Lette e rilette le pagine di Woodcock, mi sono convinto: faccio parte della P4

 
Lette e rilette tutte le centinaia di pagine di Henry John Woodcock sulla nuova inchiesta che fa tremare il mondo, ho una certezza: faccio parte della P4 e forse ne ero pure ignaro. Non c’è un nome di quelli citati, compulsati, interrogati, indagati e perfino arrestati in questi mesi che io non conosca. Di più: sono stato al telefono con molti di loro, con qualcuno a pranzo, con altri a cena. Ho avuto colloqui clandestini davanti alla Libreria Feltrinelli in Galleria Alberto Sordi, anche perche per anni ho lavorato in giornali che avevano la sede lì. Conosco il capo della P4, Luigi Bisignani almeno dalla fine degli anni Ottanta. Gli ho parlato decine di volte. Ho preso aperitivi, caffè e fatto chiacchiere, tante chiacchiere con lui. E’ molto simpatico. Ho conosciuto Alfonso Papa invitato a pranzo dalla compianta donna Maria Angiolillo nel giardino dell’hotel Hassler. Con noi di volta in volta c’erano altri, magistrati, politici, imprenditori e giornalisti. Qualcuno in primo piano fra le carte della P4. A qualcun altro i magistrati non sono ancora arrivati, e quindi taccio perché è giusto che Woodcock e compagnia si sudino il loro bel lavoro. Conosco Gianni Letta, l’ho incontrato ben più di una volta fuori e dentro il palazzo. Con ingenuità ho perfino pensato di potere avere da lui qualche primizia. Ma è come spremere un sasso: impossibile. Conosco seconde e terzae fila di quella P4. Tutti. E quindi per forza ci sono dentro fino al collo. Mi consola un solo fatto: nella mia situazione ce ne sono almeno qualche altro centinaio che i pm segugi non hanno ancora pizzicato. Bisognerà fare una retata. Portare a Napoli per la gioia di Umberto Bossi mezzo palazzo e tutti i suoi dintorni, altro che ministeri via da Roma.
Sono nato a Torino, ma quando nel 1990 il lavoro mi ha portato a Roma ho capito che fare il giornalista qui è cosa del tutto diversa. Nella capitale anche i muri hanno relazioni, parlano, e sanno tutto di tutti. Le notizie circolano come il vento. Ad ogni angolo trovi uno che la sa lunga, che dopo due minuti ti dice “amico mio”, lascia cadere con sicurezza segreti inconfessabili, gossip comprovati. Il vero problema è che siccome tutti sono così, è difficile distinguere. Non si sa mai se una notizia sia vera o solo una leggenda metropolitana che gira di bocca in bocca nel palazzo. Basta che uno sussurri “vogliono arrestare tizio”, “c’è una inchiesta su Caio” che il vento si gonfia e diviene tempesta. Passa di bocca in bocca, si arricchisce di certezze e particolari. Magari non è vero nulla di nulla. Magari solo il dieci per cento. Così è difficilissimo fare il mestiere di giornalista. Si può inciampare in castronerie assolute. Ma avere la notizia, l’indiscrezione anche fasulla, fa gonfiare il petto a tanti e li fa sentire importanti. Ho conosciuto – e stanno in questa P4- personaggi che erano ritenuti misteriosi custodi di grandissimi segreti. E invece si inventavano quasi tutto, come ogni verifica seria dimostrava. Ma vallo a spiegare agli altri.
A Roma parlano tutti, fra amici. Anche i più alti magistrati. Quasi due decenni fa- era il 1993. una sera di fine agosto andai a cena a casa di una delle persone citate nell’inchiesta (non è Bisignani), di cui ero amico. C’erano altri invitati, e fra loro importanti magistrati della procura di Roma. Chi mi invitò non li avvisò che ero un giornalista. E io tacqui per ascoltarli. Raccontarono cose incredibili, che facevano parte della loro inchiesta. Avevano sequestrato delle cassette di sicurezza, trovato i fondi neri del Sisde, la lista dei ministri dell’Interno (tutti meno uno- Amintore Fanfani) che li avevano presi. Uno di loro- Oscar Luigi Scalfaro- in quel momento era al Quirinale. A me non sfuggì. Le fonti erano autorevoli, il giorno dopo scrissi tutto quel che avevo sentito. Titolammo “scoppia il caso dei fondi neri Sisde”. Nessun giornale riprese la notizia. Ma il Quirinale- che capì, smentì il giornale da poco nato per cui scrivevo. E lo fece dopo sei ore di riunione anche la procura di Roma. Era vero tutto, e il caso sarebbe scoppiato 25 giorni dopo quando fu interrogato un agente del Sisde deviato. Così sarebbe accaduto decine di altre volte in quella casa o in altre, davanti a un aperitivo al bar o in un tavolo di ristorante. Perché a Roma le notizie circolano così. Bisognerà arrestarci tutti
ps. la foto sopra dimostra tutto: un po' sfocata, ma è il Bisignani  di oggi (non di 20 anni fa come vedete su tutti i giornali) insieme a chi scrive. Poco più di un mese fa...

Sòla o censura? Repubblica non pubblica lo scoop dell'Espresso

Cerca e ricerca, sfoglia e risfoglia. Nulla. Su Repubblica di oggi non si trova nemmeno un rigo sulle vicende pugliesi dell'Italia dei bollori. Eppure la notizia del giorno prima, di una denuncia per ricatti sessuali a due alti esponenti del partito di Antonio Di Pietro, l'aveva anticipata alle agenzie il settimanale L'Espresso, fratello gemello del quotidiano diretto da Ezio Mauro. Delle due l'una: o la favoletta delle notizie che vanno comunque date è appunto una favoletta anche in casa Mauro, o la scelta del silenzio è un atto di sfiducia palese a L'Espresso: la notizia non è stata pubblicata perchè ritenuta- come si dice a Roma, 'na sòla...

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In campagna elettorale la notizia deve essere sfuggita ai torinesi che pure hanno votato plebiscitariamente Piero Fassino come sindaco del capoluogo subalpino. Ma a ben scorrere fra gli annunci economici de La Stampa il primo atto del sindaco di Torino non è di quelli che fanno gongolare i cittadini: un bando di gara triennale dell'importo di 12,9 milioni di euro per affidare i servizi di "notificazione e archiviazione delle violazioni al codice della strada", e cioè le multe. Quel che probabilmente può suscitare qualche fischio (tanto Fassino ormai è stato eletto) è contenuto nel disciplinare di gara pubblicato per esteso sul sito del Comune di Torino. Al punto 3.2 del contratto proposto si trova scritto: "La civica amministrazione si impegna a richiedere nel triennio, un quantitativo minimo di notifiche pari a n. 1.000.000". Ah, bei tempi quelli in cui uno si faceva eleggere promettendo un milione di posti di lavoro. Fassino non ha nemmeno chiesto, ma una volta eletto si è già impegnato: un milione di multe per tutti...

