Immobiliarista, come tutto
il resto della famiglia, grazie alla Wind Rose International finita ora al
centro della battaglia legale con Luciano Gaucci. Avvocato dopo essersi laureata
in giurisprudenza, anche se ha esercitato la professione poco o nulla. Showgirl
grazie a qualche buona entratura in Rai, ma dopo qualche programma è finita
l’avventura lasciando nella tv di Stato spazi ben più redditizi al fratello
Giancarlo e a mamma Francesca. Fra le tante strade professionali tentate da
Elisabetta Tulliani ce ne è anche una che è finita quasi sul nascere: quella
della giornalista. Ne resta traccia fra l’estate e l’autunno del 2006
nell’archivio (che è anche on line) del quotidiano Il Tempo, all’epoca diretto
da Gaetano Pedullà. La
Tulliani desiderava, dopo l’iscrizione all’ordine degli
avvocati, anche quella all’ordine dei giornalisti, elenco pubblicisti. E iniziò
la collaborazione, specializzandosi in economia e finanza. Poi scrisse qualche
articolo di cronaca e perfino uno di politica, proprio quello su cui scivolò
scatenando perfino il cdr del quotidiano e dovendo infine interrompere la sua
collaborazione. La
Tulliani non scriveva in redazione (nessuno ne ricorda
l’assidua presenza), ma fra settembre e ottobre di quell’anno sfornò articoli a
ripetizione. Apparvero con la sua firma- necessaria per raggiungere l’agognato
tesserino da pubblicista- ma non sempre erano farina del suo sacco. L’11 ottobre
2006 apparve ad esempio su Il Tempo un articolo della Tulliani sull’inchiesta
delle Iene a proposito dei deputati che facevano uso di droga. Titolo:
“L’associazione Polo tecnico vuole sapere chi sono i pusher degli onorevoli-
Esposto alla procura di Roma per fare aprire un’inchiesta”. Il testo però è
identico, parola per parola, perfino nella punteggiatura, a un dispaccio
dell’Ansa delle 19.02 della sera precedente dal titolo “Droga: Iene; Polo
tecnico, esposto per permettere l’inchiesta”. Un piccolo plagio, perché senza un
minimo di editing redazionale sui giornali non si dovrebbe firmare con il
proprio nome il lavoro fatto da altri. Ma nessuno se ne accorse. Nonostante
l’incidente di quel giorno non fosse né il primo né l’ultimo: la Tulliani aveva il vizietto
di appropriarsi del lavoro altrui mettendovi impropriamente il suo timbro in
calce. Il 27 settembre stesso incidente
nella sezione economia del quotidiano romano. Articolo sull’indagine Ue per i
trasferimenti dello Stato italiano alle Poste. Il testo è firmato Elisabetta Tulliani, ma è identico,
senza modifica nemmeno della punteggiatura, al dispaccio Ansa delle 17,42 del
giorno precedente, siglato Cao. Anche in questo caso appropriazione del lavoro
altrui. Stesso incidente il 18 settembre 2006. Su Il Tempo esce un articolo
della Tulliani sullo sciopero degli avvocati contro il decreto Bersani sulle
liberalizzazioni. Lei- pur tentando la strada da giornalista- è già avvocato, e
la materia dovrebbe ispirarla. Ma nell’articolo pubblicato a sua firma non c’è
nemmeno un aggettivo scelto dalla giornalista in erba: si tratta come sempre
della copia precisa alla virgola del dispaccio Ansa delle 15,43 del 17
settembre, titolato “Competitività: avvocati, al via settimana di sciopero”,
siglato FH-NM. Un paio di giorni prima, il 15 settembre, solito metodo. Sul
Tempo è uscito a firma Tulliani il dispaccio dell’Ansa sulle acquisizioni di
Unipol mandato in rete alle 18,24 della
sera precedente. Stesse parole, stessa punteggiatura, ma diversa fatica:
la Tulliani
ha copiato solo metà del dispaccio Ansa. Poi ha messo un punto e l’articolo si è
interrotto sul più bello (o forse è uno scherzetto fattole in redazione). Cerca
che ti cerca, salta fuori anche un articolo della Tulliani di cui non si trova
traccia negli archivi delle varie agenzie di stampa. Potrebbe essere davvero un
Gronchi rosa, l’unico dove l’avvocato e futura compagna del presidente della
Camera potrebbe avere messo farina del suo sacco. E’ un articolo di politica,
fra l’analisi e il commento. I nomi sono diversi, ma se si cambiassero, potrebbe
essere scritto oggi. “Pierferdinando Casini è riuscito laddove neanche Prodi
sarebbe riuscito. E’ bastato il suo ennesimo attacco alla leadership di
Berlusconi per ricompattare Forza, An e Lega. Tutti contro l’Udc. Mercoledì a
Pesaro, parlando con i suoi prima di partecipare alle feste dell’Unità, il
leader dell’Udc non aveva usato metafore: ‘Non vogliamo vivere e morire con
Berlusconi’. Ieri- puntuali- sono arrivate le reazioni. Non quella di Silvio
Berlusconi che ha trascorso l’intera giornata insieme a Umberto Bossi in
Sardegna…”. Sembra una premonizione di quel che si vede. All’epoca Casini, ora
Fini. E in entrambi i casi Berlusconi e Bossi insieme a fine estate in una villa
del Cavaliere. Analisi politica perfino raffinata, quasi da fare dimenticare
l’evidente violazione del diritto d’autore fin lì perpetrata ai danni dei poveri
redattori dell’Ansa. Ma anche quella non
era farina del suo sacco. A distanza di anni resta ancora un giallo. Perché
quell’articolo era stato scritto da una delle prime firme interne de Il Tempo.
Ma fu pubblicato con la firma di Elisabetta Tulliani. Se ne accorse l’autore,
che protestò. Insorse il cdr chiedendo spiegazioni. La questione fu risolta
all’interno e da lì a poco fu staccata la spina alla fotocopiatrice Tulliani,
mettendo fine ai sogni da pubblicista. Nella redazione il caso avvelenò il
rapporto con il direttore, con un braccio di ferro che da lì a poco sarebbe
costato la poltrona a Pedullà, che si è rifatto conquistando la direzione di un
polo tv interregionale della famiglia
Caltagirone.
Sul balcone di casa Fini a Roma un'aquila fascista?
Questa è la foto pubblicata da Libero di uno dei terrazzini della casa di Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani a Roma. In grado di aprire un altro giallo. Presa con il tele-obiettivo l'aquila di legno che vi campeggia sulla parete sembra poggiare proprio su un fascio littorio. Come se i simboli rinnegati in pubblico dall'ex leader di An siano gelosamente custoditi in privato. Non ci sono dubbi invece sul busto bronzeo appoggiato alla balconata: non è quello di Benito Mussolini (anche se l'uomo bronzeo di cui si vede la nuca sembra privo di capigliatura)....
Berlusconi e Geronzi in lite per un parcheggio
A vederli insieme tutti
sorrisi, carinerie e complimenti nella recente cena a casa di Bruno Vespa,
nessuno l’avrebbe mai immaginato. Eppure Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi,
dopo anni di frequentazione, lavoro comune e perfino amicizia, sembrano lì a
litigare come due vicini di casa pronti a rinfacciarsi il regolamento
condominiale. E la lite è proprio un classico: per un parcheggio. Non che uno
abbia occupato il posto dell’altro senza averne diritto, ma l’occasione non è
dissimile. L’utilizzatore del parcheggio è Berlusconi, Geronzi è il
parcheggiatore. Il motivo della lite è proprio nella tariffa oraria applicata:
davanti al parcheggio c’era scritta una somma, alla cassa invece Geronzi ha
applicato una tariffa assai superiore. In casa Berlusconi qualcuno ha guardato
gli scontrini, se ne è accorto e adesso rivuole indietro la supertassa applicata
senza avviso. Detta così è semplice, ma l’affaire è assai più sostanzioso,
perché in ballo ci sono circa 300 mila euro. Quando infatti dovevano prendere
gli aerei privati a Linate, Berlusconi, familiari e manager del gruppo Fininvest
erano soliti parcheggiare nell’attiguo centro direzionale di Milano Due. Il
parcheggio è di proprietà della Generali Immobiliare sgr del gruppo Generali
presieduto proprio da Geronzi. Visto che ce ne era bisogno quasi ogni giorno, i
posti auto sono stati affittati per tutto l’anno dalla Silvio Air (Alba servizi
aerotrasporti). Arrivavano le fatture, e Silvio pagava. Fino al controllo: in
dieci anni Generali avrebbe addebitato 300 mila euro di troppo. Così il 24
febbraio scorso è stata spedita a Geronzi una lettera di formale contestazione:
“restituiscimi la tassa extra sul parcheggio”. E se a casa Vespa non si è
trovata l’intesa, qui si rischia la carta bollata…
L'anno prossimo sui cieli di Italia sfreccerà un Berlusconi bis
L’ultimo arrivato si chiama
Premier IA ed è negli hangar della Silvio Berlusconi Air Force dal 30 giugno
dell’anno scorso. E’ un Hawker 390 con la sigla I-GSAL, pagato 3,5 milioni di
euro e già utilizzato per spostamenti privati anche dal presidente del Consiglio
italiano. Ma fra un anno esatto arriverà il Berlusconi bis dei cieli italiani.
