La sentenza verrà depositata alla vigilia di Natale o nella settimana successiva, entro Capodanno. E rischia di trasformarsi nell'ennesimo capitombolo per il ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi infatti il Tar del Lazio ha accolto il ricorso presentato dall'ex comandante generale della guardia di Finanza, Roberto Speciale, contro la sua epurazione dall'incarico alla fine di un lungo braccio di ferro con il viceministro dell'economia, Vincenzo Visco, e il governo. Riconoscendo eccesso di potere nella rocambolesca sostituzione, il Tar ritiene giustificata anche la domanda di risarcimento avanzata da Speciale, accolta in parte: 3 invece dei 5 milioni chiesti. Nel suo ricorso contro la destituzione il generale Speciale (tramite i suoi tre avvocati, Filippo Satta, Gianluca Esposito e Anna Romano), aveva sostenuto l'illegittimità della rimozione perché non era ricorso “alcuno dei presupposti di legge per la cessazione dal servizio”, e aveva interpretato l'atto come una sorta di sanzione disciplinare “in violazione dei fondamentali principi sul procedimento, sul contraddittorio e quindi sul diritto di difesa”. Speciale aveva insistito nel ricorso sull'argomento più evidente: se al generale si contestava una condotta illegittima, perché mai rimuovendolo lo avevano promosso alla Corte dei Conti? Scriveva infatti nel ricorso: “Il ministro accusa di slealtà e di una gestione personalistica della Gdf lo stesso soggetto in favore del quale ha disposto, in contemporanea, la nomina di consigliere della Corte dei Conti. Allora, delle due l'una: o la funzione giurisdizionale svolta dalla Corte dei Conti non ha goduto di alcuna considerazione, o l'accusa di slealtà e le altre accuse mosse sono destituite di qualsiasi fondamento”. Anche per il Tar il ragionamento non ha fatto una grinza. Come giustificata è apparsa la considerazione in base a cui veniva chiesto un maxi-risarcimento economico al governo: “la rimozione dall'incarico è ritenuta lesiva non tanto e non solo dal punto di vista economico-professionale, quanto sotto l'aspetto dell'immagine, della dignità e della onorabilità professionale”. Fin qui la battaglia di carta bollata. Già da qualche settimana peraltro stavano circolando indiscrezioni sulla possibile nuova sconfitta del ministero dell'Economia. Una disfatta, visto il fresco doppio ceffone appioppato al ministro da Tar e Consiglio di Stato dopo la maldestra sostituzione di Angelo Maria Petroni dal consiglio di amministrazione della Rai. La sentenza sul generale Speciale, pronta da tempo, ha bisogno ancora di essere limata nella stesura e per questo non verrà depositata prima che la legge finanziaria riceva la doppia benedizione finale di Camera e Senato. Un gesto di responsabilità dei giudici amministrativi che certo non dispiace al governo in questo momento. Ieri mattina, moderando i lavori di una tavola rotonda sull'outsourcing ho ascoltato una divertente tesi del viceministro dell'Economia, Sergio D'Antoni (nella foto). «Per mesi si è parlato del fattore “c” che avrebbe aiutato Romano Prodi. Forse quel fattore (chiamiamolo così, la fortuna- ndr) non funziona più. Ma ce ne è un altro che consente a questo governo di durare: il fattore “P”, quello della Provvidenza. Noi andiamo avanti grazie alla Provvidenza. Se ne è accorto anche Silvio Berlusconi, tanto è che subito dopo la fallita spallata sulla finanziaria è corso ad incontrare il segretario di Stato Tarcisio Bertone presentandogli il suo nuovo partito. La vera sfida fra noi è su quel terreno: vincerà chi è più aiutato dalla Provvidenza». Se si guarda la reazione della Chiesa al provvedimento anti-omofobia inserito dal governo nel decreto sicurezza, sembrerebbe che quel fattore “P” sia in questo momento sfavorevole a Prodi. Ma come dice un vecchio detto popolare “Aiutati che il ciel t'aiuta”. E per tornare alle brucianti sconfitte di Padoa Schioppa è proprio lì il difetto dell'esecutivo in carica. Non fa nulla per ottenere l'aiuto nè del cielo nè della terra. Anzi. Perché onestamente è un diritto dell'esecutivo- di qualsiasi governo- scegliersi uomini di fiducia. Potremmo discettare quanto si vuole sulla terzietà che dovrebbe contraddistinguere alcune cariche, ma un comandante della Guardia di Finanza, dei carabinieri o un capo della Polizia viene scelto da un governo pensando anche al rapporto fiduciario. Questo rapporto può resistere anche a un cambio di governo. Accade. Ma è accaduto anche il contrario. Stesso discorso può valere per un consigliere di amministrazione di una società pubblica, come la Rai. Non fa scandalo l'applicazione nell'uno e nell'altro caso del principio dello spoil system. Solo che a questo governo- zeppo di pasticcioni con altissima e mal riposta autostima - non basta lo spoil system. Vergognandosi di lottizzare come tutti gli altri, ha preferito gettare fango sugli uscenti: così non stava semplicemente occupando poltrone, ma compiendo un atto purificatore. Già, ma il fango è brutta materia: lo tiri addosso e magari gli schizzi rimbalzano...
