Se c’è una cosa che tutti
sanno da tempo è che i deputati lavorano come matti. Sono proprio stakanovisti:
entrano a palazzo nelle prime ore del mattino di lunedì, e staccano solo al
venerdì sera tardissimo. Poi vanno a lavorare in collegio. Sarà sicuramente per
questo che un giorno un presidente della Camera si impietosì: poverini, vengono
qui a Roma da molto lontano, e noi ci limitiamo a pagare loro solo quella
misera diaria perché la notte quando sono qui abbiano un tetto sotto cui
ripararsi (circa 50 mila euro all’anno a testa). E se hanno bisogno di lavorare
un attimo in pace? Poverini, mica possono sedersi davanti al computer in stanze
comuni, in un’open space in cui non c’è alcun rispetto della privacy. Quel
presidente dal cuore d’oro si chiamava Luciano Violante, che ai deputati quando
fu eletto promise: “avrete tutti un ufficio personale dove lavorare in assoluta
tranquillità”. Violante non era uno da promettere così per dire, e realizzò il
sogno di tutti i deputati stakanovisti. Fino da allora la Camera forniva qualche
bella stanza a Montecitorio ai leader e ai più fortunati e agli altri dava un
contributo per pagarsi un ufficio in centro. C’erano ancora le lire e il tutto
veniva a costare meno di 3 miliardi all’anno. In euro esattamente un milione e
475 mila. Avere realizzato quel sogno costa invece oggi agli italiani che
pagano l’ufficio ai deputati la bellezza di 84 milioni di euro in più all’anno.
Nel 2010 infatti la Camera
pagherà ai fortunati proprietari di casa che hanno affittato quegli uffici 86
milioni e 206 mila euro fra affitti e manutenzioni. Il fortunato in realtà è
quasi uno solo: Sergio Scarpellini, proprietario della Milano 90 che incasserà
da solo più di 50 milioni di euro sui 53,8 di pure pigioni pagate dalla Camera.
Fra affitto e manutenzione, senza contare il personale addetto e gli arredi, la
promessa fatta all’epoca da Violante è venuta a costare ogni anno la bellezza
di 136.863 euro per deputato. Con una cifra così in mano a dire il vero
ciascuno di loro quella stanzetta con scrivania e computer avrebbe potuto
comprarla tranquillamente anche nel palazzo più esclusivo di Roma. Certo
avrebbe potuto farlo per loro e per tutti gli anni a venire la stessa Camera
dei deputati. Che invece preferisce regalare ogni anno quei soldi a
Scarpellini, che è naturalmente felice come una Pasqua. Se ne rendevano
benissimo conto anche gli uffici tecnici dell’epoca. Il segretario generale
della Camera dei deputati, Mauro Zampini, lo fece presente al collegio dei
Questori dell’epoca: con quei maxi affitti per gli uffici si rischiava di
buttare via i soldi, meglio comprare. Lo suggerì cifre alla mano: uno degli
immobili destinato a ospitare nuovi uffici stava per essere comprato da
Scarpellini per 110 miliardi di lire dalla Emsa del gruppo Telecom (allora
guidato da Roberto Colaninno) per essere poi affittato alla Camera per 18 anni
(9+9) al prezzo di 12 miliardi di lire all’anno. L’affare sarebbe stato
comprarlo direttamente. Ma l’ufficio di presidenza della Camera disse di no,
con un ragionamento politico sottile: erano in corso i lavori della bicamerale
per le riforme guidata da Massimo D’Alema. Si stava per votare una proposta di
riduzione dei deputati da 630
a 400. Comprare poteva significare buttare via i soldi:
da lì a pochi anni i deputati sarebbero stati meno e il palazzo sarebbe
diventato inutile. Sono passati 13 anni da allora e il numero dei deputati è
restato sempre lo stesso. In compenso i primi uffici sono sembrati strettini e
dopo quel palazzo ne sono stati affittati altri 3 comprati per l’occasione
sempre da Scarpellini. Alla fine per pagare casa e ufficio ogni anno a ogni
deputato la Camera
regala ai fortunati padroni di casa la bellezza di 120 milioni di euro.
Significa quasi 200 mila euro a onorevole ogni anno. In un’azienda avrebbero
licenziato da tempo l’amministratore protagonista di tale sperpero di soldi.
Alla Camera no: hanno mandato via solo quel segretario generale dell’epoca che
aveva avuto qualche dubbio sui contratti. Certo, hanno fatto felice come una
Pasqua Scarpellini che grazie a quell’insperato biglietto da visita di
Montecitorio si è messo a comprare un immobile dietro l’altro, riaffittandolo
alla pubblica amministrazione: Senato, comune di Roma, Tar del Lazio, Consiglio
di Stato, authority varie, perfino la gestione del bar che serve Giorgio
Napolitano all’interno del più prestigioso palazzo delle istituzioni, il Quirinale. E quando nel 2008 ha dato un’occhiata al
bilancio della sua Milano 90 si è trovato dentro palazzi che valevano oltre un
miliardo di euro. Qualche debito, ma ricavi da affitti per 77 milioni e un
utile da 445 mila euro che in anno di crisi del mercato immobiliare era grasso
che colava. Fra i conti sbucava anche una piccola marachella, come il persistente
omesso pagamento dell’Ici al comune di Roma, che non è esattamente un titolo di
vanto per il padrone di casa della Camera dei deputati.
Ma non c’è solo Scarpellini a
dare risposta all’incredibile desiderio di mattone del Palazzo. Ad affittare
alla Camera ci sono anche altre firme note e meno note del mattone:
l’Immobiliare Tirrena di Tommaso Addario, l’Inail, la Cosarl della famiglia
Colombo (gli stampatori di tutti gli atti parlamentari), e Marina Micangeli, un
tempo azionista di maggioranza del gruppo Ciga e grande amica di Donatella Dini.
Il solo con cui Montecitorio abbia fatto un affare è il Patriarcato di
Antiochia dei Siri con sede a Beirut, proprietario di un ampio appartamento in
piazza di campo Marzio, affittato dal lontano 1988 per 34 milioni di lire che
ora sono diventati 51.382 euro.
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