Si chiamerà Hawker Premier II, è già stato opzionato da una caparra pagata e
secondo gli accordi verrà pagato 7,3 milioni di dollari. Chissà se dal volo si
avrà una indicazione politica, se quel passaggio dal Premier IA al Premier II
sia anche premonizione di rimpasti, di governi bis di cui sta tanto
chiacchierando la politica italiana. Certo è un profondo rimpasto aereonautico
quello che emerge dal bilancio 2009 di Alba servizi Aerotrasporti spa, la
società controllata da Fininvest che gestisce i viaggi su aerei privati di
azionisti e manager del gruppo di comunicazioni e che da sempre trasporta Silvio
Berlusconi via terra e via mare. Il rimpasto si è reso possibile grazie al
riscatto dal leasing e alla successiva vendita sul mercato a terzi (di cui viene
celata l’identità) dell’aereo più imponente della flotta, un Airbus A319 che era
stato la vera dannazione della piccola compagnia aerea berlusconiana. Nel 2008
aveva subito anche un danno rilevante, prontamente rimborsato dalla compagnia
assicuratrice. Ora che è stato venduto la società ha potuto realizzare una
discreta plusvalenza, mettere un po’ più in ordine i conti finanziari che non
brillavano (e comunque il 2009 si è chiuso ancora in perdita per 6,3 milioni di
euro) e puntare su nuovi acquisti per la
Air Silvio. E’ arrivato nella seconda parte
dello scorso anno il Premier IA (il nome è dato dalla Hawker che lo produce, ma
certo è evocativo) ed è stata già presa la decisione di mettere in flotta nella
seconda parte del 2011 il Premier II, un
vero e proprio gioiellino tecnologico. Non è l’unica novità. Perché il 28
gennaio scorso è entrato in flotta anche un Bombardier Challenger 604, vecchia
conoscenza dell’Alba servizi aerotrasporti spa. Il velivolo era di proprietà
della Airviaggi San Raffaele, la compagnia dell’omonima società di don Luigi
Verzè, che ha ottenuto da tempo l’abilitazione all’attività di elisoccorso in
convenzione con la Regione Lombardia.
Con il Bombardier l’elisoccorso c’entrava poco, perché è un piccolo aereo per
trasporto privato di persone. Ha un bel salottino a bordo e può portare 9-10
persone su viaggi non troppo lunghi. La manutenzione veniva fatta dalla società
di Berlusconi, che ora ne ha acquisito la proprietà e ne curerà l’esercizio
portando a bordo come cliente anche don Verzè o qualcuno dei suoi manager e
ospiti. Per questo l’Alba ha dovuto stanziare non poche risorse destinate a un
corso di addestramento piloti, perché la propria squadra non era abituata al
Bombardier.
Negli hangar di Silvio si è
fermato per la manutenzione e qualche piccolo ritocco anche l’aereo privato di
Miuccia Prada, di proprietà della sua Prada Company s.a. Il resto della
clientela è invece tutto interno alla famiglia Berlusconi e alle società del
gruppo Fininvest. Fra i creditori figurano infatti Mediolanum (395.018 euro),
Reti televisive italiane (278.762 euro), Mediaset (228.430 euro) e Publitalia
(210.056 euro).
Da oggi è invece in mare
anche la nuova barca di Pier Silvio Berlusconi. Si
tratta di un Custom Line da 124 piedi (37 metri ) costruito ad
Ancona dai cantieri Ferretti, scafo che sostituisce il precedente modello di cui
era proprietario, un 97
piedi (30 metri ) sempre Custom Line,
riacquistato dal Gruppo Ferretti. Secondo notizie di agenzia il prezzo finale
dell'imbarcazione è stato fissato tra 5 e 6 milioni di euro, un terzo rispetto
alle prime indiscrezioni che avevano già suscitato polemiche politiche. La cifra
infatti tiene conto sia dello scambio con il vecchio modello che del contributo
al progetto del prototipo fornito direttamente da Pier Silvio. L’ha disegnato in
parte lui, è piaciuto al produttore, e così al primogenito del premier finiranno
anche tutte le royalties sui modelli venduti a terzi. Il nome della nuova barca
resterà lo stesso di quella restituita:
Suegno.
Come gli zombie... I partiti che erano sciolti e già morti, resuscitano e ci portano via 85 milioni di euro
E’ come in quei film in cui
il caro estinto all’improvviso si sveglia, scopre di essere vivo e balza fuori
dalla bara sano come un pesce. Come gli zombie, come nel ritorno dei morti viventi
fra qualche giorno a luglio resusciteranno partiti politici di cui spesso ci si
era scordata l’esistenza. E con loro perfino quelli di cui in pompa magna si
era celebrato da tempo il funerale. Tutti pronti a correre con il cappello in
mano all’ufficio tesoreria dei due rami del Parlamento. E riscuotere insieme un
maxi assegno da 85 milioni di euro, gentilmente offerto da ignari contribuenti
italiani. Poverini, loro sui giornali si leggono in queste settimane di lite e
dispettucci fra chi vuole le correnti Pdl e chi le vede invece come fumo negli
occhi. Altro che correnti, però! Nel partitone fondato da Silvio Berlusconi ci
sono ancora due veri e propri cicloni: Forza Italia e Alleanza Nazionale. Li
avevamo dati per morti entrambi, e invece fra pochi giorni usciranno entrambi
dalla tomba per mettersi in tasca un assegnone uno da 25,7 milioni di euro e
l’altro da 13,1 milioni di euro. Spunterà perfino una sigletta di cui ci si era
ormai dimenticati: la Casa
delle libertà. Con il vestitino di Cdl Trentino riscuoterà 280 mila euro. Il
solito trattamento di favore per i cari estinti del governo? Macchè, gli zombie
stanno per saltare fuori anche dalle fila dell’opposizione. Si materializzerà
perfino quel fantasma di Romano Prodi che appena appare fa venire uno
stranguglione sia all’attuale segretario del Pd, Pierluigi Bersani che al suo
predecessore, Walter Veltroni. Perché dalla tomba sta per uscire nientemeno che
l’Ulivo. Passerà alla cassa per ritirare un assegno da 16,1 milioni di euro. E
sarà in buona compagnia, perché per la
manina terrà uno zombino, “Insieme con l’Unione” pronto a riscuotere un milione
e 677 mila euro. A sinistra c’è addirittura da organizzare un festival del caro
estinto. Perché oggi c’è il Pd, nato sulle ceneri dei Ds e della Margherita di
Francesco Rutelli, con qualche mozzicone verde, qualche altro socialista e le
intere truppe dei radicali. Dopo essere nato ha già divorziato da una parte di
se stesso: Rutelli ha preso il volo e fondato l’Api, già tonificata dai
rimborsi elettorali per le ultime regionali. Ma sotto la cenere c’è una
moltitudine di morti viventi che sta per svegliarsi. Defunti i Ds? Noo. Sono
morti che camminano e stanno per andare a incassare dal popolo italiano un
assegnone da 9,3 milioni di euro. Defunta la Margherita ? E chi l’ha
detto? E’ solo sciolto quel partito. Ma esiste ancora e sta per prendersi un
maxi-contributo da 6,1 milioni di euro. E radicali e socialisti? Un tempo si
fusero insieme e diventarono la
Rosa nel pugno, formazione politica tragicamente defunta ai
suoi primi passi. Niente lacrime: risorgerà a luglio per prendersi il milione e
331 mila euro a cui ha ancora diritto. I verdi? Qualcuno di loro si è riciclato
nel Pd, gli altri sono a spasso non più rappresentati in Parlamento. Morti però
no: li tiene in vita un assegnone lì pronto ad essere sventolato, e sono ancora
un milione e 54 mila euro.
