Gianfranco Fini ha regalato
un milione- un milione e mezzo di euro a suo cognato, Giancarlo Tulliani,
sottraendolo alle casse del partito che guidava, Alleanza Nazionale. E’ stato
Tulliani ad acquistare la celebre casa di Montecarlo con la Printemps Ltd l’11
luglio 2008 ed è stato lui a rivendersela alla Tulliani immobiliare (Timara
Ltd) al solo scopo di confondere le tracce sulla proprietà. Dalla vendita di
quella casa Alleanza Nazionale ha ricevuto 300 mila euro, una cifra con cui a
Montecarlo non si poteva acquistare nemmeno un box auto o una cantina. Prima
della vendita c’era stata un’offerta superiore al milione di euro. Oggi con la
stessa metratura nella stessa via vengono venduti appartamenti al prezzo di
2,5-3 milioni di euro. E’ chiaro il danno inferto al partito politico e l’ingente
vantaggio finanziario consentito al cognato di Fini, che può rivendersi l’immobile
ai valori veri di mercato. Ora che il ministro della giustizia dell’isola di
Santa Lucia, ai Caraibi, ha certificato la proprietà di Printemps e Timara in
una lettera riservata al suo primo ministro, di cui è venuta in possesso la
stampa locale, la verità è venuta alla luce: quella casa è passata dalla
famiglia politica alla famiglia personale di Fini. Non c’è più bisogno nemmeno di
fare perdere tempo e soldi ai magistrati italiani che oltretutto non sarebbero
stati in grado di venire a capo di nulla, vista la raffinatezza dell’operazione
compiuta in un paradiso fiscale. Sembra grottesca alla luce di questo documento
ufficiale del governo di Santa Lucia quella risposta che Fini stesso diede poche
settimane fa ad Enrico Mentana che lo intervistava per il Tg di La7: “Non ho nulla da temere perchè non ho nulla da
nascondere. Rideremo quando sarà fatta chiarezza dalla magistratura, basta
aspettare qualche settimana, qualche mese”. Non è stato necessario tanto tempo,
per fortuna. E guardando quella lettera c’è davvero da ridere. Ma non è il
presidente della Camera a poterlo fare. Dovremmo ridere noi chiamati “infami”,
appellativo che come ricordava giustamente Marco Travaglio, fa parte del gergo
usato dai mafiosi per attaccare chi sceglie la verità e lo Stato e non loro. Ma
non c’è molto da ridere, perché la questione è assai seria e grave. Quel
documento pubblicato dalla stampa caraibica, che certifica la vendita a
Tulliani della casa di Montecarlo, dimostra che Fini ha mentito sia davanti al
suo partito che di fronte all’opinione pubblica. E’ un peccato grave per un
uomo politico, in grado da solo di rovinare carriere in molti paesi del mondo. E’
un peccato più grave se commesso dalla terza carica istituzionale del paese,
oltretutto con minacce gravi e a questo punto del tutto ingiustificate alla
libertà di espressione e di stampa in Italia. Dopo questa clamorosa bugia
svelata dal governo di Santa Lucia, non è più problema di una parte politica la
permanenza o meno di Fini alla presidenza della Camera. E’ un problema di tutto
il paese, che non può più essere da lui
rappresentato a una così alta carica istituzionale. Il resto ha diritto a
chiederlo, anche con azioni giudiziarie, chi ha militato in Alleanza Nazionale
anche a prezzo di grandi sacrifici: la restituzione di quella casa. Allo stesso
prezzo a cui è stata venduta la prima volta.
Fini vissuto da vicino. 4/ E un giovane Gianfranco si innamorò di Follieri
Al ministero degli Esteri.
A Palazzo Chigi, dove era vicepresidente del Consiglio. E ancora in via della
Scrofa, dove era tornato preparandosi a una lunga opposizione. Era sempre aperta
la porta di Gianfranco Fini per il vecchio amico Giorgio Moschetti, detto Giò il
Biondo, l’ex numero due della dc andreottiana a Roma ai tempi di Vittorio
Sbardella che aveva sempre aiutato quel leader rampante del Movimento sociale.
Da vecchi amici passavano ore a chiacchierare delle vicende politiche in corso.
Ma non si trattava sempre di quattro parole davanti al caminetto. Moschetti ha
assistito in presa diretta a svolte politiche, a soluzioni di problemi interni,
talvolta ha dato una mano nell’organizzare campagne elettorali o nel riattivare
una rete di rapporti che mai era venuta meno per risolvere a Fini questo o quel
problema. Quando Moschetti a fine novembre 2009 ha inviato al
presidente della Camera una mail che lui stesso avrebbe definito agli amici
“bruttissima”, sperando di essere ricevuto, ha elencato cinque episodi di quegli
anni. Tre riguardavano personalmente Fini e la soluzione di problemi della
vecchia e nuova famiglia. Due la soluzione di problemi del partito. Senza avere
in mano quel testo di posta elettronica è difficile individuare quei cinque
capitoli. Ma da giorni sondando i testimoni di quel lungo rapporto a Roma
emergono episodi dei quella curiosa unione politica. Ed episodi a loro
raccontati dalla viva voce dei protagonisti che potrebbero costituire la trama
di quei cinque titoli. Cinque titoli che hanno destato subito l’attenzione del
presidente della Camera dei deputati, che il 7 dicembre scorso concesse
l’agognato appuntamento a Moschetti nel suo ufficio a
Montecitorio.
Chissà se in quell’elenco
appare anche un piccolo romanzo che si è concluso non nel migliore dei modi nei
primi mesi del 2008. Quello dell’infatuazione che Fini provò per un giovane
finanziere italiano da qualche anno emigrato negli Stati Uniti e destinato a una
fortuna tanto rapida quanto lo sarebbero state le sue disavventure. Il giovane
rampante si chiama Raffaello Follieri. Oggi sta scontando una condanna a 4 anno
e mezzo di carcere negli Stati Uniti. Ma per qualche anno è stato uomo-copertina
di molti magazine del mondo. Un po’ per le sue fortune finanziarie (che si
sarebbero rivelate tarocche), un po’ per la storia sentimentale che lo legò
all’attrice Anne Hathaway, deliziosa protagonista de “Il diavolo veste Prada”.
Negli States Follieri aveva messo in piedi un piccolo gruppo finanziario,
specializzato nel comprare e rivendere gli immobili delle diocesi colpite dallo
scandalo pedofilia. Aveva preso come consulente Andrea Sodano, nipote
dell’allora segretario di Stato Vaticano, e così aveva accreditato un suo
rapporto stretto con la
Santa Sede. Più tardi si sarebbe scoperto
anche un altro millantato credito: Follieri aveva sostenuto di essere il
fiduciario degli affari finanziari del Vaticano negli Stati Uniti,e così aveva
abbindolato banche, finanzieri e perfino Bill Clinton. Per reggere la parte
aveva naturalmente bisogno di venire di tanto in tanto in Italia, a Roma, a
discutere con i suoi “superiori”. In
Vaticano passava un assegno mensile a un impiegato di una congregazione della
Santa Sede, Antonio Mainiero detto Tony, che gli apriva fuori orario Musei
Vaticani e giardini del palazzo consentendo di mostrare ad attoniti ospiti tutta
l’influenza di Follieri. Nei viaggi romani il rampante finanziere è riuscito a
fare il giro di qualche salotto. Gira che ti gira, chissà come ha incontrato
anche Francesco Proietti Cosimi, detto Checchino. Allora era il principale
assistente di Fini, che poi lo scaricò quando insieme ad altri esponenti di An
fu intercettato dal pm di Potenza John Woodcock nella cosiddetta inchiesta su
“Vallettopoli”. Poi il rapporto fra i due si è in parte ricucito, Checchino è
stato ricandidato da Fini nel 2008, è diventato senatore e ha ripagato il suo
leader seguendolo ora nella scissione dei gruppi di Futuro e Libertà.
Fu Proietti Cosimi quindi a
portare il rampante Follieri a Fini, cui il giovane risultò subito assai
simpatico e interessante. Follieri provò a fare fruttare rete di conoscenze e
rapporti trovati nella capitale. Aprì una società lussemburghese con il suo
nome, con quella sottoscrisse il capitale di una finanziaria italiana basata a
Roma e vi mise il fidato Mainiero ad amministrarla. Era una immobiliare, e con
Checchino pensò bene di cogliere al volo le eventuali occasioni che si sarebbero
presentate con le dismissioni del mattone da parte di alcuni grandi gruppi
pubblici. Fu durante una delle tante visite di Moschetti a palazzo che Fini
confessò l’entusiasmo per quella nuova conoscenza, un ragazzo sveglio, bravo a
fare affari, introdotto perfino nella politica internazionale. Un italiano
all’estero che ce l’aveva finalmente fatta ed era pieno di miliardi. Disse che
Checchino stava pensando a una joint venture con Follieri, coinvolgendo anche
alcuni parenti di Fini specializzati in ristrutturazioni immobiliari. Parenti
acquisiti, perché il legame di sangue era con la prima moglie, Daniela Di Sotto.
“So che Massimo Sarmi alle Poste sta preparando un piano di dismissioni
immobiliari”, disse il presidente di Alleanza Nazionale, facendo capire
all’interlocutore che avrebbe favorito un incontro fra Poste e Follieri group.
Moschetti non seppe poi a quale livello l’incontro ci fosse stato. Ma intuì che
Sarmi, persona assai cortese, ma anche assai ferrata nella matematica, capì che
due più due fa quattro, ma Follieri+Poste non sarebbe stata una buona
operazione. Scelta assai lungimirante, visto il decorso delle vicende. Sfumato
l’affare non vennero meno i rapporti di cortesia. Chissà se rafforzati nel
frattempo dall’evolversi delle vicende sentimentali del futuro presidente della
Camera. Negli Stati Uniti infatti Follieri cementò un rapporto con Frank Stella
e la sua National Italian American Foundation (Niaf). Tanto che la fondazione
principe degli italo-americani assegnò al giovane Follieri un ambito
riconoscimento pubblico festeggiandolo insieme a George Bush padre. Stella, come
è emerso in questi giorni, era anche il referente americano della Wind Rose
International, società immobiliare fondata da Sergio, Giancarlo ed Elisabetta
Tulliani e che ha sede a Roma al piano terra della palazzina dove è andato a
vivere dal 2007 Fini. Se con le Poste l’affare sfumò, la finanziaria di Follieri
almeno un immobile riuscì a comprare nel centro di Roma, a due passi da Trinità
dei Monti. Ed è una fortuna per i creditori, visto che tutto è finito a gambe
all’aria, compreso il tentativo di liquidazione di papà Pasquale dopo l’arresto
americano del figlio, e la finanziaria romana è fallita nel febbraio di questo
2010.