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Che l'inchiesta sulla presunta P4 del pm John Woodcock fosse un po' traballante e appiccicaticcia si è ben compreso dalla scure calata dal gip che ne ha fatta buttare via più della metà. Ma che qualcosa fosse stato fatto fin troppo frettolosamente era ben noto anche al procuratore capo di Napoli, Giovandomenico Lepore. Un paio di mesi fa i suoi pm erano pronti a inserire nei capi di accusa verso Luigi Bisignani anche quello di avere condizionato e addirittura diretto l'attuale ministro della pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini. In una telefonata intercettata fra i due infatti sembrava che Bisignani le desse ordini imperativi: "se fai così non ti accadrà nulla". Siccome l'episodio non riusciva ad avere controprova, su richiesta della difesa accolta da Lepore, sono stati riascoltati i nastri originari della intercettazione un po' frettolosamente trascritti. Ed è saltata fuori la verità. La Gelmini doveva andare a inaugurare un asilo nido a San Donato milanese, all'Eni. La sua scorta l'aveva avvisata che forse qualcuno stava preparando una contestazione pubblica per strada. Per un asilo nido il ministro non voleva affrontare polemiche e paginate di giornali. Così ha telefonato al suo amico Bisignani: "conosci qualcuno all'Eni per sapere se è vero che ci sono contestatori sulla strada". Bisignani ha chiamato ed è stato messo in contatto con la vigilanza dello stabilimento, che ha guardato la strada d'accesso sul retro dello stabilimento e ha visto che era sgombra: nessun contestatore. Richiamata la Gelmini è stato spiegato alla scorta quale strada fare per giungere all'asilo nido. E al ministro Bisignani ha chiosato: "se fai così non ti accadrà nulla". Solo grazie allo scrupolo di Lepore così fra le accuse rivolte a Bisignani non si è unita quella di avere diretto con la P4 anche il ministero della Pubblica istruzione...

Rai, via Santoro crolla il cavallo. Lei pronta ad abbattere la sede di viale Mazzini, cercasi disperatamente nuovopalazzo

La Rai si prepara a traslocare dalla sua sede centrale in viale Mazzini 14 a Roma, quella di fronte alla quale svetta il celebre cavallo scolpito da Francesco Messina. Il palazzo dove hanno sede il presidente Paolo Garimberti, il direttore generale Lorenza Lei, il consiglio di amministrazione, le direzioni di reti e strutture e in tutto lavorano 1.500 dipendenti, non può più essere utilizzato per motivi sanitari. E’ stato costruito con ampio uso di amianto, e costerebbe troppo bonificarlo. Per questo la Rai sta cercando un’altra sede. E questa settimana ha pubblicato su alcuni quotidiani l’avviso per una indagine di mercato con invito ad offrire in vendita immobili nella zona Nord del comune di Roma. La richiesta è quella di inviare all’azienda “manifestazioni di interesse alla cessione di immobili e/o terreni con diritti edificativi con destinazione uffici”. Servono immobili con “superficie lorda totale ricompresa fra 20 mila mq e 60 mila mq”, con “localizzazione nel comune di Roma in particolare nei municipi II (Flaminio, Parioli, Pinciano, Trieste), IV (Montesacro), XVII (Prati, Borgo Pio), XIX (Aurelio, Trionfale, Primavalle) e XX (Della Vittoria, Tor di Quinto)”, e cioè a Roma Nord. La richiesta preferenziale è per un immobile a Prati, ma siccome non è semplice avere quelle cubature in zona, la ricerca si è estesa. Le offerte dovranno essere inviate alla direzioni acquisti e servizi della Rai presso l’ufficio ricezioni e spedizioni di via Pasubio 7 in busta chiusa e indicazione del mittente e dell’oggetto della missiva. Siccome non sarà né facile né rapido trovare una nuova sede centrale già utilizzabile, la Rai si è preparata una soluzione temporanea che comporterà un robusto trasloco in più parti della città. Mentre si cerca un nuovo palazzo, intanto la direzione generale sta trattando per la vendita della sede attuale in viale Mazzini. Naturalmente anche l’acquirente avrà il problema dell’amianto, ma non quello di piazzare 1.500 persone che già lavorano lì. Dovrà abbattere il palazzo, ma avrà diritto a ricostruirne uno della stessa cubatura e destinazione di uso per cui ha già i diritti. Nel frattempo si cercherà una sistemazione per alti vertici e dipendenti della sede di viale Mazzini della Rai. Si era pensato a un trasferimento di tutti in una nuova palazzina a Saxa Rubra dove hanno sede i telegiornali e molti studi di trasmissione delle reti, ma il Comune di Roma non concede le licenze per la cubatura necessaria. Un po’ di capienza c’è, ma non posto per accogliere tutti. Così l’intenzione è quella di compiere un grande riassetto nelle sedi.
Il consiglio di amministrazione, il direttore generale e le strutture di direzione Rai saranno spostati temporaneamente, finchè non sarà pronta la nuova sede centrale, nella attuale sede del centro di produzione radio di via Asiago. Una parte delle strutture radio (non è ancora chiaro se sarà una o più reti o alcune strutture trasversali alle reti più gli studi di registrazione di alcune trasmissioni) sarà trasferita a Saxa Rubra, presumibilmente fra le proteste.
Il risiko immobiliare che partirà con la ricerca della nuova sede centrale della Rai (e chissà se si potrà avere ancora il cavallo di Messina di fronte all’entrata) non sarà l’unico atto di quello che la tv pubblica chiama “un programma di razionalizzazione e efficientamento delle proprie strutture direzionali e produttive sul territorio di Roma”. Fra l’altro la Rai cercherà di definire la destinazione degli studi di produzione in affitto dalla Dear in via Romagnosi. L’ipotesi più probabile è quella dell’acquisto della struttura.