Vi ricordate ancora di Fausto
Bertinotti e del suo erede alla guida di Rifondazione comunista? No? Niente
paura: loro si ricordano ancora di voi e del buon cuore di tutti i contribuenti
italiani. Perché se l’avete dimenticato, fra pochi giorni girerete a
Rifondazione comunista un bonifico da 6,98 milioni di euro. E siccome Oliviero
Diliberto è scomparso più di loro, ma un po’ di invidia ancora la coltiva,
passerà anche lui alla cassa. I suoi comunisti italiani hanno ancora diritto a
mettere le mani su un piatto ricco dove troveranno un milione e 188 mila euro.
Poco più di quelli restati per il povero Clemente Mastella che fosse stato per
lui mai avrebbe celebrato il funerale della sua Udeur. Buone notizie: ha ancora
da riscuotere un milione e 91 mila euro e l’estrema unzione può essere ancora
rimandata.
Per fare 85 milioni- tutti
sottratti alle tasche degli italiani nell’assoluto disinteresse di chi ha
firmato la finanziaria del gran rigore- manca ancora qualche mancia che
gentilmente bisogna offrire a mini-sigle forse nemmeno notate sui palcoscenici
della politica. Ha diritto a 366 mila euro l’Unione estero. Poco più di quei
316 mila euro che finiranno nelle tasche dell’Unione-Svp. mancano all’appello
113 mila euro della Lista consumatori, altri 77 mila euro destinati al
movimento politico “Per l’Italia-Tremaglia” che fa quasi rima e i poco meno di
34 mila euro dovuti a Forza Italia-An Valle D’Aosta, primo esperimento in
laboratorio alpino di quel sarebbe diventato il Pdl. Tutti morti, ma con le
tasche più vive che mai.
Compagni, non c'è un euvo. Così anche Rifondazione dà un calcio ai suoi lavoratori. Licenziati
Compagni, non c’è più un euvo e quindi ve ne andate a casa. Proprio nel giorno in cui investiva gli ultimi spiccioli per una paginata di pubblicità a favore della Fiom di Pomigliano con lo slogan “gli operai non si piegano” Rifondazione comunista e il suo segretario Paolo Ferrero hanno dato la triste notizia agli operai di casa propria. L’hanno dovuta leggere su Liberazione, quotidiano del partito che ieri ha ospitato la pubblicazione del bilancio 2009 firmata dal tesoriere di Rifondazione, Sergio Boccadutri. Lì, fra le pieghe della relazione hanno trovato prima una notizia buona che ha acceso le speranze di tutti: gli eredi di Fausto Bertinotti hanno ancora da riscuotere a luglio un rimborso elettorale da 6,5 milioni di euro. Subito dopo è arrivata la notizia cattiva: quelli sono gli ultimi soldi che arriveranno in cassa, e in pratica sono già tutti spesi prima ancora di riceverli. Ed ecco la doccia ghiacciata: “nel corso dell’anno 2010 e successivamente si dovrà operare una riduzione dei costi per la gestione della direzione del Partito della Rifondazione comunista che colpirà gravosamente sia il personale che la gestione corrente e l’iniziativa politica”. Certo, finiti i rimborsi pubblici e nell’attesa di potere partecipare a qualche altra campagna elettorale (solo però in caso di scioglimento anticipato della legislatura) Ferrero e soci cercheranno risorse aggiuntive bussando a qualche buon cuore. Ma non si sognino i dipendenti che quei soldi vadano a loro evitando qualche licenziamento! Mica siamo in Fiat con Sergio Marchionne che salva posti di lavoro chiedendo solo di produrre un po’ di più. “La ricerca di ulteriori risorse”, scrive il tesoriere di Rifondazione, “non sarà destinata a un minore impatto per questa riduzione, ma sarà necessaria al mantenimento in vita del Partito stesso nel prossimo triennio”. Niente illusioni per i i 79 dipendenti del partito che stanno per essere messi in libertà.
Preparate i telescherni. Ora Fini vuole lanciare la sua tv, zeppa di storia e cultura
Il progetto è ambizioso, e i
consulenti chiamati al capezzale anche. Gianfranco Fini ha deciso di
trasformare il canale satellitare della Camera dei deputati in una vera e
propria televisione, che non si limiti a trasmettere le sedute di aula e
commissioni di Montecitorio. Un po’ sulla piattaforme satellitari (quella di
Sky ma anche quella nuova Rai-Mediaset), un po’ sul canale web, sta prendendo
forma la nuova Fini-tv. Nel progetto di bilancio per il 2010 che sta per essere
approvato dalla Camera dei deputati viene definita così: “lo sviluppo del
palinsesto del canale satellitare è funzionale all’ampliamento dei contenuti
dell’informazione relativa ai lavori parlamentari. Ciò mediante al costruzione
di un palinsesto organico che preveda trasmissioni anche nelle ore serali, nel
fine settimana e nei periodi di sospensione dei lavori, mediante la produzione
di contenuti aggiuntivi rispetto alle sedute e agli eventi, quali,
esemplificativamente, documentari storico culturali, programmi da studio,
sintesi dei lavori parlamentari, filmati divulgativi da utilizzare anche sugli
altri canali di diffusione delle informazioni”. Secondo quanto risulta a Libero
per il momento la Camera si è limitata ad accordi con produttori terzi,
stringendo intese con Rai-teche e con l’Istituto Luce per acquisire documentari
storici, artistici e culturali da loro posseduti da trasmettere durante i week
end e nei momenti di pausa dai lavori parlamentari (quindi nella parte più
rilevante del palinsesto annuale). Sono stati presi poi contatti diretti con
l’ex direttore Rai Giovanni Minoli, appena andato in pensione dall’azienda ma
restato alla guida della struttura che si occupa delle celebrazioni per i 150
anni dell’Unità di Italia. Con Minoli, che è stato prodigo di suggerimenti
sullo sviluppo della Fini tv la Camera ha già immaginato di dedicare una parte
della sua programmazione sia satellitare che web proprio alla trasmissione di
produzioni Rai legate a Italia 1961, il centenario dell’Unità. Un terzo filone
utile alla costruzione del nuovo palinsesto sarà quello di una sorta di baratto
con altri produttori televisivi e cinematografici. La Camera darà il suo
benestare a girare film e documentari al proprio interno solo se in cambio i
produttori ne daranno il diritto di trasmissione sul proprio canale televisivo.
Naturalmente non si tratta di un diritto di prima scelta (fiction e documentari
andranno prima in onda sui canali generalisti e poi su quelli tematici come di
consueto), ma sulla Fini tv potranno andare in onda- ad esempio- documentari
come quello recentemente girato sull’architetto Ernesto Basile o fiction di
grido come quella girata non molto tempo fa negli “studios” reali di Montecitorio
sulla vita di Alcide De Gasperi (interpretato magistralmente dal neo “compagno”
Fabrizio Gifuni, figluio del più potente segretario generale del Quirinale di
questi decenni). Per la produzione in proprio- ipotizzata nel piano allegato al
bilancio della Camera- non ci sono al momento le forze e le professionalità
necessarie. Però nel 2009 sono stati terminati i lavori per l’allestimento di
uno studio di registrazione alle spalle dell’aula destinato proprio alla
Fini-tv. Utilizzando l’ufficio stampa verranno auto-prodotti “programmi da
studio” di taglio giornalistico, ad esempio mini talk show e brevi interviste
con i parlamentari, che verranno poi offerti gratuitamente ad altre reti
pubbliche e private.
A Napoli c'è un cardinale che si è perso nel bosco...
C’è anche un bosco, e che
bosco, fra le proprietà immobiliari della Archidiocesi di Napoli ora guidata
dal cardinale Crescenzio Sepe. Una distesa di 17 ettari alle porte
della città partenopea che secondo disposizione testamentaria del benefattore
debbono appartenere non alla archidiocesi, ma al’arcivescovo pro tempore della
Archidiocesi di Napoli. E così avviene: appartenevano a Michele Giordano, ora
quegli ettari sono divenuti proprietà pro tempore del cardinale Sepe. Sarà
anche per questo che il porporato non sentirà troppa nostalgia dell’epoca in
cui stava al vertice della Congregazione di Propaganda Fide, da cui lo rimosse
proprio l’attuale Papa Benedetto XVI promuovendolo arcivescovo della sua
amatissima Napoli. Da papa Rosso il cardinale che organizzò alla perfezione il
grande Giubileo del 2000 vegliava su un patrimonio immobiliare di 761
fabbricati e 445 terreni. Ma con quelle distese, è chiaro, qualcosa poteva ben
sfuggire anche all’occhio di un amministratore attento come Sepe. Provocando i
guai che ora si vedono emergere dalle inchieste della procura di Perugia sulla
cricca degli appalti. A Napoli no, l’occhio può vigilare con più attenzione,
mettere a reddito e fare funzionare in modo oculato. Ma anche nella nuova
avventura il mattone a Sepe non è mancato. La sua archidiocesi di Napoli
direttamente o indirettamente (anche attraverso il locale istituto per il
sostentamento del clero), controlla 138 fabbricati e 47 terreni, compreso quel
bel bosco che in qualche modo è destinato alle passeggiate dell’arcivescovo.