DA ITALIA OGGI IN EDICOLA/Vince Speciale, altro schiaffo a TPS
La sentenza verrà depositata alla vigilia di Natale o nella settimana successiva, entro Capodanno. E rischia di trasformarsi nell'ennesimo capitombolo per il ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Secondo quanto risulta a ItaliaOggi infatti il Tar del Lazio ha accolto il ricorso presentato dall'ex comandante generale della guardia di Finanza, Roberto Speciale, contro la sua epurazione dall'incarico alla fine di un lungo braccio di ferro con il viceministro dell'economia, Vincenzo Visco, e il governo. Riconoscendo eccesso di potere nella rocambolesca sostituzione, il Tar ritiene giustificata anche la domanda di risarcimento avanzata da Speciale, accolta in parte: 3 invece dei 5 milioni chiesti. Nel suo ricorso contro la destituzione il generale Speciale (tramite i suoi tre avvocati, Filippo Satta, Gianluca Esposito e Anna Romano), aveva sostenuto l'illegittimità della rimozione perché non era ricorso “alcuno dei presupposti di legge per la cessazione dal servizio”, e aveva interpretato l'atto come una sorta di sanzione disciplinare “in violazione dei fondamentali principi sul procedimento, sul contraddittorio e quindi sul diritto di difesa”. Speciale aveva insistito nel ricorso sull'argomento più evidente: se al generale si contestava una condotta illegittima, perché mai rimuovendolo lo avevano promosso alla Corte dei Conti? Scriveva infatti nel ricorso: “Il ministro accusa di slealtà e di una gestione personalistica della Gdf lo stesso soggetto in favore del quale ha disposto, in contemporanea, la nomina di consigliere della Corte dei Conti. Allora, delle due l'una: o la funzione giurisdizionale svolta dalla Corte dei Conti non ha goduto di alcuna considerazione, o l'accusa di slealtà e le altre accuse mosse sono destituite di qualsiasi fondamento”. Anche per il Tar il ragionamento non ha fatto una grinza. Come giustificata è apparsa la considerazione in base a cui veniva chiesto un maxi-risarcimento economico al governo: “la rimozione dall'incarico è ritenuta lesiva non tanto e non solo dal punto di vista economico-professionale, quanto sotto l'aspetto dell'immagine, della dignità e della onorabilità professionale”. Fin qui la battaglia di carta bollata. Già da qualche settimana peraltro stavano circolando indiscrezioni sulla possibile nuova sconfitta del ministero dell'Economia. Una disfatta, visto il fresco doppio ceffone appioppato al ministro da Tar e Consiglio di Stato dopo la maldestra sostituzione di Angelo Maria Petroni dal consiglio di amministrazione della Rai. La sentenza sul generale Speciale, pronta da tempo, ha bisogno ancora di essere limata nella stesura e per questo non verrà depositata prima che la legge finanziaria riceva la doppia benedizione finale di Camera e Senato. Un gesto di responsabilità dei giudici amministrativi che certo non dispiace al governo in questo momento. Ieri mattina, moderando i lavori di una tavola rotonda sull'outsourcing ho ascoltato una divertente tesi del viceministro dell'Economia, Sergio D'Antoni (nella foto). «Per mesi si è parlato del fattore “c” che avrebbe aiutato Romano Prodi. Forse quel fattore (chiamiamolo così, la fortuna- ndr) non funziona più. Ma ce ne è un altro che consente a questo governo di durare: il fattore “P”, quello della Provvidenza. Noi andiamo avanti grazie alla Provvidenza. Se ne è accorto anche Silvio Berlusconi, tanto è che subito dopo la fallita spallata