La sfuriata di Giulio a Silvio: mi hai fatto spiare


Lo scontro è avvenuto in un faccia a faccia, lunedì all’ora di pranzo ad Arcore. In quel momento nella residenza del premier c’era anche Umberto Bossi, ma non era nella stanza in cui solo Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti per pochi minuti si sono guardati negli occhi. E’ stato il ministro dell’Economia ad avere uno scatto di nervi come mai è avvenuto in 17 anni di rapporto fra i due. E’ stato uno scatto violento, che ha scosso Berlusconi e che ancora 24 ore dopo faceva sentire i suoi effetti. Martedì il cavaliere lo ha raccontato ad almeno tre interlocutori incontrati in giornata. Da loro abbiamo raccolto la versione che collima in ogni particolare su quel che sarebbe accaduto in quella stanza. “Tu mi hai fatto spiare!”, ha sibilato il ministro dell’Economia davanti a un Berlusconi esterrefatto. “Hai messo i servizi segreti alle mie calcagna!”, ha proseguito Tremonti mentre l’interlocutore restava sbacalito, biascicando un “ma cosa stai dicendo?”. Minuti di gelo, terribile, cui sono seguite parole assai grosse, anche minacciose. Una sorpresa, perché se sono mille e poi mille i testimoni degli sfoghi del premier su Tremonti e del ministro dell’Economia su Berlusconi, i due non si sono mai affrontati a muso duro una volta messi di fronte. Anzi, è sempre stato un “Giulio sei un campione!”, seguito “ma Silvio, figurati!”. Riferiscono collaboratori e amici che Tremonti da qualche settimana fosse assai più nervoso del solito, ed è effettivamente è sbottato in sfuriate a cui non erano abituati interlocutori di lungo corso. Il nervosismo era giustificato dalla delicatezza del momento politico ed economico e anche dagli evidenti contrasti con il premier, accompagnati per la prima volta da una certa freddezza fra i vecchi amici della Lega Nord.
Lunedì, nell’istante topico dello scontro è entrato in stanza anche Bossi, che era arrivato ad Arcore insieme a Tremonti. Ha sentito qualcosa e provato subito a stemperare le tensioni. Poi per fortuna sono giunti in villa gli altri ospiti attesi e sia pure in un clima surreale è iniziata la riunione di cui abbiamo riferito ieri su Libero. Riunione assai affollata, e poi c’era la festa dei carabinieri ad attendere gran parte degli invitati a Roma, in piazza di Siena. Così si è reso necessario un secondo round, nella notte fra martedì e mercoledì. Il clima è stato quello immaginabile, eppure chi ha sentito ieri il cavaliere non lo ha più trovato sotto choc, anzi. Probabilmente come accade negli scatti d’ira, quel che si sono detti Berlusconi e Tremonti lunedì non ha più avuto seguito. Quando si sono nuovamente incontrati- non più a quattr’occhi- hanno fatto come nulla fosse avvenuto. Ma il contrasto non è venuto meno. Questa volta sui contenuti della manovra economica. Tremonti non si è mai spostato di un millimetro: bisogna varare subito i tagli da 40 miliardi in tre anni approvando la manovra prima dell’Ecofin dell’ultima settimana di giugno. La riforma del fisco? Solo per legge delega, meglio se a settembre. Berlusconi ha chiesto di non esagerare con la correzione sul 2011, e di spostare la manovra triennale 2012-2014 quasi tutta sul terzo anno. Si è ipotizzato di spalmare i 40 miliardi così: 5-5 e 30 finali. Il cavaliere ha aggiunto: “anche 60 sul terzo anno, se vuoi”. Ma Tremonti non ha mollato, pronto a mettere come spesso è accaduto sul piatto le sue dimissioni. Non lo ha fatto perché questa volta è intervenuto Bossi. Non a sostegno del vecchio amico ministro, ma della tesi del premier: “non possiamo permetterci di più ora”. La sensazione è stata che se in quel momento il ministro dell’Economia avesse messo sul piatto le sue dimissioni, sarebbero state accettate senza proteste da parte della Lega. Deve averlo capito bene anche Tremonti, che non ha replicato quando gli è stato detto: “se non te la senti di presentare tu le cose, possono arrivare per via parlamentare”.
Lo scontro resta, e la tensione fra presidente del Consiglio e ministro dell’Economia (che pubblicamente ancora viene negata come sempre è accaduto), questa volta è assai seria. Qualche preoccupazione ieri è venuta quando senza avere preannunciato l’iniziativa, Tremonti è salito al Quirinale per fare il punto con Giorgio Napolitano. Ufficialmente ha spiegato al Capo dello Stato l’impianto della manovra (il suo) e il clima internazionale che l’accompagna. Ma nessuno può escludere che sia stato riferito anche qualcosa del terribile scontro di lunedì.

Il destino hard di Santoro


Dal Giornale di oggi, 7 giugno 2011, pagina 6, terza fotografia in alto. Didascalia sotto fotografia di Vittorio Feltri: "Fondatore di Libero- E' tornato al Giornale che ha già diretto in passato".... Sembra l'annuncio più minimal che ci sia mai stato nell'editoria italiana...

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Da Repubblica, pagina 11 di oggi, articolo di Goffredo De Marchis sul caso Santoro. Michele andrà a La7? Parla il ceo di Telecom Italia media, Giovanni Stella, detto il "canaro". "Santoro a La 7? Quando una donna si spoglia e si stende sul letto, c'è bisogno di fare altre domande? No, in certe situazioni non si parla. Ti togli la giacca, ti sfili la camicia e la smetti di chiacchierare...". Cambierà format Santoro? Risposta del canaro: "Lei conosce una donna e la prima notte di sesso come è? Normale, tradizionale. Dopo verranno le variazioni sul tema. Ma all'inizio no...". Che destino hard quello di Santoro! Trombato in Rai da una Lei.... in attesa di essere trombato a La 7 dal canaro...

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A proposito di La 7... molti giornali scrivono di un interessamento all'acquisto di Carlo De Benedetti. A parte che il figlio Rodolfo ha confessato agli amici di essere del tutto contrario, c'è un piccolo ostacolo: secondo le norme antitrust della legge Gasparri nessuno può avere giornali e più di una rete tv. De Benedetti oltre ai giornali ha già una rete tv nazionale: Rete A, anche se pochi la vedono. Non può comprare La7 se prima non vende...

D'Alema? Comunista e filoterrorista. Parola di Veltroni agli Usa


Massimo D’Alema ha un limite più forte di lui: in fondo all’animo resta sempre un comunista e al momento buono questa sua formazione ideologica salta fuori. Parola di uno che lo conosce come le sue tasche: Walter Veltroni. E’ il 26 febbraio 2008, siamo all’inizio dell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento italiano. Romano Prodi è già ko insieme al suo governo, Silvio Berlusconi già marcia verso palazzo Chigi. Il suo avversario questa volta è proprio Veltroni. Sembra battuto in partenza, ma i primi sondaggi lo accreditano di una certa rimonta. Il politico è noto, ma nel governo ha sempre avuto ruoli di secondo piano. Non è così conosciuto a livello internazionale. Per questo il 26 febbraio l’ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, invita a pranzo Veltroni. Insieme affrontano tutte le questioni internazionali che interesano gli Usa, comprese alcuni comportamenti di politica estera del governo Prodi che hanno allarmato il principale alleato italiano. Tutto il colloquio poi viene fedelmente trascritto dall’ambasciatore e inviato alla segreteria di Stato americana. E il rapporto Spogli nel silenzio generale ora è finito su Wikileaks.
Si parla di politica italiana, della campagna elettorale, di politica economica, di questioni energetiche e soprattutto dei dossier internazionali del momento. A un certo punto Spogli mostra a Veltroni una entusiastica dichiarazione del ministro degli Esteri uscente del governo Prodi, che era appunto D’Alema, con cui si congratulava per l’assunzione del potere a Cuba da parte di Raul Castro. “Veltroni”, scrive Spogli alla segreteria di Stato Usa, “è apparso imbarazzato e ha detto che spesso il retroterra ideologico di D’Alema salta fuori dalle sue dichiarazioni”. Una presa di distanza notevole, sia pure in un colloquio riservato che probabilmente Veltroni immaginava sarebbe restato fra le mura dell’ambasciata. Ma non è stata l’unica sciabolata del fondatore del Pd verso il rivale di partito da una vita. Quando si è passati ad affrontare il dossier sul Medio Oriente Veltroni è passato dalla sciabola al bazooka nei confronti di D’Alema. Ecco come ha annotato il colloquio Spogli: “Veltroni è stato aspramente critico sull’atteggiamento di D’Alema nei confronti di Israele, e in particolare ha aggiunto testualmente che ‘non si possono fare affari con organizzazioni terroristiche’ come Hamas e gli Hezbollah”.
Dunque per Veltroni D’Alema era un ex comunista che cercava di nasconderlo, ma poi inciampava sempre nel peccato originale ideologico, e da ministro degli Esteri aveva tanto pelo sullo stomaco da cercare di fare affari con i terroristi palestinesi. Bel ritratto offerto agli americani dell’uomo che in quel momento era ancora ufficialmente ministro degli Esteri di un governo di centrosinistra.
Pur di accreditarsi con gli americani però Veltroni sembrava pronto a dire di tutto. Anche a prendere le distanze da Prodi, presidente del Consiglio in carica. Quando il pranzo è virato sulla questione iraniana infatti Spogli si è lamentato spiegando che l’atteggiamento di Prodi verso l’Iran è stato il dossier di politica estera italiana che più ha causato frizioni con gli Stati Uniti. L’ambasciatore “ha citato il caso delle sanzioni economiche verso l’Iran, criticando il governo Prodi per i suoi frequenti incontri ad alto livello con leader del governo iraniano”. Secondo il cablogramma inviato da Spogli a Washington Veltroni ha preso subito le distanze da Prodi: “e ha rimarcato che l’Iran rappresenta una ‘chiara minaccia’, sostenendo che la continuità delle sanzioni economiche è vitale e concordando sul fatto che incontri ufficiali ad alto livello con funzionari del governo iraniano (il riferimento è a Prodi, ndr) indeboliscono e insidiano il messaggio della comunità internazionale”. Per finire sulla politica internazionale- ma questo era più che scontato- Veltroni ha rassicurato gli Usa: “se vincerò io le elezioni, non potranno esserci incomprensioni e disaccordi”. Spiega Spogli: “Veltroni ha enfatizzato la sua decisione di non correre in una coalizione dove potesse ancora avere un ruolo la sinistra estrema, spiegando che così il suo governo avrebbe avuto una voce chiara sulle relazioni transatlantiche dell’Italia”. Così anche sull’Afghanistan “Veltroni ha riconosciuto i problemi incontrati dalla Nato sul territorio e ha assicurato che l’Italia potrà e vorrà impegnarsi di più lì”.
Nel colloquio anche fiumi di miele nei confronti di quello che avrebbe dovuto essere il suo vero avversario, Silvio Berlusconi. “Veltroni ha spiegato che la complicata legge elettorale italiana può forzare a politiche bipartisan, facendo mettere d’accordo lui e Berlusconi. Però ha aggiunto che l’accordo nelle sue intenzioni è limitato alle sole riforme istituzionali e alla legge elettorale”.
Infine il capitolo energia: Spogli si è lamentato del fatto che negli ultimi anni, proprio con il governo Prodi, l’Italia è divenuta troppo dipendente dalla Russia. “Veltroni ha rassicurato che questa dipendenza verrà corretta attraverso soluzioni di medio termine (4-7anni), con la costruzione di rigassificatori e altre infrastrutture”