C’è un po’ di tutto: sedi di istituti religiosi, conventi, case parrocchiali,
uffici, esercizi commerciali e anche abitazioni vere e proprie messe a reddito
con inquilini estranei alla curia. Grazie alla propria squadra di consulenti
portata con sé il cardinale Sepe è riuscito a mettere ordine alle finanze di
curia e a fare fruttare quel patrimonio immobiliare che era in alcuni casi non
censito e assai trascurato. Ha trovato così risorse necessarie alle nuove
iniziative lanciate dalla curia. La prima è stata la creazione di una sorta di
finanziaria di mutuo soccorso. Si chiama Fondo spes, è stato creato in
collaborazione con Unicredit bank e il Confidi Pmi Campania ed opera sul
modello di una finanziaria per il microcredito. Concede- senza chiedere alcun
tipo di garanzia patrimoniale- prestiti entro i 20 mila euro per avviare o
riconvertire iniziative imprenditoriali o commerciali e riuscire così a
superare i morsi stretti della crisi finanziaria. Ha già ottenuto qualche
successo soprattutto fra i commercianti di Napoli. L’altra iniziativa è ancora
tutta da creare. Ma le fondamenta sono già state poste fra la fine del 2009 e
la primavera del 2010. E’ stato allora che Sepe ha dato i natali alla Verbum
ferens srl, società controllata dall’arcivescovado che ha intenzione di farne
la propria holding in campo editoriale. A febbraio scorso ha chiesto e ottenuto
dall’Autorità di garanzia nelle comunicazioni l’iscrizione nel Roc, il registro
degli operatori della comunicazione. L’ok è arrivato il 18 febbraio scorso dal
direttore del servizio ispettivo e di registro della sede napoletana della
autorità, Nicola Sansalone. La
Verbum ferens è diventata così attiva, ma per il momento il
piano di sviluppo resta riservato. Nel suo oggetto sociale c’è per altro la
comunicazione (il Verbo da portare) a 360 gradi. La società infatti ha diritto
alla “pubblicazione, distribuzione e commercio di libri, riviste e periodici di
qualunque tipo e specie, sia in lingua italiana che in lingua straniera;
l’attività tipografica; l’esercizio e la gestione di reti radiofoniche e
televisive e la gestione di agenzia di stampa e/o di concessionarie di
pubblicità”.
Compagni attori, vi copriamo d'oro! Statali, prrrrrrrr! La nuova strategia del Pd
Meglio avere un compagno
attore ricco che uno statale di troppo fra i piedi. Il Pd ha deciso di
divorziare definitivamente con la sua tradizione sindacalista e di sinistra
gettando nella mischia della legge finanziaria un emendamento che nemmeno
Renato Brunetta avrebbe mai immaginato nella sua guerra santa ai fannulloni.
L’emendamento porta il numero 2.0.12 e la firma di Vincenzo Vita, ex
sottosegretario alle comunicazioni, di Anna Maria Serafini (sposata con Piero
Fassino), di Vittoria Franco e numerosi altri volti noti del Pd: Rusconi,
Giaretta, Garavaglia, Marcucci, Procacci, Legnini e Mercatali. Lo scopo
principale è quello di trovare risorse aggiuntive per finanziare il fondo unico
dello spettacolo, soldi cioè da riversare su registi, attori, sceneggiatori,
fondazioni liriche e teatranti vari che ne beneficiano ogni anno. Per rimediare
ai tagli operati in regime di ristrettezza dal ministro dei Beni culturali
Sandro Bondi, il pd cerca di mettere sul piatto una fiche pesante, anzi,
pesantissima. Cento milioni di euro aggiuntivi all’anno e per tutti i tre anni:
fanno 300 milioni tondi tondi. Roba da premiare davvero fino in fondo quel
Fabrizio Gifuni, il celebre attore ( e celebre figlio del segretario generale
del Quirinale più potente della storia repubblicana) che ha risvegliato di
fronte a Pierluigi Bersani l’assemblea del Pd chiamando gli astanti “compagni”
e provocando applausi scroscianti mai visti su altri palchi professionali.
Cento milioni sono tantissimi, anche per il Fus che non ne distribuisce pochi
ogni anno. E il problema- quando si tratta di emendamenti alla legge
finanziaria- è sempre lo stesso: dove trovare le risorse per fare contenti i
compagni attori? Semplice, semplicissimo: nelle tasche degli statali. E’ un po’
la moda di quest’anno, come il ritorno dei “compagni” a sinistra, e se l’ha
fatto Giulio Tremonti, anche il Pd può osare. Il modo è però un tanti nello
brusco. Per non vedersi gli impiegati assediare la nuova sede del partito, Vita
e gli altri hanno pensato prima di tutto a punire i dirigenti fannulloni. Ma
non bastava. Allora via lo stipendio accessorio anche ai dirigenti che non
cacciano via i fannulloni. Comprensibile e digeribile. Non bastava nemmeno
questo. Allora “è fatto divieto di attribuire aumenti retributivi di qualsiasi
genere ai dipendenti di uffici e strutture che siano stati individuati per
grave inefficienza, improduttività lo sovradimensionamento dell’organico”. Sì,
acqua fresca. L’aveva fatto anche Brunetta. E non basta per dare tutti i soldi
che servono ai compagni attori. Ecco allora l’ideona: via buona parte della
retribuzione ai dirigenti pubblici che non abbiano avviato “il procedimento
disciplinare nei confronti dei dipendenti in esubero che rifiutino la
mobilità”. E questo onestamente non l’aveva tentato nemmeno Brunetta. Perché
pur dicendone di cotte e di crude agli statali, anche nel centro destra si sa
che essere in esubero non è una colpa personale. E magari quando si hanno
moglie e figli che vanno a scuola, trasferirsi a centinaia di km di distanza
può non essere facile. Come difficile digerire anche di lavorare bene tutto il
giorno e trovarsi in esubero. Non è una colpa, non è una mancanza. Ma per il Pd
anche quegli statali andavano presi a frustate, perseguiti disciplinarmente. E
tagliati gli stipendi dei loro capetti (lì è più facile e ci si sente la
coscienza posto) che non li avevano frustati a dovere, magari avevano pure
coperto i loro drammi familiari. Ma non è tempo di stare dietro ai diritti
sindacali o alle questioni familiari dei travet. I compagni attori hanno
bisogno di soldi pubblici per i loro film. Il biglietto lo paghino pure gli
statali in esubero.
Tonino fa il politico, il palazzinaro, l'operaio (con canotta in vista) e ora anche l'agricoltore
La decisione l’ha presa alla
fine del 2007. Da quel giorno Antonio Di Pietro non è più solo il nome di un ex
magistrato divenuto molto famoso fra il 1992 e il 1994. Non è solo il nome di
un uomo politico italiano che ha fondato anche un suo partito. E nemmeno il
nome di un imprenditore del ramo immobiliare che per operare nel settore ha
fondato la Antocri
srl (sigla che riunisce le iniziali dei nomi di tre figli). Dal 28 settembre
2007 Antonio Di Pietro è anche il nome di un’impresa agricola con sede in
Contrada Piscone a Montenero di Bisaccia, provincia di Campobasso. E non è un
caso di omonimia: il titolare firmatario della impresa è proprio lui, il Tonino
pm-politico-immobiliarista, nato a Montenero di Bisaccia il 2 ottobre 2050 e
residente a Curno, provincia di Bergamo, in via Lungobrembo. Appena ha aperto
la sua azienda agricola in Molise ha dichiarato alla Camera di commercio di
Campobasso l’inizio della sua attività: “coltivazioni miste di cereali e altri
seminativi”. Qualche mese dopo ha modificato l’attività in “coltivazioni miste
di cereali, legumi da granella e semi oleosi”. Dipendenti dichiarati: nessuno.