sulla finanziaria è corso ad incontrare il segretario di Stato Tarcisio Bertone presentandogli il suo nuovo partito. La vera sfida fra noi è su quel terreno: vincerà chi è più aiutato dalla Provvidenza». Se si guarda la reazione della Chiesa al provvedimento anti-omofobia inserito dal governo nel decreto sicurezza, sembrerebbe che quel fattore “P” sia in questo momento sfavorevole a Prodi. Ma come dice un vecchio detto popolare “Aiutati che il ciel t'aiuta”. E per tornare alle brucianti sconfitte di Padoa Schioppa è proprio lì il difetto dell'esecutivo in carica. Non fa nulla per ottenere l'aiuto nè del cielo nè della terra. Anzi. Perché onestamente è un diritto dell'esecutivo- di qualsiasi governo- scegliersi uomini di fiducia. Potremmo discettare quanto si vuole sulla terzietà che dovrebbe contraddistinguere alcune cariche, ma un comandante della Guardia di Finanza, dei carabinieri o un capo della Polizia viene scelto da un governo pensando anche al rapporto fiduciario. Questo rapporto può resistere anche a un cambio di governo. Accade. Ma è accaduto anche il contrario. Stesso discorso può valere per un consigliere di amministrazione di una società pubblica, come la Rai. Non fa scandalo l'applicazione nell'uno e nell'altro caso del principio dello spoil system. Solo che a questo governo- zeppo di pasticcioni con altissima e mal riposta autostima - non basta lo spoil system. Vergognandosi di lottizzare come tutti gli altri, ha preferito gettare fango sugli uscenti: così non stava semplicemente occupando poltrone, ma compiendo un atto purificatore. Già, ma il fango è brutta materia: lo tiri addosso e magari gli schizzi rimbalzano...
IL CASO BINETTI/ QUI CASCA IL PD: SONO ANCORA COMUNISTI
Sono passate 36 ore, e Walter Veltroni non ha ancora drammaticamente preso le distanze dall'intervista di Anna Finocchiaro pubblicata su L'Unità di sabato. Eppure il capogruppo del Partito democratico ha avuto parole molto dure sul caso Binetti. Parole non diverse da quelle espresse nei confronti delle opinioni dissenzienti dai vecchi comitati centrali del Pcus. "Se se ne dovrà andare dal Pd si vedrà", esordisce la novella purgatrice Finocchiaro, e aggiunge "Vorrei che fosse chiara una cosa: il dissenso di Binetti appare anche per il modo con cui è stato espresso, così radicale da non potere essere iscritto dentro quella discussione che è in atto nel Pd e che riguarda la ricerca di una soluzione condivisa rispetto ai temi cosiddetti eticamente sensibili". Ma non basta. Aggiunge la Finocchiaro: "Non credo sia un problema solo del Pd, riguarda la democrazia. Quando si è chiamati a pronunciarsi su temi delicati, come sono quelli eticamente sensibili, si deve procedere secondo un principio condiviso: la razionalità democratica (...) A quel principio non si può derogare, è la precondizione del confronto, considerando che siamo senatori della Repubblica e non liberi pensatori...". Dunque per il nuovo Pd, come per il vecchio Pcus e tutti i regimi totalitari, la coscienza dei singoli non può derogare al (peraltro assai oscuro) "principio della razionalità democratica". A parte l'aspetto grottesco di un atteggiamento così discriminatorio nei confronti di una coscienza non allineata proprio quando si discute dei diritti delle minoranze (i gay), il caso Binetti rischia di polverizzare quanto di buono si poteva intravedere nella nascita del partito democratico. Che sembra restare nell'alveo della tradizione comunista più oscurantista.