Di politica parlava quindi
Fini nei suoi incontri con Moschetti. Ma anche di affari, che sembravano sempre
stare a cuore al futuro presidente della Camera. Affari nazionali e
internazionali. E affari di famiglia. Della vecchia e della nuova
famiglia…
4-
continua
Fini vissuto da vicino. 3/Quella mano chiesta per la pubblicità degli amici
Eccola lì, la foto che
stava in un angolo della scrivania di Giorgio Moschetti nell’ufficio dove
Gianfranco Fini andava a trovarlo nel lontano 1993 cercando dal segretario
amministrativo dell’ex dc romana prima una spinta e poi un aiuto per la corsa
alle elezioni di sindaco di Roma contro Francesco Rutelli. Chissà se scappò a
Fini l’occhio su quella foto che ritraeva l’ultimo sindaco di Roma della dc
andreottiana, Pietro Giubilo, con il suo addetto stampa dell’epoca e un ragazzo
di una tv romana che sbucava alle spalle. Era Andrea Ronchi, futuro portavoce di
An, futuro ministro, protagonista ancora in erba di quella che sarebbe diventata
la scissione di Futuro e Libertà nella destra italiana. Fini vide la foto
sicuramente il 18 ottobre 1993, quando tornò da Moschetti dopo essere già sceso
in campo a lamentarsi di non essere preso sul serio dall’establishment
dell’epoca. L’allora numero uno del Movimento sociale era deluso perché a una
puntata su Canale 5 del Maurizio Costanzo show erano stati invitati tutti gli
aspiranti sindaci della capitale, meno Fini. C’era bisogno di qualche appoggio
in più, altrimenti la candidatura rischiava di essere un buco nell’acqua. Sarà
stato per la foto trovata sulla scrivania, ma fra tante cose quel giorno i due
parlarono anche di Ronchi. Moschetti lo conosceva da tempo, sia come giornalista
sia perché aveva una società di pubbliche relazioni insieme alla moglie
Simonetta con cui ogni tanto cercava di prendere qualche lavoro nella Roma
andreottiana, in Comune o nelle società municipalizzate. Fini non poteva sapere
che tutti quegli incontri con Moschetti venivano registrati da una microspia
piazzata nell’ufficio da un organo di polizia giudiziaria. Non lo sapeva nessuno
dei protagonisti, naturalmente, finchè un collaboratore di Moschetti (che
all’epoca era senatore) non la individuò e con una certa ingenuità il segretario
amministrativo dell’ex dc la portò al primo commissariato di Roma centro
sporgendo regolare denuncia. Molti, molti anni dopo- chissà come- quelle
registrazioni che non poterono essere utilizzate nei procedimenti tornarono
miracolosamente in mano al registrato che certo le ha ascoltate con amara
curiosità e chissà se dopo se ne sarà disfatto. Una cosa era sicura: in quei
frammenti audio c’era materiale per riscrivere la storia in modo assai diverso
di quanto non abbiano consegnato le cronache. Ci sono anche tutti i particolari
di quel finanziamento di 1,3 miliardi di lire dell’epoca (ad essere precisi un
miliardo e 350 milioni di lire) pensato per la campagna elettorale del prefetto
scelto dalla ex dc, che con Mino Martinazzoli si era trasformata in partito
popolare, e che invece prese la direzione del movimento sociale, ad aiutare la
scalata di Fini ai vertici della politica nazionale. C’è anche il colloquio di
Moschetti con due imprenditori romani, vecchie conoscenze del senatore dc, che
erano pronti a puntare le loro risorse economiche sulla campagna elettorale
popolare. Trovarono dall’interlocutore una risposta che li sorprese, e fece
capire loro che il mondo stava proprio cambiando: “Sul Ppi? Buttate via i vostri
soldi. E’ Fini quello su cui puntare”.
Favore non da poco ricevuto
dagli eredi di Andreotti giunti al loro capolinea politico. E un po’ di
riconoscenza Fini ebbe. Ascoltando le raccomandazioni su quel
giornalista-pubblicitario, Ronchi, che presto gli sarebbe stato assai utile. Fu
Moschetti a parlargliene assai prima di Gaetano Rebecchini. E fu una fortuna
perché negli anni Ronchi si sarebbe rivelato per Fini una risorsa fondamentale.
Messo un po’ da parte fra il 1994 e il 1996, fu Fini a parlare a Moschetti di
Ronchi poco prima delle elezioni di quell’anno. Quando stava per lasciare il
governo di Lamberto Dini fu fatto un tentativo in extremis di esecutivo ad ampio
spettro costituzionale, affidato alla regia di Antonio Maccanico. Il governo era
quasi fatto. Ma all’ultimo lo fece saltare Fini. Così lo raccontò Maccanico agli
amici: “ Sono tornato a casa in via della Scrofa e ho incontrato Fini sulle
scale, che mi ha detto di averci ripensato. Non si fa”. Quel giorno in via della
Scrofa arrivò il vecchio amico e confidente Moschetti. Chiese a Fini il perché
di quel no. Lui gli rispose: “Vogliono
fare un governo solo di massoni”. Moschetti scherzando disse: “ma se ci sono
anche esponenti vicini all’Opus Dei!”. Fini rispose: “Perché, l’Opus Dei non è
massoneria?”. Fu quel giorno che l’ormai presidente di Alleanza nazionale
confessò all’amico ex senatore dc di avere dei problemi da sistemare su una
partita di immobili, senza specificare se si trattava di mattoni del partito o
di famiglia. Ma disse che stava dandogli una mano proprio Ronchi, attraverso
alcune società estere da lui conosciute per la sua attività professionale. C’era
sempre bisogno di una mano, dalle parti di via della Scrofa. Moschetti aveva
ancora tante relazioni utili dopo avere militato ai massimi livelli nella dc
capitolina per tanti lustri, fino a diventarne il quasi leader- sia pure senza
fare ombra a Vittorio Sbardella. Di una mano aveva bisogno Fini sugli immobili,
di una mano aveva bisogno Ronchi per le attività professionali che erano ormai a
largo raggio. Si occupava di pubbliche relazioni e di campagne pubblicitarie
attraverso la Apr
pubblicità e marketing, che negli anni avrebbe conquistato cuore e portafoglio
delle società pubbliche: Poste, Eni, Enel e così via. Ronchi insieme alla moglie
Simonetta Sechi ed altri soci possedeva anche altre società meno note, ma assai
attive a Roma, come la
Baam srl e la
Olifer srl (gestì per un certo periodo il Jazz caffè, poi gli
affari andarono peggio e fallì quando Ronchi se ne era già disfatto). Con il
giovane rampante politico di An destinato a scalare tutti i gradini del successo
politico si imbarcò all’epoca un altro personaggio cresciuto all’ombra di Fini
negli anni. Si chiama Ferruccio Ferranti, oggi è amministratore delegato del
Poligrafico dello Stato. E’ stato anche amministratore di Sviluppo Italia e
prima ancora amministratore della Consip, la società che centralizza gli
acquisti per conto dello Stato. Una carriera rapidissima sotto l’ombra di Fini.
E non è un caso se Ferranti nel tempo libero oggi riesce a sedere anche nel
consiglio della Fondazione Fare Futuro, il pensatoio da cui è partita la prima
secessione finiana. Ma all’epoca dei secondi anni Novanta, quando Fini chiedeva
di tanto in tanto “una mano” a Moschetti, la folgorante carriera di Ferranti era
ai nastri di partenza. Era più noto per essere il marito di Piera Salabè, figlia
di Adolfo, l’architetto del Sisde e dei misteri di Oscar Luigi Scalfaro alla
fine della Prima Repubblica, e il socio di Ronchi nelle agenzie di pr e
pubblicità a caccia di commesse pubbliche. Sarà stato Moschetti, sarà stato il
potere di Fini e del suo partito, ma arrivarono uno dopo l’altro gli agognati
contratti prima dalle imprese pubbliche capitoline e poi dai grandi gruppi
pubblici nazionali. I fatturati aumentarono anno dopo anno. E quel ragazzino che
il numero due della dc romana fece vedere in foto a Fini in quel lontano 1993
sarebbe diventato l’ombra del leader. Pronto a concentrare nelle sue mani nel
2005 tutto il potere dei colonnelli e ora a diventare il gran ciambellano della
secessione di Futuro e Libertà. Una scalata lunga anni. In cui mai Fini e Moschetti si sono
persi di vista. Dai lunghi colloqui del 2004, alla vigilia della decapitazione
di Giulio Tremonti per un incidente su Sviluppo Italia. A quelli di qualche anno
più tardi, quando la strada di Moschetti ha incrociato quella della nuova
famiglia di Fini. Trovando sulla sua strada Sergio Tulliani e uno strano
progetto industriale che aveva immaginato per
l’Acea…
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continua
Due parole sullo scandalo per Gianfranco Fini
Debbo due parole a chi, sul mio blog o nei profili di Facebook, protesta con più o meno garbo per l'eccesso di informazioni su Gianfranco Fini. Non ho mai avuto dubbi in vita mia sulla legittimità delle indagini giornalistiche a proposito di chiunque chieda la fiducia degli elettori e ricopra incarichi elettivi, di governo o istituzionali a qualsiasi livello. Nessuno di loro ha diritto alla privacy, come nessuno dei suoi familiari. Posso capire che per loro sia antipatico, ma non comprendo come gli eletti non considerino per primi un dovere assoluto la trasparenza anche sulla attività della propria famiglia. Questa regola valeva per Silvio Berlusconi (e io per primo ho raccontato fin dal 1994 tutto quel che riuscivo a sapere su beni, attività e patrimoni di Veronica Lario e dei figli di Berlusconi). Valeva per Romano Prodi, per Fausto Bertinotti, per Pierferdinando Casini, per Marco Follini, per Massimo D'Alema e per i loro familiari di cui ho sempre raccontato nei giornali su cui ho scritto attività, patrimoni, avventure. Posso capire che per loro sia fastidioso (avrei la stessa reazione), ma è una delle regole della democrazia, una pena del contrappasso del potere. C'è chi l'ha capito e per primo ha cercato trasparenza in questi anni. E' un piccolo passo, ma gran parte dei deputati e dei senatori eletti hanno messo a disposizione del pubblico la situazione patrimoniale e reddituale propria e dei propri familiari. Fini, pure essendo diventato presidente della Camera, non ha reso pubblico nulla su Elisabetta Tulliani. E già questo è un motivo naturale di maggiore curiosità. E' stato grazie a sacrosanti servizi giornalistici che è potuto emergere il motivo reale di quella scarsa trasparenza: patrimoni e affari di famiglia nascondono grandi dubbi e operazioni poco trasparenti se non imbarazzanti. Ad oggi il presidente della Camera ha preferito l'imbarazzo e la nebbia a una semplice spiegazione. Quando si vende un immobile, si tratta con qualcuno e si sa chi compra. Quindi sarebbe bastata una semplice risposta. Altrimenti tutti i dubbi sono leciti e si alimentano di questa poca chiarezza. Chi si cela dietro la società proprietaria dell'immobile di Montecarlo, la Timara ltd? Quella sigla non vuole per caso dire "Tulliani immobiliare a responsabilità anonima?" o qualcosa di simile? Dubbio giustificato dal fatto che Gincarlo Tulliani fondò una società per lavorare con la Rai e la chiamò Giant enterteinment. E Giant significava "Giancarlo Tulliani". Piccola cosa? Può essere. Ma a ingigantirla è stata la scelta di fuggire quella risposta. Più si fugge, più si alimentano dubbi e ombre.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con le scelte politiche di Fini. E' legittimo che lui non sopporti più Silvio Berlusconi, è legittimo che sia stato deluso dal Pdl e pensi a una nuova strada politica, anche a farsi un partito nuovo. Avendo chiesto i voti per una strada che non condivide più, io credo che sarebbe giusto anche rivolgersi agli elettori e farsi confermare dal voto la nuova scelta. Ma non c'è nulla di scandaloso nel cambiare idea, ci sarà chi condivide e chi no come in ogni atto. Non c'è dubbio però che Fini si sia messo così, in modo evidente, al centro della politica italiana. E quando uno lo fa, non può lamentarsi dell'eccesso di attenzione nei suoi confronti. E' chiaro che interessa di più quel che fa lui piuttosto di un altro. E' al centro dell'attenzione e quel che dice viene vagliato e pesato più di altro. Ha scelto anche dei temi politici per il suo divorzio. Il primo è stato quello della legalità. Non stupisca che proprio quello venga verificato più di altri. In una democrazia sana quello dovrebbero fare i giornali. Anche Antonio Di Pietro ha scelto quella bandiera, il cuore della sua attività politica. E così la libera stampa gliene ha chiesto le ragioni più che ad altri. Una persecuzione? No, è questo il ruolo naturale della stampa. Se Berlusconi dice "io sono alla guida del partito che ha abbassato le tasse" e questo non è vero, i giornali si riempiranno di servizi su questa o quella tassa alzata, altro che abbassata. Avviene sempre così. E certo Berlusconi e Prodi sono stati vagliati e rivoltati come calzini dalla stampa in questi anni. Cosa è questa immunità che oggi si rivendica per Fini? Questa sì è innaturale e ingiustificata. E- permettetemelo- questa sì puzza non poco di regime. Molto più di quelle leggi bavaglio mai entrate in vigore...