Bilanci non depositati. Ma finanziamenti pubblici, sì. Più o meno due volte al
mese. Perché Di Pietro a Montenero non va spessissimo: solo quando ha voglia di
riposarsi un po’. Qualche amico deve dare un’occhiata a terreni e coltivazioni,
perché se ci si dovesse basare sul suo personale olio di gomito sarebbe già
andato da tempo tutto in malora. Ma quando Tonino veste i panni
dell’agricoltore monta subito sul suo trattore, lo avvia e chiama qualche amico
fotografo per poi spendersi il servizio con la stampa popolare e familiare a
cui lui tiene più che a Marco Travaglio. L’azienda agricola un po’ lo tiene
occupato di sicuro. Almeno così pare ai funzionari del ministero delle Risorse
agricole che si vedono recapitare da Di Pietro o da qualche suo messo ogni
quindici giorni una richiestina di finanziamento o di rimborso anche minuscolo,
da qualche decina di euro.
Al cervellone dell’Agea,
l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura guidata dal leghista Dario Fruscio,
risultano al momento quattro pratiche di un certo rilievo in stand- by sotto la
voce “processo automatizzato di cui alla circolare n. 43 del 30 luglio 2009” . Una porta la data del 18 agosto 2009 e il suo
stato è “in istruttoria”. Una la data dell’8 ottobre ed è ferma perché
“discordante”. Ce ne è una terza del 9 ottobre che risulta “in comunicazione” e
infine una del 3 marzo 2010 che per fortuna di Tonino viene definita pratica
“concordante”. Non si conoscono gli importi, ma basta consultare il cervellone
sotto altre tipologie di finanziamenti, e le domande del leader dell’Italia dei
valori per la sua aziendina agricola saltano subito all’occhio. Ce ne sono due
dell’ultimo trimestre 2009, che hanno già avuto soddisfazione: una da 2.215,69
euro e una da 946,58 euro. Due pagamenti unici però per domande multiple anche
nel 2008, per qualche migliaio di euro complessivo. Risulta perfino un
pagamento da 256,05 euro del 16 febbraio 2007, che è precedente di alcuni mesi
alla denuncia di inizio attività dell’impresa agricola. Ma la cifra è così
piccola che deve costato più il viaggio a Roma per fare domanda che l’importo alla
fine riscosso.
Altra interrogazione al
cervellone Agea, ed ecco saltare fuori ogni domanda di Di Pietro per i
contributi Feaga diretti: poco più di mille euro nel 2008, poco meno di 4 mila
euro nel 2009. E giù una pioggia di domandine da pochi euro con tanto di
finanziamenti erogati al leader dell’Italia dei valori. Vendita di titoli
ordinari o da ritiro con terra? Seicentoottantaquattro euro e 960 centesimi
stanziati per Tonino. E poi ancora alla stessa voce 267,140 euro. Altre due
mini erogazioni sotto la voce “fissazioni”: una da 134, 06 euro e una
addirittura da 21,450 euro. Nel 2008
in portafoglio dell’agricoltore Di Pietro 12 titoli
agricoli per un totale di 3.165,270 euro. Nel 2010 l’azienda è cresciuta e
vengono censiti 15 titoli per un totale appena più alto: 3.259,770. Anche se da lì soldi non ne verranno, quella
di Montenero non è più una pasioncella da week end, ma ormai una vera e propria
attività che costringe l’ex pm a una caccia serrata al contributo pubblico (ce
ne sono anche dell’Unione europea e della Regione Molise) che certo non manca
mai all’agricoltura italiana.
E' il Dubai? No, è la Camera. Dove ogni deputato ha un ufficio da sceicco
Se c’è una cosa che tutti
sanno da tempo è che i deputati lavorano come matti. Sono proprio stakanovisti:
entrano a palazzo nelle prime ore del mattino di lunedì, e staccano solo al
venerdì sera tardissimo. Poi vanno a lavorare in collegio. Sarà sicuramente per
questo che un giorno un presidente della Camera si impietosì: poverini, vengono
qui a Roma da molto lontano, e noi ci limitiamo a pagare loro solo quella
misera diaria perché la notte quando sono qui abbiano un tetto sotto cui
ripararsi (circa 50 mila euro all’anno a testa). E se hanno bisogno di lavorare
un attimo in pace? Poverini, mica possono sedersi davanti al computer in stanze
comuni, in un’open space in cui non c’è alcun rispetto della privacy. Quel
presidente dal cuore d’oro si chiamava Luciano Violante, che ai deputati quando
fu eletto promise: “avrete tutti un ufficio personale dove lavorare in assoluta
tranquillità”. Violante non era uno da promettere così per dire, e realizzò il
sogno di tutti i deputati stakanovisti. Fino da allora la Camera forniva qualche
bella stanza a Montecitorio ai leader e ai più fortunati e agli altri dava un
contributo per pagarsi un ufficio in centro. C’erano ancora le lire e il tutto
veniva a costare meno di 3 miliardi all’anno. In euro esattamente un milione e
475 mila. Avere realizzato quel sogno costa invece oggi agli italiani che
pagano l’ufficio ai deputati la bellezza di 84 milioni di euro in più all’anno.
Nel 2010 infatti la Camera
pagherà ai fortunati proprietari di casa che hanno affittato quegli uffici 86
milioni e 206 mila euro fra affitti e manutenzioni. Il fortunato in realtà è
quasi uno solo: Sergio Scarpellini, proprietario della Milano 90 che incasserà
da solo più di 50 milioni di euro sui 53,8 di pure pigioni pagate dalla Camera.
Fra affitto e manutenzione, senza contare il personale addetto e gli arredi, la
promessa fatta all’epoca da Violante è venuta a costare ogni anno la bellezza
di 136.863 euro per deputato. Con una cifra così in mano a dire il vero
ciascuno di loro quella stanzetta con scrivania e computer avrebbe potuto
comprarla tranquillamente anche nel palazzo più esclusivo di Roma. Certo
avrebbe potuto farlo per loro e per tutti gli anni a venire la stessa Camera
dei deputati. Che invece preferisce regalare ogni anno quei soldi a
Scarpellini, che è naturalmente felice come una Pasqua. Se ne rendevano
benissimo conto anche gli uffici tecnici dell’epoca. Il segretario generale
della Camera dei deputati, Mauro Zampini, lo fece presente al collegio dei
Questori dell’epoca: con quei maxi affitti per gli uffici si rischiava di
buttare via i soldi, meglio comprare. Lo suggerì cifre alla mano: uno degli
immobili destinato a ospitare nuovi uffici stava per essere comprato da
Scarpellini per 110 miliardi di lire dalla Emsa del gruppo Telecom (allora
guidato da Roberto Colaninno) per essere poi affittato alla Camera per 18 anni
(9+9) al prezzo di 12 miliardi di lire all’anno. L’affare sarebbe stato
comprarlo direttamente. Ma l’ufficio di presidenza della Camera disse di no,
con un ragionamento politico sottile: erano in corso i lavori della bicamerale
per le riforme guidata da Massimo D’Alema. Si stava per votare una proposta di
riduzione dei deputati da 630
a 400. Comprare poteva significare buttare via i soldi:
da lì a pochi anni i deputati sarebbero stati meno e il palazzo sarebbe
diventato inutile. Sono passati 13 anni da allora e il numero dei deputati è
restato sempre lo stesso. In compenso i primi uffici sono sembrati strettini e
dopo quel palazzo ne sono stati affittati altri 3 comprati per l’occasione
sempre da Scarpellini. Alla fine per pagare casa e ufficio ogni anno a ogni
deputato la Camera
regala ai fortunati padroni di casa la bellezza di 120 milioni di euro.
Significa quasi 200 mila euro a onorevole ogni anno. In un’azienda avrebbero
licenziato da tempo l’amministratore protagonista di tale sperpero di soldi.
Alla Camera no: hanno mandato via solo quel segretario generale dell’epoca che
aveva avuto qualche dubbio sui contratti. Certo, hanno fatto felice come una
Pasqua Scarpellini che grazie a quell’insperato biglietto da visita di
Montecitorio si è messo a comprare un immobile dietro l’altro, riaffittandolo
alla pubblica amministrazione: Senato, comune di Roma, Tar del Lazio, Consiglio
di Stato, authority varie, perfino la gestione del bar che serve Giorgio
Napolitano all’interno del più prestigioso palazzo delle istituzioni, il Quirinale. E quando nel 2008 ha dato un’occhiata al
bilancio della sua Milano 90 si è trovato dentro palazzi che valevano oltre un
miliardo di euro. Qualche debito, ma ricavi da affitti per 77 milioni e un
utile da 445 mila euro che in anno di crisi del mercato immobiliare era grasso
che colava. Fra i conti sbucava anche una piccola marachella, come il persistente
omesso pagamento dell’Ici al comune di Roma, che non è esattamente un titolo di
vanto per il padrone di casa della Camera dei deputati.