DA ITALIA OGGI IN EDICOLA/ D'Alema, condannato speciale
Fuori gioco Clementina Forleo, si è persa nei meandri del palazzo di giustizia di Milano il faldone da inviare al Parlamento europeo per richiedere l'autorizzazione a utilizzare le intercettazioni telefoniche che riguardano Massimo D'Alema. L'invio, preannunciato dagli uffici del tribunale meneghino a fine ottobre e atteso per i primi di novembre, è stato congelato dal processo intentato prima sui media poi davanti al Csm al giudice Forleo. C'è da scommettere che con la sua uscita di scena, quel faldone non prenderà più la via di Strasburgo. Condannando lo stesso D'Alema a non liberarsi più dal sospetto e a non potere dimostrare, come avrebbe fatto qualsiasi altro cittadino, la sua innocenza. Avendo tutti potuto leggere il testo delle intercettazioni fra lo stesso D'Alema e Giovanni Consorte, resteranno in piedi tutti i dubbi che da quelle righe emergono: ci fu o meno in quella telefonata un passaggio di informazioni riservate prima che le stesse fossero a disposizione del mercato? E se, come parrebbe da quei brogliacci, il passaggio di informazioni ci fu, se ne fece uso da parte di chicchessia? Altro dubbio che resterà fissato in quei brogliacci, senza possibilità di indagine e di difesa del sospettato, sarà quello del possibile favoreggiamento. In un passaggio di quella telefonata infatti D'Alema sembrò avvisare con una certa insistenza Consorte sulle intercettazioni effettivamente in corso sulle linee telefoniche dell'ex manager di Unipol. Sospetti, dunque, e dubbi sul capo di uno dei principali leader del nuovo partito democratico, politico fra i pochi preparati, intelligenti e competenti. Un aspetto, quello di D'Alema, che rende ancora più drammatico il siluramento della Forleo. E si sommano a numerosi altri dubbi che emergono dalla terza e ultima parte dell'audizione del gip milanese davanti al Csm che oggi pubblichiamo all'interno. Cito un particolare fra tutti: proprio quando un consulente del tribunale di Milano aveva appena finito di trascrivere le telefonate intercettate, su qualche giornale ne trapelarono degli spezzoni testuali. Uno di questi non coincideva, perché il consulente della Forleo non aveva compreso la registrazione, ritenendola troppo disturbata. Appuntò «frase incomprensibile». Riascoltata più volte, era proprio come era stata compresa dai giornali che l'avevano pubblicata. Ci fu dunque una fuga non di notizie, ma di bobine. Chissà se non scattò proprio in quel modo la trappolona alla Forleo. Sarebbe interesse proprio di D'Alema prima di tutti, dare una risposta chiara a questi interrogativi, chiedere ai magistrati di procedere con le indagini e di essere interrogato. È la sola fine nobile di questa indegna vicenda...
DA ITALIA OGGI IN EDICOLA/ La Forleo lapidata
Il giudice Clementina Forleo non ne ha fatta una politicamente corretta. Ha graziato un gruppo di marocchini accusati di terrorismo nell'Italia governata dal centro-destra e nel mondo si mandavano dietro le sbarre senza troppi complimenti tutti i sospettati. Ha terremotato con l'inchiesta Unipol il vertice dei Ds non appena questi sono arrivati al governo. Ha accusato magistrati e carabinieri, irritando tutte le istituzioni possibili. Quando a difenderla è rimasto solo Antonio Di Pietro, lei è andata a denunciare tutti affidando le sue pene a un pm di Brescia, Fabio Salamone, il magistrato che perseguì per anni proprio Di Pietro. Non è un giudice di mondo, la Forleo. Per questo la stanno facendo fuori. Nello straordinario documento dell’audizione della Forleo davanti al Csm c’è tutto il processo che da destra e sinistra si intenta alla Forleo. Un giudice rompiscatole, che riscuote scarsa simpatia. Ho provato a cercare fra gli atti del passato, e non ho trovato tanto accanimento nei confronti di un collega da parte del Csm. Mai visto un processo tanto repentino in tutta la storia della giustizia italiana. Dal tono delle domande, dalla raffica delle contestazioni dei suoi inquisitori sembrava non si volesse perdere più tempo nel liquidare una pratica il cui destino era scritto stelle. Via la Forleo, e applausi bipartisan. Lei di fronte all’Inquisizione sembra un giudice ragazzina, con i nervi che cedono, le osservazioni un po’ ingenue, il timore e tremore, la assoluta non dimestichezza con la procedura. Ma bisogna mettersi nei suoi panni. Anni di minacce alla sua famiglia, lettere minatorie che prevedono la morte dei genitori, case bruciate, telefonate anonime. Tutti- magistrati, forze dell’ordine, politici dell’uno e dell’altro fronte che fanno spallucce e prendono le distanze. Non era mai accaduto così nei confronti di un magistrato. E i precedenti si riferiscono ad altro tipo di giudici ragazzini: isolati e poi falcidiati dalle raffiche di mitra della mafia. Se davvero la Forleo non è magistrato equilibrato o addirittura è attraversata da follia, allora chi ha permesso che diventasse giudice? Perché la si è applaudita quando ha sgominato i furbetti del quartierino? Ieri ero a una trasmissione tv con una prodiana doc, la senatrice Marina Magistrelli. Elencando le buone cose fatte del governo citato i 90 milioni sequestrati a Fiorani e trasformati in buoni asili. Le ho fatto notare che stavano per dare un calcio nel sedere a chi aveva sequestrato quelle somme. Mi ha risposto: “Non noi. L’organo di autogoverno della magistratura...”. In quella frase c’è tutta l’ipocrisia della classe politica italiana. E un buon motivo per stare dalla parte del giudice ragazzina...