Ravasi- Scola, i ballottaggi a Milano non finiscono qui


Questo ballottaggio avverrà di giovedì. Forse il prossimo, 2 giugno, nel silenzio di una giornata di festa. Forse quello dopo, il 9 giugno. Sarà allora che la Congregazione dei vescovi in seduta plenaria sceglierà l’uomo che dovrà guidare Milano. Una poltrona più importante di quella per cui si stanno battendo all’ultimo colpo Giuliano Pisapia e Letizia Moratti. Perché chi succederà al cardinale Dionigi Tettamanzi andrà a guidare la diocesi più grande del mondo e lascerà il segno sull’intera Chiesa italiana. I candidati non sono pochi, ma nella previsione dei più anche questo sarà un ballottaggio. Perché sono due i candidati che hanno più chance degli altri: il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, e il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia. Anche se le logiche della Chiesa sono assai diverse da quelle della politica, per mille e una ragione questo ballottaggio sembra davvero parallelo a quello per la poltrona di primo cittadino di Milano. In qualche modo ne è strettamente intrecciato. Ci sono fra i cattolici e perfino fra le gerarchie schiere di tifoserie dell’uno e dell’altro. Forse i due non così distanti né avversi, ma i loro sostenitori sì.
Per capire bisognava essere sabato o domenica scorsa davanti a una delle tante parrocchie di Milano all’uscita della Santa Messa. Molti avrebbero trovato gruppetti di universitari o liceali di Comunione e liberazione che distribuivano un volantino sulle elezioni politiche. Non materiale classico di propaganda elettorale: un lungo testo sul “bene comune” e la possibilità di “costruire luoghi di vita” citando le opere di carità e non solo del movimento ecclesiale rese possibili in questi anni a Milano. Durante il week end sono stati distribuite 200 mila copie di quel volantino, che solo indirettamente rappresentava un endorsement a Letizia Moratti. Non sono stati pochi i fedeli che all’uscita delle parrocchie hanno reagito con violenza verbale e talvolta fisica a quel volantino. Per chi ha vissuto quell’esperienza, la memoria è andata al clima che c’era in università e in città nel pieno degli anni Settanta. E attenzione: in questo caso non si trattava di gruppi politici militanti, ma di fedeli. Uno spaccato di cosa è oggi la Chiesa milanese che ben è emerso dopo quella domenica da una lettera aperta scritta su Il Fatto quotidiano dalla professoressa cattolica (assai coccolata in Curia a Milano) Roberta De Monticelli a una ragazzina di Cl sorpresa all’uscita da messa con quel volantino. Parole di commiserazione, più che indignate, sprezzanti, come ci si rivolgesse a un essere inferiore culturalmente e mentalmente. Lo specchio di quale sia il vero atteggiamento verso la diversità degli altri da parte di chi un giorno sì e un altro pure predica l’accoglienza verso mussulmani, rom, lesbiche, gay e tutte le minoranze possibili. Tutte meno i cattolici che non si adeguano alla loro cultura. Questo spaccato è la fotografia più chiara della chiesa ambrosiana. Ed è su queste sponde che si svolgerà quel ballottaggio fra i cardinali Ravasi e Scola, certamente al di là delle intenzioni dei diretti interessati e dei loro grandi elettori.
Non è un caso se fino a due settimane fa a Milano si dava per scontata l’imminente nomina del patriarca di Venezia. Certo, Scola aveva il peccato originale di essere cresciuto a fianco di don Luigi Giussani, nel movimento di Comunione e Liberazione. Ma da cardinale e da pastore lui stesso si è definito ex ciellino, sottolineando come la missione avesse a cuore l’intera chiesa e non una sola parte. Da quando Pisapia è uscito trionfatore dal primo turno elettorale, molti maldipancia della chiesa milanese a stento trattenuti sono pubblicamente emersi. La cosa più carina che si sente dire dalle parti della curia ambrosiana è “adesso la nomina di Scola è improponibile”. Nello stesso istante sono cresciute vertiginosamente le chance di monsignor Ravasi, prelato assai gradito alla intellighenzia radical-chic meneghina per la sua capacità di coccolare artisti, letterati ed esponenti di culture varie. I vincitori del primo turno vedono in lui la possibilità di una chiesa a disposizione del nuovo potere che avanza. In Scola invece si immagina un possibile capo dell’opposizione a questo potere, da evitare come fosse il diavolo.
Se la Chiesa fosse una democrazia, quel ballottaggio sarebbe già segnato. Ma una democrazia nel senso classico non è. Perché più di ogni altra cosa conta la scelta del Papa. E non sono pochi a ritenere che Benedetto XVI propenda decisamente per Scola. Il Papa ha riempito Ravasi di elogi per il lavoro che sta facendo ora, e a molti questo fiorire di complimenti a Roma è sembrato un chiudere la porta alla strada che porta a Milano.
Proprio perché questo si sa, nelle segrete stanze vaticane da settimane arrivano dossier anonimi sul cardinale Scola, in particolare sulla gestione amministrativa legata ad incarichi coperti dal prelato ora e in passato. Insomma, è una campagna “elettorale” che si sta svolgendo attraverso colpi bassi simili a quelli della politica. Il Papa ha imposto una procedura insolita. Ha chiesto che sia la congregazione dei vescovi in seduta plenaria a discutere delle nomine. E alla vigilia della riunione ha firmato il decreto di nomina in congregazione di uno dei cardinali più vicini a papa Ratzinger: il fidato monsignor Mauro Piacenza. Con il suo arrivo gli italiani coinvolti nella decisione saranno una decina. La maggioranza però è composta da cardinali stranieri, assai fedeli alle indicazioni del Papa. Loro da un elenco di 15 nomi hanno già individuato una cinquina (oltre a Ravasi e Scola anche Aldo Giordano, Francesco Lambiasi e Pietro Parolin). Ma sanno che si andrà al ballottaggio fra due soli. E che l’ultima parola spetta al Papa.