Fini e la legalità/ 1993, il cassiere della dc disobbedì a Sbardella e versò a Fini 1,3 miliardi di lire
Vi chiedo “di dare una mano a Gianfranco Fini”. Fu questo l’appello che l’8 agosto 1991 in un tavolo del ristorante al Bolognese in piazza del Popolo a Roma, Michele Marchio, capo indiscusso del Movimento sociale a Roma rivolse a Giorgio Moschetti, tesoriere della dc romana. Fini aveva da poco riconquistato la guida del partito, che solo un anno prima gli aveva sottratto l’avversario dell’epoca, Pino Rauti. Il delfino di Giorgio Almirante aveva mostrato alla sua prima esperienza di guida politica una fragilità inattesa. Bisognava porvi rimedio, evitare ulteriori rischi. Per questo Marchio bussò alla porta della dc romana, di cui era leader indiscusso Vittorio Sbardella e di cui aveva le chiavi della cassa proprio Moschetti. Al pranzo partecipò lo stesso Fini, mentre Marchio fu accompagnato in auto dal giovane assistente, Francesco Storace, all’inizio di una lunga e promettente carriera politica. Fu in quella occasione che scattò il feeling fra Fini e Moschetti. Ed è in quell’incontro- in quel pranzo- che sono state poste le radici di un connubio ventennale. E’ lì- come rivelato ieri da Libero- che sono nati rapporti anche assai riservati fra i due uomini politici. Da quel momento Moschetti diventa il custode di molti segreti della storia di Fini. Quel pranzo è all’origine di una lunga storia che porterà all’incontro fra i due del 7 dicembre 2009 nell’ufficio del presidente della Camera. Un incontro a lungo chiesto invano da Moschetti. E ottenuto al volo solo quando a fine novembre 2009 all’ex segretario amministrativo della dc romana viene in mente di inviare una mail in cinque punti. Cinque titoli di un dossier che racconta la storia comune. Cinque vicende politico-finanziarie che ripercorrono gli anni trascorsi insieme.
Iniziò nel 1991 quell’avventura comune. A Fini servivano appoggi, strutture, accreditamento per rendere meno fragile la sua riconquistata guida del Movimento sociale italiano. Serviva anche un accreditamento con i veri poteri di Roma. “Qui comandano i palazzinari”, gli spiegò Moschetti che li conosceva tutti ed era abituato a bussare alle loro porte per avere sostegno anche finanziario. Da quel momento la rete di amicizie e di supporti fu in piccola parte condivisa con il nuovo politico emergente. Che avrebbe avuto presto la sua grande occasione. Era la fine del mese di agosto 1993, forse i primi giorni di settembre, bisognerebbe chiedere con precisione ai tre testimoni che oggi sono ancora vivi e possono confermare. Certo fu prima della domenica di chiusura della festa della destra a Mirabello (anche quell’anno capitò il 5 settembre). Fini salì nell’ufficio di Moschetti accompagnato da Donato La Morte. In quei giorni si stavano decidendo i candidati per le elezioni al comune di Roma. In campo c’era Francesco Rutelli. La dc- quell’estate diventata partito popolare con Mino Martinazzoli- non aveva ancora scelto. Sembrava dovesse scendere in campo Rocco Buttiglione, ma non si decideva. Se no il candidato sarebbe diventato il prefetto di Roma, come poi accadde. Fini voleva offrire i suoi voti alla dc, e chiese a Moschetti di convincere Martinazzoli a non rifiutarli. Il segretario della dc romana scosse la testa: “Gianfranco, non hai capito la situazione. Io ho già tre avvisi di garanzia e mi stanno portando il quarto. Non vedi il clima? Devi provare a correre tu per le elezioni”. Fini sorrise timidamente. Si avviò alla porta insieme a La Morte, vecchio amico di Moschetti perché per lunghi anni era stato consigliere provinciale della dc a Roma. Poi proprio sull’uscio guardò il segretario amministrativo della dc romana: “Ma secondo te, se mi presento da solo, quanti voti prendo?”. Moschetti rispose secco: “Il 36 per cento!”. Finì sgranò gli occhi: “ma tu mi darai una mano?”. E ottenute assicurazioni, se ne andò. Si rividero a lungo durante la campagna elettorale e anche per l’organizzazione delle successive politiche del 1994.
Fu qualche tempo dopo che spuntò fuori un giallo che fece intuire quale fosse stata “quella mano” che Moschetti doveva dare a Fini nella corsa a sindaco di Roma del 1993. Un deputato della Lega Nord tirò fuori la copia di una lettera a firma di Giulio Caradonna, leader missino dell’epoca, in cui si sosteneva che a Fini arrivarono due miliardi di vecchie lire dalla corrente andreottiana di Sbardella. Fu una rivelazione a tarda sera. Alle cinque del mattino Fini tirò giù dal letto Moschetti. Con Donato La Morte si videro tutti insieme a concordarono di smentire formalmente tutto. Fu un capitano dei carabinieri a raccogliere la smentita, attraverso la formula dell’auto-querela che Fini aveva fatto a se stesso. La vicenda sarebbe proseguita qualche anno anche con l’assoluzione di Caradonna, visto che una perizia calligrafica mostrò che non era sua la perizia calligrafica in calce a quella lettera. Così si chiuse la vicenda. Ma la versione all’epoca concordata fu di comodo. Lo avrebbe confessato anche anni dopo ad amici lo stesso Moschetti. Più che falsa la versione era imprecisa. Non di due miliardi si trattò. Ma di un miliardo e 300 milioni di vecchie lire che effettivamente finanziarono in nero (mai registrati) la campagna elettorale di Fini. Non fu Sbardella a stabilire quel contributo. Anzi. Lo Squalo era in rotta con Andreotti da qualche tempo. Chiese a Moschetti quindi di finanziare la corsa elettorale del candidato scelto dal ppi, il prefetto di Roma. Ma il segretario amministrativo, che aveva già deciso in cuor suo di restare fedele ad Andreotti e di non seguire Sbardella nell’ultimo strappo, disobbedì allo Squalo. Forse anche con un certo acume politico, comprese che il futuro apparteneva a Fini, che Tangentopoli stava spazzando via per sempre la vecchia dc. E quel miliardo e trecento milioni puntò sulla corsa di Fini. Non servì a farlo vincere. Ma da lì iniziò davvero la seconda Repubblica, quindi la scommessa non fu affatto persa. Chissà se è in quel miliardo e 300 milioni che si può trovare uno dei capitoli del dossier che tante preoccupazioni è in grado di creare al presidente della Camera. Certo in quel gesto si è cementato il rapporto segreto fra l’ex segretario amministrativo della dc romana e il nuovo leader della destra italiana in rapidissima ascesa. Fu il primo mattone. Presto ne sarebbero seguiti altri. Anche nella confusa fase della caduta del primo governo di Silvio Berlusconi e del tentativo di costruire un governo di unità nazionale guidato da Antonio Maccanico. In quel biennio Moschetti da un lato dovette occuparsi dei suoi processi, dall’altro seguì a distanza le vicende finanziarie del partito che sarebbe diventato Alleanza Nazionale. Facendo da chioccia anche a un pulcino della nidiata, Andrea Ronchi, che Fini aveva dovuto mettere da parte per un po’. Ma che Moschetti da anni guardava con una certa simpatia, avendolo visto crescere all’ombra del cupolone. 2-continua- Il resto domani nottee nei giorni successivi- E su Libero da domani in avanti
Iniziò nel 1991 quell’avventura comune. A Fini servivano appoggi, strutture, accreditamento per rendere meno fragile la sua riconquistata guida del Movimento sociale italiano. Serviva anche un accreditamento con i veri poteri di Roma. “Qui comandano i palazzinari”, gli spiegò Moschetti che li conosceva tutti ed era abituato a bussare alle loro porte per avere sostegno anche finanziario. Da quel momento la rete di amicizie e di supporti fu in piccola parte condivisa con il nuovo politico emergente. Che avrebbe avuto presto la sua grande occasione. Era la fine del mese di agosto 1993, forse i primi giorni di settembre, bisognerebbe chiedere con precisione ai tre testimoni che oggi sono ancora vivi e possono confermare. Certo fu prima della domenica di chiusura della festa della destra a Mirabello (anche quell’anno capitò il 5 settembre). Fini salì nell’ufficio di Moschetti accompagnato da Donato La Morte. In quei giorni si stavano decidendo i candidati per le elezioni al comune di Roma. In campo c’era Francesco Rutelli. La dc- quell’estate diventata partito popolare con Mino Martinazzoli- non aveva ancora scelto. Sembrava dovesse scendere in campo Rocco Buttiglione, ma non si decideva. Se no il candidato sarebbe diventato il prefetto di Roma, come poi accadde. Fini voleva offrire i suoi voti alla dc, e chiese a Moschetti di convincere Martinazzoli a non rifiutarli. Il segretario della dc romana scosse la testa: “Gianfranco, non hai capito la situazione. Io ho già tre avvisi di garanzia e mi stanno portando il quarto. Non vedi il clima? Devi provare a correre tu per le elezioni”. Fini sorrise timidamente. Si avviò alla porta insieme a La Morte, vecchio amico di Moschetti perché per lunghi anni era stato consigliere provinciale della dc a Roma. Poi proprio sull’uscio guardò il segretario amministrativo della dc romana: “Ma secondo te, se mi presento da solo, quanti voti prendo?”. Moschetti rispose secco: “Il 36 per cento!”. Finì sgranò gli occhi: “ma tu mi darai una mano?”. E ottenute assicurazioni, se ne andò. Si rividero a lungo durante la campagna elettorale e anche per l’organizzazione delle successive politiche del 1994.