P.S. Su Italia Oggi in edicola il 5, il 6 e il 7 dicembre il testo integrale dell'audizione di Clementina Forleo davanti al Csm. Qui di seguito, nel primo post è allegato il testo pubblicato nei giorni 5 e 6 dicembre
Partito delle Libertà? Berlusconi non ci credeva
Come si può vedere dalla scelta pubblica e univoca di tutti i notabili azzurri di Palermo, Silvio Berlusconi non ha nemmeno pensato un secondo al Partito delle Libertà, ma era certo della scelta del Popolo delle Libertà. Tanto da avere lasciato alla Brambilla il primo marchio e da averne registrati ben 4 a suo nome intorno al concetto di Popolo delle libertà il 19 novembre scorso a Bruxelles. La registrazione è stata effettuata al registro dei marchi europei dallo studio Jacobacci & partners a nome di Silvio Berlusconi, viale San Gimignano- Milano. Circa due settimane prima dunque del referendum ai gazebo...
POPOLO DELLA LIBERTA'? IL COPYRIGHT SPETTA A FINI
Chi ha dato a Silvio Berlusconi l'idea del "Popolo delle libertà"? Risposta non scontata: Gianfranco Fini. Sì, è stato proprio il leader di Alleanza Nazionale a inventare il nome, dimenticandosi di registrare il copyright. La testimonianza è in un documento dal suo pugno vergato e approvato dall'assemblea di An all'indomani della sconfitta elettorale del 2006. Eccolo riprodotto a fianco. Con tanto di "popolo delle libertà che ha finalmente e per la prima volta preso coscienza di sè!"...
IL TG1 DI RIOTTA? FARCITO DI POLITICA ASSAI PIU' DI QUELLO DI MIMUN
MORRICONE NON FA POLITICA. O ALMENO NON LA FA GRATIS PER TUTTI...
RAI, IL MINOLI SCANDALIZZATO- Quando lo scandalo era lui
Le telefonate intercettate a Deborah Bergamini hanno scandalizzato un'anima sensibile come quella di Giovanni Minoli. Cui, durante un'intervista a L'Espresso in edicola, è perfino scesa una lacrimuccia: "Mi sono molto dispiaciuto per l'azienda e la sua credibilità, ma non sono affatto stupito. Da ben 14 anni viviamo polemiche e contrasti nati all'ombra del conflitto di interessi di Silvio Berlusconi...". Beh, 14 anni così! Buio piombo. Salvo uno spiraglio di luce. Aprile 1996. L'Ulivo appena vincitore delle elezioni. Romano Prodi, presidente del Consiglio in pectore, invitato a sostenere l'ultima fatica: un'intervista a Mixer, sbranato da Minoli che sa come si fa giornalismo indipendente e aggressivo. E infatti il terribile tele-giornalista presentò Prodi con queste parole: "Il buon professore, il manager, il politico, l'uomo delle speranze on the road e dell'Antitrust, del liberalismo temperato e del federalismo fiscale. L'antidivo per eccellenza, il leader che alle tele-risse preferisce le tele-riflessioni. Il sorriso è rassicurante, bonario e sereno. A tratti frutto di turbamento, spesso il risultato di un ragionamento. Gli occhi, roteanti e morbidi, parlano con le pupille, dialogano con le sopracciglia, comunicano con il cristallino. Le mani, più che gesticolare, dicono...". Chapeau!
CASO RIOTTA. 3/ Il bigliettino di Capezzone
Qualche giorno prima della nomina di Gianni Riotta al Tg1 l'allora presidente della commissione attività produttive della Camera, Daniele Capezzone, rivelò di avere trovato a Montecitorio "un bigliettino" sui cui erano indicate le candidature per le nomine Rai. Era il 5 settembre 2006, e Capezzone lesse quel bigliettino. C'era scritto. "Riotta al Tg1, Braccialarghe alla direzione del personale, Badaloni a Rainews 24...". Nomi azzeccati, due caselle pure giuste al millimetro: Riotta e Braccialarghe! Capezzone o chi aveva scritto quel bigliettino erano in grado di prevedere il futuro!