Se torna la sinistra al governo, che guaio per i dividendi di Padellaro e Travaglio


 Un incubo si aggira nell’open space de Il Fatto. Va bene i ballottaggi. Bene anche la spallata a Silvio Berlusconi. Ma non è che questi qui torneranno davvero a palazzo Chigi? Mica ce la farà a conquistare le leve del governo la gioiosa macchina da guerra di Pierluigi Bersani, Niki Vendola e Antonio Di Pietro? Il dubbio viene, e sta atterrendo i poveri Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Bruno Tinti, Marco Lillo e Peter Gomez, giornalisti-azionisti de Il Fatto quotidiano. Perché con la gioiosa macchina da guerra arriverà anche la stangata fiscale promessa e a rischio ci sono anche i 3 milioni di dividendi appena distribuiti agli azionisti de Il Fatto. Quelli vogliono tassare all’unisono le rendite finanziarie, e così quei dividendi oggi sottoposti a cedolare secca del 12,5% con Bersani & c al potere, sarebbero cumulati con il reddito e sottoposti a tassazione del 43%. Una bella differenza. E’ preoccupato il povero Padellaro, che ha da pochi giorni ricevuto un superpremio dai dividendi di circa 550 mila euro. Ma la prospettiva non entusiasma nemmeno Bruno Tinti (276 mila euro appena girati), Travaglio (165 mila euro), Gomez (110 mila euro) e Lillo (82 mila euro). Sono tutti dipendenti –azionisti della società editrice del Fatto quotidiano. Che a fine aprile, approvando il bilancio 2010 chiuso con un utile di 5,8 milioni di euro, ha deciso di distribuire 3,1 milioni di euro come dividendi ai soci. Qualche giorno dopo. con un eccesso di generosità, si è anche deciso di raddoppiare il capitale assegnando una azione gratuita ogni azione posseduta, e distribuendo così a tutti un altro milione e 230 mila euro.
Padellaro, Travaglio & c sono in possesso di azioni con diritti speciali, con diritto a percepire dividendi superiori del 15% a quelli degli altri soci. Un vantaggio che verrebbe totalmente annullato se al governo dovesse tornare la sinistra realizzando il suo programma. Il fisco si mangerebbe il premio e un po’ del capitale. Tanto per intenderci: tirare giù Berlusconi da palazzo Chigi e sostituirlo con la gioiosa macchina da guerra a Padellaro verrebbe a costare 168 mila euro. A Tinti 84 mila euro,a  Travaglio più di 50 mila euro, a Gomez 33 mila euro e a Lillo 25 mila euro. Belle sommette, e chissà se questa tassa può valere la soddisfazione.
Fisco a parte, Travaglio & c hanno anche un altro problema: se cade Berlusconi, riusciranno ancora a guadagnare tanti soldi grazie al successo del Fatto quotidiano? Perché finora più lui sta in piedi, più il giornale distribuisce milioncini ai giornalisti-azionisti. Se in tutto il 2010 l’utile è stato di 5,8 milioni nel solo primo trimestre 2011, grazie al caso Ruby, Il Fatto ha già registrato un utile superiore ai 2 milioni che farebbe immaginare su base annua un aumento del 30% del superpremio finale che potrà essere incassato con i dividendi.

Ministeri? Tutto questo caos per spostare una classe di liceali!


 Un appello al sindaco di Roma, Gianni Alemanno e al presidente della Regione Lazio, Renata Polverini: possiamo smetterla con questa sceneggiata sullo spostamento dei ministeri da Roma? Sono giorni che entrambi alzate i toni su questa battaglia epica. “Giù le mani da Roma, i ministeri non si toccano…”, e facezie simili in piena campagna elettorale. Per carità, quando perfino un ex capo dello Stato come Carlo Azeglio Ciampi, grida alla secessione e mette in guardia per un “colpo all’unità di Italia”, tutto diventa possibile. Ciampi ha la sua età e dopo una vita gli si può perdonare tutto. Ma Alemanno e la Polverini sono giovani e intelligenti e al di là delle opportunità o meno in piena campagna elettorale di fare sgambetti ogni giorno nel centrodestra, dovrebbero conoscere le reali dimensioni del problema. La Lega- forse per motivi elettorali, forse anche con qualche ragione- vorrebbe trasferire a Milano i due ministeri simbolo della loro battaglia: quello sul federalismo-riforme istituzionali guidato da Umberto Bossi e quello sulla semplificazione normativa guidato da Roberto Calderoli. Si può condividere o meno la proposta, certo, ma farne un drammone non è da persone sensate. Quei due ministeri sono senza portafoglio, e quasi non esistono. La dimensione del problema è se trasferire o meno due classi di un liceo: 30 persone oggi guidate da Calderoli e 32 persone guidate da Bossi. La classe di Calderoli per altro è composta da 19 collaboratori di sua fiducia che si è portato il ministro e da 11 dipendenti veri e propri del ministero. Quella di Bossi da 15 collaboratori di fiducia e da 17 addetti del dipartimento. Quindi per la pianta organica il problema riguarda solo una classe: 28 dipendenti ministeriali. Una parte comunque dovrebbe restare a Roma per il coordinamento con la presidenza del Consiglio. Quindi tutto il problema sarebbe se spostare o meno da Roma a Milano venti ministeriali. Il budget complessivo gestito da Bossi e Calderoli è inferiore ai 3,5 milioni di euro: una goccia nel bilancio di palazzo Chigi. E’ un problema che sembrerebbe irrilevante per un consiglio circoscrizionale. E’ possibile che il sindaco della capitale di Italia e il presidente di una regione fra le più importanti facciano di queste venti persone un caso mondiale danneggiando apertamente il centrodestra nel ballottaggio a Milano? Vale davvero la pena per così poco? E se i cittadini vedono questa gran cagnara per problemi così piccoli, che idea mai possono farsi della politica? Sindaco e presidente della Regione, chiudiamola qui con la querelle sulla classe liceale da spostare o meno a Milano. Ci sono ben altri problemi in città da risolvere  e affrontare.

