leggenda metropolitana che gira di bocca in bocca nel palazzo. Basta che uno sussurri “vogliono arrestare tizio”, “c’è una inchiesta su Caio” che il vento si gonfia e diviene tempesta. Passa di bocca in bocca, si arricchisce di certezze e particolari. Magari non è vero nulla di nulla. Magari solo il dieci per cento. Così è difficilissimo fare il mestiere di giornalista. Si può inciampare in castronerie assolute. Ma avere la notizia, l’indiscrezione anche fasulla, fa gonfiare il petto a tanti e li fa sentire importanti. Ho conosciuto – e stanno in questa P4- personaggi che erano ritenuti misteriosi custodi di grandissimi segreti. E invece si inventavano quasi tutto, come ogni verifica seria dimostrava. Ma vallo a spiegare agli altri.
A Roma parlano tutti, fra amici. Anche i più alti magistrati. Quasi due decenni fa- era il 1993. una sera di fine agosto andai a cena a casa di una delle persone citate nell’inchiesta (non è Bisignani), di cui ero amico. C’erano altri invitati, e fra loro importanti magistrati della procura di Roma. Chi mi invitò non li avvisò che ero un giornalista. E io tacqui per ascoltarli. Raccontarono cose incredibili, che facevano parte della loro inchiesta. Avevano sequestrato delle cassette di sicurezza, trovato i fondi neri del Sisde, la lista dei ministri dell’Interno (tutti meno uno- Amintore Fanfani) che li avevano presi. Uno di loro- Oscar Luigi Scalfaro- in quel momento era al Quirinale. A me non sfuggì. Le fonti erano autorevoli, il giorno dopo scrissi tutto quel che avevo sentito. Titolammo “scoppia il caso dei fondi neri Sisde”. Nessun giornale riprese la notizia. Ma il Quirinale- che capì, smentì il giornale da poco nato per cui scrivevo. E lo fece dopo sei ore di riunione anche la procura di Roma. Era vero tutto, e il caso sarebbe scoppiato 25 giorni dopo quando fu interrogato un agente del Sisde deviato. Così sarebbe accaduto decine di altre volte in quella casa o in altre, davanti a un aperitivo al bar o in un tavolo di ristorante. Perché a Roma le notizie circolano così. Bisognerà arrestarci tutti
ps. la foto sopra dimostra tutto: un po' sfocata, ma è il Bisignani  di oggi (non di 20 anni fa come vedete su tutti i giornali) insieme a chi scrive. Poco più di un mese fa...