Ma non c’è solo Scarpellini a
dare risposta all’incredibile desiderio di mattone del Palazzo. Ad affittare
alla Camera ci sono anche altre firme note e meno note del mattone:
l’Immobiliare Tirrena di Tommaso Addario, l’Inail, la Cosarl della famiglia
Colombo (gli stampatori di tutti gli atti parlamentari), e Marina Micangeli, un
tempo azionista di maggioranza del gruppo Ciga e grande amica di Donatella Dini.
Il solo con cui Montecitorio abbia fatto un affare è il Patriarcato di
Antiochia dei Siri con sede a Beirut, proprietario di un ampio appartamento in
piazza di campo Marzio, affittato dal lontano 1988 per 34 milioni di lire che
ora sono diventati 51.382 euro.
Il Cavaliere fa nominare da Napolitano un cavaliere tarocco
Con la firma messa in calce alla lista che gli aveva preparato prima delle dimissioni l’ex ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, il primo giugno scorso il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ha nominato cavaliere del Lavoro uno dei re del Made in Italy taroccato: un italo-australiano che a Melbourne e dintorni vende con successo il suo “Parmesan”, la “Mozzabella fresca”, gli “cherry bocconcini” e da quest’anno produce sul posto “Italian wine and oil”. Una onorificenza che ha prima creato imbarazzo e poi rabbia nelle fila degli agricoltori italiani e delle loro associazioni di categoria: ma come, il governo spende milioni di euro per difendere il made in Italy alimentare, da anni conduce alla Corte di Giustizia europea una lunga battaglia giudiziaria contro il Parmesan tedesco, e poi va a premiare proprio un campione assoluto di parmigiano e mozzarella taroccati? Uno che più vende, più toglie mercato al vero parmigiano reggiano e alla vera mozzarella di bufala che in Australia- paese di migliaia di emigrati italiani, si potrebbero esportare con facilità?
Il campione del tarocco si chiama Sebastiano Pitruzzello. Classe 1940, siciliano di Sortino. In Australia dal lontano 15 marzo 1963, quando si imbarcò sulla nave Oceania con la fidanzata Lucia per andare a lavorare in fabbrica, alla General Motor di Melbourne. La sua è la storia di lacrime, sudore e successo di molti emigranti italiani. Dollari risparmiati con fatica, e un’idea a lungo coltivata: quei formaggi che aveva imparato a farsi nella sua Sicilia e che come sfizio continuava a confezionare per le serate con gli altri amici immigrati, avrebbero potuto diventare un nuovo lavoro. Fu così che nel 1973 nacque la Pantalica Cheese company, grazie alla decisione del governo australiano di liberalizzare la produzione del latte e dei suoi derivati, che fino a quel momento erano riservati a licenze pubbliche. Così nel giro di pochi anni Sebastiano Pitruzzello insieme ai figli Biagio e Silvio ha fatto fortuna. Ha iniziato con il “fresh pecorino”, poi è passato alla ricotta e di anno in anno si è adeguato ai gusti del mercato. “Smooth ricotta” e “low fat ricotta” per chi chiedeva formaggi leggeri e adatti alle mode delle diete ipocaloriche. Poi ha scoperto che più dell’Italia tirava la Grecia e si è messo a produrre feta, fornendo insieme la ricetta per l’insalata greca. Carezza ai gusti locali con la “cream cheese spread”, una crema di fromaggio da spalmare per la merenda dei ragazzi. Poi è tornata la mania del made in Italy e lui ha sfoggiato il meglio che poteva: forme di “parmesan” fatto alla maniera di Reggio Emilia, e via bustine di grattugiato da usare per “zuppe, salse, pasta e insalate”. Bustina “parmesan cheese- Italian style” per chi poteva permettersi qualche dollaro in più, bustina di “pasta topping- Italian style” per chi aveva meno risorse economiche a disposizione. Già che c’era Pitruzzello ha taroccato anche la Nutella, lanciando sul mercato australiano la “Nut free- Choc ezy” in versione tradizionale e in versione bianco-latte. Per spingere il prodotto si è messo anche a fare pubblicità con uno spot trasmesso in tv sui network nazionali e su quelli locali. Visto che funzionava, ha fatto il bis con lo spot sulla “mozza bella fresca” e sui “cherry bocconcini” da mangiare come “antipasti”, o sulla “pizza, la pasta e le insalate”. A forza di pubblicità, raffinandosi un po’, ha prodotto perfino uno spot istituzionale sulla azienda, e sul suo stile genuino italiano.
Mentre lanciava i formaggi taroccati, Pitruzzello non ha scordato il suo paese di origine. Ha mantenuto rapporti costanti con il consolato italiano di Melbourne e l’ambasciata tricolore di Canberra. Ha sponsorizzato tutte le iniziative dei siciliani emigrati in Australia, e tenuto i rapporti con il suo paese di origine, Sortino, che gli ha dedicato perfino una piazza (e lui ha ricambiato finanziando il monumento ai sortinesi emigrati che vi campeggia). Grazie ai buoni rapporti diplomatici il 27 dicembre del 2000 il presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, su proposta dell’allora presidente del Consiglio, Giuliano Amato, lo fece commendatore. Dal 2005 gli uffici diplomatici italiani in Australia propongono la sua candidatura per il cavalierato del lavoro. Tre volte è andata a vuoto, la quarta ha fatto centro. Ed è stato così che insieme al re del provolone italiano dop, Giandomenico Auricchio, alla grande firma di pandori e panettoni, Aldo Balocco, alla regina del Bardolino, del Soave e del Valpolicella doc- Maria Cristina Loredan Rizzardi- Pitruzzello, principe del formaggio tarocco, è diventato cavaliere della Repubblica italiana.
Ehia ehia voglio quella foto là! Fini si è portato alla Camera il fotografo di fiducia (con tanta nostalgia...)
L’appalto in teoria dovevano
dividerselo in tre, e la spesa prevista per l’intero 2010 era stata messa in
budget per un totale di 307.992 euro. Quello era quanto il collegio dei Questori
della Camera aveva previsto di erogare in cambio di qualche servizio
fotografico per le pubblicazioni e l’archivio interno. Una spesa non
piccolissima, che però doveva coprire sia le foto di ambiente del palazzo che
quelle- ricordo della attività istituzionale del suo presidente pro-tempore,
Gianfranco Fini. Il budget rischia però di andare a farsi benedire, perché uno
dei tre fotografi prescelti, ne ha mangiato già un buon quarto nel solo primo
mese dell’anno. Un paio di mini-servizi commissionati alla Luxardo foto, una
serie di book richiesti a Umberto Battaglia (12.756 euro già impegnati a
febbraio per servizi sugli ambienti del palazzo) e la gran parte assorbita per
le foto della frenetica attività istituzionale e diplomatica di Fini. Visite
ufficiali in Italia e all’estero, incontri istituzionali con presidenti di
Stati e Parlamenti di tutto il mondo, incontri con scolaresche e associazioni.
Bottino pieno per la società che si è assicurata l’esclusiva dell’immagine del
presidente della Camera, la Impero fotografico srl, che in un solo mese ha già
prenotato 75.328 euro della posta complessiva ( i dati sarebbero segreti,
naturalmente, ma ora li possiamo conoscere tutti grazie a una battaglia fatta
sulla trasparenza con tanto di sciopero della fame dalla radicale Rita
Bernardini). Il nome della società dice già qualcosa, con quel riferimento
nostalgico un tempo impreziosito anche da un’aquila imperiale stemma
dell’agenzia. Ma se si fa quello del titolare, si mette a versare lacrimoni
anche donna Assunta: si tratta infatti di Enrico Para, l’ex fotografo di
fiducia di Giorgio Almirante, un monumento vivente della storia postfascista
italiana. Para dal 1980 è il fotografo ufficiale del Secolo d’Italia. Ha
marcato come un francobollo avendone il copyright tutti i leader prima del
movimento sociale e poi di Alleanza Nazionale. Era l’ombra di Almirante, è
diventato una sorta di guardia del corpo di Fini. L’attuale leader della
minoranza del Pdl non vuole fotografia ufficiale che non abbia la firma di
Para, e ha trasmesso questa passione per il suo click anche ai principali amici
e collaboratori. Tanto che Para è diventato fra il 2001 e il 2006 quasi il
fotografo unico delle istituzioni del centro destra. Fini se lo portò dietro a
palazzo Chigi come fotografo ufficiale del vicepresidente del Consiglio e alla
Farnesina come ritrattista del ministro degli Esteri. Francesco Storace ne fece
il fotografo ufficiale della Regione Lazio, Gianni Alemanno ne utilizzò l’opera
al ministero delle Risorse agricole, Altero Matteoli lo chiamò al suo ministero
dell’Ambiente. Naturale che quando Fini è divenuto la terza carica della
Repubblica non abbia voluto altro scatto che quello di Para. E non si è
sottratto certo ai suoi flash,tanto da creare qualche preoccupazione al collegio
dei questori che ha visto lievitare oltre ogni attesa il conto per le
fotografie.