Il titolo del Giornale contro Tremonti? L'ha fatto Berlusconi. Parola di Verdini



C’è una parola proibita giovedì mattina alla Camera dei deputati: Giulio Tremonti. E’ una parola magica per fare chiudere a doppia mandata tutte le porte. Eppure in aula si parla proprio di lui: stanno discutendo e votando il Documento di economia e finanza (Def) che porta la firma del ministro dell’Economia insieme a quella del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Nessuno dei due autori però appare a Montecitorio. E l’assenza, in un momento così, più che parlare grida. Ma quel nome ieri era vietato farlo. Proibitissimo nelle fila del pdl. Chi si avvicina a Marco Milanese, deputato campano e primo assistente del ministro dell’Economia sente sibilare una sola frase: “E’ nero, nerissimo”. Tutti capiscono, e vanno al titolo sulla prima pagina del Giornale di ieri, “Tremonti aizza la Lega”. Ma perfino lui il nome del ministro non lo pronuncia. Ammutolisce subito Osvaldo Napoli, vicepresidente del gruppo parlamentare, uno che di solito devi imbavagliare per farlo tacere un attimo: “E’ arrivato l’ordine”, spiega sottovoce, “e del caso Tremonti nessuno di noi deve parlare. Bisogna sopire, fare calmare le acque...”. Ha ragione lui. Ecco Daniela Santanchè, inconfettata in un alone fucsia, dall’abitino con vistoso spacco, alla borsetta alle calze a rete: “Tremonti? Ah, no, io di questo non parlo assolutamente. Nemmeno con la tortura mi strapperete una parola”. E alla tortura la poveretta si rassegna, perché sfuggire al giornalista le costa caro. Una sorta di polipo l’agguanta e se la prende sotto braccio non mollando la presa per dieci minuti. E’ l’uomo simbolo dei responsabili, Domenico Sicilpoti. E’ alto come una gamba della Santanchè, poveretto, e sta lì aggrappato  e gongolante come una luna piena a difenderla dalle domande indiscrete. Poco più in là c’è un ministro giovane e informale come Giorgia Meloni. Non si trincera dietro l’ordine di scuderia. Ma il risultato è lo stesso: “Lei fa il suo lavoro. E io il mio: non mi interessa dirle nulla sul caso Tremonti”. Sarà che “il caso non esiste”, come sostiene il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, ma l’assordante silenzio rimbomba dappertutto. C’è perfino un ex vice Tremonti come Nicola Cosentino. Lui quei dissidi li ha vissuti da vicino, qualcosa sa. E’ gentile, ma lapidario: “non me ne importa nulla. Ho altro a cui pensare”. E infatti si acquatta sui divani di un corridoio di Montecitorio, trascinandosi un assessore della Regione Campania e il fedelissimo presidente della provincia di Napoli, Luigi Casero. Fuori le agende, e via a organizzare la campagna elettorale da quelle parti: il 6 a Napoli, il 7 a Benevento, poi Pozzuoli. E Cicchitto? Dove parla Cicchitto? Ah, “in un hotel con al massimo 350 posti così siamo sicuri di riempire la sala”.
Per rompere la consegna del silenzio ci vuole uno che se ne frega. C’è, c’è, anche nella caserma Pdl. Basta sentire il vocione in mezzo al cortile di Montecitorio. Denis Verdini è lì a vaticinare ai fedelissimi il risultato delle prossime amministrative. Fulmina Lupi che gli chiede risorse per gli ultimi sondaggi: “mancano quindici giorni, sono soldi buttati via!”. Tira le orecchie a chi sembra scettico sul risultato di Milano. E sciorina sondaggi che non possiamo riportare per legge, ma che dicono che Pdl e Lega sono già maggioranza in consiglio e che Letizia Moratti è in grado di farcela al primo turno. Spiega a Vito Bonsignore le regole dei prossimi congressi Pdl: “tesseramento che peserà al 70 per cento. E che deve essere chiuso inderogabilmente entro il 31 luglio”. Assicura Gateano Pecorella che si è ricordato di quella commissione che aveva promesso di fare. E finalmente si concede al cronista sul caso Tremonti. Prima sentenza: “sì, il caso esiste. Ma è un po’ amplificato dai media e da chi ha qualche interesse in ballo”. Poi la domanda la fa Verdini: “Secondo te chi l’ha fatto quel titolo sulla prima pagina del Giornale?”. E chi l’avrà fatto? Il direttore? Il vicedirettore? “Ma noooo! L’ha fatto Berlusconi di suo pugno…”. Povero Verdini. Non sapeva che proprio in quell’attimo le agenzie battevano la dichiarazione ufficiale del premier con cui prendeva le distanze dal quotidiano. Ma lui è convinto, convintissimo: “è solo questione elettorale. Il Pdl sat recuperando sulla Lega e c’è un po’ di nervosismo in giro. Ma poi si appiana”. Sui giornali scrivono che Tremonti sia irritato per l’appoggio a Mario Draghi alla Bce… “Cazzate”, le liquida perentorio Verdini, “ma ti sembra? Soluzione ideale per Tremonti che si toglie Draghi dalle balle…”. Dopo tanto silenzio, una parola chiara. Gli altri tacciono. Raffaele Fitto preferisce buttarsi sorridendo in un capannello dove svetta un Pierferdinando Casini di ottimo umore: “dai, che anche tu sei dei nostri, vieni qui ad organizzare il dopo Berlusconi!”. Il povero Fitto finisce così dalla padella alla brace. E sbianca insieme al sopraggiunto Altero Matteoli quando Casini sale di tono in modo che tutti lo sentano: “così facciamo un po’ di pulizia di certi vecchi babbioni…”.
Ma ecco, in un angolo l’uomo-miccia del Pdl. Giorgio Straquadanio, l’incendiario più noto del Transatlantico. Lo penseresti lì intento a vuotare barili di benzina sulle fiamme che divampano, e invece anche lui pompierissimo. Di più: sembra il direttore della Pravda dei bei tempi. “Berlusconi contro Tremonti? Falso, falsissimo”. Per darsi un tono ancora più credibile sfodera il suo telefonino e mostra un sms di Alessandro Sallusti, che fa saltare un appuntamento con lui a Milano: “scusa, ma sono andato fuori, perché se mi prende Silvio…”. All’occhio del cronista non sfugge la data, un po’ passatella… Ma è chiara l’antifona. Fatta la domanda, bisogna ascoltare venti minuti di lodi sperticate al tremontismo che è la filosofia economica pura del berlusconismo. Al povero lettore la risparmiamo. Poco più in là c’è Milanese che spiega a un giornalista de La Stampa che anche questa volta l’incendio verrà domato, perfino sulla guerra in Libia: “La Lega preparerà la sua mozione imponendo al governo che mai e poi mai si invieranno là truppe di terra. Al massimo questi 7-8 aerei a sganciare qualche bombetta. Sarà un successo politico per Umberto Bossi…”. Amen. Il caso è chiuso.