Fu qualche tempo dopo che spuntò fuori un giallo che fece intuire quale fosse stata “quella mano” che Moschetti doveva dare a Fini nella corsa a sindaco di Roma del 1993. Un deputato della Lega Nord tirò fuori la copia di una lettera a firma di Giulio Caradonna, leader missino dell’epoca, in cui si sosteneva che a Fini arrivarono due miliardi di vecchie lire dalla corrente andreottiana di Sbardella. Fu una rivelazione a tarda sera. Alle cinque del mattino Fini tirò giù dal letto Moschetti. Con Donato La Morte si videro tutti insieme a concordarono di smentire formalmente tutto. Fu un capitano dei carabinieri a raccogliere la smentita, attraverso la formula dell’auto-querela che Fini aveva fatto a se stesso. La vicenda sarebbe proseguita qualche anno anche con l’assoluzione di Caradonna, visto che una perizia calligrafica mostrò che non era sua la perizia calligrafica in calce a quella lettera. Così si chiuse la vicenda. Ma la versione all’epoca concordata fu di comodo. Lo avrebbe confessato anche anni dopo ad amici lo stesso Moschetti. Più che falsa la versione era imprecisa. Non di due miliardi si trattò. Ma di un miliardo e 300 milioni di vecchie lire che effettivamente finanziarono in nero (mai registrati) la campagna elettorale di Fini. Non fu Sbardella a stabilire quel contributo. Anzi. Lo Squalo era in rotta con Andreotti da qualche tempo. Chiese a Moschetti quindi di finanziare la corsa elettorale del candidato scelto dal ppi, il prefetto di Roma. Ma il segretario amministrativo, che aveva già deciso in cuor suo di restare fedele ad Andreotti e di non seguire Sbardella nell’ultimo strappo, disobbedì allo Squalo. Forse anche con un certo acume politico, comprese che il futuro apparteneva a Fini, che Tangentopoli stava spazzando via per sempre la vecchia dc. E quel miliardo e trecento milioni puntò sulla corsa di Fini. Non servì a farlo vincere. Ma da lì iniziò davvero la seconda Repubblica, quindi la scommessa non fu affatto persa. Chissà se è in quel miliardo e 300 milioni che si può trovare uno dei capitoli del dossier che tante preoccupazioni è in grado di creare al presidente della Camera. Certo in quel gesto si è cementato il rapporto segreto fra l’ex segretario amministrativo della dc romana e il nuovo leader della destra italiana in rapidissima ascesa. Fu il primo mattone. Presto ne sarebbero seguiti altri. Anche nella confusa fase della caduta del primo governo di Silvio Berlusconi e del tentativo di costruire un governo di unità nazionale guidato da Antonio Maccanico. In quel biennio Moschetti da un lato dovette occuparsi dei suoi processi, dall’altro seguì a distanza le vicende finanziarie del partito che sarebbe diventato Alleanza Nazionale. Facendo da chioccia anche a un pulcino della nidiata, Andrea Ronchi, che Fini aveva dovuto mettere da parte per un po’. Ma che Moschetti da anni guardava con una certa simpatia, avendolo visto crescere all’ombra del cupolone. 2-continua- Il resto domani nottee nei giorni successivi- E su Libero da domani in avanti
Fini e la legalità/ Il presidente della Camera è sotto scacco dell'ex cassiere della dc di Sbardella
C’è un misterioso dossier in cinque capitoli che tiene sotto scacco Gianfranco Fini. Cinque vicende politico-finanziarie che preoccupano da tempo il presidente della Camera dei deputati. C’era un semplice titolo per ognuna di quelle cinque vicende nel messaggio di posta elettronica che a fine novembre 2009 apparve nella casella alla Camera della segretaria particolare di Fini, Rita Marino. A inviarlo un mittente con tanto di nome e cognome: Giorgio Moschetti. Oggi è un libero cittadino, ma per decenni è stato un vecchio lupo della politica nella capitale. Fu il segretario amministrativo della dc capitolina, corrente andreottiana, quando re di Roma era Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”. Nel 1992 Moschetti, soprannominato “Giò er biondo” per la capigliatura splendente (oggi tendente al platino) fu anche eletto senatore. Una fortuna, perché c’era ancora l’immunità parlamentare. Quell’anno scoppiò tangentopoli e il tesoriere della dc romana, insieme al segretario amministrativo del partito a livello nazionale, Severino Citaristi, fu colpito da una gragnuola di avvisi di garanzia e anche di una richiesta di arresto, che il Senato respinse. Per anni fu travolto da inchieste e processi, uscendone fuori definitivamente cinque anni fa, anche ottenendo assoluzioni sui reati più gravi (ad esempio le tangenti Intermetro). Moschetti è appunto un libero cittadino. La sua dc è scomparsa nella notte dei tempi, ma la passione per la politica non è mai venuta meno. Come Sbardella conosceva bene il vecchio Msi. Alla fine degli anni Ottanta diede anche una mano a Fini, su richiesta dell’ex senatore Michele Marchio. Divennero amici, si frequentarono. Lavorarono insieme anche se mai questo rapporto fu reso pubblico. La frequentazione non è venuta meno negli anni Novanta, ed è continuata fino a tempi più recenti. Incontri nella sede di An in via della Scrofa, al ministero degli Esteri, a palazzo Chigi all’epoca di Fini vicepresidente del Consiglio, anche i passi ufficiali raccontano quella lunga frequentazione fra i due. Spesso Fini chiedeva consigli al vecchio amico, altre volte ha utilizzato la sua rete di rapporti e conoscenze per fare crescere il suo partito a Roma. Un ottimo rapporto. Ma nel 2009 qualcosa deve essere cambiato. Per mesi Moschetti chiese un appuntamento al presidente della Camera. Numerose le telefonate con la Marino, sempre molto cortesi. Ma l’appuntamento non veniva mai fissato. Finchè in quel mese di novembre la segreteria della presidenza della Camera chiese alla segretaria di Moschetti di inviare un messaggio di posta elettronica con la richiesta di appuntamento, così sarebbe stato messo in scadenzario e avrebbe avuto una riposta ufficiale. A Moschetti- che chissà come ne era a conoscenza- venne in mente quel misterioso dossier. Scrisse la mail con la richiesta di appuntamento e per motivarlo vi allegò quei cinque titoli, tre che riguardavano personalmente il presidente della Camera e due il suo partito. Cinque titoli che sembrarono la più classica delle parole magiche: una sorta di “Apriti Sesamo” in grado di forzare qualsiasi resistenza protocollare. La mail fu spedita e nemmeno un’ora dopo squillò il telefono nell’ufficio dell’ex tesoriere della dc romana: “il presidente della Camera è lieto di incontrarla nel suo ufficio a Montecitorio la mattina del 7 dicembre prossimo”.
Quel 7 dicembre di primo mattino si spalancarono davvero le porte di Montecitorio per “Giò er biondo”. Fini fu calorosissimo. Non fece alcun accenno al contenuto di quel messaggio di posta elettronica. Fece vedere le foto familiari a Moschetti, le bambine avute con Elisabetta Tulliani, parlò un po’ della situazione politica, scherzò sui microfoni e su un incidente che era avvenuto qualche giorno prima, quello della chiacchierata informale sul pentito Gaspare Spatuzza rubata dalle telecamere a un convegno in cui Fini sedeva a fianco del procuratore capo di Pescara, Salvatore Trifuoggi. L’incontro con Moschetti si stava piacevolmente prolungando, quando fu interrotto da una richiesta ufficiale dei capogruppo dell’opposizione che volevano vedere urgentemente il presidente della Camera per sciogliere un braccio di ferro in corso sulla legge finanziaria. Il tempo stringeva, così Fini chiese subito al vecchio amico: “Allora, Giorgio, che vuoi fare nella vita?”. Moschetti non perse tempo: “Vorrei essere scongelato. Ho passato una vita a occuparmi dei miei processi. Si sono ammalati anche i miei figli per questo. Da cinque anni ho chiuso ogni pendenza giudiziaria. Mi sembra naturale tornare a vivere, ridare dignità alla mia famiglia…”. Fini sorrise: “Che vorresti fare?”. E Moschetti disse che lui non aveva bisogno di soldi, né voleva incarichi politici, ma solo qualcosa per recuperare il prestigio perduto: “Una presidenza, ad esempio. Ho visto che a Giuliano Amato avete dato la Treccani…”. Fini rispose che per certe nomine contava il governo, ma disse che da lì a pochi mesi ci sarebbero state le elezioni regionali e sicuramente sarebbe venuto fuori qualcosa di interessante anche per Moschetti. Gli chiese di pazientare qualche mese, volle avere un giudizio anche sul candidato che stava per scendere in campo per il Pdl nel Lazio, Renata Polverini. Moschetti rispose: “a dire il vero non la conosco. L’ho vista come tanti qualche volta in tv. Mi raccomando però non fare lo stesso errore del mio amico Gianfranco Bettini che si è trasformato in un campione dell’antipolitica candidando per ben due volte un giornalista alla guida della Regione Lazio”. Fini sorrise, cominciò a raccontare delle difficoltà del quadro politico. Gli disse che aveva visto da poco Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Bruno Tabacci e fece una battuta che colpì Moschetti: “Sai, Giorgio… qui vogliamo rifare la tua dc…”. Il presidente della Camera raccontò al suo interlocutore che comunque il quadro politico era destinato a un vero e proprio terremoto: “dopo le regionali cambierà tutto”. Fu a quel punto che bussò alla porta la fedelissima Marino: “Presidente, ci sono i capigruppo dell’opposizione che la aspettano”. Fini cortesemente si congedò, ma promise affettuosamente all’interlocutore che si sarebbe mantenuto in contatto con lui “per quelle cose che ci siamo detti”. Dopo quell’incontro Moschetti e Fini si sentirono ancora il 18 gennaio 2010 e durante la campagna elettorale per le regionali. Poi sui rapporti fra i due è calato il silenzio. Non sul dossier in cinque capitoli, che resta sospeso sul capo della politica romana. Ma che cosa c’era di tanto importante per Fini in quei capitoli? Non c’è speranza di ottenere informazioni dirette da qualcuno dei protagonisti. Negherebbero uno di avere inviato il messaggio di posta elettronica e l’altro di averlo ricevuto. Solo l’incontro del 7 dicembre non può essere smentito. Forse per capire di più questo giallo che sta alimentando la politica italiana, basterebbe ripercorrere passo dopo passo venti anni di frequentazioni fra Fini e Moschetti. Lì potrebbe esserci se non la risposta la traccia giusta per provare a comprendere quel dossier in cinque capitoli. E allora iniziamo questo viaggio nella memoria. Tornando a un caldissimo giorno di agosto del lontano 1991. L’8 agosto 1991. Piazza del popolo, a Roma. Ristorante dal Bolognese. C’è un tavolo prenotato e stanno arrivando gli ospiti. Il primo ad arrivare è un giovane politico missino, Gianfranco Fini. Il secondo è Giorgio Moschetti, cassiere della dc romana di Vittorio Sbardella. Il terzo è il leader del Msi romano, il senatore Michele Marchio. A dire il vero c’è anche una quarta persona, all’epoca meno nota. E’ lui che ha guidato fin lì l’auto di Marchio, di cui è fedele assistente. Un giovane promettente, destinato a fare carriera. Si chiama Francesco Storace… 1- continua