CASO RIOTTA. 2/ Quella frase di Prodi in Cina...
Quando Gianni Riotta fu nominato al Tg1 Romano Prodi era in Cina, dove stava rifiutando i colloqui con i giornalisti in fuga da un bigliettino inquietante, quello che Angelo Rovati aveva inviato al presidente di Telecom Italia, Marco Tronchetti Provera, allegato a un imbarazzante piano per ristatalizzare le telecomunicazioni italiane. Ai giornalisti che gli chiedevano un commento sulle nomine appena varate dal consiglio di amministrazione della Rai, Prodi sibilò seccato: "Tutti ora dicono che Riotta va bene. Non capisco perché si dice che va bene solo a me..."
CASO RIOTTA.1/ Quell'intervista apri-pista
Che cosa accadde 40 giorni prima della nomina di Gianni Riotta al Tg1? Basta andare di archivio. Corriere della Sera, 21 luglio 2006. Intervista di Gianni Riotta al presidente del Consiglio, Romano Prodi. Eccone alcuni dei passaggi più aggressivi:
"L'antipasto del presidente è semplice, una fetta di pane fresco con poche gocce di aceto balsamico di Scandiano. Guarda la Colonna Traiana che riempie la finestra, «Quelle erano guerre senza proporzione. Roma si metteva in marcia e poteva distruggere un popolo intero. Il mondo è cambiato, ma dolore, morale, restano questioni centrali». Il presidente del Consiglio Romano Prodi fa colazione con il suo staff ed esamina le questioni del giorno, la storia che è ancora cronaca, non fissata nella pietra come nella Colonna dell'imperatore Traiano e su cui ogni leader politico spera di intervenire (...) Prodi ha una camicia a righe e una cravatta celeste, i suoi collaboratori (c'era anche Rovati? ndr) ne seguono la conversazione, come sempre pacata, scandita, con la tradizionale ansia di chi lavora con i leader: dirà troppo? dirà troppo poco? Il presidente li coinvolge nella conversazione, ne ascolta i suggerimenti, e poi continua, secondo il suo filo..."
Ed ecco le domande incalzanti:
1- Presidente, prima di andare ai tassisti, restiamo ancora nel mondo...
2- Davanti alle immagini della guerra in Medio Oriente, c'è in Prodi una doppia reazione, l'angoscia per il da farsi e per lo stop che il conflitto lungo 60 anni pone a tutti gli altri dossier mondiali: «Dovremmo parlare di Asia, di Europa, del rapporto perfetto che abbiamo con la Merkel a Berlino, e che nemmeno quel gol di Grosso al 118' della semifinale non ha spezzato. Dovremmo parlare di voli diretti Roma- Pechino, di turismo dalla Cina, e di Banca del Mediterraneo. Invece tutto fermo».
3- Il mondo è grande e terribile, presidente. Ma anche governare i tassì non è semplice. Chi ha vinto, a proposito, il governo o i tassisti?
4- Il suo avversario, l'ex premier Silvio Berlusconi, sta facendo il suo surplace e si dice convinto che lei andrà fuori pista alla Finanziaria (sic.. Già allora, e la spalla non si è lussata... ndr)
5- Guardando il nostro paese non si vede troppa passione, presidente. Poca crescita, poco sviluppo, niente innovazione, pochi figli.
6- Almeno attorno al Mondiale un po' di passione s'è vista, in campo e fuori. Poi ci siamo risvegliati con il calcio degli scandali.
7- S'è fatto tardi, il caffé è freddo nelle tazzine, l'agenda del premier incalza. Niente vacanze, quest'anno?
Eh sì... Uno così non poteva che finire al Tg1...
Melandri condannata a pagare le spese per avere querelato ingiustamente Italia Oggi
Giovanna Melandri è stata condannata dal tribunale di Milano a pagare le spese processuali del procedimento che lei stessa aveva promosso contro il quotidiano Italia Oggi per un articolo pubblicato il 22.11.2006 sulle sue proprietà immobiliari. Il ministro non contestava i fatti, ma la violazione della sua privacy ed era indispettita dalla pubblicazione della notizia su un immobile donato vigente la legge Tremonti che rendeva esentasse quell'atto. Non gradita nemmeno la notizia sui guai giudiziari successivi avuti dal notaio che aveva compilato l'atto.