Ma quale Gheddafi! Sarkò ha dichiarato guerra all'Italia


Da tre anni il presidente francese Nicolas Sarkozy si occupava in prima persona e con il suo staff di due affari colossali che però non riuscivano mai ad andare in porto: la vendita alla Libia di una intera flotta aerea da combattimento confezionata da Dassault e un colossale investimento transalpino per costruire centrali nucleari a Tripoli e dintorni. I due affari colossali erano stati concordati fra lo stesso Sarkozy e il colonnello Mohamar Gheddafi nel dicembre 2007 a Parigi, quando il leader libico piantò fra mille polemiche la sua tenda davanti all’Eliseo. Bersagliato da critiche oltre che dagli intellettuali (in prima fila il filosofo Bernard Henry Levy), anche da esponenti del suo partito, Sarkozy si difese sostenendo che da Gheddafi aveva ottenuto oltre a un impegno diretto sul rispetto dei diritti civili in Libia, anche la firma su contratti preliminari da favola che avrebbero riversato sulle imprese francesi più di 10 miliardi di euro. I contratti a dire il vero non li ha mai visti nessuno, ma è stato proprio il presidente francese a rivelarli all’indomani di quel faccia a faccia con il dittatore libico. Una cosa però è certa: nonostante il pressing dell’Eliseo, quell’accordo con la Libia non ha dato nemmeno il più pallido dei risultati attesi. Dassault ha ottenuto soltanto una mini-commessa per sistemare quattro vecchi Mirage venduti nel passato a Gheddafi. E ogni accordo preliminare con la Francia contenuto in quel pacchetto del 2007 è stato reso carta straccia da Gheddafi che di volta in volta ha sostituito le imprese francesi con quelle russe o quelle italiane, facendo schiumare di rabbia Sarkozy. Che ha una sola fortuna: oggi in Libia non sta bombardando né interessi né infrastrutture francesi. Il primo obiettivo, la flotta aerea del colonnello libico è composta da 20 velivoli tutti di fabbricazione russa: Mig 21s, Mig 23s e Sukhol 22s. Due dei quattro vecchi Mirage francesi sono stati portati a Malta dai piloti che hanno disertato ben prima della risoluzione Onu. Quasi tutti di fabbricazione russa i 40 elicotteri da guerra posseduti dal colonnello, compresi i Mi-18 identici a quelli che Vladimir Putin ha venduto alla Nato per la missione in Afghanistan. Solo quattro sono invece americani: vecchi Chinooks rimessi in sesto in Italia da aziende del gruppo Finmeccanica.
Per lunghi mesi il presidente francese le ha provate davvero tutte per sigillare gli accordi con Gheddafi. Ha formato perfino una sorta di cabina di regia all’Eliseo per sostenere in ogni modo le mega commesse militari di Dassault. Ha provato a coinvolgere nell’operazione gli Emirati Arabi Uniti, che si sono detti disposti sia ad addestrare piloti libici per quegli aerei ( i Rafales) che montavano su missili  Scalp Cruise (americani), sia a co-finanziare l’operazione libica rinnovando con Dassault la propria flotta. Nel pressing su Gheddafi Sarkozy ha messo in campo nel novembre scorso il migliore amico francese del colonnello, Patrick Ollier, ex presidente del gruppo di amicizia franco-libico, divenuto in quei giorni ministro per i rapporti con il Parlamento. Ollier, testa di ponte con il regime libico, è per altro il compagno convivente del ministro degli Esteri Michele Aliot Marie, costretta alle dimissioni a fine febbraio dopo che è stata scoperta una sua vacanza di Natale a spese del presidente tunisino Ben Alì. Se si aggiunge lo stretto legame fra il premier francese Francois Fillon e Hosni Moubarak, si può ben capire quanta passione per i diritti civili nell’Africa Mediterranea possa avere mosso la Francia in questa spedizione punitiva contro Gheddafi.
Che le persecuzioni delle popolazioni civili contassero assai poco per Sarkozy è testimoniato dai lunghi report pubblicati su una agenzia che produce una newsletter riservata, “Maghreb Confidential”,  assai vicina all’Eliseo di cui riporta con frequenza commenti ufficiali o ufficiosi. Da quelle note emerge la progressiva e crescente stizza del presidente francese per i patti economici con la Libia che restavano incagliati e spesso venivano soffiati dalla Russia di Putin e da due colossi italiani che sebrano avere fatto venire l’ulcera a Sarkozy: Eni e Finmeccanica. Stizza perfino per il ruolo ricoperto dall’ex cancelliere tedesco Gerard Schroeder a inizio 2010 come advisor a fianco di Deutche Ban in grado di soffiare ai francesi una importante commessa per costruire la metropolitana di Tripoli.
Così già a fine novembre scorso Sarkozy aveva iniziato la sua contro-offensiva verso Gheddafi, trovando la leva per sollevare molti segreti del regime libico. In quei giorni è arrivato a Parigi con tutta la sua famiglia uno degli uomini più vicini al colonnello, Nouri Mesmari, capo del protocollo di Gheddafi. Ufficialmente era in Francia per affrontare una delicata operazione. Ma si trattava solo di una scusa. Lo ha capito subito il colonnello, che ha firmato di suo pugno un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti. Mesmari è stato fermato formalmente dalla polizia francese e ai primi di dicembre ha fatto domanda a Sarkozy di asilo politico per sé e la sua famiglia. Da quel momento è diventato il più prezioso collaboratore della Francia, svelando tutti i segreti militari ed economici della Libia. E offrendo a Parigi le chiavi del paese. A patto naturalmente di sgombrare la Libia dalla presenza di Gheddafi e della sua corte.

Lezione di giornalismo di Bondi. Che vuole fare il direttore di Libero..


Egregio Direttore,
vi dirò con assoluta franchezza che cosa penso del vostro modo di concepire l’informazione.
Innanzitutto siete voi che avete la facile abitudine di insultare, sia gli esponenti della sinistra che gli stessi rappresentanti del centrodestra, debitamente selezionati, naturalmente.
E questo non è affatto un segno di autonomia, come voi vorreste far credere, ma il carattere tipico del giornalismo che incarnate che nulla ha a che fare con la cultura di un grande quotidiano capace di dare voce e dignità alla maggioranza degli elettori moderati del nostro Paese.
Lo conferma quest’ultima polemica che vi siete letteralmente inventati, non so a quale fine e per raggiungere quali risultati, se non per alimentare una atmosfera di avversione alla politica in quanto tale, in cui siete specialisti. Mi avete messo all’indice, secondo un metodo giornalistico discutibile, con l’accusa di essere anch’io un “voltagabbana”, una persona incoerente e inaffidabile, al pari della sinistra, un “bamba” per riprendere il vostro greve e consueto linguaggio.
E ora passo alla spiegazione di quanto è accaduto sette anni fa con quell’ordine del giorno. Intanto non era concordato con il governo. La maggioranza intera decise di votare contro, secondo indicazione del governo, per motivazioni che vanno al di là della semplice posizione a favore o contraria al nucleare. E così feci io.
Se ora vogliamo invece discutere seriamente del nucleare, la mia opinione è la stessa, allora come oggi. Credo che il ricorso al nucleare sia necessario anche per l’Italia, per diversificare le fonti di approvvigionamento dell’energia, secondo quanto l’Europa ha deciso. Ciò non significa essere indifferenti all’ondata di preoccupazione che in tutto il mondo la terribile vicenda del Giappone ha suscitato. Sono d’accordo con il professor Veronesi, quando ha auspicato una moratoria, una riflessione sull’argomento, affinché si realizzino per il futuro centrali nucleari sempre più sicure.
Ma un confronto pubblico di questo genere dovrebbe essere a cuore di una stampa obiettiva e moderata, dalla quale siete ben lontani.
Sandro Bondi
Scusi, signor ministro dimissionario: Lei- come conferma in questa sua lettera ha votato sul nucleare nel 2004 in modo diametralmente opposto a quello che professava pubblicamente. Vede, votando contro le sue convinzioni solo per disciplina di partito, magari senza nemmeno leggere quel che si votava, lei ha compiuto proprio quell'atto di cui va lamentandosi ogni tre per due in ogni trasmissione tv che la ospita. Ha fatto esattamente quel che ora le brucia tanto, quando si tratta di deputati (ad esempio l'Udc) che le ha votato la sfiducia da ministro a prescindere. Per questo immaginavo che ora ci tenesse a spiegare agli elettori perchè ha compiuto un gesto così clamorosamente in contrasto con quel che prometteva a loro. Invece la sua unica preoccupazione è dare lezioni di giornalismo a chi quella notizia ha trovato e pubblicato. Per limitandosi a segnalare il suo nome - perchè fra i più noti- insieme a tanti altri che come lei nei comizi dicono una cosa e al momento buono fanno l'esatto contrario. Tutte le lezioni- si figuri- si ascoltano volentieri perchè c'è sempre tanto da imparare da tutti. Se a lei Libero non piace, può sempre non leggerlo. Da quel che scrive sembra lei sia certo di poterlo dirigere al meglio. Può essere che glielo offra l'editore. Dirigerlo dal suo scranno politico è forse pretendere un po' troppo. Perchè signor ministro, oltre alla libertà e alla sapienza sua, incidentalmente esiste ogni tanto quella altrui. Perfino la libertà di quegli ignorantoni di giornalisti di Libero. Che cercano notizie, riguardino questo o quel fronte politico. Lei preferirebbe le sussurrassimo fra noi, magari chiedendo  scusa in ginocchio a lei e altri di averle trovate. E invece la deludiamo e la deluderemo ancora chissà quante volte: perchè le notizie le consegnamo ai lettori nell'unico modo possibile: pubblicandole.
Franco Bechis