Quel 7 dicembre di primo mattino si spalancarono davvero le porte di Montecitorio per “Giò er biondo”. Fini fu calorosissimo. Non fece alcun accenno al contenuto di quel messaggio di posta elettronica. Fece vedere le foto familiari a Moschetti, le bambine avute con Elisabetta Tulliani, parlò un po’ della situazione politica, scherzò sui microfoni e su un incidente che era avvenuto qualche giorno prima, quello della chiacchierata informale sul pentito Gaspare Spatuzza rubata dalle telecamere a un convegno in cui Fini sedeva a fianco del procuratore capo di Pescara, Salvatore Trifuoggi. L’incontro con Moschetti si stava piacevolmente prolungando, quando fu interrotto da una richiesta ufficiale dei capogruppo dell’opposizione che volevano vedere urgentemente il presidente della Camera per sciogliere un braccio di ferro in corso sulla legge finanziaria. Il tempo stringeva, così Fini chiese subito al vecchio amico: “Allora, Giorgio, che vuoi fare nella vita?”. Moschetti non perse tempo: “Vorrei essere scongelato. Ho passato una vita a occuparmi dei miei processi. Si sono ammalati anche i miei figli per questo. Da cinque anni ho chiuso ogni pendenza giudiziaria. Mi sembra naturale tornare a vivere, ridare dignità alla mia famiglia…”. Fini sorrise: “Che vorresti fare?”. E Moschetti disse che lui non aveva bisogno di soldi, né voleva incarichi politici, ma solo qualcosa per recuperare il prestigio perduto: “Una presidenza, ad esempio. Ho visto che a Giuliano Amato avete dato la Treccani…”. Fini rispose che per certe nomine contava il governo, ma disse che da lì a pochi mesi ci sarebbero state le elezioni regionali e sicuramente sarebbe venuto fuori qualcosa di interessante anche per Moschetti. Gli chiese di pazientare qualche mese, volle avere un giudizio anche sul candidato che stava per scendere in campo per il Pdl nel Lazio, Renata Polverini. Moschetti rispose: “a dire il vero non la conosco. L’ho vista come tanti qualche volta in tv. Mi raccomando però non fare lo stesso errore del mio amico Gianfranco Bettini che si è trasformato in un campione dell’antipolitica candidando per ben due volte un giornalista alla guida della Regione Lazio”. Fini sorrise, cominciò a raccontare delle difficoltà del quadro politico. Gli disse che aveva visto da poco Pierferdinando Casini, Francesco Rutelli e Bruno Tabacci e fece una battuta che colpì Moschetti: “Sai, Giorgio… qui vogliamo rifare la tua dc…”. Il presidente della Camera raccontò al suo interlocutore che comunque il quadro politico era destinato a un vero e proprio terremoto: “dopo le regionali cambierà tutto”. Fu a quel punto che bussò alla porta la fedelissima Marino: “Presidente, ci sono i capigruppo dell’opposizione che la aspettano”. Fini cortesemente si congedò, ma promise affettuosamente all’interlocutore che si sarebbe mantenuto in contatto con lui “per quelle cose che ci siamo detti”. Dopo quell’incontro Moschetti e Fini si sentirono ancora il 18 gennaio 2010 e durante la campagna elettorale per le regionali. Poi sui rapporti fra i due è calato il silenzio. Non sul dossier in cinque capitoli, che resta sospeso sul capo della politica romana. Ma che cosa c’era di tanto importante per Fini in quei capitoli? Non c’è speranza di ottenere informazioni dirette da qualcuno dei protagonisti. Negherebbero uno di avere inviato il messaggio di posta elettronica e l’altro di averlo ricevuto. Solo l’incontro del 7 dicembre non può essere smentito. Forse per capire di più questo giallo che sta alimentando la politica italiana, basterebbe ripercorrere passo dopo passo venti anni di frequentazioni fra Fini e Moschetti. Lì potrebbe esserci se non la risposta la traccia giusta per provare a comprendere quel dossier in cinque capitoli. E allora iniziamo questo viaggio nella memoria. Tornando a un caldissimo giorno di agosto del lontano 1991. L’8 agosto 1991. Piazza del popolo, a Roma. Ristorante dal Bolognese. C’è un tavolo prenotato e stanno arrivando gli ospiti. Il primo ad arrivare è un giovane politico missino, Gianfranco Fini. Il secondo è Giorgio Moschetti, cassiere della dc romana di Vittorio Sbardella. Il terzo è il leader del Msi romano, il senatore Michele Marchio. A dire il vero c’è anche una quarta persona, all’epoca meno nota. E’ lui che ha guidato fin lì l’auto di Marchio, di cui è fedele assistente. Un giovane promettente, destinato a fare carriera. Si chiama Francesco Storace… 1- continua
Fini e la legalità/ La Contini rivela: impose lui il candidato del boss che pagò 100 mila euro al partito
La parola decisiva ai magistrati l’ha detta in un interrogatorio formale del 16 maggio 2008 Barbara Debra Contini. Convocata davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo che cercava di capire qualcosa di più sulle irregolarità riscontate nella candidatura a senatore di Nicola Di Girolamo, la Contini assicurò “è stata una candidatura adottata direttamente dal presidente Fini”. Parole taglienti come il ghiaccio, che oggi sono allegate al fascicolo processuale dell’ex senatore coinvolto nello scandalo Fastweb- Telekom con accuse pesanti di concorso in riciclaggio e di brogli elettorali con la complicità della ‘ndrangheta. Qualche giorno fa, il 30 agosto, la procura di Roma ha deciso di mandare a giudizio immediato l’ex senatore che fu costretto a dimettersi nella primavera scorsa quando è scoppiato lo scandalo, finendo in carcere dopo avere perso l’immunità parlamentare. La prima udienza del processo è già stata fissata per il 2 novembre prossimo. Ma per Di Girolamo è possibile uno stralcio e se ci sarà l’ok dei pm anche il patteggiamento o il rito abbreviato. L’ex senatore infatti da mesi ha iniziato a collaborare con i magistrati sia sul troncone principale dell’inchiesta, sia sull’origine e le modalità della sua candidatura al Senato nella circoscrizione estera europea. C’è già stata una decina di interrogatori, ed è probabile che prima di dare il proprio assenso al patteggiamento i pubblici ministeri ne vogliano fare ancora qualcuno proprio sulla vicenda politica. Di Girolamo ha spiegato quel che già i magistrati avevano letto nelle intercettazioni. E cioè che la sua candidatura era stata ideata da Gennaro Mobkel, l’ex neofascista divenuto il boss al centro dell’inchiesta, avendo tirato le fila di tutte le operazioni illecite scoperte. Mobkel avvicinò un vecchio amico, Stefano Andrini (dirigente pubblico a Roma, costretto alle dimissioni dopo l’esplosione dello scandalo), che fece da tramite fra Di Girolamo e Marco Zacchera (An), uno dei tre coordinatori del Pdl che doveva occuparsi delle candidature degli italiani all’estero. Gli altri due erano appunto la Contini (Forza Italia) e Stefano Stefani (Lega). In più intercettazioni telefoniche e ambientali Mobkel sostiene parlando con amici e altri sodali di avere pagato "una piotta" solo per ottenere il sì di An alla candidatura di Di Girolamo. Le ricostruzioni sono confuse, in parte dice di averlo fatto lui direttamente, in altre occasioni sostiene che il pagamento lo avrebbe fatto lo stesso Di Girolamo. Gli inquirenti traducono dal romanesco "na piotta" identificando la cifra in 100 mila euro. Ma in altre intercettazioni allegate Mobkel ripete in più occasioni di avere pagato per la candidatura di Di Girolamo più di un milione di euro. Può essere che nella cifra siano compresi i costi della campagna elettorale. In un caso sostiene di avere dato per la mediazione con An ad Andrini 50 mila euro. Ma negli interrogatori in carcere Mobkel non ha voluto rispondere sul punto. Lo farà nel processo o nel prossimo interrogatorio nella speranza di ottenere il patteggiamento lo stesso Di Girolamo. Ai magistrati infatti interessa molto capire a chi andarono quei soldi e per quali strade il boss romano avesse costruito con l'appoggio di An quella che lui stesso chiamava "l'inizio di una scalata al potere". Per questo diventa oggi molto imbarazzante quella versione fornita dalla Contini ai magistrati romani: "Mi erano state fatte delle segnalazioni formali sulla circostanza che Di Girolamo non era conosciuto nelle comunità europee all'estero. Segnalai a Zacchera qusta circostanza chiedendogli di verificare e di valutare attentamente il nome. Zacchera mi rispose che la decisione era stata adottata direttamente dal Presidente Fini e Zacchera assicurava, contrariamente alle voci giuntemi la stima complessiva che Di Girolamo avrebbe avuto a suo dire in Europa". Dichiarazione imbarazzante, anche perchè nelle intercettazioni allegate il nome di Fini compare in moltissime occasioni. Anche all'indomani dell'elezione, quando chiama Di Girolamo per un incontro faccia a faccia. Il senatore a quel punto non è più intercettabile, e quindi non esistono brogliacci sulle chiaccherate. Ma all'incontro fa riferimento Mobkel con altri interlocutori, rivelamndo pure che Fini aveva ricevuto dall'ambasciata italiana in Belgio una lettera di supporto a Di Girolamo per futuri incarichi. Sarà tutta materia da dipanare al processo, a meno che la definitiva chiarezza non arrivi dai prossimi interrogatori dell'ex senatore. Certo quel processo diventa una ulteriore macigno nella battaglia per la legalità messa al centro della sua nuova avventura politica dall'attuale presidente della Camera
Così la cricca degli appalti era di casa negli uffici di Fini
Sono due i passi rilasciati dall’ufficio di sicurezza della Camera dei deputati che legano Gianfranco Fini alla cricca degli appalti pubblici. Sono stati rilasciati fra la fine di novembre 2009 e il gennaio 2010 per recarsi nell’ufficio del presidente della assemblea di Montecitorio a Francesco De Vito Piscicelli, l’imprenditore che con Diego Anemone è diventato il più noto alle cronache della nuova tangentopoli. De Vito Piscicelli è infatti l’imprenditore intercettato con il cognato mentre rideva e si fregava le mani la notte del terremoto de L’Aquila pensando a quanti affari avrebbe potuto realizzare con le sue imprese. Non è noto se in quelle occasioni avesse avuto un incontro diretto con Fini. E’ invece documentato- grazie a lunghe intercettazioni e pedinamenti dei carabinieri del Ros- l’incontro con Rita Marino, segretaria particolare del presidente della Camera che fu al suo fianco sia nel Msi che in An nei lunghi anni in cui Fini guidò quel partito. La Marino è risultata determinante per sbloccare con procedura anomala un pagamento da 1,5 milioni di euro a De Vito Piscicelli per uno degli appalti per i mondiali di nuoto, quello per la realizzazione della piscina di Valco San Paolo, poi finita nel mirino della magistratura. La segretaria di Fini mostra nelle telefonate intercettate un’antica conoscenza con De Vito Piscicelli e si dà un gran da fare per sbloccare la sua pratica. Sono numerose le telefonate intercettate che dimostrano un intervento diretto della Marino con la ragioneria del Comune di Roma per sbloccare il pagamento privilegiato per l’imprenditore amico. Non è impresa da poco, anche perché i lavori per la piscina non sono stati fatti a regola d’arte: a un certo punto lo stesso imprenditore si accorse di una crepa nella struttura e cercò di porvi riparo come poteva. Il responsabile sicurezza del cantiere, Giampaolo Gandola, fu intercettato mentre confessava: “Non c’è un ponteggio a norma, non c’è proprio un c… Figlio mio, qui non andiamo in procuram, andiamo a Regina Coeli…”. Per pagare quei lavori la delibera prevedeva l’accensione di un mutuo (con erogazioni quindi rateali), lasciando solo 1,7 milioni di euro a disposizione della struttura commissariale dei mondiali presso il Comune di Roma per le urgenze. Grazie all’intervento decisivo della segretaria di Fini (è la stessa persona di fiducia che il presidente della Camera inviò a Montecarlo per dare un’occhiata prima della vendita all’appartamento poi finito in mano a Giancarlo Tulliani) al solo De Vito Piscicelli il 20 gennaio scorso fu erogato usando quei fondi un anticipo da 1,5 milioni di euro. Secondo le indagini degli acquirenti alla Marino certamente è stato dato per il disturbo in occasione del Natale un monile acquistato da De Vito Piscicelli alla gioielleria Bonanni di Roma. L’imprenditore fece a Natale scorso solo due regali di valore. Uno destinato ad Angelo Balducci e uno alla segretaria di Fini.
24.11.2009 ore 10.48
Centralino Camera dei Deputati
PISCICELLI:... Buongiorno signorina .. De Vito Piscicelli ... avevo chiesto della dottoressa Marino .... segreteria del presidente
MARINO:...pronto
PISCICELLI:...Rita buongiorno come sta?
MARINO:...buongiorno bene grazie ... ha ricevuto tutto?
PISCICELLI:...non ancora... non ancora
MARINO:...e va bè
PISCICELLI:...va bè ci vuole ancora qualche giorno
MARINO:...arriva arriva
PISCICELLI: ... senta dottoressa avevo bisogno di vederla un minuto per una cosa vitale ... di una cosa importante che le devo parlare
MARINO:...e io sono qua
PISCICELLI:...mi dica lei quando vengo a disturbarla ... domani mattina per lei va bene?
MARINO:...quando vuole
PISCICELLI:...allora domani alle ... 10 e mezza 11 va bene?
MARINO:...domani un attimo ... allora domani è 25 ... sì sì va benissimo
PISCICELLI:...allora alle 10 e mezza sono da lei ....
MARINO:...okay
PISCICELLI:...grazie sempre Rita .. buona giornata arrivederla
9 dicembre 2009
La mattina del 9 dicembre, l’ing. Enrico BENTIVOGLIO (RUP dei lavori di Valco San Paolo), seguendo certamente un procedura anomala, chiede a PISCICELLI come poter contattare il capo della segreteria del sindaco di Roma per conto dell’ing. Mauro DELLA GIOVAMPAOLA (…) PISCICELLI, compiacendosi dell’importante ruolo di collegamento che gli viene riconosciuto, ribatte che occorre prima fare un passaggio insieme a Mauro (DELLA GIOVAMPAOLA) presso Rita MARINO: “(sospiro, ndr) ... aspetta un momento ... un attimo solo ... eh ... (sospiro) ... vuole andare dal sindaco ... vuole andare ? …(…) … e dobbiamo andare un attimo...dobbiamo fare un passaggio diverso… mi devo mettere in attività subito ... prendere Mauro …(…) … prendere Mauro... dobbiamo andare da Rita MARINO e ... va be dai, mò mi organizzo già …(…) … va bene mi organizzo …
18 dicembre 2009
La mattina del 18 dicembre, PISCICELLI chiede alla sua segretaria Veronica se i regali di Natale sono pronti: “...Veronica …(…) … che abbiamo fatto poi con quei ... cosi di Natale lì ... è tutto pronto? Veronica risponde che quelli destinati a BALDUCCI (Angelo) e a Rita MARINO sono pronti sulla scrivania in ufficio ... allora quei due ... aspetti ... quello di BALDUCCI … (…)… e quello di … (...) … di Rita MARINO stanno sulla sua scrivania ….