Con sentenza depositata il 13 novembre il gup milanese Fabio Paparella ha respinto le richieste della Melandri non ravvisando nell'articolo alcun intento diffamatorio. "Invero i fatti di cui si parla nell'articolo sono veri come si può desumere dalla stessa denuncia-querela. D'altra parte non è dato vedere in che modo o per quale motivo le frasi contenute nell'articolo riguardanti tali circostanze possono avere carattere diffamatorio...".
Per questo motivo il gup dichiara "non luogo a procedere nei confronti di Sansonetti Stefano e Bechis Franco in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste" e condanna "il querelante al pagamento delle spese processuali".
Questo l'articolo per cui la Melandri aveva querelato:
Una sobria Melandri Giovanna Melandri è un ministro sobrio, senza eccessi. Le banche dati sono avare di informazioni. Non una partecipazione societaria. Niente di niente. L'unica a soddisfare qualche sulla diessina nata a New York nel 1962, è quella del catasto. In realtà quello che racconta non va oltre i dati relativi alla proprietà di due appartamenti. Il primo è situato un via di S. Paolo alla Regola a Roma. La Melandri qui ci vive, muovendosi in 6 vani. Un appartamento che vanta una rendita di 1.781,78 euro. Più interessante, invece, la situazione immobiliare che porta dritta al comune di Ficulle in provincia di Terni. In località Poggi, Giovanna Melandri è proprietaria di un appartamento popolare di 4,5 vani per una rendita di 199,87 euro. L'appartamento le è stata donata il 5 ottobre del 2002, donazione dunque effettuata sotto legge Tremonti, da Carla Maria Petrosino Ghelli, romana di 66 anni, la cui unica traccia si ferma a un'iscrizione all'ordine dei giornalisti del Lazio nell'elenco pubblicisti. Notaio rogante Alessandro Pongelli, balzato agli onori delle cronache lo scorso 10 ottobre per essere finito nell'occhio di un'indagine della Guardia di Finanza che gli è costata gli arresti domiciliari
Rovati- Riotta, un bigliettino che non cade dal cielo- Italia Oggi scrive un indiscreto, querelano Cappon, Rovati e mezzo mondo. Ecco la ricostruzione
Rovati e il biglietto su riotta al tg1... IL CASO
DEL GIORNO Il retroscena delle nomine Rai del governo Prodi Ancora Angelone Rovati, il mitico amico-consulente dell'attuale presidente del consiglio, Romano Prodi. Ancora un bigliettino, come quello spedito a Marco Tronchetti Provera sul piano Telecom che costò al povero Rovati il posto ufficiale a palazzo Chigi (non quello ufficioso). Beh, a sentire la versione fornita ad amici e colleghi da Marcello Del Bosco, dirigente diessino di lungo corso in Rai, sarebbe stato proprio un bigliettino di Rovati a determinare un anno fa le più importanti nomine della Rai. Secondo Del Bosco, considerato assai vicino a Massimo D'Alema, quel bigliettino sarebbe stato consegnato al direttore generale di viale Mazzini, Claudio Cappon, da Rovati su richiesta del presidente del consiglio. Sopra c'erano scritti solo due nomi. Il primo era quello di Gianni Riotta, che da lì a poco sarebbe stato nominato direttore del Tg1. Il secondo nome era quello di Maurizio Braccialarghe, già direttore generale della Sipra (concessionaria Rai della pubblicità) e in passato direttore della divisione radiofonica. Braccialarghe sarebbe stato nominato direttore del personale di viale Mazzini lo stesso giorno- 13 settembre 2006- di Riotta. Bigliettino Telecom e bigliettino Rai erano contemporanei...
Massimo Ranieri e Franco Di Mare si sono scoperti cugini lunedì sera a Roma
Prodi chiama Tps il suo ministro dell'Economia e rivela: per combattere l'assenteismo nella p.a. i miei consigliano di dare un premio di presenza!