Ecco i nemici del nucleare: Bindi e Vendola votarono per riaprire le pericolose centrali di Trino e Caorso


Il governo italiano riattivi subito due centrali nucleari che aveva chiuso, quella di Caorso (Pc) e quella di Trino Vercellese e “consideri la convenienza di un programma nucleare ai fini di calmierare i prezzi dell’energia elettrica che in Italia sono una volta e mezzo superiori a quelli della media europea e doppi di quelli della vicina Francia”. Firmato: Rosy Bindi, Nichi Vendola, Giuliano Pisapia, Oliviero Diliberto, Dario Franceschini e decine di altri insospettabili sostenitori del nucleare. Era il 30 luglio 2004. Alla Camera dei deputati si stava votando uno dei tanti decreti sull’energia presentato dall’allora governo guidato da Silvio Berlusconi. Respinti tutti gli emendamenti il rappresentante del governo, l’allora sottosegretario alle attività produttive, Giovanni Dell’Elce (Forza Italia), diede il parere dell’esecutivo sugli ordini del giorno presentati da maggioranza e opposizione. Venne il turno anche di quell’ordine del giorno. Portava il numero 9/3297- c/27. Era firmato da due deputati di maggioranza, entrambi di Forza Italia: Francesco Zama ed Eugenio Viale. Il governo voleva chiudere in fretta la discussione e accettò pochissimi ordini del giorno. A quello di Zama diede parere negativo. Bastò quel no a fare correre un fremito fra le fila delle opposizione: “il governo dice no,allora votiamo tutti sì, magari finisce sotto”, sorrisero furbescamente tutti i parlamentari della sinistra (Ds, Margherita, Rifondazione, Comunisti italiani). Così come dall’altro fronte i deputati di maggioranza scattarono come un soldatino a dire no. Così è finita che si schierarono addirittura per la riapertura delle vecchie e pericolose centrali nucleari di Caorso e Trino vercellese oltre che per la costruzione di nuove centrali nucleari in Italia Vendola, la Bindi, Diliberto, Pisapia e Franceschini. E con loro molti altri volti noti della sinistra italiana: i rifondaroli Ramon Mantovani, Tiziana Valpiana e Giovanni Russo Spena, i comunisti Maura Cossutta, Famiano Crucianelli e Katia Belillo, i diessini Mauro Agostini, Goffredo Bettini, Massimo Cialente (attuale sindaco dimissionario de L’Aquila), Pietro Folena, Giuseppe Lumia, Marco Minniti, Fabio Mussi, Umberto Ranieri, Carlo Rognoni, Walter Tocci e Vincenzo Visco. E poi ancora Giuseppe Fioroni, il prodiano Giulio Santagata, perfino il verde Marco Boato. Per contro dissero no non solo a resuscitare Trino Vercellese e Caorso (probabilmente non hanno mai cambiato idea sul punto), ma perfino a riprendere in Italia il nucleare l’attuale ministro delle attività produttive, Paolo Romani, il suo sottosegretario con delega sul nucleare, Stefano Saglia, l’attuale presidente della commissione Trasporti della Camera, Mario Valducci, ministri dell’attuale governo come Sandro Bondi, Elio Vito e Stefania Prestigiacomo, sottosegretari in carica come Guido Crosetto (Difesa), Luigi Casero (Economia), Daniela Santanchè e Carlo Giovanardi (presidenza del Consiglio), perfino Denis Verdini, ora coordinatore del Pdl. Anche per il loro no del 2004 la proposta non passò e ci vollero altri 4 anni perché il nucleare tornasse fra i piani del governo italiano e gli stessi protagonisti dell’epoca virassero di 180 gradi trasformandosi prima in pasdaran dell’atomo e ora in scettici convertiti dal Giappone.
Ma certo a fare più effetto- visti i toni che sarebbero venuti dopo- furono i sì a quella proposta. E soprattutto quelli di Bindi, Franceschini, Diliberto, Pisapia e Vendola, tutti pronti oggi a farsi scudi umani contro il nucleare. Basta scorrere le loro dichiarazioni di pochissimi giorni fa. Era il 15 marzo. La Bindi, presidente del Pd, ha tuonato da Ballarò la trasmissione di Giovanni Floris : “il governo fermi i programmi sul nucleare”. “Milano è e sarà una città antinucleare”, ha promesso il candidato sindaco del capoluogo lombardo, Pisapia. “Il nucleare? E’ una follia voluta da una cricca criminale- E’ una scelta pericolosa e violenta. Per costruire una centrale in Puglia dovranno venire con i carri armati”, ha gridato Vendola, leader di Sel e presidente della Regione Puglia. Stesso giorno, in campo anche Franceschini, capogruppo del Pd alla Camera dei deputati: “il governo si fermi sul nucleare o lo faranno gli elettori con il referendum”. Non l’ ha mandata a dire nemmeno Diliberto, leader dei comunisti italiani: “Impediremo che siano costruite centrali in Italia e lo faremo con tutti i cittadini italiani attraverso il referendum”. Per sentire questi tuoni e fulmini contro il nucleare del gruppo Bindi-Franceschini-Vendola-Diliberto-Pisapia per altro non c’è stato bisogno della tragedia giapponese: ne erano tutti convinti almeno da un paio di anni. Per fare dire loro no al nucleare che volevano con così tanta determinazione nel 2004 è bastata una sola cosa: che Berlusconi nel 2008, ascoltandoli a scoppio ritardato, dicesse sì. Oramai è diventata la cartina di tornasole della politica italiana: in Parlamento da lustri si vota pro o contro Berlusconi, non sui contenuti che non interessano quasi a nessuno degli eletti.
Quel che è avvenuto il 30 luglio 2004 sul nucleare la dice lunga sulla qualità della classe politica italiana, e ancora di più sulla leadership della sinistra. Di fronte a quel clamoroso voto pro-nucleare l’unica scusa che potrebbero trovare i Vendola, i Diliberto, le Bindi, i Pisapia, i Franceschini e tutta la compagnia e di non avere nemmeno letto quello a cui dicevano sì. E’ possibile, anche se quel giorno ad esempio la verde Laura Cima lesse il testo prima di votare e non se la sentì di appoggiarlo. Almeno si astenne. Ma se questa fosse la ragione sarebbe addirittura peggio: la dimostrazione della inconsistenza e della scarsa professionalità di tutta quella leadership. Vendola & c sarebbero stati super-nuclearisti a loro insaputa. Ed è ben peggio della famosa casa di Claudio Scajola