23 dicembre 2009- Ore 13,55
Nel primo pomeriggio del 23 dicembre l’arch. Paolo ZINI rappresenta a PISCICELLI la necessità di sollecitare l’”amica”, facendo riferimento a Rita MARINO, in relazione allo sblocco dei pagamenti del SAL :”... senti ...come ... come ... come va? ... non glielo vuoi fare uno squilletto alla ... alla tua amica? …(…) … ma ha fatto qualcosa o no? PISCICELLI ribatte di aver visto la donna proprio il giorno prima “eh ma l'ho vista ieri… perchè a te che ti risulta?” L’arch. ZINI lascia intendere che ha riscontrato qualche ostacolo per cui ritiene opportuno fare un richiamo : “ no, mi risulta che c'è bisogno di uno squilletto …”PISCICELLI assicura che provvederà ad effettuare la richiesta chiamata. Effettivamente dopo qualche minuto PISCICELLI chiama la dr.ssa Rita MARINO
MARINO:... pronto
PISCICELLI:... Rita buongiorno
MARINO:... buongiorno
PISCICELLI:... io la disturbo ancora
MARINO:... no ... io ho telefonato ... m'hanno detto che se ne occupavano ... quindi insomma per ... come si era rimasti d'accordo ... fine anno
PISCICELLI:... entro l'anno ce lo fanno
Questa rassicurante notizia appena ricevuta, PISCICELLI alle ore 15.00 immediatamente successive, la riporta all’arch. Paolo ZINI : “ti volevo solo dire che ho riparlato con la signora … la quale mi dice che ha già avuto la chiamata di ritorno ... che l'altro ieri quando sono andato ha chiamato. Ieri ha chiamato lei e stamattina ha avuto la chiamata di ritorno e dice che entro fine anno, come promesso, verrà fatto … Ma tu hai avuto sentore negativo?”. L’arch. ZINI risponde che in ogni caso la sollecitazione non è superflua: “Sì, no, comunque serviva … serviva ... okay?
30.12.2009, ore 10.48,
ZINI:... eccomi
PISCICELLI:... io il messaggio l'ho avuto ieri però non ho ben capito che vuol dire
ZINI:... eh niente io ieri sono stato mezza giornata lì e ho preso... gli ho fatto fare... firmare, dire ... ho preso... ho mandato tutto al Comune... alla ragioneria
PISCICELLI:... ah!
ZINI:... Perchè come al solito ... se non gli stai sopra le cose non le fanno
PISCICELLI:... e quindi è andato in ragioneria
ZINI:... sì, però adesso bo! , niente... una bottarella ci vorrebbe
PISCICELLI:... gliela devo far dare?
ZINI:... eh sì ... sì, sì ... gli dici che le cose si erano fermate... arenate come al solito, nonostante tutto e che siamo riusciti a far mandare il pagamento in ragioneria
PISCICELLI:... secondo te se non rompo le palle a questa non si muove niente?
ZINI:... no, no, no... penso di no... penso di no ... sono gli ultimi due giorni ... non gli entra proprio niente in mente a nessuno
Immediatamente PISCICELLI cerca di mettersi in contatto con la dottoressa Rita MARINO . L’operatrice del centralino gli risponde che la dottoressa Marino non è rintracciabile
4 gennaio 2010
La mattina del 4 gennaio, PISCICELLI chiede all’arch. Paolo ZINI a chi si deve rivolgere per avere un sollecito pagamento del suo SAL : “ Volevo sapere se avevi qualche notizia o a chi mi potevo rivolgere …” Paolo ZINI ribatte di aver già investito della questione il dr. PAGLIARULO (della Ragioneria del comune di Roma (…) PISCICELLI, premettendo di aver interessato per la questione anche Rita MARINO, teme di creare una sorta di cortocircuito mettendo in campo altri soggetti per lo stesso scopo: “Ma non lo so se accavallare le cose adesso perchè c'era Rita pure che se n'era occupata, ti ricordi no? ... non lo so…va bo’”
11 gennaio 2010
La mattina dell’11 gennaio, sollecitata da PISCICELLI in merito al pagamento dello stato di avanzamento, la dr.ssa Rita MARINO riferisce che la questione si sbloccherà entro pochi giorni
PISCICELLI:...buongiorno signorina ... per cortesia la segreteria del presidente ..la dottoressa MARINO
Operatrice:...chi devo annunciare?
PISCICELLI:...Francesco De Vito Piscicelli ... (omissis)
MARINO:... pronto
PISCICELLI:... dottoressa buongiorno
MARINO:... sì, buongiorno, allora io ho parlato ... mi dicevano che c'era stato un ... un qualche cosa di cui si era bloccato... e che avevano bisogno ancora di qualche giorno
PISCICELLI:... eh, eh
MARINO:... quindi appena erano nelle condizioni avrebbero provveduto a saldare il tutto
PISCICELLI:... grazie mille
MARINO:... aspettiamo ancora un pò e vediamo cosa accade
PISCICELLI:... grazie Rita... arrivederci, grazie arrivederci
12 gennaio 2010
PISCICELLI, chiede all’ing. RINALDI di interessare anche il dr. LUCARELLI (Antonio), per fare in modo che gli venga pagata la sua fattura con un’anticipazione di cassa: “ senti Claudio ... tu secondo me devi parlare con LUCARELLI che peraltro mi conosce … m'ha conosciuto che mi mandò la segretaria di FINI lì, perchè devono fare….almeno solo per la fattura mia … un'anticipazione di cassa…”
PISCICELLI chiama GENTILE Vincenzo, amministratore unico della SIEME srl di Napoli, impresa sub-appaltatrice impegnata per i lavori della piscina di Valco San Paolo, per informarlo che sta per incassare 1.500.000 di euro come prima tranche su uno stato di avanzamento e tratteggia le difficoltà che ha dovuto superare per raggiungere questo risultato: “Ti rendi conto che veramente guarda il nostro lavoro veramente ... era tutto fatto, tutto pronto ... il mandato alla ragioneria del Comune di Roma mi chiama la mia amica (Rita MARINO ndr) della segreteria di Gianfranco (FINI ndr) e va be! ... dice ...
Alle ore 15.12 PISCICELLI riceve dalla dottoressa Rita MARINO la notizia che la questione del pagamento del SAL si sta evolvendo in senso favorevole ...
MARINO:...pronto
PISCICELLI:...Rita?
MARINO:...si
PISCICELLI:...Rita buongiorno è Francesco PISCICELLI
MARINO:...ingegnere no la stava cercando la segreteria di ALEMANNO
PISCICELLI:...si
MARINO:...perchè ... hanno sbloccato quella vicenda
PISCICELLI:...ah bene
MARINO:...e quindi però ... adesso io ho dato il numero a lei … la cercherà
PISCICELLI:...va bene perfetto ... grazie mille Rita
La Tulliani ci provò con il giornalismo. Ma la carriera finì perchè pizzicata a copiare
Immobiliarista, come tutto
il resto della famiglia, grazie alla Wind Rose International finita ora al
centro della battaglia legale con Luciano Gaucci. Avvocato dopo essersi laureata
in giurisprudenza, anche se ha esercitato la professione poco o nulla. Showgirl
grazie a qualche buona entratura in Rai, ma dopo qualche programma è finita
l’avventura lasciando nella tv di Stato spazi ben più redditizi al fratello
Giancarlo e a mamma Francesca. Fra le tante strade professionali tentate da
Elisabetta Tulliani ce ne è anche una che è finita quasi sul nascere: quella
della giornalista. Ne resta traccia fra l’estate e l’autunno del 2006
nell’archivio (che è anche on line) del quotidiano Il Tempo, all’epoca diretto
da Gaetano Pedullà. La
Tulliani desiderava, dopo l’iscrizione all’ordine degli
avvocati, anche quella all’ordine dei giornalisti, elenco pubblicisti. E iniziò
la collaborazione, specializzandosi in economia e finanza. Poi scrisse qualche
articolo di cronaca e perfino uno di politica, proprio quello su cui scivolò
scatenando perfino il cdr del quotidiano e dovendo infine interrompere la sua
collaborazione. La
Tulliani non scriveva in redazione (nessuno ne ricorda
l’assidua presenza), ma fra settembre e ottobre di quell’anno sfornò articoli a
ripetizione. Apparvero con la sua firma- necessaria per raggiungere l’agognato
tesserino da pubblicista- ma non sempre erano farina del suo sacco. L’11 ottobre
2006 apparve ad esempio su Il Tempo un articolo della Tulliani sull’inchiesta
delle Iene a proposito dei deputati che facevano uso di droga. Titolo:
“L’associazione Polo tecnico vuole sapere chi sono i pusher degli onorevoli-
Esposto alla procura di Roma per fare aprire un’inchiesta”. Il testo però è
identico, parola per parola, perfino nella punteggiatura, a un dispaccio
dell’Ansa delle 19.02 della sera precedente dal titolo “Droga: Iene; Polo
tecnico, esposto per permettere l’inchiesta”. Un piccolo plagio, perché senza un
minimo di editing redazionale sui giornali non si dovrebbe firmare con il
proprio nome il lavoro fatto da altri. Ma nessuno se ne accorse. Nonostante
l’incidente di quel giorno non fosse né il primo né l’ultimo: la Tulliani aveva il vizietto
di appropriarsi del lavoro altrui mettendovi impropriamente il suo timbro in
calce. Il 27 settembre stesso incidente
nella sezione economia del quotidiano romano. Articolo sull’indagine Ue per i
trasferimenti dello Stato italiano alle Poste. Il testo è firmato Elisabetta Tulliani, ma è identico,
senza modifica nemmeno della punteggiatura, al dispaccio Ansa delle 17,42 del
giorno precedente, siglato Cao. Anche in questo caso appropriazione del lavoro
altrui. Stesso incidente il 18 settembre 2006. Su Il Tempo esce un articolo
della Tulliani sullo sciopero degli avvocati contro il decreto Bersani sulle
liberalizzazioni. Lei- pur tentando la strada da giornalista- è già avvocato, e
la materia dovrebbe ispirarla. Ma nell’articolo pubblicato a sua firma non c’è
nemmeno un aggettivo scelto dalla giornalista in erba: si tratta come sempre
della copia precisa alla virgola del dispaccio Ansa delle 15,43 del 17
settembre, titolato “Competitività: avvocati, al via settimana di sciopero”,
siglato FH-NM. Un paio di giorni prima, il 15 settembre, solito metodo. Sul
Tempo è uscito a firma Tulliani il dispaccio dell’Ansa sulle acquisizioni di
Unipol mandato in rete alle 18,24 della
sera precedente. Stesse parole, stessa punteggiatura, ma diversa fatica:
la Tulliani
ha copiato solo metà del dispaccio Ansa. Poi ha messo un punto e l’articolo si è
interrotto sul più bello (o forse è uno scherzetto fattole in redazione). Cerca
che ti cerca, salta fuori anche un articolo della Tulliani di cui non si trova
traccia negli archivi delle varie agenzie di stampa. Potrebbe essere davvero un
Gronchi rosa, l’unico dove l’avvocato e futura compagna del presidente della
Camera potrebbe avere messo farina del suo sacco. E’ un articolo di politica,
fra l’analisi e il commento. I nomi sono diversi, ma se si cambiassero, potrebbe
essere scritto oggi. “Pierferdinando Casini è riuscito laddove neanche Prodi
sarebbe riuscito. E’ bastato il suo ennesimo attacco alla leadership di
Berlusconi per ricompattare Forza, An e Lega. Tutti contro l’Udc. Mercoledì a
Pesaro, parlando con i suoi prima di partecipare alle feste dell’Unità, il
leader dell’Udc non aveva usato metafore: ‘Non vogliamo vivere e morire con
Berlusconi’. Ieri- puntuali- sono arrivate le reazioni. Non quella di Silvio
Berlusconi che ha trascorso l’intera giornata insieme a Umberto Bossi in
Sardegna…”. Sembra una premonizione di quel che si vede. All’epoca Casini, ora
Fini. E in entrambi i casi Berlusconi e Bossi insieme a fine estate in una villa
del Cavaliere. Analisi politica perfino raffinata, quasi da fare dimenticare
l’evidente violazione del diritto d’autore fin lì perpetrata ai danni dei poveri
redattori dell’Ansa. Ma anche quella non
era farina del suo sacco. A distanza di anni resta ancora un giallo. Perché
quell’articolo era stato scritto da una delle prime firme interne de Il Tempo.