PSICODRAMMI/EZIO MAURO aveva bisogno di una casa. La comprò da chi cercava quei soldi per fare causa a Repubblica
LO SVENTURATO PROFUMO CHIESE AIUTO A CELLI PER FERMARE LA GABANELLI
Alessandro Profumo non ha mai nutrito alcun dubbio: sui derivati la sua Unicredit ha sempre avuto ragione. Se torto c'è stato, è tutto del mercato che si è spaventato per una semplice trasmissione tv, quel Report di Milena Gabanelli andato in onda il 14 ottobre scorso, e che è stato causa di un salasso di quasi il 30 per cento per chi nei giorni successivi aveva in mano azioni Unicredit. Profumo è sempre stato convinto di avere ragione da avere deciso di offrire quel giorno alle telecamere della Gabanelli la presenza di Gianni Coriani, direttore generale di Unicredit banca di impresa. E così è stato. Solo dopo che l'ennesimo collaboratore e consulente gli ha spiegato di ritenere una follia la partecipazione a quella trasmissione, Profumo si è convinto a fare un passo decisivo. Ha chiamato un ex manager del gruppo, Pierluigi Celli, gli ha chiesto che rapporti aveva con la Gabanelli all'epoca della sua esperienza da direttore generale Rai, e lo ha pregato di intervenire sulla stessa spiegandogli ogni dettaglio sui derivati. Celli, che uscì da Unicredit con la bava alla bocca nei confronti di Profumo (ma il gran capo di Unicredit, così sicuro di se stesso non se ne accorse), alla Gabanelli ha effettivamente telefonato. E quando il povero Coriani si è trovato di fronte alle domande di Report è sbiancato: come facevano quelli lì a conoscere nel dettaglio tutti i segreti di Unicredit? E così ha tentato una difesa impossibile, spiazzato dal numero di informazioni in mano alla Rai. Indovinate un po' chi le aveva passate alla Gabanelli...
Da Italia Oggi in edicola/ Clamorosa scoperta archeologica: in Rai hanno trovato una che è stata raccomandata
Ci sono voluti più di 50 anni, ma alla fine le lunghe ricerche hanno avuto successo: in Rai hanno scoperto che una dipendente è stata raccomandata. Addirittura lottizzata dall'ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Si chiama Debora Bergamini, fa il direttore marketing dell'azienda di viale Mazzini in cui è stata catapultata dopo un breve rodaggio come assistente di Berlusconi. Per fare emergere lo scandalo ci sono voluti naturalmente lunghi appostamenti e mesi, se non anni, di intercettazioni telefoniche e ambientali. E per rivelarlo a tutti la caparbietà di un pool di cronisti, quello di Repubblica, che hanno offerto la primizia accompagnata da commenti grondanti indignazione. Il caso Bergamini getta una macchia su una vita aziendale - quella della Rai - di tradizionale e fiera indipendenza dalla politica in genere e dai governi in carica. Fin dal giorno della sua fondazione la Rai è stata presa a modello da tutti i grandi network internazionali per una passione innata per le notizie e l'orgoglioso motto «il mio unico azionista è il telespettatore». Nelle scuole di giornalismo si citano sempre i celebri direttori del Tg unico, poi del Tg1, del Tg2, del Tg3, dei radiogiornali, delle testate satellitari per la schiena sempre dritta e il coraggio con cui si negarono al telefono e in caso contrario mandarono a quel paese presidenti del consiglio, da Alcide De Gasperi a Romano Prodi passando per i vari Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Bettino Craxi e - certo - anche Berlusconi. Solo qualche settimana fa si sono svolti nell'indifferenza generale i funerali di un ex direttore del tg, tale Enzo Biagi, licenziato dall'azienda di viale Mazzini perché fannullone e scarsamente preparato. Quando Ted Turner fondò la Cnn, per reclutare i giornalisti volle prendere ad esempio i celebri concorsi con cui si erano costruite nella lontana Italia fiori di redazioni giornalistiche invidiate in tutto il mondo: gente preparatasi a lungo sui libri, addestrata quasi militarmente a tenere dritta quella maledetta schiena. Alla Harvard business school esiste addirittura un corso di laurea dove si insegna il modello di governance della Rai: un consiglio di amministrazione indipendente, eletto dai telespettatori fra una rosa di candidati selezionata con criteri durissimi dalle principali università internazionali. Come fra le maglie strettissime di un sistema così consolidato abbia potuto infilarsi - forse di notte - una Bergamini è mistero che solo quel diavolo di Berlusconi potrebbe rivelare. Giusta l'indignazione generale. Appare fin poco la «class action» minacciata dall'Usigrai, il sindacato di quelli dalla schiena dritta. L'Italia non si meritava tanta vergogna. Vi pare?