Nonostante le frenetiche
attività istituzionali del presidente della Camera e dei vari ministri che lo
hanno voluto alla loro corte, Para è riuscito a trovare il tempo sia per
continuare l’attività tradizionale della sua Impero fotografico (i redditizi
servizi per i matrimoni), sia per togliersi qualche sfizio. In pochi anni un
libro dietro l’altro. Con Federico Guiglia ha pubblicato ( e dàglie) una
biografia di Fini assai vicina all’agiografia (“Gianfranco Fini, cronaca di un
leader), corredata di tutte le foto scattate negli anni a palazzo Chigi. Con
Mauro Mazza, attuale direttore di Rai Uno, ha dato alle stampe “I ragazzi di
via Milano” dove campeggiava la bellissima foto della squadra di calcio del
secolo, con tutti i futuri leader di An.
Para scatta e non commenta.
Cresciuto in quel mondo, lo ha seguito (e gli è andata bene) senza mai fare
capire cosa pensasse davvero dei vari cambi di pelle della destra italiana.
Qualcosa si capiva fino a un anno fa dando un’occhiata al sito Internet della
sua agenzia foto. Ai novelli sposi proponeva quattro tipi di servizi
fotografici: “Claretta, Rachele, Edda e Rosa”, i nomi dell’amante, della
moglie, della figlia e della mamma di Benito Mussolini. La traccia di una
evidente nostalgia. Che però deve essere saltata all’occhio del suo
committente, che non poteva più permettersela. Meglio riparare, deve avere
pensato il fotografo, che non voleva perdersi per nessuna ragione al mondo il
business della Camera dei deputati. Così i quattro servizi per gli sposi oggi
si chiamano: “Diamante, Topazio, Smeraldo e Rubino”. Cosa non si fa per la
gloria…
Ha negato mille volte. Montezemolo però ha la sua poltrona a Montecitorio
Lui continua a giurare che
no, la politica non è il suo mestiere, e che non scenderà in campo. Ma ormai
c’è la prova provata della evidente bugia ripetuta come una cantilena da Luca
Cordero di Montezemolo. Perché l’ex presidente della Fiat e della Confindustria
a Montecitorio ha già pronta la sua poltrona. Lui non è ancora lì, ma la Camera
già sta pagandogli l’indennità di poltrona. A testimoniarlo è un contratto che
l’amministrazione di Montecitorio ha da poco firmato con il gruppo Montezemolo.
Poltrona Frau si è infatti assicurata in cordata con altre tre aziende del
settore la fornitura di 220 mila euro di poltrone per il terzo palazzo delle
istituzioni presieduto da Gianfranco Fini. L’azienda di Montezemolo ha infatti
vinto una gara per “acquisto di arredi e sedute” fornendo già le prime
poltroncine pregiate ai deputati nel primo quadrimestre. Luca penserà a
poltrone e divani (quelli celebri del Transatlantico dove parlottano nelle pause
onorevoli e giornalisti), i compagni di cordata penseranno alla fornitura di
altri arredi da ufficio. Insieme a Poltrona Frau ci sono infatti la Estel
Office spa della famiglia Stella, la Tecno spa del gruppo Mosconi e la Sedus
stoll che appartiene all’omonimo gruppo internazionale. Altre suppellettili per
gli uffici dei deputati saranno invece fornite (per 100 mila euro) dalla
Eurosalotto Pedrina, dalla Cassina spa e da un gruppo di piccole aziende
minori. Solo di arredi di complemento per gli uffici quest’anno la Camera ha
messo in budget una spesa al milione di euro. Non riguarderà però i famosi
uffici dei deputati sistemati ormai fuori dal palazzo principale, anche perché
sono tutti di recentissima costruzione e con arredi per lo più nuovi fiammanti.
Grazie a quella gara Montezemolo ha già avviato una rivoluzione copernicana nel
sistema politico. Un tempo si conquistava la poltrona del palazzo. Lui invece
ha conquistato il palazzo per la sua poltrona. E quando arriverà potrà sentirsi
già a casa sua.
L'ultima bufala: non si può più intercettare la moglie di Riina. Già, perchè lei al telefono racconta tutto...
Quante intercettazioni telefoniche sono servite a catturare Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano? Quante telefonate hanno tradito i capi della mafia e sono state utilizzate come fonti di prova per la loro condanna nei maxi processi? La risposta è semplice: nemmeno una. Sì, è vero. Per quattro anni gli inquirenti hanno piazzato microspie nella casa di Saveria Provenzano. Per 34.650 ore un ristretto pool di poliziotti ha ascoltato ininterrottamente ogni respiro captato nella casa dove viveva la moglie del capo dei capi della mafia. In quattro anni non è accaduto nulla. Solo una sera di inverno si è sentito piangere e singhiozzare Saveria. E solo l’intuito di un poliziotto ha immaginato che potesse essere accaduto qualcosa al padrino: forse stava male, forse era capitato qualcosa di grave. Dopo, solo dopo, si sarebbe ipotizzato che forse quel singhiozzo seguì la notizia giunta in un misterioso pizzino del cancro alla prostata di Provenzano, del suo ricovero sotto falso nome in una clinica di Marsiglia. Non ci sono telefonate, non ci sono intercettazioni, non ci sono microspie ambientali piazzate dove si voglia che siano state utili a trovare i superlatitanti della mafia, che abbiano tradito i Riina, i Messina Denaro, i Piccolo, i Bagarella. Non c’è una sola telefonata a inchiodare chicchessia nei grandi processi sulla criminalità organizzata. Basta andarsi a riprendere gli atti, leggersi le sentenze, sentire gli inquirenti veri che sono andati per anni caccia dei mafiosi. La caratteristica principale di Cosa nostra è il silenzio. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno parla al telefono. Ad aprire bocca sono stati i pentiti, raccontando ognuno la sua verità e certo fornendo ai magistrati anche elementi fondamentali nella guerra alla mafia. Ma nessun picciotto che conti si è mai tradito al telefono. Nessuna moglie, nessun figlio di latitante è inciampato in una frase di troppo captata dalla microspia che ben immaginavano di avere in casa, in ufficio, nel negozio o in auto.
Alcuni quotidiani assai agguerriti nella campagna contro la legge del governo per regolamentare le intercettazioni ieri riferivano dell’arma micidiale che avrebbe usato il presidente della Camera, Gianfranco Fini per convincere Umberto Bossi che quella legge sarebbe assai indigesta: “Ma ti rendi conto Umberto”, ricostruiva ieri Il Fatto quotidiano, certo di avere intercettato la telefonata fra Fini e Bossi, “che con questo testo approvato in Senato non si potrebbe mettere una cimice nella macchina della moglie di Riina?”. Chissà se l’intercettazione politica è vera o una delle tante patacche disseminate in questa campagna. Certo è una patacca questa della microspia nell’auto della moglie di Riina. Non solo perché la legge sulle intercettazioni non vieta affatto questa possibilità. Ma perché la moglie di Riina- Ninetta Bagarella- non ha mai avuto auto e quando vi è salita sopra è sempre stato perché altri la scortavano e si mettevano alla guida. Microspie ne hanno messe anche a lei e ai suoi figli, in casa, in lavanderia, nei luoghi di lavoro. Ma inutilmente: non è da quelle che il capitano Ultimo ha avuto la strada per rintracciare il Capo dei capi e giungere al suo arresto nel lontano 1993.
Non ci sono intercettazioni ambientali, non ci sono brogliacci di telefonate fra le prove regine dei processi per la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, o per la strage di via D’Amelio dove a perdere al vita fu Paolo Borsellino. Sì, qualche magistrato siciliano come Antonio Ingroia anche oggi va ripetendo in dibattiti e conferenze insieme ai Marco Travaglio o ai giornalisti dell’antimafia che senza intercettazioni telefoniche non si prenderebbe più neanche un latitante. Ma non è vero. L’unico lavoro sui telefoni in qualche modo collegato alle grandi inchieste sulla criminalità organizzata è stato quello sui tabulati telefonici fatto da Gioacchino Genchi nell’inchiesta sulla strage di Capaci. Non intercettazioni, ma controllo dei tabulati molto tempo dopo i fatti. Lì ha ricostruito qua e là chi stava in contatto con chi e ipotizzato anche una telefonata subito dopo la strage per dare il segnale che tutto era avvenuto secondo i piani. Un indizio importante certo, ma probabilmente se quella telefonata fosse stata intercettata (e assai difficilmente sarebbe potuto avvenire), probabilmente non si sarebbe sentito molto più di un sospiro. E’ una superpatacca quella della legge sulle intercettazioni che manderebbe gambe all’aria la lotta alla mafia. Nei processi le uniche vere telefonate prodotte sono quelle ai politici ritenuti coinvolti. Ad esempio quelle di Silvio Berlusconi o Marcello dell’Utri. Buone a tutti gli usi e a tutte le interpretazioni. Perché parlavano liberamente al telefono. Come i veri mafiosi non fanno mai.