Ma fu pubblicato con la firma di Elisabetta Tulliani. Se ne accorse l’autore,
che protestò. Insorse il cdr chiedendo spiegazioni. La questione fu risolta
all’interno e da lì a poco fu staccata la spina alla fotocopiatrice Tulliani,
mettendo fine ai sogni da pubblicista. Nella redazione il caso avvelenò il
rapporto con il direttore, con un braccio di ferro che da lì a poco sarebbe
costato la poltrona a Pedullà, che si è rifatto conquistando la direzione di un
polo tv interregionale della famiglia
Caltagirone.
Sul balcone di casa Fini a Roma un'aquila fascista?
Questa è la foto pubblicata da Libero di uno dei terrazzini della casa di Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani a Roma. In grado di aprire un altro giallo. Presa con il tele-obiettivo l'aquila di legno che vi campeggia sulla parete sembra poggiare proprio su un fascio littorio. Come se i simboli rinnegati in pubblico dall'ex leader di An siano gelosamente custoditi in privato. Non ci sono dubbi invece sul busto bronzeo appoggiato alla balconata: non è quello di Benito Mussolini (anche se l'uomo bronzeo di cui si vede la nuca sembra privo di capigliatura)....
Berlusconi e Geronzi in lite per un parcheggio
A vederli insieme tutti
sorrisi, carinerie e complimenti nella recente cena a casa di Bruno Vespa,
nessuno l’avrebbe mai immaginato. Eppure Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi,
dopo anni di frequentazione, lavoro comune e perfino amicizia, sembrano lì a
litigare come due vicini di casa pronti a rinfacciarsi il regolamento
condominiale. E la lite è proprio un classico: per un parcheggio. Non che uno
abbia occupato il posto dell’altro senza averne diritto, ma l’occasione non è
dissimile. L’utilizzatore del parcheggio è Berlusconi, Geronzi è il
parcheggiatore. Il motivo della lite è proprio nella tariffa oraria applicata:
davanti al parcheggio c’era scritta una somma, alla cassa invece Geronzi ha
applicato una tariffa assai superiore. In casa Berlusconi qualcuno ha guardato
gli scontrini, se ne è accorto e adesso rivuole indietro la supertassa applicata
senza avviso. Detta così è semplice, ma l’affaire è assai più sostanzioso,
perché in ballo ci sono circa 300 mila euro. Quando infatti dovevano prendere
gli aerei privati a Linate, Berlusconi, familiari e manager del gruppo Fininvest
erano soliti parcheggiare nell’attiguo centro direzionale di Milano Due. Il
parcheggio è di proprietà della Generali Immobiliare sgr del gruppo Generali
presieduto proprio da Geronzi. Visto che ce ne era bisogno quasi ogni giorno, i
posti auto sono stati affittati per tutto l’anno dalla Silvio Air (Alba servizi
aerotrasporti). Arrivavano le fatture, e Silvio pagava. Fino al controllo: in
dieci anni Generali avrebbe addebitato 300 mila euro di troppo. Così il 24
febbraio scorso è stata spedita a Geronzi una lettera di formale contestazione:
“restituiscimi la tassa extra sul parcheggio”. E se a casa Vespa non si è
trovata l’intesa, qui si rischia la carta bollata…
L'anno prossimo sui cieli di Italia sfreccerà un Berlusconi bis
L’ultimo arrivato si chiama
Premier IA ed è negli hangar della Silvio Berlusconi Air Force dal 30 giugno
dell’anno scorso. E’ un Hawker 390 con la sigla I-GSAL, pagato 3,5 milioni di
euro e già utilizzato per spostamenti privati anche dal presidente del Consiglio
italiano. Ma fra un anno esatto arriverà il Berlusconi bis dei cieli italiani.
Si chiamerà Hawker Premier II, è già stato opzionato da una caparra pagata e
secondo gli accordi verrà pagato 7,3 milioni di dollari. Chissà se dal volo si
avrà una indicazione politica, se quel passaggio dal Premier IA al Premier II
sia anche premonizione di rimpasti, di governi bis di cui sta tanto
chiacchierando la politica italiana. Certo è un profondo rimpasto aereonautico
quello che emerge dal bilancio 2009 di Alba servizi Aerotrasporti spa, la
società controllata da Fininvest che gestisce i viaggi su aerei privati di
azionisti e manager del gruppo di comunicazioni e che da sempre trasporta Silvio
Berlusconi via terra e via mare. Il rimpasto si è reso possibile grazie al
riscatto dal leasing e alla successiva vendita sul mercato a terzi (di cui viene
celata l’identità) dell’aereo più imponente della flotta, un Airbus A319 che era
stato la vera dannazione della piccola compagnia aerea berlusconiana. Nel 2008
aveva subito anche un danno rilevante, prontamente rimborsato dalla compagnia
assicuratrice. Ora che è stato venduto la società ha potuto realizzare una
discreta plusvalenza, mettere un po’ più in ordine i conti finanziari che non
brillavano (e comunque il 2009 si è chiuso ancora in perdita per 6,3 milioni di
euro) e puntare su nuovi acquisti per la
Air Silvio. E’ arrivato nella seconda parte
dello scorso anno il Premier IA (il nome è dato dalla Hawker che lo produce, ma
certo è evocativo) ed è stata già presa la decisione di mettere in flotta nella
seconda parte del 2011 il Premier II, un
vero e proprio gioiellino tecnologico. Non è l’unica novità. Perché il 28
gennaio scorso è entrato in flotta anche un Bombardier Challenger 604, vecchia
conoscenza dell’Alba servizi aerotrasporti spa. Il velivolo era di proprietà
della Airviaggi San Raffaele, la compagnia dell’omonima società di don Luigi
Verzè, che ha ottenuto da tempo l’abilitazione all’attività di elisoccorso in
convenzione con la Regione Lombardia.
Con il Bombardier l’elisoccorso c’entrava poco, perché è un piccolo aereo per
trasporto privato di persone. Ha un bel salottino a bordo e può portare 9-10
persone su viaggi non troppo lunghi. La manutenzione veniva fatta dalla società
di Berlusconi, che ora ne ha acquisito la proprietà e ne curerà l’esercizio
portando a bordo come cliente anche don Verzè o qualcuno dei suoi manager e
ospiti. Per questo l’Alba ha dovuto stanziare non poche risorse destinate a un
corso di addestramento piloti, perché la propria squadra non era abituata al
Bombardier.
Negli hangar di Silvio si è
fermato per la manutenzione e qualche piccolo ritocco anche l’aereo privato di
Miuccia Prada, di proprietà della sua Prada Company s.a. Il resto della
clientela è invece tutto interno alla famiglia Berlusconi e alle società del
gruppo Fininvest. Fra i creditori figurano infatti Mediolanum (395.018 euro),
Reti televisive italiane (278.762 euro), Mediaset (228.430 euro) e Publitalia
(210.056 euro).
Da oggi è invece in mare
anche la nuova barca di Pier Silvio Berlusconi. Si
tratta di un Custom Line da 124 piedi (37 metri ) costruito ad
Ancona dai cantieri Ferretti, scafo che sostituisce il precedente modello di cui
era proprietario, un 97
piedi (30 metri ) sempre Custom Line,
riacquistato dal Gruppo Ferretti. Secondo notizie di agenzia il prezzo finale
dell'imbarcazione è stato fissato tra 5 e 6 milioni di euro, un terzo rispetto
alle prime indiscrezioni che avevano già suscitato polemiche politiche. La cifra
infatti tiene conto sia dello scambio con il vecchio modello che del contributo
al progetto del prototipo fornito direttamente da Pier Silvio. L’ha disegnato in
parte lui, è piaciuto al produttore, e così al primogenito del premier finiranno
anche tutte le royalties sui modelli venduti a terzi. Il nome della nuova barca
resterà lo stesso di quella restituita:
Suegno.
Come gli zombie... I partiti che erano sciolti e già morti, resuscitano e ci portano via 85 milioni di euro
E’ come in quei film in cui
il caro estinto all’improvviso si sveglia, scopre di essere vivo e balza fuori
dalla bara sano come un pesce. Come gli zombie, come nel ritorno dei morti viventi
fra qualche giorno a luglio resusciteranno partiti politici di cui spesso ci si
era scordata l’esistenza. E con loro perfino quelli di cui in pompa magna si
era celebrato da tempo il funerale. Tutti pronti a correre con il cappello in
mano all’ufficio tesoreria dei due rami del Parlamento. E riscuotere insieme un
maxi assegno da 85 milioni di euro, gentilmente offerto da ignari contribuenti
italiani. Poverini, loro sui giornali si leggono in queste settimane di lite e
dispettucci fra chi vuole le correnti Pdl e chi le vede invece come fumo negli
occhi. Altro che correnti, però! Nel partitone fondato da Silvio Berlusconi ci
sono ancora due veri e propri cicloni: Forza Italia e Alleanza Nazionale. Li
avevamo dati per morti entrambi, e invece fra pochi giorni usciranno entrambi
dalla tomba per mettersi in tasca un assegnone uno da 25,7 milioni di euro e
l’altro da 13,1 milioni di euro. Spunterà perfino una sigletta di cui ci si era
ormai dimenticati: la Casa
delle libertà. Con il vestitino di Cdl Trentino riscuoterà 280 mila euro. Il
solito trattamento di favore per i cari estinti del governo? Macchè, gli zombie
stanno per saltare fuori anche dalle fila dell’opposizione. Si materializzerà
perfino quel fantasma di Romano Prodi che appena appare fa venire uno
stranguglione sia all’attuale segretario del Pd, Pierluigi Bersani che al suo
predecessore, Walter Veltroni. Perché dalla tomba sta per uscire nientemeno che
l’Ulivo. Passerà alla cassa per ritirare un assegno da 16,1 milioni di euro. E
sarà in buona compagnia, perché per la
manina terrà uno zombino, “Insieme con l’Unione” pronto a riscuotere un milione
e 677 mila euro. A sinistra c’è addirittura da organizzare un festival del caro
estinto. Perché oggi c’è il Pd, nato sulle ceneri dei Ds e della Margherita di
Francesco Rutelli, con qualche mozzicone verde, qualche altro socialista e le
intere truppe dei radicali. Dopo essere nato ha già divorziato da una parte di
se stesso: Rutelli ha preso il volo e fondato l’Api, già tonificata dai
rimborsi elettorali per le ultime regionali. Ma sotto la cenere c’è una
moltitudine di morti viventi che sta per svegliarsi. Defunti i Ds? Noo. Sono
morti che camminano e stanno per andare a incassare dal popolo italiano un
assegnone da 9,3 milioni di euro. Defunta la Margherita ? E chi l’ha
detto? E’ solo sciolto quel partito. Ma esiste ancora e sta per prendersi un
maxi-contributo da 6,1 milioni di euro. E radicali e socialisti? Un tempo si
fusero insieme e diventarono la
Rosa nel pugno, formazione politica tragicamente defunta ai
suoi primi passi. Niente lacrime: risorgerà a luglio per prendersi il milione e
331 mila euro a cui ha ancora diritto. I verdi? Qualcuno di loro si è riciclato
nel Pd, gli altri sono a spasso non più rappresentati in Parlamento. Morti però
no: li tiene in vita un assegnone lì pronto ad essere sventolato, e sono ancora
un milione e 54 mila euro.