Ma come tirano la cinghia! In Calabria ogni assessore ha fatto assumere un autista che gli era caro
La scelta al momento l’hanno
fatta in sei, ma è possibile che alla fine diventi una caratteristica comune a
tutta la nuova giunta della Regione Calabria, guidata da Giuseppe Scopelliti:
la squadra di governo è stata dotata di un autista personale di fiducia
liberamente scelto al di fuori della pubblica amministrazione. Il primo a
togliere i colleghi dall’imbarazzo è stato il 19 aprile scorso l’assessore
all’Urbanistica, Piero Aiello, in carica da tre giorni. Ha preso carta e penna
e scritto al dirigente dell’ufficio dle personale chiedendo l’assunzione come
autista di fiducia (stipendio base standard della Regione: 35.707,44 euro
all’anno) di Salvatore Ionà, “estraneo alla pubblica amministrazione”. La Regione Calabria naturalmente
ha i suoi autisti regolarmente assunti, ma non erano di fiducia dell’assessore,
che per regolamento regionale ha diritto ha una sua “struttura speciale” di
collaborazione in cui sono consentite immissioni di personale dall’esterno.
Spezzato il ghiaccio, quello dell’autista di fiducia è diventato un cult in
Regione. Il 21 aprile è arrivata la richiesta dell’assessore all’Agricoltura e
alla Forestazione, Michele Trematerra per chiedere l’assunzione dell’autista di
fiducia Giovanni Siciliano. Con lettera del 22 aprile anche l’assessore al
Bilancio, Giacomo Mancini, ha preteso (e poi ottenuto) l’assunzione
dall’esterno del suo chauffeur: Francesco Manna. Il 27 aprile all’ufficio del
personale è arrivata la lettera- con analoga richiesta- scritta dall’avvocato
Francescantonio Stillitani: l’autista prescelto (anche lui estraneo alla
pubblica amministrazione) è stato Emanuele Mancuso. Il 30 aprile altra lettera,
questa volta firmata dal neoassessore alle Attività Produttive, Antonio Caridi.
Chaffeur personale dall’esterno: Domenico Laganà, assunto effettivamente dal 5
maggio con decreto n. 7018 di inserimento nel “registro dei decreti dei
dirigenti della Regione Calabria”. Quello stesso giorno all’ufficio del
personale è arrivata un’altra lettera- con analoga richiesta- da parte
dell’assessore all’Ambiente, Francesco Pugliano, che non aveva trovato
all’interno della Regione un autista di fiducia e con la sua richiesta ha fatto
strabuzzare gli occhi ai dirigenti della Regione. Il prescelto infatti è un
omonimo: Francesco Pugliano, nato come l’assessore a Rocca di Neto in provincia
di Crotone. L’assessore però è del 1955 e l’autista è del 1969. Uno faceva il
veterinario prima di arrivare in Regione, l’altro (l’autista) aveva una omonima
impresa agricola.
l'Italia giocava? Solo i Bossi e Calderoli's boys lavoravano come sempre
Durante la disfatta azzurra di Italia- Slovacchia molti nei ministeri erano talmente presi dalla partita da non potere rispondere al telefono. Nella segreteria del ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, solo durante l'intervallo qualcuno si è degnato di rispondere. E solo lo staff della Lega ha risposto al primo colpo: i Bossi e Calderoli boy's non stavano guardando l'Italia. Prova effettuata da Franco Bechis dal primo minuto della partita | |||||||
Ministero | Titolare | Ufficio | Secondi per avere risposta | ||||
Commercio estero | Adolfo Urso | centralino | 1.972 | ||||
Pari Opportunità | Mara Carfagna | segreteria ministro | 1.863 | ||||
Salute | Ferruccio Fazio | centralino | 1.122 | ||||
Sviluppo Economico | int. Silvio Berlusconi | centralino | 274 | ||||
Economia | Giulio Tremonti | centralino | 137 | ||||
Infrastrutture | Altero Matteoli | centralino | 42 | ||||
Turismo | Michela V. Brambilla | centralino | 31 | ||||
Lavoro | Maurizio Sacconi | centralino | 27 | ||||
Giustizia | Angelino Alfano | centralino | 22 | ||||
Politiche Ue | Andrea Ronchi | segreteria ministro | 21 | ||||
Beni Culturali | Sandro Bondi | centralino | 13 | ||||
Difesa | Ignazio La Russa | gabinetto | 12 | ||||
Pubblica istruz |
Maristella Gelmini | centralino | 11 | ||||
Difesa | Esercito | centralino | 11 | ||||
Interno | Roberto Maroni | centralino | 9 | ||||
Ambiente | Stefania Prestigiacomo | centralino | 9 | ||||
Politiche agricole | Giancarlo Galan | centralino | 7 | ||||
Pa e Innovazione | Renato Brunetta | centralino | 6 | ||||
Camera deputati | Gianfranco Fini | centralino | 5 | ||||
Rapporti regioni | Raffaele Fitto | segreteria ministro | 5 | ||||
Gioventù | Giorgia Meloni | segreteria ministro | 4 | ||||
Difesa | Marina militare | centralino | 4 | ||||
Senato | Renato Schifani | centralino | 3 | ||||
Esteri | Franco Frattini | centralino | 3 | ||||
Rapporti Parlamento | Elio Vito | segreteria ministro | 3 | ||||
Attuazione programma | Gianfraco Rotondi | segreteria ministro | 2 | ||||
Difesa | Aeronautica | centralino | 2 | ||||
Pres. Cons. min. | Silvio Berlusconi | centralino | 2 | ||||
Semplificazione | Roberto Calderoli | segreteria ministro | 1 | ||||
Riforme e federalismo | Umberto Bossi | segreteria ministro | 1 | ||||
Comunicazioni | Paolo Romani | numero verde | staccato sempre | ||||
Per il Cavaliere (dopo Topolanek) tassa Zappadu da 30 milioni
Ha dovuto prima staccare un assegno da 24,5 milioni di euro a titolo di finanziamento infruttifero. E poi trovarsi di fronte a una perdita di 7,6 milioni di euro, che è quella con cui si è chiuso il bilancio 2009 della Immobiliare Idra. Silvio Berlusconi ha dovuto pagare a caro prezzo la difesa della sua privacy dopo le incursioni con tanto di tele-obiettivo di Antonello Zappadu, il fotografo che lo ritrasse fra il 2008 e il
Alla pensione dei calciatori ci pensa Simona
L’isola dei famosi ha messo
un mattoncino per costruire la pensione dei calciatori e degli allenatori un
po’ meno famosi degli altri. E’ grazie anche a Magnolia, società di produzione
del celebre programma tv guidato da Simona Ventura, che si tengono in piedi i
conti della previdenza calcistica. Magnolia- che in Italia è rappresentata
dall’ex direttore di Canale 5, Giorgio Gori, è infatti l’inquilino più celebre
dei palazzi della Sport Invest 2000 investimenti immobiliari sportivi spa,
società guidata dall’avvocato Salvatore Catalano (già presidente del collegio
sindacale Rai) e controllata al 100% dal Fondo di accantonamento delle
indennità di fine carriera per i giocatori e gli allenatori di calcio. La Sport Invest 2000 insomma ha il
compito di investire in immobili per mantenere la solvibilità del fondo per il
congedo di allenatori e giocatori di calcio. E lo ha fatto a Roma, Milano e in
altre città, dove ha in portafoglio terreni e fabbricati per 33,7 milioni di
euro. Fra gli immobili anche uno nella capitale, in via della Farnesina, che è
diventato la sede romana di Magnolia che si è garantita la locazione con una
fidejussione da 112.500 euro rilasciata dalla Banca San Paolo di Brescia. E’ il
contratto di affitto più rilevante della Sport invest 2000 e così Gori e
Ventura danno una mano ai calciatori più anziani. In attesa di averli all’Isola
dei famosi…
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