Vi ricordate ancora di Fausto
Bertinotti e del suo erede alla guida di Rifondazione comunista? No? Niente
paura: loro si ricordano ancora di voi e del buon cuore di tutti i contribuenti
italiani. Perché se l’avete dimenticato, fra pochi giorni girerete a
Rifondazione comunista un bonifico da 6,98 milioni di euro. E siccome Oliviero
Diliberto è scomparso più di loro, ma un po’ di invidia ancora la coltiva,
passerà anche lui alla cassa. I suoi comunisti italiani hanno ancora diritto a
mettere le mani su un piatto ricco dove troveranno un milione e 188 mila euro.
Poco più di quelli restati per il povero Clemente Mastella che fosse stato per
lui mai avrebbe celebrato il funerale della sua Udeur. Buone notizie: ha ancora
da riscuotere un milione e 91 mila euro e l’estrema unzione può essere ancora
rimandata.
Per fare 85 milioni- tutti
sottratti alle tasche degli italiani nell’assoluto disinteresse di chi ha
firmato la finanziaria del gran rigore- manca ancora qualche mancia che
gentilmente bisogna offrire a mini-sigle forse nemmeno notate sui palcoscenici
della politica. Ha diritto a 366 mila euro l’Unione estero. Poco più di quei
316 mila euro che finiranno nelle tasche dell’Unione-Svp. mancano all’appello
113 mila euro della Lista consumatori, altri 77 mila euro destinati al
movimento politico “Per l’Italia-Tremaglia” che fa quasi rima e i poco meno di
34 mila euro dovuti a Forza Italia-An Valle D’Aosta, primo esperimento in
laboratorio alpino di quel sarebbe diventato il Pdl. Tutti morti, ma con le
tasche più vive che mai.
Compagni, non c'è un euvo. Così anche Rifondazione dà un calcio ai suoi lavoratori. Licenziati
Compagni, non c’è più un euvo e quindi ve ne andate a casa. Proprio nel giorno in cui investiva gli ultimi spiccioli per una paginata di pubblicità a favore della Fiom di Pomigliano con lo slogan “gli operai non si piegano” Rifondazione comunista e il suo segretario Paolo Ferrero hanno dato la triste notizia agli operai di casa propria. L’hanno dovuta leggere su Liberazione, quotidiano del partito che ieri ha ospitato la pubblicazione del bilancio 2009 firmata dal tesoriere di Rifondazione, Sergio Boccadutri. Lì, fra le pieghe della relazione hanno trovato prima una notizia buona che ha acceso le speranze di tutti: gli eredi di Fausto Bertinotti hanno ancora da riscuotere a luglio un rimborso elettorale da 6,5 milioni di euro. Subito dopo è arrivata la notizia cattiva: quelli sono gli ultimi soldi che arriveranno in cassa, e in pratica sono già tutti spesi prima ancora di riceverli. Ed ecco la doccia ghiacciata: “nel corso dell’anno 2010 e successivamente si dovrà operare una riduzione dei costi per la gestione della direzione del Partito della Rifondazione comunista che colpirà gravosamente sia il personale che la gestione corrente e l’iniziativa politica”. Certo, finiti i rimborsi pubblici e nell’attesa di potere partecipare a qualche altra campagna elettorale (solo però in caso di scioglimento anticipato della legislatura) Ferrero e soci cercheranno risorse aggiuntive bussando a qualche buon cuore. Ma non si sognino i dipendenti che quei soldi vadano a loro evitando qualche licenziamento! Mica siamo in Fiat con Sergio Marchionne che salva posti di lavoro chiedendo solo di produrre un po’ di più. “La ricerca di ulteriori risorse”, scrive il tesoriere di Rifondazione, “non sarà destinata a un minore impatto per questa riduzione, ma sarà necessaria al mantenimento in vita del Partito stesso nel prossimo triennio”. Niente illusioni per i i 79 dipendenti del partito che stanno per essere messi in libertà.
Preparate i telescherni. Ora Fini vuole lanciare la sua tv, zeppa di storia e cultura
Il progetto è ambizioso, e i
consulenti chiamati al capezzale anche. Gianfranco Fini ha deciso di
trasformare il canale satellitare della Camera dei deputati in una vera e
propria televisione, che non si limiti a trasmettere le sedute di aula e
commissioni di Montecitorio. Un po’ sulla piattaforme satellitari (quella di
Sky ma anche quella nuova Rai-Mediaset), un po’ sul canale web, sta prendendo
forma la nuova Fini-tv. Nel progetto di bilancio per il 2010 che sta per essere
approvato dalla Camera dei deputati viene definita così: “lo sviluppo del
palinsesto del canale satellitare è funzionale all’ampliamento dei contenuti
dell’informazione relativa ai lavori parlamentari. Ciò mediante al costruzione
di un palinsesto organico che preveda trasmissioni anche nelle ore serali, nel
fine settimana e nei periodi di sospensione dei lavori, mediante la produzione
di contenuti aggiuntivi rispetto alle sedute e agli eventi, quali,
esemplificativamente, documentari storico culturali, programmi da studio,
sintesi dei lavori parlamentari, filmati divulgativi da utilizzare anche sugli
altri canali di diffusione delle informazioni”. Secondo quanto risulta a Libero
per il momento la Camera si è limitata ad accordi con produttori terzi,
stringendo intese con Rai-teche e con l’Istituto Luce per acquisire documentari
storici, artistici e culturali da loro posseduti da trasmettere durante i week
end e nei momenti di pausa dai lavori parlamentari (quindi nella parte più
rilevante del palinsesto annuale). Sono stati presi poi contatti diretti con
l’ex direttore Rai Giovanni Minoli, appena andato in pensione dall’azienda ma
restato alla guida della struttura che si occupa delle celebrazioni per i 150
anni dell’Unità di Italia. Con Minoli, che è stato prodigo di suggerimenti
sullo sviluppo della Fini tv la Camera ha già immaginato di dedicare una parte
della sua programmazione sia satellitare che web proprio alla trasmissione di
produzioni Rai legate a Italia 1961, il centenario dell’Unità. Un terzo filone
utile alla costruzione del nuovo palinsesto sarà quello di una sorta di baratto
con altri produttori televisivi e cinematografici. La Camera darà il suo
benestare a girare film e documentari al proprio interno solo se in cambio i
produttori ne daranno il diritto di trasmissione sul proprio canale televisivo.
Naturalmente non si tratta di un diritto di prima scelta (fiction e documentari
andranno prima in onda sui canali generalisti e poi su quelli tematici come di
consueto), ma sulla Fini tv potranno andare in onda- ad esempio- documentari
come quello recentemente girato sull’architetto Ernesto Basile o fiction di
grido come quella girata non molto tempo fa negli “studios” reali di Montecitorio
sulla vita di Alcide De Gasperi (interpretato magistralmente dal neo “compagno”
Fabrizio Gifuni, figluio del più potente segretario generale del Quirinale di
questi decenni). Per la produzione in proprio- ipotizzata nel piano allegato al
bilancio della Camera- non ci sono al momento le forze e le professionalità
necessarie. Però nel 2009 sono stati terminati i lavori per l’allestimento di
uno studio di registrazione alle spalle dell’aula destinato proprio alla
Fini-tv. Utilizzando l’ufficio stampa verranno auto-prodotti “programmi da
studio” di taglio giornalistico, ad esempio mini talk show e brevi interviste
con i parlamentari, che verranno poi offerti gratuitamente ad altre reti
pubbliche e private.
A Napoli c'è un cardinale che si è perso nel bosco...
C’è anche un bosco, e che
bosco, fra le proprietà immobiliari della Archidiocesi di Napoli ora guidata
dal cardinale Crescenzio Sepe. Una distesa di 17 ettari alle porte
della città partenopea che secondo disposizione testamentaria del benefattore
debbono appartenere non alla archidiocesi, ma al’arcivescovo pro tempore della
Archidiocesi di Napoli. E così avviene: appartenevano a Michele Giordano, ora
quegli ettari sono divenuti proprietà pro tempore del cardinale Sepe. Sarà
anche per questo che il porporato non sentirà troppa nostalgia dell’epoca in
cui stava al vertice della Congregazione di Propaganda Fide, da cui lo rimosse
proprio l’attuale Papa Benedetto XVI promuovendolo arcivescovo della sua
amatissima Napoli. Da papa Rosso il cardinale che organizzò alla perfezione il
grande Giubileo del 2000 vegliava su un patrimonio immobiliare di 761
fabbricati e 445 terreni. Ma con quelle distese, è chiaro, qualcosa poteva ben
sfuggire anche all’occhio di un amministratore attento come Sepe. Provocando i
guai che ora si vedono emergere dalle inchieste della procura di Perugia sulla
cricca degli appalti. A Napoli no, l’occhio può vigilare con più attenzione,
mettere a reddito e fare funzionare in modo oculato. Ma anche nella nuova
avventura il mattone a Sepe non è mancato. La sua archidiocesi di Napoli
direttamente o indirettamente (anche attraverso il locale istituto per il
sostentamento del clero), controlla 138 fabbricati e 47 terreni, compreso quel
bel bosco che in qualche modo è destinato alle passeggiate dell’arcivescovo.
C’è un po’ di tutto: sedi di istituti religiosi, conventi, case parrocchiali,
uffici, esercizi commerciali e anche abitazioni vere e proprie messe a reddito
con inquilini estranei alla curia. Grazie alla propria squadra di consulenti
portata con sé il cardinale Sepe è riuscito a mettere ordine alle finanze di
curia e a fare fruttare quel patrimonio immobiliare che era in alcuni casi non
censito e assai trascurato. Ha trovato così risorse necessarie alle nuove
iniziative lanciate dalla curia. La prima è stata la creazione di una sorta di
finanziaria di mutuo soccorso. Si chiama Fondo spes, è stato creato in
collaborazione con Unicredit bank e il Confidi Pmi Campania ed opera sul
modello di una finanziaria per il microcredito. Concede- senza chiedere alcun
tipo di garanzia patrimoniale- prestiti entro i 20 mila euro per avviare o
riconvertire iniziative imprenditoriali o commerciali e riuscire così a
superare i morsi stretti della crisi finanziaria. Ha già ottenuto qualche
successo soprattutto fra i commercianti di Napoli. L’altra iniziativa è ancora
tutta da creare. Ma le fondamenta sono già state poste fra la fine del 2009 e
la primavera del 2010. E’ stato allora che Sepe ha dato i natali alla Verbum
ferens srl, società controllata dall’arcivescovado che ha intenzione di farne
la propria holding in campo editoriale. A febbraio scorso ha chiesto e ottenuto
dall’Autorità di garanzia nelle comunicazioni l’iscrizione nel Roc, il registro
degli operatori della comunicazione. L’ok è arrivato il 18 febbraio scorso dal
direttore del servizio ispettivo e di registro della sede napoletana della
autorità, Nicola Sansalone. La
Verbum ferens è diventata così attiva, ma per il momento il
piano di sviluppo resta riservato. Nel suo oggetto sociale c’è per altro la
comunicazione (il Verbo da portare) a 360 gradi. La società infatti ha diritto
alla “pubblicazione, distribuzione e commercio di libri, riviste e periodici di
qualunque tipo e specie, sia in lingua italiana che in lingua straniera;
l’attività tipografica; l’esercizio e la gestione di reti radiofoniche e
televisive e la gestione di agenzia di stampa e/o di concessionarie di
pubblicità”.
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